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Guarda chi si rivede: il partito dei sindaci


I primi furono Orlando e Cacciari. Poi arrivarono Renzi e Veltroni, Sala e Decaro. Fino all’assessore Onorato. Tutti quelli che ci hanno provato, e non ci sono riusciti

Roma, 20 ottobre 2025: il lancio del Progetto civico Italia, con il telefono in mano l’assessore romano Alessandro Onorato. (Andrea Boccone)

(di Filippo Ceccarelli – repubblica.it) – Non per il gusto di fare il guastafeste, ma con la convinzione che su certe cose è sempre meglio andarci piano, è bene dire che l’idea di un partito dei sindaci si ripropone nella vita pubblica italiana con una tale frequenza da destare la più ampia quantità di dubbi, sospetti e maliziose considerazioni. Se poi alla ciclica e ormai trentennale riemersione si accompagna, com’è nel caso dell’iniziativa del civico Alessandro Onorato, assessore ai Grandi Eventi di Roma, non solo la duplice benedizione del sindaco della capitale Gualtieri e della sindaca di Genova Silvia Salis, ma anche l’individuazione di un goloso potenziale elettorale del 10 per cento, ecco, lo scetticismo senz’altro cresce e a tal proposito basterà ricordare che alla fine del secolo scorso la quota del preteso giacimento di voti a disposizione di un eventuale partito dei sindaci si aggirava intorno al 40 per cento. Ma erano solo chiacchiere e sondaggi viziati da irrimediabile ottimismo.

Era il Tempo Nuovo, primissimi anni 90, di Leoluca Orlando e della Primavera di Palermo, di Rutelli a Roma, di Cacciari a Venezia, di Bassolino a Napoli, di Bianco a Catania: tutti giovani, alcuni anche belli, nel complesso intelligenti, indipendenti, positivi, progressisti, venivano bene in tv e non rubavano. Si può aggiungere che a quei tempi fecero anche bene alle loro città, barcamenandosi tra risanamento amministrativo e politiche simboliche, rilancio municipale ed eventi di poco costo ma di alto impatto attrattivo, fra cui moltissime feste. Però a questo si limitò, caso per caso, la loro stagione.Per cui ritornando al presente, più che un partito, sembrerebbe questo un ri-partito dei sindaci, un fenomeno carsico, una fantasia ricorrente, un’esigenza resa plausibile da complesse motivazioni che riguardano la fine dei partiti, la rovina del sistema politico, in particolare l’ormai consolidata e desolante crisi esistenziale della sinistra.Ma ciò che qui forse importa è che quando da noi una cosa si ripresenta e si ripresenta e ancora si ripresenta senza che mai una volta si traduca in qualcosa di reale, l’immaginazione si sente autorizzata a sganciarsi dalla realtà. E se pure nel frattempo l’idea seguita a fermentare nel pentolone dell’immaginario politico, e le speranze della sinistra continuano a crescere in quel senso con retoriche auto-salvifiche tipo “ripartiamo dalle città” eccetera, è pur vero che già ora i possibili promotori Gualtieri, Salis, Onorato e quanti altri nutrono quel genere di ambizione hanno da sbrigare i loro affari municipali, che bastano e avanzano, con il che dall’agenda politica questo benedetto partito o ripartito dei sindaci prima o poi – più prima che poi – è destinato a scomparire.

Nella recente storia politica repubblicana è accaduto troppe volte, con tre diverse generazioni di sindaci, come si è detto anche onesti e capaci; e per quanto la circostanza aggiuntiva abbia il minimo rilievo, vorrà pur dire che per quattro volte almeno nell’arco di un decennio l’autore di questo articolo si è esercitato sul tema, e sempre a partire dal nesso che sciaguratamente tiene assieme illusione & delusione in un unico, prolungato e fantasmatico tricche-tracche. Si tratta, oltretutto, di storie piuttosto frammentate e non proprio avvincenti. Per quel che riguarda il primo flop, basterà qui ricordare che il generico tentativo di mettere assieme i sindaci del maggioritario in una embrionale coalizione che si chiamava Cento Città, venne stroncata da una battutaccia di Giuliano Amato che la ribattezzò “cento Padelle”. Di lì a poco, d’altra parte, sarebbe arrivato Berlusconi a spegnere qualsiasi residua velleità.A ripensarci, nel designare quell’ipotesi «un accampamento di cacicchi», Massimo D’Alema fu ancora più severo, ma a suo modo preveggente. Della seconda generazione di sindaci facevano parte – grosso modo – De Luca (Salerno), Emiliano (Bari), Veltroni (Roma), Pisapia (Milano), Chiamparino (Torino), Merola (Bologna), Falcomatà (Reggio Calabria), De Magistris (Napoli), Domenici (Firenze), Renzi (Firenze), il più sindaco dei presidenti del Consiglio. Tutti o quasi, va detto, sapevano fare il loro mestiere. Ma tra caudilli, sceriffi, masanielli, rottamatori, santoni, arancioni e aspiranti pontefici, la varietà di personalità e posizioni era tale da scoraggiare qualsiasi forma di raggruppamento.In buona sostanza, nel nuovo secolo, i sindaci di sinistra vincevano anche bene nelle loro città, ma la sinistra nel suo complesso stentava, mentre più in generale la dissoluzione del ceto politico si approfondiva schermandosi dietro un perenne chiacchiericcio fatto di fantasticherie, millanterie, miraggi e chimere. Con il che ci si avvicina alla terza evanescente evocazione del partito dei sindaci con Sala a Milano, Gori a Bergamo, Decaro a Bari, Nardella a Firenze, Ricci a Pesaro e l’ex cinque stelle Pizzarotti a Parma, cui si deve la breve e caduca esperienza di un ennesimo cartello inter-municipale, L’Italia in Comune. Ma anche qui a trionfare è il più classico nulla di fatto.Con tali precedenti, la Rete civica di Onorato, nipote di Michele Placido, non parte avvantaggiata, ma l’impegno è preso. E se la stella di Salis, già campionessa di lancio del martello, comincia a rifulgere combinando feste glamour e cortei operai, la popolarità di Gualtieri, sindaco chitarrista, pare oltrepassare i confini della sinistra. Però, di nuovo: crederci è bene, ma prepararsi al peggio è come minimo un tributo alla memoria.


Se la retorica bellicista ha il sopravvento


Armarsi fino ai denti non è l’unica strada e l’informazione ha il dovere di raccontarlo con chiarezza

(Giuseppe De Marzo – lespresso.it) – Il futuro è in guerra? La crescita a livello globale della spesa di armi è senza precedenti, trainata dalla guerra in Ucraina e dal genocidio a Gaza. Secondo il rapporto dello Sipri, Stockholm international peace research institute, i ricavi dei produttori nel 2024 hanno raggiunto i 582 miliardi di euro. Delle prime dieci aziende al mondo sei sono statunitensi, con il 49 per cento dei ricavi. In Europa le vendite sono aumentate del 13 per cento, per un totale di 131 miliardi di euro. Tra queste, le italiane Leonardo e Fincantieri che incrementano i loro ricavi del 10  e del 4,5 per cento. Gli investimenti nel settore della difesa sono cresciuti in Europa del 42 per cento rispetto al 2023 e la Commissione Von der Leyen ha da poco varato il piano di riarmo da 800 miliardi. E pare sia solo l’inizio.

L’economia di guerra sottrae enormi risorse esponendo le nostre vite a un rischio gigantesco, con la complicità e il silenzio di una gran parte dei media e della politica. Pretendono di farci credere che meno democrazia, meno lavoro, meno salute, meno diritti, meno partecipazione, siano sacrifici che dobbiamo accettare per essere in grado di difenderci da Cina e Russia.

Armarsi sino ai denti non ci rende più sicuri e non difende la nostra libertà ma ci espone a maggiori rischi, avvicinando la guerra. Ce lo ricordano la Storia, la nostra condizione e la minaccia del collasso climatico. Invece, la retorica bellicista sta prendendo il sopravvento nell’informazione, troppo impegnata a voler convincere i cittadini che spendere per le armi sia l’unica strada per difenderci dai pericoli dei nuovi autoritarismi che arrivano dall’esterno.

Persino chi dovrebbe occuparsi della formazione professionale dei giornalisti ultimamente preferisce arruolarsi e irreggimentare il dibattito, invece che favorire pluralismo e ricerca della verità. Come successo qualche settimana fa a Roma in un corso di formazione obbligatoria organizzato dal consiglio dell’Ordine dei giornalisti sulla situazione in Ucraina al quale ho assistito personalmente. Le tre relazioni programmate andavano tutte nella stessa direzione, dando per scontata la necessità di sottrarre enormi quantità di fondi pubblici per le armi.

Nessun domanda scomoda, nessun pluralismo ma un’unica lettura dei fatti che vede le democrazie, esclusivamente liberali (con buona pace di tutte le altre), sotto attacco di Cina e Russia. Per questo motivo dobbiamo armarci e prepararci a tutto. Uno dei relatori è arrivato persino ad affermare più volte come fosse “surreale” pensare di criticare le scelte della Von der Leyen. Dimenticando evidentemente che il principale compito della stampa è quello di garantire il massimo pluralismo interno per soddisfare il diritto all’informazione del cittadino.

Dividere il mondo con l’accetta e separarlo tra buoni e cattivi, soffiando sulla guerra, è un esercizio infantile quanto pericoloso. Se a farlo sono coloro che hanno il compito di formare i giornalisti il problema è grave. Dobbiamo opporci a questa deriva difendendo il pluralismo dell’informazione, non indietreggiando di un passo se vogliamo evitare il baratro. Pluralismo vuol dire la presenza di più voci e fonti contrapposte per assicurare un’informazione completa, assicurando la possibilità ai cittadini di potersi autonomamente formare un giudizio sui fatti. Facciamo Eco!


È stata la mano di Kiev 


(ANSA) – BERLINO, 18 DIC – Serhij K., l’ucraino arrestato per l’esplosione dei gasdotti di Nordstream nel Mar Baltico, al momento del reato era a quanto pare membro di un’unità speciale delle forze armate ucraine. È quello emerge da un documento del Ministero della Difesa ucraino visionato dallo Spiegel.

Roman Chervinsky, che era suo superiore, lo ha confermato: “Serhij era sotto il mio comando all’epoca”, ha detto Chervinsky al magazine. “Ha eseguito tutti gli ordini della nostra unità e non si è allontanato dalla truppa senza autorizzazione”, ha aggiunto.   

Le dichiarazioni di Chervinsky confermano le piste seguite dallo Spiegel, afferma lo stesso settimanale. La fonte, si legge ancora nell’anticipazione, non ha voluto commentare la partecipazione all’operazione né per sé, né per altri: “Non ho l’autorizzazione a rilasciare dichiarazioni su singole operazioni”, ha detto Chervinsky.


Manicomio Europa e gli asset russi


(Stefano Rossi) – Mel Beooks ci avrebbe ricavato un film.

Dunque, mentre tutti i vertici della UEFranciaGermania e, in ItaliaMattarella e parte del PDFdIFI, ci vogliono convincere che ci dobbiamo armare, dobbiamo essere pronti alla guerra, che dobbiamo metterci in testa di andare al fronte, succede un fatto del tutto contrario a questi propositi con risvolti tragicomici.

Che fare dei miliardi russi che l’Europa ha bloccato, di cui, 185 sono a disposizione del Belgio tramite la finanziaria Euroclear?

Intanto, diamo qualche informazione. Questi “asset”, di cui tanto parlano i giornalisti, secondo la Fondazione Einaudi, sono soldi russi che venivano investiti nei circuiti europei, per questo “congelati”, per non dire sequestrati o messi da parte. Ammontano tra i 200 e 300 miliardi di euro, a cui si devono aggiungere decine e decine (non esiste un conto preciso) di miliardi di euro di privati cittadini russi, anche questi sottratti ai legittimi proprietari.

Ad un certo punto della storia, alcuni dei nostri bravi eurodeputati si sono messi in testa di darli agli ucraini come risarcimento del danno subito.

Altri, invece, vorrebbero utilizzarli per altri scopi non meglio chiariti.

E non c’è accordo nemmeno come investirli.

Ma un dubbio atroce paralizza questi beoni che tanto vorrebbero muovere guerra alla Russia: e se poi questa si arrabbia e ci chiede il conto?

Ufficialmente il dubbio è questo: attenzione, la Russia potrebbe farci causa per i soldi che noi gli abbiamo bloccato.

E, difatti, il Belgio non muove un dito e nemmeno investe i 185 miliardi in suo possesso.

Ma la domanda che nessuno osa fare è un’altra: e se poi la Russia s’arrabbia sul serio e ci sgancia qualche bomba, magari atomica?

Eccoli ‘sti matti di statisti che ci rappresentano!

Eccoli quelli che si vogliono armare!

Eccoli quelli che parlano di guerre, armi, droni e tattiche asimmetriche.

E poi se la fanno sotto solo per decidere come utilizzare i soldi del “nemico”.

Poi arriva la ciliegina sulla torta che rende questo dramma, più tragico che mai.

Fitch, Agenzia internazionale specializzata nella valutazione del rischio di credito, avverte: se Euroclear userà quei soldi, rischierà un declassamento consistente.

Euroclear non è una semplice finanziaria ma una holding inglese, francese, belga.

Il rischio, per alcuni, è un crollo di molte borse europee.

E i russi se la ridono.

Ma non erano loro che dovevano crollare?


Dal Signore degli anelli ad Atreju, dall’ampolla del Po a Pontida: la politica alla prova dei riti


Un saggio del giornalista Alberto Ferrarese viaggia tra i simboli che servono ai partiti per cementare le identità e costruire consenso

(di Manuela Perrone – ilsole24ore.com) – Non c’è politica senza riti, non c’è potere senza corollario di simboli. La cerimonia di investitura dei re Ndembu, tribù insediate negli odierni Congo e Angola, con un sacerdote che li taglia e li insulta mentre si raccolgono in atteggiamento umile dentro una capanna, non è poi tanto distante dai complicati passaggi che presiedono all’investitura del presidente della Repubblica in Parlamento, tra cabine chiuse, rintocchi di campane, il cannone del Gianicolo che spara 21 colpi a salve, gli onori militari, l’inno nazionale, la scorta dei corazzieri.

In “Politica nuda. Riti e simboli del potere” (AltraVista, 2025) il giornalista Alberto Ferrarese esplora le mille vie attraverso cui il potere costruisce la sua «religiosità laica» per conquistare e rassicurare i suoi fedeli. «La politica – scrive – è probabilmente l’ambito della società in cui più forte resta l’aspetto simbolico e rituale, perché non può farne a meno: senza non è che amministrazione». Lo sanno bene gli italiani, e tra gli italiani i romani, abituati all’intreccio perpetuo tra sacro e profano. Di là dal Tevere la famosa “fumata bianca” per i nuovi Papi attesa in Piazza San Pietro, di qua le celebrazioni per il 2 giugno, la festa della Repubblica.

La Lega dei richiami “padani”

Ma riti e simboli servono anche a battezzare i nuovi movimenti. Il rito dell’ampolla di acqua del Po, inventato da Umberto Bossi a chiusura della “Festa dei popoli padani”, è servito alla Lega per segnare i presunti confini della Padania; il mito fondativo di Pontida, il luogo vicino a Bergamo in cui nel 1167 i comuni si allearono contro Federico Barbarossa, resiste ancora oggi nell’era di Matteo Salvini, omaggiato dal raduno annuale dei militanti del Carroccio.

Meloni, l’era del fantasy al potere

Il partito di Giorgia Meloni affonda le sue radici fisiche nel luogo altrettanto “sacro” di Colle Oppio, una specie di grotta ricavata tra i ruderi delle Antiche Terme di Traiano, e quelle simboliche ne “Il Signore degli anelli”, il capolavoro fantasy di John Ronald Reuel Tolkien, citatissimo dalla premier e dai suoi. Dai “Campi Hobbit” organizzati dalla destra a Montesarchio negli anni Settanta discende un patrimonio condiviso di riferimenti che anima persino le correnti-comunità, come i Gabbiani di Fabio Rampelli. La stessa autodefinizione di “underdog” della presidente del Consiglio nel suo primo discorso alla Camera attinge da una fortunata mitologia che sostiene gli “sfavoriti” in lotta contro le avversità. Atreju, il nome della kermesse dei giovani di Fdi, va nella stessa direzione: è il protagonista della “Storia infinita” che combatte l’avanzare del Nulla.

Il caso di scuola: la discesa in campo di Berlusconi

Si deve, però, a Silvio Berlusconi l’esempio più formidabile di creazione da zero di riti e simboli per la sacralizzazione di un leader. Ferrarese, forte della sua esperienza di cronista nei palazzi della politica italiana ed europea, ripercorre la discesa in campo del Cavaliere nel 1994, preparata dai migliori manager di Publitalia 80 anche con la costruzione di un potente apparato simbolico. Con l’idea dirompente di puntare sulla «doppia valenza politico-calcistica» del nome “Forza Italia”, l’inno e il discorso “L’Italia è il Paese che amo” registrato su un set montato in un cantiere della villa di Macherio. Tutto anche in seguito pensato come «una professione di fede, sul modello di quello della messa cattolica», fondata sul culto della personalità e l’uso massiccio della televisione e della cartellonistica stradale. Il mondo del marketing aziendale trasferito alla politica, la «religione della libertà» come promessa.

La «tecno-religione» del M5S

Berlusconi avrebbe aperto la strada, involontariamente, alla «tecno-religione» del Movimento 5 Stelle. «Qualcuno li ha chiamati “setta”, altri li hanno paragonati a Scientology», ricorda il saggio. Sicuramente un guru è esistito, anzi due: da una parte «l’Elevato», come amava chiamarsi, ossia Beppe Grillo; dall’altra il “profeta” Gianroberto Casaleggio.In mezzo, «il sacro Blog» e poi l’associazione Rousseau, che avrebbe dato il nome all’omonima piattaforma, per qualche anno simbolo della democrazia diretta agognata dai pentastellati. Un pullulare di riferimenti simbolici si ritrova anche nel V-Day, il “vaffa” cuore della politica antisistema dei grillini della prima ora.

La camicia bianca di Renzi e gli «orari di lavoro» di Draghi

Anche il renzismo è pieno di simboli – la Leopolda, la camicia bianca (né rossa né nera) della terza via – e neanche i governi tecnici sfuggono ai riti. La consegna della campanella – che testimonia la staffetta tra i presidenti del Consiglio – fu inventata da Lamberto Dini, ma resa celebre dal testimone amaro consegnato da Enrico Letta a Matteo RenziMario Draghi ha portato la consuetudine anglosassone degli orari di lavoro: «Niente riunioni notturne o nei fine settimana per lui: in ufficio dalle 9 alle 19, con pausa pranzo a casa, venerdì corto e fine settimana “sacro”».

I complottismi «rassicuranti»

Sui simboli vive e prospera il complottismo, in tutte le sue manifestazioni: quelle antisemite dei Protocolli dei Savi di Sion, quelle cospirazioniste di QAnon che hanno alimentato il sostegno a Donald Trump, quelle razziste della «sostituzione etnica». «Le teorie del complotto con organizzazioni supersegrete che operano dietro le quinte per dominare il mondo sono comunque presenti da secoli», afferma Ferrarese. Sono rassicuranti e si propagano con una forza incredibile: creando una rete di credenze che si autosostentano, una volta che si accetta una cospirazione si spalancano le porte alle altre, pure quelle in contraddizione tra loro.

La politica denudata

Ma c’è un rito che più di ogni altro qualifica le democrazie e che, come le democrazie, è in crisi: il voto. Il gesto che stabilisce il legame di rappresentanza tra eletto ed elettore ha perso fascino. Anche se il libro non conclude con pessimismo. Anzi. Ci rammenta che forse una politica meno “mitizzata” potrebbe non essere un male. Una politica nuda, senza orpelli o con orpelli deboli, si rivela per quello che è: potere a tempo, potere umano.


Pendolaria 2025, Legambiente ribadisce i gravi limiti gestionali del trasporto ferroviario regionale in Italia


Per migliorare i servizi serve una profonda riorganizzazione, non solo più soldi pubblici, senza la quale risulta velleitaria la “cura del ferro” voluta da tutte le forze politiche

(Dario Balotta, Esperto di trasporti e ambiente – ilfattoquotidiano.it) – La puntuale e approfondita analisi sul trasporto ferroviario, elaborata annualmente da Legambiente, ribadisce i gravi limiti gestionali del trasporto ferroviario regionale del nostro Paese e il gap con le “best practices” del nord Europa. Per l’associazione, “il trasporto su ferro continua a essere un tema secondario, con finanziamenti che risultano assolutamente inadeguati. Questo ha portato a un sistema di trasporto che fatica a migliorare”.

Se più del 90 per cento delle famiglie ha almeno un’auto (65 auto ogni 100 abitanti) e il tasso di motorizzazione è elevatissimo, le cause sono da ricercare nella progressiva espulsione dei redditi bassi nelle periferie, data l’assenza di nuove case popolari, e di una politica urbanistica speculativa che spinge fuori dal centro la popolazione, che si ritrova con trasporti pubblici inadeguati. E’ quindi, purtroppo, l’automobile a sopperire agli scarsi e inefficienti collegamenti del trasporto sub ed extra urbano con il centro.

Le risorse del Fondo Nazionale Trasporti, destinate al trasporto pubblico su ferro e gomma (spesa corrente), sono oggi inferiori a quelle del 2009, erose dall’inflazione e dall’alto costo energetico. Non è così per quanto riguarda gli investimenti dove, grazie al Pnrr, sono in pista 44,5 miliardi per il potenziamento della rete e altri 8,5 per la mobilità dolce.

Anche se la metà dei progetti sono stati tirati fuori da cassetti dove giacevano da decenni, la riduzione di risorse del Fondo Trasporti impatta principalmente sul trasporto locale, su autobus urbano ed extraurbano, molto meno su quello ferroviario.

C’è poi da aggiungere che i contributi pubblici devono sostenere alti costi di gestione, superiori anche del 20% rispetto a quelli di analoghe aziende del vecchio continente. L’inefficienza gestionale certo non aiuta a ridurre i costi e a migliorare i servizi, e a diminuire i fabbisogni di spesa.

I pendolari del centro nord cominciano ad avere, oltre ai soliti problemi (cancellazioni, ritardi, treni vecchi e spesso sporchi), anche quelli derivanti dal conflitto con i treni pendolari dei transiti dei treni ad Alta velocità nei nodi di Torino, Milano, Bologna, Firenze, Roma e Napoli, che portano a nuove criticità e ritardi ad entrambi i servizi.

Il rapporto non dice mai una parola sulle cause della pessima gestione operativa di Trenitalia (passeggeri regionali ed Alta Velocità), di Merci Italia (quota di mercato ridicola), di Rfi e dei continui cambi di organigrammi (spoil system) che hanno inevitabilmente delle ricadute sui servizi offerti. La lottizzazione delle nomine e i rapporti tra politica e apparato gestionale vanno ben oltre il ruolo di indirizzo e regolazione del Ministero dei Trasporti e dell’Economia.

Per migliorare i servizi serve una profonda riorganizzazione, non solo più soldi pubblici, senza la quale risulta velleitaria la “cura del ferro” voluta da tutte le forze politiche. Il volume di risorse trasferito al sistema ferroviario infrastrutturale (spesa in conto capitale) e la conseguente apertura di un migliaio di cantieri hanno mandato in crisi la circolazione dei treni su parecchie linee provocando nuovi disagi.

La spesa corrente, trasferita a Trenitalia da Stato e Regioni, è in lieve calo, mentre è in aumento quella di Trenord, l’azienda ferroviaria lombarda che da sola sviluppa il 35% del traffico pendolare italiano, che però ha il peggior tasso di puntualità.

Il gruppo Fs con Itinera partecipa e vince gare per l’affidamento e la gestione dei servizi ferroviari in Germania, in Gran Bretagna e in Grecia. Non c’è però reciprocità competitiva in Italia. In nessuna regione italiana si sono fatte le gare per l’affidamento dei servizi locali, mentre in Europa le gare sono state un successo.

La “cura del ferro”, più che un piano con precisi obiettivi da raggiungere, incremento dei passeggeri e delle merci trasportate, si è rivelata un auspicio “green” per giustificare ogni spesa, senza alcuna valutazione costi-benefici che lascia liberi tutti di proporre qualsiasi investimento.

Non sono stati raggiunti neppure modesti risultati ambientali rispetto alla spesa effettuata. E’ l’inerzia di questo sistema ferroviario (gestione) che va “curata”, se le ferrovie vogliono avere un futuro nella transizione ecologica e nel rilancio del trasporto pubblico. La struttura delle Fs, con la sua pletorica catena di comando, per avere un futuro nella transizione ecologica e nel rilancio del trasporto pubblico, deve abbandonare il modello consociativo che divora le risorse pubbliche, restituendo pochi benefici pubblici.


Il governo prima vuole punire i cittadini onesti e poi li prende per il culo


GUSMEROLI, SUI CONDOMINI NON PENALIZZARE GLI ONESTI PREMIANDO I FURBETTI

(ANSA) – ROMA, 18 DIC – “No a progetti di legge che aumentano le spese condominiali, moltiplicano gli obblighi amministrativi e finiscono per penalizzare i cittadini onesti, favorendo invece i furbetti del condominio”. È quanto dichiara il deputato Alberto Gusmeroli, a margine del convegno organizzato ieri dall’UNAI (Unione Nazionale Amministratori Immobiliari), commentando il progetto di legge sulla riforma del condominio.

Secondo l’onorevole, il rischio concreto è che “mentre aumentano i costi per i condomini virtuosi, i morosi e i furbetti continuino a non pagare, scaricando il peso economico sugli altri. Per la Lega prima di introdurre nuovi obblighi bisogna ascoltare le categorie interessate e intervenire con strumenti efficaci contro l’insolvenza e a tutela dei proprietari onesti, non aggravando ulteriormente i bilanci familiari”.

 Così il deputato della Lega Alberto Luigi Gusmeroli, presidente della commissione Attività produttive, Commercio e Turismo di Montecitorio e responsabile unità fisco della Lega.

MANOVRA: SALVINI, SCELTE DA MODIFICARE SU PENSIONI E CONDOMINI

(ANSA) – ROMA, 18 DIC – “Alcune scelte tecniche dal punto di vista della Lega devono essere modificate: niente allungamento dell’età pensionabile, niente rivalsa su chi riscatta la laurea, niente nuove norme, nuova burocrazia per i condomini e per gli inquilini che adempiono al loro dovere”. Lo afferma il vicepremier e ministro delle Infrastrutture, Matteo Salvini, intervistato su Rtl 102.5.

LEGA, RIFORMA CONDOMINIO HA CRITICITÀ, NON LA CONDIVIDIAMO

(ANSA) – ROMA, 18 DIC – Come riferiscono fonti della Lega, “la riforma bis del condominio, così come ipotizzato dalla proposta di legge 2692, presenta evidenti criticità e non è condivisa dalla Lega”.

ASSOUTENTI, RIFORMA CONDOMINI SBAGLIATA E ANTICOSTITUZIONALE

(ANSA) – ROMA, 18 DIC – “La proposta di riforma dei condomìni contiene misure totalmente sbagliate che sollevano profili di forte criticità costituzionale, faranno salire i costi in capo agli utenti e incentiveranno i condòmini morosi a non regolarizzare la propria posizione. Lo afferma in una nota Assoutenti, che boccia alcune novità contenute nel disegno di legge.

“In particolare riteniamo incostituzionale la previsione secondo cui, in caso di morosità di uno o più condòmini, le conseguenze economiche debbano ricadere sull’intero condominio – spiega il presidente Gabriele Melluso – Un simile meccanismo viola principi fondamentali dell’ordinamento, a partire da quello della responsabilità personale sancito dall’art. 27 della Costituzione, e introduce una forma di responsabilità collettiva che non trova alcun fondamento giuridico né equitativo.

I condòmini in regola con i pagamenti non possono essere chiamati a rispondere delle inadempienze altrui, e una simile misura incentiva i morosi a non pagare i propri debiti, nella consapevolezza che le inadempienze saranno scaricate sui vicini di casa” – evidenzia Melluso.

Altrettanto preoccupante è l’impostazione che sembra favorire un’unica modalità di pagamento, quella digitale attraverso i conti correnti bancari o postali. Assoutenti ritiene invece indispensabile il mantenimento di un doppio canale di pagamento, sia digitale sia in contante.

Questa scelta non è un arretramento, ma una misura di civiltà e inclusione sociale, necessaria per non penalizzare le fasce più fragili della popolazione, considerato che una fetta non indifferente di cittadini, specie anziani, hanno ancora difficoltà con i pagamenti digitali.

Assoutenti chiede quindi al Parlamento di rivedere profondamente la proposta, eliminando ogni forma di responsabilità collettiva per la morosità individuale e garantendo la libertà di scelta nei metodi di pagamento, nel rispetto dei principi costituzionali, dell’equità sociale e della tutela dei consumatori.


Von der Leyen all’Europarlamento: «la pace è finita, prepariamoci alla guerra ibrida»


(Valeria Casolaro – lindipendente.online) – L’Europa deve prepararsi alla guerra ibrida e deve farlo in fretta. Almeno, così è come la pensa la presidente della Commissione Europea, Ursula von der Leyen. «L’Europa deve essere responsabile per la propria sicurezza: non è più un’opzione, ma un dovere. Conosciamo le minacce che dobbiamo affrontare e le affronteremo. Dobbiamo sviluppare e dispiegare nuove capacità per poter combattere una guerra ibrida moderna». La minaccia è sempre la stessa: la Russia. L’unico modo per difendersi da un ipotetico attacco: più armi, più investimenti nella difesa – 800 miliardi entro il 2030, secondo gli obiettivi dell’UE.

«La pace di ieri non c’è più» ha dichiarato von der Leyen all’inizio del proprio discorso. Ora, viviamo in un «mondo di guerre e di predatori». Il riferimento non è chiaramente a Israele, che l’Unione Europea continua ad appoggiare e finanziare nonostante a due mesi dalla firma del cessate il fuoco non abbia ancora fermato il genocidio contro la popolazione palestinese, ma alla Russia. La preoccupazione è chiara: «l’ordine mondiale del dopoguerra sta cambiando in modo irreversibile», con nuove potenze economiche che si affacciano sul mondo. Infatti, mentre «L’Europa ha perso quote del PIL mondiale, passando dal 25% nel 1990 al 14% di oggi» e agli Stati Uniti è toccata la stessa sorte, «solo in Cina, la quota del PIL globale è passata dal 4% nel 1990 al 20% di oggi». Gli equilibri si stanno quindi ribaltando, tanto dal lato economico quanto da quello bellico – d’altronde, non è più nemmeno tempo delle guerre in Kosovo, quando a sganciare le bombe contro i civili nel mezzo del continente era la NATO, o di quelle imperialiste portate avanti dall’Occidente “esportatore di democrazia” in Afghanistan e Medio Oriente. E probabilmente è proprio per recuperare un ruolo attivo nello scacchiere geopolitico globale che pochi giorni fa Giuseppe Cavo Dragone, la più alta carica militare all’interno della NATO, ha suggerito l’ipotesi di un attacco preventivo contro Mosca, proprio per far fronte alla cosiddetta “minaccia ibrida”.

In un mondo che si muove sempre più nella direzione del multipolarismo, insomma, l’Europa deve trovare il modo di ristabilire il proprio ruolo e fare i propri interessi. Anche perchè gli Stati Uniti lo hanno fatto capire chiaramente: per quanto riguarda la difesa, l’UE dovrà cominciare ad arrangiarsi. Per von der Leyen, però, «dalla difesa all’energia» l’Unione sta compiendo passi da gigante verso l’indipendenza. «Stiamo entrando in una nuova era: quella dell’indipendenza energetica dai combustibili fossili russi». Ciò che rimane implicito, nel suo discorso, è che a cambiare non è il modello, ma solo il fornitore: tra i principali fornitori dell’UE scompare Mosca e compare Washington, le cui tariffe non sono certo più convenienti. L’indipendenza nel campo della difesa, invece, può essere ottenuta in un solo modo: più fondi all’industria della guerra. Otto miliardi di euro sono stati investiti negli ultimi dieci anni, ottocento miliardi dovranno essere investiti da qui ai prossimi quattro – entro il 2030. Non solo perchè l’UE deve “difendere sè stessa”, ma perchè «non c’è atto più importante per la difesa europea che sostenere la difesa dell’Ucraina». Che avrà bisogno di “almeno” altri 137 miliardi nel corso dei prossimi due anni, 90 dei quali dovranno essere forniti dall’UE. La cifra è imponente, motivo per il quale von der Leyen invita a non soffermarsi sui numeri: «non si tratta solo di numeri, ma anche di rafforzare la capacità dell’Ucraina di garantire una pace reale, giusta, duratura, che protegga l’Ucraina e quindi anche il resto dell’Europa».

La Russia, insomma, continua ad essere il pretesto per l’Europa per investire nel mercato della guerra, che di questi tempi è sicuramente redditizio. I discorsi di pace, d’altronde, non fanno bene all’economia: basti vedere come i titoli delle aziende produttrici di armi crollino appena si ventilano discorsi di pace, per impennare non appena vengono fatti annunci militaristi. In questo contesto, va segnalato come, mentre von der Leyen insiste nel ripetere come Mosca stia dimostrando tutto il suo «disprezzo per la diplomazia e il diritto internazionale» pretendendo allo stesso tempo di «beneficiare dei privilegi dell’ordine economico mondiale», la Corte Penale Internazionale ha confermato il mandato di cattura contro Netanyahu, accusato di crimini di guerra e contro l’umanità nel contesto dell’offensiva israeliana contro i palestinesi dopo il 7 ottobre 2023. Si vedrà ora se l’Europa, al contrario di quanto fatto fino ad ora, sarà capace lei stessa di rispettare gli stessi principi, smettendo di collaborare con un criminale di guerra.


Baud, la Eurodeliri e il denaro arma di repressione di massa


(Alessio Mannino – lafionda.org) – La danza è partita con la relatrice Onu per i territori palestinesi, Francesca Albanese, inserita a luglio dagli Stati Uniti nell’elenco dell’Ofac, l’ufficio che gestisce le sanzioni ad personam contro terroristi e narcotrafficanti. La sua colpa: aver denunciato complicità statunitensi e occidentali nel genocidio di Gaza. Ora tocca a dodici fra giornalisti, analisti e accademici europei (fra cui lo svizzero Jacques Baud, ex militare ed ex consigliere Onu), sanzionati su proposta dell’Alto Rappresentante degli Affari Esterni della Ue, Kaja Kallas, con l’accusa di fare propaganda filo-russa, quando invece sono rei soltanto di esprimere idee non allineate ai guerrafondai di Bruxelles. Congelamento di beni, conti correnti bloccati, restrizioni ai movimenti: la morte civile. Un metodo di repressione del dissenso che agisce per via extra-giudiziaria, senza che nemmeno venga contestato uno straccio di reato. Ma che cerca soprattutto di oscurare le voci scomode con l’arma più subdola, fredda e vile che ci sia: il ricatto economico.

Arrestare, d’altro canto, non usa più da quando la cosiddetta democrazia liberale deve salvare la facciata da Stato di diritto. Men che meno fare fuori fisicamente gli oppositori, ché altrimenti non si potrebbe più rigirare l’argomento contro dittature e autocrazie (anche se non si capisce, anzi lo si capisce benissimo, come mai un Kashoggi vittima del saudita Salman non debba equivalere, nel computo dei giornalisti ammazzati, quanto la Politkovskaja caduta sotto Putin). Il bavaglio ideale, in una società democratica di nome e feudal-capitalistica di fatto, non  può allora che corrispondere al far venire meno l’aria che ossigena il sistema: il denaro. A pensarci bene, è la metafora perfetta del funzionamento del nostro organismo sociale: privare qualcuno dei soldi significa amputarlo delle libertà di cui l’Occidente si pretende baluardo. Formalmente, si continua a concedere la manifestazione del proprio pensiero, diritto che di quelle libertà è essenza e compendio. Nessun divieto diretto. Ma in realtà, si fa peggio: da un lato, nella più pura logica di un apparato di dominio che si sente in guerra, si isola il reprobo additandolo come nemico pubblico; dall’altro, se ne azzera la capacità effettiva di esistere come soggetto privato, impaurendolo e condizionandolo là dove, almeno noi comuni mortali, siamo più vulnerabili: nelle tasche.

Un po’ la stessa cosa avviene, a un livello inferiore, nelle aule di tribunale quando il potente di turno tenta di zittire il giornalista critico, magari non esattamente nuotante nell’oro, trascinandolo in cause civili con esorbitanti richieste di risarcimento danni. Oppure, su scala generale, identico è il principio che informa l’intero modello politico della presunta civiltà superiore: il diritto all’esistenza (“libera e dignitosa”, dice la Costituzione in uno dei suoi passi più indovinati) è una variabile dipendente dal potere del denaro. Tu, cittadino uguale in astratto a ogni altro, vali nella misura in cui hai un valore finanziario. Lo mise ben in evidenza già a suo tempo il vecchio Marx: i diritti tipicamente liberali (di espressione, riunione, circolazione ecc) restano lettera morta, se non si gode della concreta facoltà di tradurli in pratica grazie a un reddito adeguato. L’uguaglianza sbandierata a parole dalle liberal-democrazie – che non sono propriamente liberali, e non sono democrazie – risuona come formula vuota, agli orecchi di generazioni di spossessati, sfruttati e schiavi salariati la cui condizione oggi si palesa sempre più, fra l’altro, come la riedizione aggiornata della pre-moderna servitù della gleba (i ricchi, e in particolare gli ultraricchi, possiedono asset generatori di rendita, mentre la classe media impoverita e gli attuali proletari sono al basto del padrone, consumano in abbonamento o hanno proprietà che costano più di quel che rendono. Ma su questo tema – il tecnofeudalesimo – ci torneremo su).

L’asfissia da conto corrente in erosione o di fatto annullato, come nelle liste di proscrizione di cui sopra, in buona sostanza risulta la leva sistemica d’oppressione più efficace, da parte dell’oligarchia euro-americana. Perché sua mercé si prendono agevolmente due piccioni con una fava: viene mantenuta la maschera ufficiale di democratici, salvo persecuzioni mirate e chirurgiche, forma di censura particolarmente vigliacca in quanto neppure onestamente rivendicata (Hitler e Stalin, per lo meno, avevano il buon gusto di non essere ipocriti), e contemporaneamente si imbriglia la vita collettiva controllandola alla fonte, saldamente piantata su un’ingiustizia strutturale di squilibri e sperequazioni divenute stratosferiche. La vicenda della Albanese, di Baud e degli altri sanzionati, in quest’ultimo caso agitando lo spauracchio di un conflitto con la Russia che nessuno vuole tranne la Euro-deliri, riproduce, in formato ridotto ma esemplare, il marcio che alberga nel cuore d’Occidente: lo strapotere dell’oro. La campana suonava già per tutti: ora i rintocchi si fanno più assordanti. 


Il camaleontismo non può durare per sempre


FT, ‘LA LEALTÀ DI MELONI MESSA ALLA PROVA IN UN VERTICE UE CRUCIALE’

(ANSA) – “La lealtà di Meloni messa alla prova in un vertice Ue cruciale” è il titolo di un articolo che l’edizione europea del Financial Times dedica “all’enigmatica leader italiana che detiene il voto decisivo su due questioni critiche”, ovvero sull’uso degli asset russi per la sostenibilità finanziaria dell’Ucraina e il voto sull’intesa con il Mercosur.  

 “Gli alleati di Meloni nell’Ue sperano che lei rimanga tale anche nel vertice ad alto rischio di oggi”, scrive il quotidiano finanziario, sottolineando che da “quando è entrata in carica nell’ottobre 2022, le capitali dell’Ue hanno nutrito il timore che Meloni potesse rompere il consenso pro-europeo del blocco su questioni chiave”.

Nonostante “il suo storico euroscetticismo, le vecchie amicizie con il leader ungherese Viktor Orbán e i partiti filo-russi della sua coalizione, Meloni è sempre tornata a una linea filoeuropea nei momenti critici, dimostrandosi una delle più fedeli sostenitrici di Zelensky”, si legge ancora.   

“Abbiamo davanti a noi una settimana decisiva che potrebbe davvero determinare l’importanza dell’Ue come attore internazionale”, ha affermato un alto funzionario tedesco citato dal Financial Times.

“L’Italia è piuttosto cruciale in questo senso”. Per il quotidiano finanziario le scelte di Meloni nei prossimi giorni “potrebbero ridefinire le sue future relazioni con gli alleati europei, proprio mentre la premier italiana ha cercato di sfruttare la sua posizione globale per rafforzare la sua immagine in patria”.

In definitiva, conclude, “la valutazione più importante di Meloni sarà probabilmente quella di valutare come le sue scelte influenzeranno la sua posizione sulla scena internazionale e come questo sarà percepito dagli elettori italiani”.

Asset russi, Meloni in bilico tra Salvini e von der Leyen punta a guadagnare tempo

Il dilemma della premier: rompere con i partner comunitari o con quelli di governo quando il dossier ucraino approderà in Parlamento

Asset russi, Meloni in bilico tra Salvini e von der Leyen punta a guadagnare tempo

(di Tommaso Ciriaco – repubblica.it) – BRUXELLES – Guadagnare tempo. Alla vigilia del Consiglio europeo, Giorgia Meloni si ritrova di fronte a un bivio fastidioso: rompere con Bruxelles, o creare fratture in Italia talmente pesanti da danneggiare la stabilità del suo esecutivo. Bocciare infatti la proposta europea di utilizzare gli asset russi congelati, come minaccia di fare da giorni Palazzo Chigi, significherebbe mettersi alla testa di un gruppo di Paesi dell’area Visegrad, sovranisti e filoputiniani, rinnegando tre anni e mezzo di sostegno a Kiev: una compagnia a un passo dall’insostenibile. Se scegliesse invece di esprimersi a favore o di astenersi sulla proposta della Commissione, rischierebbe l’incidente in patria: è infatti previsto un voto del Parlamento sul dossier degli asset. E la presidente del Consiglio, in queste ore, teme che Salvini si opponga. Rischiando di aprire una crisi politica dagli esiti imprevedibili.

Guadagnare tempo, dunque: ma come? Roma cerca nel catalogo delle soluzioni emergenziali, ben consapevole che da almeno un anno nessuno ha trovato idee all’altezza della sfida. Un’opzione praticabile, trapela, potrebbe essere quella di immaginare un breve prestito ponte per l’Ucraina. Qualche mese per sopravvivere, in attesa di capire l’evoluzione degli eventi sul campo (e al tavolo della diplomazia). Ogni trenta giorni, secondo una stima grezza degli italiani, l’Europa dovrebbe destinare quattro miliardi a Kiev. Per Ursula von der Leyen, servirebbe qualcosa di più: 135 miliardi in 24 mesi, dunque circa 5 miliardi e mezzo. L’Italia verrebbe chiamata a pagare una quota dell’11% di questa cifra. Per qualche mese e in attesa di capire soprattutto una cosa: come finirà la trattativa gestita da Trump.

Certo, il segnale inviato dall’Europa a Volodymyr Zelensky non sarebbe dei migliori: soluzione a tempo, striminzita, timida. Ma utile a Meloni per compiacere Washington, evitando anche il bivio stretto che dovrebbe altrimenti affrontare. E comunque meglio di una mancata decisione. Uno stallo verrebbe infatti accolto dal Cremlino con giubilo.

Le incognite sono numerose, in queste ore. Ad esempio: cosa accade se il Belgio accetta un compromesso? Roma sarebbe costretta a sfilarsi dalla pattuglia composta dai Paesi di Visegrad (Repubblica Ceca, Slovacchia, l’Ungheria di Viktor Orbán, più la Bulgaria), aprendo in casa un enorme problema politico alle Camere. L’eventuale utilizzo degli asset russi, infatti, deve ottenere un via libera del Parlamento, che serve ad autorizzare le garanzie che l’Italia deve fornire al Belgio, al pari dei partner. È lo scudo contro eventuali ricorsi legali di Mosca. Anche il prestito ponte andrebbe probabilmente vagliato alle Camere, ma è evidente che sarebbe più digeribile per il Carroccio.

Sarà una battaglia lunga, iniziata già nella notte di ieri. La premier, lasciando prima del previsto il Senato, annuncia di aver anticipato il volo per Bruxelles per incontrare all’hotel Amigo Emmanuel Macron e Friedrich Merz. A loro consegnerà la posizione negoziale italiana, che tiene assieme le critiche legali rispetto all’utilizzo dei beni congelati russi e i dubbi sulla strategia della Commissione europea, che avrebbe abbandonato troppo in fretta l’idea di prestito convenzionale degli Stati membri (che però sulla carta richiede l’unanimità) o il finanziamento attraverso debito comune continentale, avversato però da Berlino.

Non solo. Meloni avvertirà anche che a suo avviso accettare l’utilizzo degli asset di Mosca esporrà l’Europa sui mercati. E di conseguenza l’Italia sul fronte dei conti pubblici: già gravata da un enorme debito nazionale, potrebbe pagare un prezzo pesante – questa la tesi – nel caso in cui l’euro subisse un danno reputazionale. Stamane, intanto, fuori dal Consiglio si riuniranno alcune sigle di agricoltori europei, tra cui Coldiretti. Protestano contro l’accordo di libero scambio tra Ue e Sudamerica (Mercosur). Qualcuno ha anche suggerito alla premier di affacciarsi fuori dal palazzo per salutare i manifestanti: difficile che accada, ma mai dire mai.


La disfatta europea e il cambiamento radicale


(Tommaso Merlo) – Gli inetti reggenti europei dettano le condizioni a Putin come se la guerra l’avessero vinta loro. Sprezzanti del ridicolo, si sono rifugiati nel loro bunker propagandistico e sperano di spacciare una penosa resa con qualche accordo di pace. Nel mondo reale intanto l’Ucraina è un cumulo di macerie di cemento, mentre l’Occidente di macerie politiche e sociali. L’Europa è rimasta senza soldi, senza armi, senza la protezione americana, povera e divisa come non mai e perfino senza senso. Coi popoli che detestano i loro reggenti guerrafondai e non hanno nessuna intenzione di finire in qualche fangosa trincea. L’unica buona notizia è che anche la Nato sta finendo nell’indifferenziato perché Trump ha partorito un nuovo ordine mondiale, narcisismo applicato anche alla geopolitica. Quelli che gli sbaciucchiano le chiappe sono protetti dai Marines, gli altri si devono arrangiare. Il tutto mentre imperversa una crisi economica e quindi sociale ormai cronica da entrambi le parti dell’oceano. E menomale che siamo il mondo ricco. E menomale che in frantumi doveva finire la Russia di Putin che invece non solo regge bene, ma avanza. Roba che se gli inetti reggenti europei avessero un minimo di onestà intellettuale e dignità, invece di continuare con le loro tristi passerelle, chiederebbero umilmente scusa alla cittadinanza e si ritirerebbero a vita privata per la vergogna. Ma più sali in società, più certe qualità sono rarissime. Ed eccoci qui. Più che degli statisti, delle poltrone mobili e parlanti determinate a non finire tra gli ingombranti. Il loro piano strategico è noto, prendere tempo negando ogni evidenza e responsabilità come se fossimo tutti dei fessi, continuare a spolparci di risorse per produrre armi mentre lottiamo contro la povertà, e ricostruire arsenali ed eserciti in vista di una fantomatica rivincita contro la Russia, la principale potenza nucleare al mondo e con alleati che ci trascinerebbero nella terza e ultima guerra mondiale. Davvero delle poltrone geniali e sagge. Sul campo di battaglia intanto, la Russia avanza alla faccia dei media mainstream ed è dalle sue decisioni che emergeranno nuovi scenari. A Putin non conviene permettere all’Europa tempo per riorganizzarsi, ma al contrario approfittare del momento favorevole risolvendo quelle che definisce le ragioni del conflitto. Vuole una Ucraina innocua. E per questo potrebbe decidere di prendersi anche Odessa, unico sbocco al mare di Kiev e magari pure Kharkiv. Sanno del mega riarmo europeo, sanno dei deliri guerrafondai di Bruxelles e dato che si aspettano che la guerra continuerà in un modo o nell’altro, si piazzano in anticipo nella migliore posizione strategica. Putin non vuole poi perdere l’occasione di infliggere una plateale sconfitta al relitto della Nato approfittando che per una volta alla Casa Bianca non c’è finito il solito russofobo. Per questo Putin gradirebbe dare un contentino a quel bambino dell’asilo di Trump, facendo nel frattempo affari ma anche dividendo e quindi indebolendo ulteriormente il fronte occidentale. Trump è una palla tra i piedi dei guerrafondai europei al punto che si rumoreggia dell’intenzione di liberarsi di lui alla prima occasione in modo da ricompattare la Nato e rilanciarla contro la Russia. Geni, saggi e testardi come muli. Quanto a noi povera gente del vecchio continente, se non vogliamo finire in qualche fangosa trincea, ci dobbiamo svegliare. Come abbiamo pensato fino ad oggi ci ha portato fino a questo punto, se vogliamo cambiare ed evitare la catastrofe, dobbiamo pensare in modo diverso. Altro che fasulle contrapposizioni partitiche, difronte al rischio di un conflitto mondiale dobbiamo unirci come cittadini e ritrovare il coraggio di un cambiamento politico radicale. Ristabilendo una vera democrazia in cui governi la volontà popolare e non quella lobbistica, e producendo una politica che abbia la qualità della vita delle persone e quindi la pace come stella polare, e non la poltrona. Una politica di qualità che ci rappresenti come persone prima ancora che come idee politiche. Altro che inetti reggenti, servono progetti nuovi espressione dell’emergenza in corso e delle nuove consapevolezze. Altro che deliri bellici da secolo scorso, altro che deliri russofobi e narcisismo geopolitico, il mondo sta cambiando radicalmente e dobbiamo tenere il passo. Girando pagina in modo da produrre una politica intelligente e sensibile in grado di perseguire il bene comune fermando l’agghiacciante deriva verso la terza guerra mondiale fin che siamo in tempo.


Il Pd è più atlantista di Giorgia


L’opposizione divisa, presentati sei testi. Conte non ascolta Schlein: “Ma risolveremo differenze”

Ucraina, su fondi e aiuti militari in Aula il Pd è più atlantista di Giorgia

(estratto art. di Luca De Carolis e Wanda Marra – ilfattoquotidiano.it) – […] Lui e lei, Giuseppe Conte ed Elly Schlein, giocano partite diverse nella Montecitorio dove la premier va a raccontare, ma soprattutto a rispondere in vista del Consiglio europeo.

Pd e Movimento sull’Ucraina restano lontanissimi tra loro, e se serviva una prova di quanto teorizza l’avvocato – “l’alleanza ancora non c’è” ripete in serata – eccola, in carne e leader. Nel suo intervento la segretaria del Pd attacca la premier a tutto tondo, ma gli asset, che sono il vero oggetto del Consiglio europeo e la questione su cui Meloni è più in difficoltà, neanche li nomina. Gioco di prestigio per non scoprire troppo il fianco a Conte e per dissimulare quello che nella risoluzione dem è scritto nero su bianco: “È necessario che l’Italia cooperi con gli altri partner europei, per finalizzare in tempi brevi una proposta per l’utilizzo dei beni russi congelati in Europa”. Mentre Lorenzo Guerini, ormai capo conclamato della minoranza dem, spiega: “Altri usano le questioni legali per giustificare le prudenze sull’uso degli asset, noi invece vogliamo dire che si deve trovare il modo”. Così parla, quello che da sempre dice a Schlein quali sono i paletti entro cui deve e può muoversi. La risoluzione, limata fino all’ultimo, è una critica radicale al piano di pace di Trump per Kiev in 28 punti: “La presentazione di una proposta americana per la pace tra Russia e Ucraina è stata discussa soltanto con la Russia, senza il coinvolgimento né di Kiev né dell’Ue, ed è stata accompagnata da forti pressioni per accettare una soluzione negoziale che rischiava di tradursi in una resa e di premiare l’aggressore”.

[…] Ancora una volta, i dem interpretano il ruolo del partito più pro Kiev, la linea atlantista pre-Trump. Ma le opposizioni su guerra e armi si spaccano come di consueto, confermano le sei risoluzioni presentate. Da qui si arriva al documento dei Cinque Stelle, distanti anni luce dal Pd. Per esempio, il testo esorta il governo “a non supportare la confisca definitiva e l’utilizzo degli asset sovrani della Federazione Russa”, scongiurando “il rischio che il quadro di incertezza giuridica possa degenerare nel ricorso a ingenti fondi pubblici europei per far fronte a risarcimenti”. Per alcuni deputati era una formulazione troppo dritta. E nell’assemblea di martedì tra i capigruppo delle commissioni Esteri, Difesa e Politiche europee si è discusso a lungo, su quel passaggio. Si è deciso di basarlo sul punto giuridico.

Ma quello politico lo teorizza al Fatto Francesco Silvestri: “Utilizzare gli asset russi sarebbe una scelta folle, che incaglierebbe gli ucraini in una guerra che li sta già decimando. Se dovesse perdere quei soldi, Putin infierirebbe su di loro per recuperarli”. Così, ecco il no sugli asset. Assieme all’ennesimo muro all’invio di armi a Kiev e al nuovo invito a tornare ad acquistare gas dalla Russia a guerra finita. E Conte? Dal microfono assalta Meloni: “Lei dice di essere preoccupata da ex 5Stelle passati dalla politica alla lobby delle armi. Noi siamo più preoccupati da chi passa dalla lobby delle armi alla politica, cioè il ministro Crosetto”.

La premier ostenta indifferenza, parla con i suoi ministri. L’avvocato insiste: “Manderete altre armi all’Ucraina, ma nella risoluzione della maggioranza scrivete solo di ‘supporto multidimensionale’ a Kiev. Ipocriti”. I suoi applaudono, Schlein anche. Soprattutto quando chiosa: “Nel momento in cui ci presenteremo agli italiani per governare le nostre differenze le risolveremo, dopo tre anni di guerra voi non ci siete ancora riusciti”. […]


Non è vero che l’Europa non ha carte in mano contro Trump


(di Johnny Ryan – The Guardian) – L’impensabile è accaduto. Gli Stati Uniti sono l’avversario dell’Europa. Il netto e profondo tradimento contenuto nella strategia di sicurezza nazionale dell’amministrazione Trump dovrebbe mettere fine a ogni ulteriore negazione e tergiversazione nelle capitali europee.  

Coltivare la “resistenza all’attuale traiettoria dell’Europa nelle nazioni europee” è ora una politica dichiarata di Washington.

Ma dentro questa calamità si nasconde il dono della chiarezza. L’Europa o combatterà o perirà.

La buona notizia è che l’Europa ha in mano carte forti.

La scommessa degli Stati Uniti sull’intelligenza artificiale è ormai così gigantesca che la pensione di ogni elettore Maga è legata alla sopravvivenza precaria di questa bolla.

Gli investimenti nell’IA rivaleggiano ora con i consumi come principale motore della crescita economica americana. Hanno rappresentato praticamente tutta (il 92%) la crescita del PIL nella prima metà di quest’anno.

Senza di essi, il PIL degli Stati Uniti sarebbe cresciuto appena dello 0,1%. Nonostante le pose di Donald Trump, il terreno economico sotto i suoi piedi è instabile.

[…] Ursula von der Leyen, presidente della Commissione europea, ha due carte da giocare che potrebbero far scoppiare la bolla dell’IA. Se lo facesse, la presidenza di Trump verrebbe gettata nella crisi.

La prima: la società olandese ASML detiene un monopolio globale sulle macchine per l’incisione dei microchip che utilizzano la luce per scolpire schemi nel silicio.

Queste macchine sono essenziali per Nvidia, il colosso dei microchip per l’IA che è oggi l’azienda più preziosa al mondo. ASML è una delle società più preziose d’Europa, e anche banche europee e fondi di private equity sono investiti nell’IA.

Trattenere queste macchine per l’incisione del silicio sarebbe difficile per l’Europa ed estremamente doloroso per l’economia olandese. Ma sarebbe molto più doloroso per Trump.

L’investimento febbrile degli Stati Uniti nell’IA e nei data center su cui essa si basa andrà a sbattere contro un muro se i controlli europei sulle esportazioni rallenteranno o fermeranno le vendite verso gli Stati Uniti – e verso Taiwan, dove Nvidia produce i suoi chip più avanzati. Attraverso questa leva, l’Europa ha i mezzi per decidere se e di quanto l’economia statunitense si espanderà o si contrarrà.

La seconda carta, ed è molto più facile […], è l’applicazione delle regole europee sui dati […] contro le grandi aziende tecnologiche statunitensi. Documenti aziendali riservati resi pubblici in procedimenti giudiziari negli Stati Uniti mostrano quanto aziende come Google siano vulnerabili all’applicazione delle norme di base sui dati.

Nel frattempo, Meta non è stata in grado di dire a un tribunale statunitense cosa facciano i suoi sistemi interni con i dati degli utenti, né chi vi possa accedere, né per quale scopo.

Questo “far west” dei dati consente alle big tech di addestrare i loro modelli di IA su enormi masse di dati di chiunque, ma è illegale in Europa […]. A Bruxelles basterebbe reprimere l’Irlanda, che per anni è stata una sorta di far west dell’applicazione lassista delle norme sui dati, e le ripercussioni si farebbero sentire ben oltre.

Se l’UE avesse il coraggio di esercitare questa pressione, queste aziende tecnologiche statunitensi dovrebbero ricostruire le loro tecnologie da zero per gestire correttamente i dati. Dovrebbero anche dire agli investitori che i loro strumenti di IA sono esclusi dall’accesso al prezioso mercato europeo finché non si adegueranno.

È improbabile che la bolla dell’IA sopravviva a questo doppio shock.

Gli elettori Maga non hanno votato per perdere le loro libertà e i diritti costituzionali, e un Trump sempre più autoritario che non riesce a garantire stabilità economica a causa della sua vicinanza a un’industria tecnologica detestata rischia di essere profondamente impopolare alle elezioni di medio termine del 2026.

[…] Le ragioni della cautela stanno svanendo. La reazione estrema dei leader Maga alla relativamente modesta multa da 120 milioni di euro recentemente inflitta dalla Commissione europea a X dimostra che risparmiare i colpi non li placherà.

Il “piano in 28 punti” di Trump per l’Ucraina ha dissipato ogni illusione che concessioni europee potessero garantire un ritorno dell’impegno militare statunitense.

Con la sua democrazia ora esplicitamente sotto minaccia, l’Europa deve unirsi a India, Brasile e Cina nel fronteggiare Trump.

Il presidente brasiliano Luiz Inácio Lula da Silva è un esempio di come farlo. Si è mostrato dignitoso e risoluto di fronte a un bullismo straordinario da parte di Trump. In un solo mese, a settembre, ha proclamato in una lettera aperta a Trump che la democrazia e la sovranità del suo paese non sono negoziabili, ha risposto ai dazi di Trump con dazi propri e ha approvato una nuova legge che obbliga le piattaforme digitali a proteggere i bambini in Brasile dalle molestie sessuali e da altri abusi online.

Poi ha “messo all’angolo” Trump sul piano retorico in un discorso all’Assemblea generale dell’ONU, subito prima che Trump prendesse la parola. In seguito al rifiuto di Lula di lasciarsi intimidire, Trump ha immediatamente ammorbidito i toni. Ora sono attesi dazi più bassi dopo i negoziati tra i due leader.

All’inizio di dicembre Trump ha detto di ritenere deboli i leader europei. Non crede che difenderanno le libertà degli europei e la loro democrazia conquistata a caro prezzo contro di lui. Finora, la risposta dei leader europei gli sta dando ragione. Ma ciò che Trump non ha ancora capito è che von der Leyen tiene l’economia statunitense e la sua presidenza nelle proprie mani. Deve avere il coraggio di andare ben oltre qualsiasi norma precedente del suo comportamento. In altre parole, se colpirà Trump dove fa più male, l’Europa vincerà questa battaglia.


Patuanelli: “Governo surreale. Sulla previdenza solo disastri e fa cassa con chi non protesta”


Parla il capogruppo M5S al Senato: «La Lega pensa di essere di lotta e di governo. Giorgetti? Segue la via delle agenzie di rating, delle pacche sulle spalle ai consessi internazionali»

Patuanelli: “Governo surreale. Sulla previdenza solo disastri e fa cassa con chi non protesta”

(di Francesco Manacorda – repubblica.it) – MILANO – È tutto surreale. Surreale che un ministro della Lega come Giancarlo Giorgetti metta le mani in tasca a chi vuole andare in pensione e che la stessa Lega si dichiari contro le sue intenzioni. Surreale che un governo di centro-destra tratti così male le imprese e gli imprenditori». Stefano Patuanelli, capogruppo dei Cinque Stelle in Senato, boccia la manovra del governo, ritocchi dell’ultimo minuto compresi.

Partiamo dalle pensioni, dove pure il governo sembra intenzionato a una mezza retromarcia sul riscatto degli anni di università…

«Al di là della penalizzazione del riscatto della laurea, che è assolutamente inaccettabile, è sul sistema pensionistico in generale che questo governo sta facendo disastri, in totale contraddizione con quello che i partiti di maggioranza hanno detto in campagna elettorale. Fanno cassa su quella parte silente del paese che magari non scende in piazza a manifestare ma che di sicuro vede colpiti i suoi diritti acquisiti. Non consentiremo che ciò accada in questa legge di bilancio».

Insomma, siete in linea con la Lega che protesta?

«Quale Lega? Non è che la Lega può pensare di essere di lotta e di governo al tempo stesso. Intanto sta votando tutto quello che passa. Se davvero è preoccupata per le pensioni, voti i nostri emendamenti abrogativi».

Giorgetti però fa il suo lavoro, segue la via del rigore e delle regole Ue.

«Giorgetti segue la via delle agenzie di rating, delle pacche sulle spalle ai grandi consessi internazionali, la via dell’austerità che ha portato sempre molto poca produttività e molto poco sostegno alle imprese. Se la produzione industriale affonda, se le ore di cassa integrazione aumentano a dismisura è perché non c’è una politica industriale e tutte le misure di sostegno agli investimenti degli imprenditori sono state abrogate soltanto perché le avevamo fatte noi. Questa è una responsabilità che il ministro Giorgetti porta. E parlo di lui perché voglio essere compassionevole con il suo collega Urso, che con Transizione 5.0 ha combinato pasticci che resteranno nei libri di storia».

Ma adesso per le imprese, anche grazie alle misure sulle pensioni, stanno arrivando più soldi.

«Guardi, è come se io venissi sotto casa sua, le rigassi la macchina e poi le dicessi che le rivernicio la fiancata e quindi deve ringraziarmi. Evidentemente si sono accorti di quanto male stavano facendo alle imprese e hanno cercato di porre rimedio; ma non certo trovando nuovi fondi, perché le coperture, a partire dalle pensioni, abbiamo visto tutti quali sono, comprese nuove tasse sulle imprese. Se ci avessero dato retta si sarebbero evitati tutto questo».

A dire il vero voi siete il partito del superbonus, che ha creato un bel buco in bilancio e che ha lasciato – lamenta il governo – un disastro nei conti pubblici…

«Mi mostrino l’articolo della legge di bilancio dove questo presunto buco viene coperto. Il superbonus ha avuto effetti sul deficit all’inizio della sua applicazione, mentre oggi influisce solo sul debito e quindi non incide sugli spazi finanziari a disposizione del governo per fare la legge di bilancio. E anche qui vedo qualcosa di surreale: festeggiano il fatto di essere il terzo governo più duraturo della storia repubblica italiana e poi continuano a dare la responsabilità a chi governava cinque anni fa. È un alibi che ormai non regge più».