Selezione Quotidiana di Articoli Vari

Nuove proteste in Bulgaria: “Il governo della mafia è finito”


(ANSA) – SOFIA, 11 DIC – Nuove proteste in Bulgaria contro il governo, accusato dai manifestanti di corruzione e di connubio di stampo mafioso. Nella piazza ‘Indipendenza’ della capitale Sofia, sulla quale si affacciano i palazzi del parlamento, del governo e della presidenza, il cosiddetto ‘triangolo del potere’, anche in tarda serata si è riversata una folla di oltre 50 mila persone per chiedere le immediate dimissioni del governo.

“Il governo della mafia è finito!”, “La goccia ha fatto travasare il bicchiere”, “Questa volta non ci fregano” si leggeva sui cartelli dei dimostranti. Gli studenti universitari che si sono riversati in piazza con un corteo partito dall’Università della capitale scandivano “Siamo contro la sfacciataggine dei governanti”, “Vogliamo un futuro degno, vogliamo rimanere in Bulgaria!”. Proteste popolari anche in altre grandi città come Plovdiv (Sud), Varna e Burgas (due città sul Mar Nero).

La gente scandiva slogan per le dimissioni del governo ma anche contro il continuo rincaro dei generi alimentari e contro l’inflazione alla vigilia dell’ingresso della Bulgaria nella zona dell’euro il primo gennaio. Le proteste di oggi si sono svolte sotto lo slogan “Dimissioni, Peevski e Borissov fuori dal potere!”.

L’esecutivo di Sofia guidato da Rossen Zhelyazkov, esponente del partito conservatore Gerb, è una coalizione formata dal Gerb che ha vinto le ultime elezioni, i socialisti (Bsp) e il partito populista ‘C’è un popolo come questo’ (Itn). Non dispone di una maggioranza in parlamento ma conta sull’appoggio incondizionato del partito ‘Movimento per diritti e libertà – Nuovo inizio’ (Dps-Nn), uno dei due partiti della minoranza turca in parlamento, quello di Delian Peeevski, figura centrale e controversa della politica bulgara, accusato da anni di essere il simbolo della corruzione nazionale.

Leader storico del Gerb è Boyko Borissov, ex premier accusato dai bulgari di abuso di potere e nepotismo, il quale oggi ha dichiarato che l’attuale governo è stato formato esclusivamente per far entrare la Bulgaria nella zona dell’euro a partire dal primo gennaio prossimo.

“Soltanto dopo il primo gennaio potremmo parlare di rimpasti, dimissioni e tutto il resto”, ha detto Borissov ai giornalisti. Domani i deputati dovrebbero votare una mozione di sfiducia contro il governo di Zhelyazkov presentata dal partito liberale ‘Continuiamo il cambiamento’ (Pp), la maggiore forza d’opposizione. I liberali accusano l’esecutivo di aver fatto fiasco nella politica economica del paese.


L’ora più buia per l’Ucraina


TRUMP, ‘ZELENSKY DEVE ESSERE REALISTICO. QUANDO TERRANNO LE ELEZIONI?’

(ANSA) – WASHINGTON, 10 DIC – Zelensky “deve essere realistico”. Lo ha detto Donald Trump, rispondendo ai reporter durante una riunione con un gruppo di imprenditori. Il tycoon ha risollevato il problema del voto e della trasparenza, chiedendo “quando terranno delle elezioni?”. In Ucraina “c’è un enorme problema di corruzione”, ha aggiunto.

TRUMP, GLI USA NON VOGLIONO PERDERE IL LORO TEMPO CON L’UCRAINA

(ANSA) – WASHINGTON, 10 DIC – Gli Usa “non vogliono perdere il loro tempo” sull’Ucraina: lo ha detto Donald Trump rispondendo ai reporter durante una riunione con un gruppo di imprenditori.

TRUMP, CON I LEADER EUROPEI ABBIAMO DISCUSSO DELL’UCRAINA IN TERMINI FORTI

(ANSA) – WASHINGTON, 10 DIC – “Ne abbiamo discusso in termini piuttosto forti”: lo ha detto Donald Trump rispondendo ad una domanda dei reporter – durante una riunione con un gruppo di imprenditori – sulla telefonata con i leader europei riguardo all’Ucraina.

TRUMP, EUROPEI VOGLIONO UN INCONTRO CON NOI E ZELENSKY NEL FINE SETTIMANA

(ANSA) – WASHINGTON, 10 DIC – “Gli europei vogliono un incontro con noi e Zelensky nel fine settimana in Europa”, “prenderemo una decisione in base a ciò con cui torneranno”: lo ha detto Donald Trump rispondendo ai reporter durante una riunione con un gruppo di imprenditori.

KIEV HA INVIATO AGLI USA UN PIANO AGGIORNATO PER LA PACE

(ANSA-AFP) – KIEV, 10 DIC – L’Ucraina ha inviato a Washington un piano aggiornato per porre fine alla guerra con la Russia. Lo hanno riferito all’AFP due funzionari ucraini informati sulla questione. Kiev ha “già inviato” la bozza aggiornata agli Stati Uniti, ha detto un alto funzionario in merito al piano, senza fornire dettagli sul suo contenuto.

MOSCA, ‘TRUMP IN LINEA CON NOI, È L’UNICO A CAPIRE LA GUERRA’

(di Alberto Zanconato – ANSA) – MOSCA, 10 DIC – In attesa del contropiano euro-ucraino in 20 punti, nulla sembra far recedere la Russia dalle sue posizioni.

La base per le trattative in Ucraina rimangono le originarie proposte degli Usa, secondo Mosca, che ora interviene anche sull’intervista di Donald Trump a Politico – contenente tra l’altro pesanti attacchi a Kiev e ai leader europei – affermando che essa è “coerente” con la linea russa. Il capo della Casa Bianca, ha sottolineato il ministro degli Esteri Serghei Lavrov, è l’unico leader occidentale a mostrare di comprendere “le cause profonde” del conflitto.

 Le autorità russe sono rimaste indifferenti anche alle ultime due mosse – la proposta di una tregua negli attacchi reciproci alle infrastrutture energetiche e la promessa di tenere elezioni entro i prossimi due o tre mesi – fatte dal presidente ucraino Volodymyr Zelensky.

  “Noi lavoriamo per la pace, non per una tregua”, ha risposto in merito al secondo punto Dmitry Peskov, il portavoce di Vladimir Putin, affermando che deve trattarsi di “una pace stabile, garantita, duratura”.

Quanto alle possibili elezioni in Ucraina, che secondo Zelensky potrebbero tenersi se gli alleati occidentali ne garantiranno la sicurezza, la portavoce del ministero degli Esteri, Maria Zakharova, ha paragonato la proposta a una scena da teatro delle marionette.

Zelensky, ha dichiarato Zakharova in un’intervista a Radio Sputnik, dice di volere “l’indipendenza” dell’Ucraina, ma “chiede che altri Paesi garantiscano la possibilità di tenere elezioni, e al contempo chiama queste elezioni ‘democratiche'”. Tutto ciò, secondo la portavoce della diplomazia russa, assomiglia al “teatro di Karabas-Barabas”. Cioè il tirannico capo di un teatro delle marionette in una favola di Alexei Tolstoy.

Peskov è tornato sull’intervista a Politico di Trump, per dire che, a suo avviso, il presidente Usa “ha toccato le cause profonde di questo conflitto in molti modi”. “Certamente – ha aggiunto il portavoce di Putin – per molti versi è una linea coerente con la nostra comprensione”. Una delle “cause profonde”, secondo Mosca, era la possibilità che l’Ucraina potesse entrare nella Nato.

Una prospettiva minacciosa in ottica russa, che l’intervento militare si è proposto di sventare. Anche Zakharova, commentando due giorni fa la nuova Strategia di sicurezza americana, aveva valutato come un aspetto positivo il fatto che “per la prima volta” gli Usa hanno “messo in dubbio le dinamiche eternamente aggressive ed espansioniste” della Nato.

Mentre, parlando oggi al Consiglio della Federazione (il Senato russo), il ministro degli Esteri Serghei Lavrov, ha riconosciuto in Trump “l’unico leader occidentale il quale, subito dopo l’insediamento nel gennaio di quest’anno, ha iniziato a mostrare comprensione delle ragioni che hanno reso inevitabile la guerra in Ucraina”. E quindi, per i russi, anche la necessità che un accordo di pace “incluse garanzie che l’Ucraina non entrerà nella Nato”.

Ma sono gli europei, ha ribadito Lavrov, che continuano a cercare di “ostacolare” il processo di pace, illudendosi, nella loro “cecità politica senza speranza”, di poter sconfiggere la Russia. A questo punto il ministro ha richiamato le parole di Putin: “Non abbiamo piani – ha detto – per combattere contro l’Europa. Ma risponderemo ad ogni passo ostile, compreso lo schieramento di truppe europee in Ucraina e la confisca degli asset russi, e siamo già preparati a farlo”.


Ecco la proposta che unisce davvero tutto il Pd: vietato mangiare la carne di cavallo


I dem passano dall’equità all’equinità. Altro che Gaza, altro che Jobs act, Schlein e gli altri sono finalmente uniti per la gioia di asini, cavalli e muli

(Salvatore Merlo – ilfoglio.it) – Asini, abbracciateci. E ovviamente anche voi, cavalli. Teniamoci stretti. Senza dimenticare i muli. Qui con noi. Dall’equità, insomma, all’equinità. Ella ossia Elly, traccia l’affezione ed Evi, ovvero l’Eleonora, deputata del Pd e amica della segretaria, tosto presenta alla Camera una proposta di leggericonoscere gli “equidi” come animali “d’affezione”. Vietato mangiarli. Basta. Fine. Stop. Orrore. Sicché, dopo mesi di dibattiti identitari nel partito, dopo settimane di polemiche tra massimalisti e riformisti, dal Jobs Act alla Palestina libera, ecco la proposta che unisce davvero tutte le correnti, anzi aree culturali, del Pd. A dimostrazione della larga condivisione infatti, a presentare il disegno di legge, l’altro giorno, assieme all’on. Evi, in una magnifica conferenza stampa piena di pathos e di fieno morale, c’erano anche le deputate Patrizia Prestipino e Debora Serracchiani. Quest’ultima è la responsabile Giustizia del Pd che un tempo sognava la separazione delle carriere dei magistrati e oggi lavora in senso inverso, ma sembra comunque aver trovato una nuova frontiera istituzionale: separare le carriere degli equini da quelle dei bovini. Quel che non si riesce a fare con giudici e pm, si può sempre recuperare nella zootecnia.

Ma la proposta, attenzione, merita di essere presa sul serio. E’ ambiziosa. Stop alla macellazione, tutela rafforzata, riconversione degli allevamenti. E qui, inevitabile, si spalanca la fantasia. Per anni abbiamo discusso di transizioni ecologiche, energetiche, digitali. Ora arriva la transizione ippica. Dunque ci saranno, supponiamo, fondi per riqualificare gli allevatori: dal maniscalco al pedagogista equino, dall’allevatore al consulente motivazionale per cavalli in pensione. Si può quasi immaginare un seminario dal titolo: “Dal filetto alla felicità. Strategie per un futuro equino sostenibile e resiliente”.

Il problema, tuttavia, è che in Italia la cavallina, come direbbe il poeta, ha corso assai. E spesso dentro la pentola. La geografia gastronomica del cavallo è un atlante sentimentale della penisola, che possiede un repertorio gastronomico che della carne equina ha fatto arte. Ci sono la Pìcula ’d cavall piacentina, il Tordo Matto di Zagarolo, le Brasciole di Sicilia, Puglia e Basilicata, i Pezzetti di Cavallo del Salento, la Lucanica mochena del Trentino, la Pastissada de Caval veneta. E poi c’è Catania, dove la carne di cavallo intorno a Via Plebiscito si acquista con la stessa spontaneità con cui altrove si compra il pane: arrusti e mangiaServirà un commissario straordinario, uno psicologo di comunità e forse anche l’Esercito per spiegare ai catanesi che il Pd ha deciso che la loro tradizione è un reato.

Ma la sinistra, si sa, vive di simboli. Ha un po’ smarrito la classe operaia, forse ha litigato con le partite Iva, non sa se tassare le rendite del ceto medio, ma ora prova a ricompattarsi. E con grande sagacia, degna dei tempi, lo fa attorno a un soggetto che non vota, non protesta e non sciopera: il cavallo. E’ la seconda grande battaglia di Eleonora Evi, pupilla delle pupille di Schlein. Prima voleva raddoppiare la tassa sulle bevande zuccherate. Una linea politica limpida: colpire tutto ciò che gli italiani trovano commestibile. Che poi, siamo sinceri, se si tassano le bibite e si proibisce la carne equina, rimangono solo due scelte: o disubbidire alla legge o iscriversi al Pd di Elly Schlein. Entrambe, certo, misure drastiche.


Tirare a campare


Tirare a campare

(di Antonio Pitoni – lanotiziagiornale.it) – Stupisce chi si stupisce che Trump parli di “Europa decadente”, di capitali “sovraccariche” di migranti, di “leader deboli”, che “non sanno cosa fare”, che “parlano troppo e non producono”. Non era la prima volta, d’altra parte, che il presidente degli Stati Uniti bullizzava il vecchio continente.

Lo ha fatto saccheggiando le imprese Ue con i dazi al 15% ingoiati, senza fare una piega, da Ursula von der Leyen, entusiasta per il cappio che gli Usa ci hanno stretto intorno al collo spacciandolo per il migliore degli accordi possibili. Lo ha rifatto pretendendo e ottenendo (con la sola eccezione della Spagna) l’incremento degli investimenti Nato al 5% del Pil per acquistare le armi che ci venderà guadagnandoci due volte. Lo ha fatto, ancora una volta, defilandosi dal sostegno economico e militare all’Ucraina e lasciando all’Europa il conto della guerra e della ricostruzione che verrà.

Di fronte all’ultima ondata di contumelie, l’unica replica da Bruxelles è arrivata da un’anonima portavoce della Commissione: “Mi asterrò dal commentare queste affermazioni, salvo confermare che siamo molto orgogliosi e grati di avere leader eccellenti, a partire dalla leader di questa istituzione, la presidente della Commissione europea von der Leyen. Siamo davvero fieri di chi ci guida nell’affrontare le molte sfide che il mondo ci pone”. Tipo il Piano di Riarmo da 800 miliardi per difenderci da nemici inesistenti, sottraendo risorse al Welfare e preparando un apocalittico futuro di guerra ai nostri figli.

Ma chi in Europa sembra messa peggio perfino di bomb der Leyen, è la premier italiana Meloni. Schiacciata tra la sudditanza a Trump – aggravata dalla rivendicata affinità ideologica con il modo Maga rispetto a quella già manifestata con il predecessore Biden – e l’ingombrante sostegno promesso all’alleato Zelensky – sempre più scomodo ed economicamente insostenibile – con l’improvvida scommessa sulla vittoria dell’Ucraina.

Un equilibrismo reso ancora più difficile dal rompete le righe suonato dalla Lega che ha fatto slittare di nuovo il via libera al nuovo decreto armi a sostegno di Kiev. La strategia di Meloni, per ora, resta quella di tirare a campare. Che, come diceva Andreotti, è sempre meglio che tirare le cuoia. Anche se al fronte gli ucraini le cuoia continuano a tirarle sul serio.


La Repubblica e Meloni, la premier “loda” Kryakou l’editore pronto a rilevare il quotidiano. I piani e gli incontri


A settembre, videocollegata, la premier loda l’editore che intende acquistare il quotidiano di Scalfari. Sono seguiti incontri istituzionali per illustrare il progetto. Chi è e cosa vuole fare l’editore che conosce Trump e Blair

(Carmelo Caruso – ilfoglio.it) – Vuole acquistare La Repubblica, è gradito a Giorgia Meloni, conosce Donald Trump e Tony Blair. L’editore greco Theo Kyriakou, pronto a rilevare il gruppo Gedi, è apprezzato, lodato, dalla presidente del Consiglio. L’operazione non è ostile al governo. Meloni e Kyriakou hanno avuto modo di parlarsi, piacersi. Non significa nulla, può significare tutto. Il 26 settembre, l’editore greco, a capo del gruppo Antenna Group, ha annunciato ad Atene un partenariato con l’Atlantic Council. All’evento hanno partecipato il primo ministro greco Mitsotakis, il vice primo ministro del Regno Unito, Lammy oltre al ministro di stato del Qatar. Durante la conferenza Meloni si è videocollegata e ha “lodato la leadership di Kryiakou”. Lo stima. Tra i presenti c’era anche il nuovo ambasciatore americano ad Atene, Kimberly Guilfoyle. Lo riporta il quotidiano greco Tovima.com. Il gruppo Gedi sta trattando in esclusiva con Kyriakou e ha già rifiutato l’offerta di Leonardo Maria Del Vecchio. Il cdr di Repubblica è stato informato da Gedi della trattativa che prosegue. Il comitato di redazione, ieri, si è riunito e ha proposto, tra le forme di protesta, un appello a Sergio Mattarella o una controfesta in occasione dei cinquant’anni del giornale. L’intenzione, dichiarata, del gruppo Gedi, dell’azionista di Exor,  è chiara. Si predilige la via “greca”. Repubblikas.

Kyriakou viene ritenuto da Gedi un editore affidabile, le sue ambizioni concrete e reali perché rispetta le richieste di indipendenza e pluralità. L’operazione per alcuni viene data per chiusa, per altri è alle battute finali, per tutti, l’annuncio della possibile cessione non arriverà prima della festa dei cinquant’anni, il 14 gennaio 2026. Al momento di ufficiale c’è una trattativa, in esclusiva, con Kyriakou, scaduta il 30 novembre e riprorogata. Quello che non è mai stato scritto è che Kyriakou si è mosso da editore puro. Ha informato il governo. Ha cercato un’interlocuzione con Palazzo Chigi, e l’avrebbe avuta, per spiegare il suo piano, gli investimenti. Chi è Kyriakou? Viene da una famiglia di editori, è il figlio che si occupa solo di media. E’ un editore che non ama gli spifferi, neppure la formula “fonti”. Intende investire sul gruppo Gedi, in particolare sulle radio, perché è convinto che sia un business redditizio. E’ dell’opinione che sia necessario possedere più piattaforme: radio, quotidiani. Nel suo progetto italiano manca solo una rete televisiva e non si esclude possa essere uno dei prossimi obiettivi. In Italia ha come riferimento, come esempio da seguire, Urbano Cairo. Quando la trattativa per l’acquisto di Gedi è stata resa nota e si è iniziato a parlare di veti e golden power, Kyriakou ha scelto di muoversi istituzionalmente. Non si può usare la formula “fonti”, che all’editore greco non piace, e non si può usare neppure “chi è vicino al dossier”. Si usa dunque la formula, all’italiana: si parla. Si parla (e con verifiche) di contatti fra l’editore ed esponenti di primo piano del governo, sottosegretari. Sarebbero state conversazioni franche. L’investimento ha spiegato Kyriakou è interamente del gruppo, non ci sono fondi stranieri. Il governo non si è dichiarato ostile.

Si virgolettano parole di chi lavora e conosce la trattativa: “Kyriakou investe solo se gradito al paese dove investe altrimenti si sarebbe già dileguato”. Nelle interlocuzioni fra l’editore e i rappresentanti istituzionali sarebbero state formulate domande sulla linea editoriale. Kyriakou avrebbe risposto che non si snatura un giornale ma che servono quotidiani ordinati. I suoi modelli di sarebbero Le Monde e El Paìs. Vuole un giornale internazionale che si trasformi nel portale italiano nel mondo, con la versione in lingua inglese. La sua comunicazione, parca, è stata affidata all’agenzia Comin & Partners. Kyriakou ha già rilevato altri media risanandoli (Bulgaria, Inghilterra). In Italia punterebbe solo su un quotidiano, Repubblica. Gedi possiede anche La Stampa. I giornalisti di Repubblica, in assemblea, hanno sollevato dubbi. Parte della redazione preferirebbe la proposta di Del Vecchio, rigettata da Gedi, perché sarebbe  rispettata “l’italianità”. Oltre al gradimento del governo, Kyriakou ha il gradimento di Exor. Si vuole cedere un asset  ma con “responsabilità”, come già fatto con Iveco rilevata da  Tata.  Kyriakou per Exor rispetta il parametro della responsabilità. Del Vecchio si sarebbe mosso tardi. Nel mondo sconquassato di Trump cambiano frontiere e mutano i  media. Paramount è contesa da Warner e Netflix e Trump sogna, attraverso Paramount, di stravolgere la Cnn. In Italia un editore che rispetta i patti di non divulgazione sta provando ad acquistare un giornale che la sinistra non ha saputo difendere, maltrattato da chi lo ha ereditato, impoverito da chi voleva farne il Corriere e non è riuscito a farne neppure la mezza Repubblica di Ezio Mauro. Le firme sono state nascoste, l’allegria è nelle pagine del meteo, la polemica si fa nelle rubriche, le feritoie del pensiero laterale. L’unica che aveva capito come sarebbe andata a finire una Repubblica è stata Meloni. Kalispera, Repubblikas.


Com’è antica la guerra


(di MICHELE SERRA – repubblica.it) – Le foto aeree di Gaza mostrano una distruzione quasi totale. Metro per metro, un annientamento che si estende oltre l’orizzonte. Una visione da evo antico, quando la presa di una città spesso valeva la sua cancellazione fisica, così che i superstiti non potessero fare altro che andarsene. Molte città (una per tutte, Venezia) sono state fondate da profughi in fuga dagli invasori, ma non risulta che per i gazawi questo sbocco sia verosimile. Rimangono lì, sulle loro macerie, con tende e materassi piazzati laddove c’erano muri, pavimenti, cucine, mobili. In una condizione primordiale: primordiale come la distruzione e come la tenacia della vita.

I discorsi sulle guerre a noi contemporanee sono intrisi di tecnologia, i droni, l’intelligence, la sofisticazione dei sistemi di difesa e di offesa. A cose fatte, però, ci sono montagne di cadaveri sotto montagne di macerie, come dall’alba dei tempi, i villaggi che bruciano, le città distrutte, la cenere e la polvere che assorbono e calcificano la carne e il sangue.

La vera opposizione ideale alla mostruosa riqualificazione di Gaza come resort turistico sarebbe lasciarla tale e quale, una specie di enorme museo a cielo aperto della guerra. Da visitare con le scolaresche in fila indiana, chilometri nel nulla, una città sbriciolata. È un’ipotesi puramente teorica, l’impulso umano a ricostruire e ricominciare a vivere è incontenibile. E alla rimozione delle macerie si somma, come è normale, la rimozione del dolore, perché la vita deve continuare. Ma quasi dispiace che una testimonianza così precisa e lampante del potere di distruzione degli uomini possa scomparire. Un museo fatto solo di quelle foto e di quelle macerie basterebbe a fare di Gaza (come Leningrado, come Dresda, come Hiroshima) una città simbolo.


AI e droni, a Gaza si è combattuta la prima guerra robotica della storia


Yaron Sarig, responsabile delle ricerche tecnologiche del Ministero della Difesa israeliano, ha fornito le prime informazioni sull’impiego di armi guidate dall’intelligenza artificiale durante le operazioni contro Hamas nella Striscia. In un video ha mostrato alcuni dei sistemi usati come bulldozers senza uomini alla guida

AI e droni, a Gaza si è combattuta la prima guerra robotica della storia

(di Gianluca Di Feo – repubblica.it) – Una guerra disumana, letteralmente: “Quella di Gaza è stata la prima guerra robotica della Storia”. Così l’ha definita Yaron Sarig, responsabile delle ricerche tecnologiche del Ministero della Difesa israeliano. Lo ha fatto all’Università di Tel Aviv durante la Defence Tech Week, tenendo una conferenza intitolata: “Robot e intelligenza artificiale: dalla teoria al campo di battaglia”. Sarig ha fornito le prime informazioni sull’impiego di armi guidate dall’AI durante le operazioni contro Hamas nella Striscia, spiegando che sono state frutto di “vent’anni di ricerche”. In un video ha mostrato alcuni dei sistemi usati durante la campagna a Gaza: bulldozers e veicoli blindati M113 senza uomini alla guida, oltre a piccoli veicoli a otto ruote motrici, alcuni dei quali dotati di mitragliatrice.

L’orchestra degli automi

Sono solo una parte della falange di automi schierati dalle Israeli Defence Forces per penetrare nei centri abitati palestinesi durante la lunga e devastante operazione nella Striscia. Quello che Sarig ha sottolineato non è il ruolo dei singoli robot, quanto la capacità di farli agire tutti insieme “come un’orchestra”. Squadre di M113 senza equipaggio che si coordinavano per aprire una strada all’interno di una zona abitata; mezzi ruotati telecomandati che rifornivano di cibo e munizioni i reparti appostati in basi fortificate all’interno delle città. “Abbiamo visto questi assetti operare in praticamente tutti i reparti”, ha spiegato Sarig, sottolineando che sono in grado di agire anche dove le coordinate Gps vengono azzerate dalle contromisure e che dispongono di “un certo numero di sensori di nuovo tipo”.

Controllo totale sulla Striscia

Questa onnipresenza dei robot è stata agevolata dal flusso colossale di dati raccolti dagli israeliani grazie a “decine di migliaia di ore di volo” dei droni in aria e “migliaia di ore di attività“ di macchine autonome presenti sul terreno. Molti analisti ritengono che sia proprio la capacità di gestire in sciame i sistemi unmanned il settore in cui Israele ha una superiorità rispetto a qualsiasi altro Paese. Gli ucraini e in misura minore i russi hanno impiegato droni volanti e terrestri in manovre combinate, oltre a sviluppare coppie di mezzi che interagiscono tra cielo e suolo. Ma riescono a farlo solo in spazi ristretti e per periodi limitati. A Gaza invece la falange delle macchine autonome è stata sempre in azione, garantendo il controllo della Striscia pure nelle zone dove i soldati e i tank non riuscivano a penetrare. Questo ha ridotto i rischi per i militari in carne e ossa, che hanno affidato ai droni qualsiasi attività pericolosa. Si è visto pure nei filmati dell’uccisione del capo di Hamas, Yahya Sinwar: il terrorista ferito – e non riconosciuto – è stato avvicinato da un quadricottero, contro cui ha tirato un bastone, e poi ammazzato sparando una cannonata.

L’esercito dell’AI

Sarig non ha parlato di alcuni episodi emersi durante il conflitto, come l’uso degli M113 robotizzati e imbottiti di esplosivo per far saltare in aria interi isolati di Gaza City durante l’ultima fase della guerra. Il responsabile del ministero della Difesa ha anticipato altri sviluppi: “Siamo solo all’inizio di questa rivoluzione. Nei prossimi anni, spinti dalle necessità operative, espanderemo in maniera significativa le nostre capacità operative. I robot serviranno come ponte decisivo verso il mondo dell’intelligenza artificiale che, guardando al futuro, sarà integrata in ogni armamento e nelle dotazioni di ogni soldato”. Nella stessa conferenza il generale Oren Giber, responsabile del direttorato del ministero della Difesa che si occupa di mezzi corazzati ha presentato quali saranno i carri armati israeliani del 2030: ogni tank sarà accompagnato da un gregario-robot, che potrà anche lanciare piccoli droni volanti e combattere sincronizzandosi con il resto delle forze.

Le unità Bina e Sphera

La scorsa settimana Israele ha annunciato la nascita di una nuova branca del ministero della Difesa che dovrà gestire tutte le iniziative nel campo dell’AI: è stata chiamata Bina, il termine ebraico per intelligence, e avrà alle dipendenze le strutture già esistenti. Il generale Aviad Dagan, capo della rete di comunicazione e cyber, ha detto che l’obiettivo è costruire una “macchina efficiente” per i decenni a venire: “Trasformerà un tank in cento carri armati, un soldato in cento combattenti”. La testata online Ynet ha spiegato che è stata creata anche un’unità segreta chiamata Sphera che si occupa di comunicazioni strategiche ma ha assorbito il reparto incaricato delle contromisure elettroniche che hanno fermato un quarto dei droni lanciati contro Israele negli ultimi due anni. Un altro raggruppamento – la Manpower Building Division – condurrà i processi di preparazione delle forze, incluse le collaborazioni digitali all’interno delle IDF e dell’industria nazionale e internazionale. Tutte queste trasformazioni organizzative sono basate soprattutto sull’esperienza della guerra contro l’Iran, mentre non viene fatta menzione dei bombardamenti su Gaza.

Le stragi decise dai software

Nei due mesi immediatamente successivi ai massacri jihadisti del 7 ottobre 2023, l’utilizzo di sistemi di intelligenza artificiale da parte delle IDF per individuare e localizzare i membri di Hamas è stato rivelato da più inchieste giornalistiche israeliane e statunitensi che hanno messo in luce una serie di gravissimi errori, sia nell’accertare il ruolo di singole persone nell’organigramma della formazione terroristica sia nel valutare il numero di civili che sarebbero stati messi a rischio dagli attacchi aerei. Questi software avrebbero contribuito a uccidere 15 mila palestinesi entro il 25 novembre 2023, un quarto di quelli ammazzati nei successivi 21 mesi stando ai dati del ministero della Salute di Hamas. L’impiego degli algoritmi per decidere chi colpire e per calcolare i civili presenti nell’area è stato successivamente ridotto, rafforzando le verifiche affidate a personale dell’intelligence. Il ritmo dei bombardamenti è statisticamente diminuito: il risultato finale – 65 mila morti e 165 mila feriti – resta terrificante.


Trump ha sedotto i poveri per dare ai ricchi


(di Edward Luce – il Financial Times) – Musk e Trump sono destinati a restare vicini. In quanto principale broligarch d’America, Musk è troppo scintillante perché Trump lo ignori a lungo.

Musk può flirtare con un terzo partito, denunciare la sconsideratezza fiscale di Trump e persino sostenere che Trump abbia ragioni personali per sopprimere i file Epstein, ma il figliol prodigo può sempre trovare la via del ritorno.

Hanno troppi nemici in comune. Lo stesso vale per Trump e il resto della “broligarchia”. Quando gli storici valuteranno quest’era del populismo americano, i plutocrati della Silicon Valley saranno quasi certamente considerati i suoi vincitori.

La base operaia di Trump sembra iniziare a capirlo. Sebbene ora dica di volerle rilanciare, il presidente USA ha praticamente smesso di tenere comizi MAGA. Eppure, non passa giorno senza che sia in qualche modo appartato con uno dei suoi alleati della Silicon Valley.

Oltre a Musk, David Sacks, lo zar dell’AI della Casa Bianca, e Jensen Huang, CEO di Nvidia, sono raramente lontani dallo Studio Ovale. Ottengono ciò che vogliono. Trump prevede di emettere un ordine esecutivo che vieti ai 50 Stati americani di regolamentare l’AI.

Ci dovrebbe essere una sola norma nazionale e nient’altro, dice. Poiché non c’è alcuna prospettiva di regolamentazioni federali serie, le aziende dell’AI continueranno ad avere carta bianca.

La corsa all’oro dell’AI ha sostenuto la crescita statunitense, quasi la metà della quale quest’anno è derivata dall’alimentare i modelli linguistici di grandi dimensioni. Ma non sta andando a genio all’elettore medio.

Una profonda diffidenza verso l’AI è uno dei pochi temi che unisce elettori repubblicani e democratici.

Alcuni americani attribuiscono correttamente l’aumento delle bollette elettriche all’impatto dei data center energivori dell’AI. Molti temono che l’AI li priverà di lavoro e reddito.

Più l’AI si infiltra nella vita delle persone, più sarà difficile dare la colpa agli immigrati per le loro disgrazie. La distante Europa offre un capro espiatorio ancora più debole. Il costo della cattura di Trump da parte della Silicon Valley si riflette nel calo dei suoi indici di gradimento.

Se Trump seguisse il mercato, si concentrerebbe sul costo della vita. È ciò che ha trainato le vittorie democratiche nelle elezioni intermedie dello scorso mese e potrebbe essere decisivo per le elezioni di metà mandato del prossimo novembre.

Eppure Trump continua a liquidare la crisi dell’accessibilità come fake news. Avvicinandosi al suo 80º compleanno, la sua capacità di leggere l’opinione pubblica sembra diminuire.

Un numero crescente di repubblicani ora si sente in grado di opporglisi. Il ritiro di Marjorie Taylor Greene dal Congresso è un modo per evitare il treno elettorale che vede arrivare. La sua mossa è stata anche una candidatura al futuro del movimento MAGA, che contrapporrà sempre più la base ai broligarchs.

La base ha più persone, ma sarebbe comunque intelligente puntare sui broligarchs. Con fugaci eccezioni rooseveltiane, l’odissea capitalista americana riguarda i proprietari del capitale che trovano modi per mettere gli svantaggiati del lavoro gli uni contro gli altri. Le linee di faglia sono razziali e culturali.

Data la potenza delle piattaforme tecnologiche nel trasformare le divisioni sociali in armi, le probabilità che continuino a riuscirci sono alte. La base MAGA ha creduto a Trump quando ha promesso di abbassare i prezzi e di inaugurare una nuova età dell’oro. Chi può dire che non continuerà a cascarci? Gli effetti delle guerre tariffarie di Trump hanno colpito i loro bilanci familiari, ma hanno lasciato Big Tech largamente indenne.

Eppure i baroni predoni americani del XXI secolo offrono un bersaglio politico irresistibile. Dopo essere stati i promotori della Silicon Valley sin dai tempi di Bill Clinton, i democratici stanno vivendo un rimorso latente.

Invece di essere una meteora politica, Zohran Mamdani, il nuovo sindaco di New York, sembra più un possibile apripista. Anche i centristi, come James Carville, il responsabile della campagna “è l’economia, stupido” di Clinton, suonano radicali. “È tempo che i democratici abbraccino una piattaforma ampia, aggressiva, non edulcorata, senza scuse e del tutto inequivocabile di pura rabbia economica”, ha scritto Carville sul New York Times. “Questa è la nostra unica via d’uscita dall’abisso.”

L’Europa, nel frattempo, ha ricevuto tutti gli avvertimenti. Negli Stati Uniti, Trump ha lasciato ai broligarchs campo libero. Dall’altra parte dell’Atlantico, vedono solo ostacoli da eliminare.


Trump vuole un diritto internazionale su misura


(ANSA) – WASHINGTON, 10 DIC – L’amministrazione Trump vuole che la Corte penale internazionale (Cpi) modifichi il suo documento fondativo per garantire che non indaghi sul presidente repubblicano e sui suoi alti funzionari, minacciando altrimenti nuove sanzioni contro la corte: lo scrive la Reuters citando un dirigente del governo Usa.

Se la corte non darà seguito a questa richiesta e ad altre due – interrompere le indagini sui leader israeliani per la guerra di Gaza e porre formalmente fine a una precedente indagine sui militari Usa per le loro azioni in Afghanistan – Washington potrebbe penalizzare ulteriori funzionari della Cpi e sanzionare la corte stessa.

Sanzionare la corte rappresenterebbe un’escalation significativa della campagna statunitense contro la corte, che è stata a lungo criticata da funzionari statunitensi, sia repubblicani sia democratici, i quali sostengono che la corte violi la sovranità degli Stati Uniti.

La fonte ha detto che Washington ha comunicato le sue richieste ai membri della Cpi, alcuni dei quali sono alleati degli Stati Uniti, e le ha rese note anche alla corte. Gli Stati Uniti non sono parte dello Statuto di Roma che ha istituito la Cpi nel 2002 come tribunale di ultima istanza, con il potere di perseguire anche i capi di Stato.


Corruzione, una piaga mai sanata…


(Dott. Paolo Caruso) – Ieri 9 dicembre è stata celebrata la giornata internazionale contro la corruzione, ricorrenza annuale voluta dalle Nazioni Unite dal 31 ottobre 2003 per sensibilizzare la società sulla importanza di combattere questo fenomeno. Questa piaga molto diffusa mina le Istituzioni e i valori della democrazia, i valori etici e della giustizia, provocando serie minacce alla stabilità e alla sicurezza sociale. Infatti permette alla criminalità organizzata, a personaggi legati al Potere e a certa imprenditoria di lucrare e di distorcere il mercato, violando i diritti umani, erodendo la qualità della vita. Quest’anno l’ apposita graduatoria internazionale della corruzione vede l’ Italia scivolare di dieci posizioni, al cinquantaduesimo posto su centoottanta. Libera ha censito da notizie di stampa 96 casi di corruzione e concussione nei primi undici mesi del 2025, con un incremento sensibile rispetto allo scorso anno. Un quadro allarmante che interessa l’ Italia intera da nord a sud.
Corruzione e evasione rappresentano il modus operandi di una società perversa come quella dell’italica gente, le due facce illegali della stessa “moneta”. Un tarlo che a poco a poco ha logorato il telaio socioeconomico della Nazione, alterando le stesse regole del vivere civile. Un vero e proprio cancro la cui capillarità è diventata oggi un vero problema sociale. L’evasione fiscale (100 miliardi di euro l’ anno sottratti al fisco) e la corruzione (in maniera più subdola) sono aumentate notevolmente nel corso degli anni e nulla o poco è stato fatto per ridurre il fenomeno. Anzi con la “Schiforma” Cartabia e con la riforma Nordio si sono favoriti tali episodi. Opportunità corruttive che hanno permesso di depredare sempre più soldi alla collettività a favore di insospettabili “maneggioni”. A volte le classi imprenditoriali che dovrebbero rappresentare gli interessi e le fondamenta di crescita economica di una Nazione sono le prime ad attuare fenomeni corruttivi cercando di accaparrarsi più facilmente appalti nella pubblica amministrazione. Un sistema perverso che porta spesso a stringere accordi con le mafie. Basterebbe che l’ attuale politica del “fare” invece di strombazzare a destra e a manca terapie miracolose per la risoluzione definitiva di questa piaga sociale, attuasse finalmente riforme efficaci in grado di contrastare la corruzione, l’evasione in tutte le sue componenti, “economia sommersa” e “riciclaggio”, che si potrebbe porre la parola fine a questo sistema che incoraggia e continua a privilegiare politici, imprenditori e malavitosi.


Ratatà


(Giancarlo Selmi) – “Donne sull’orlo di una crisi di nervi”. Il titolo di un bel film di Pedro Almodovar. Da oggi, ma non solo, categoria alla quale andrebbe assegnata la Ridens Panella. Perché, francamente, dopo aver visto lo spettacolo offerto oggi dalla sua trasmissione ma, soprattutto, il suo atteggiamento, fra risate che definire sguaiate pare tutt’altro che un’esagerazione e squallidi, rivoltanti e violentissimi attacchi, peraltro in assenza, a Giuseppe Conte e all’intera comunità del Movimento 5 Stelle, il sospetto che fosse in preda a una crisi di nervi, è forte.

Fra ironie tutt’altro che sottili, non ne è capace, e accuse di vario tipo mosse in collaborazione con il pessimo Goffredo Buccini e il sempre più comico (involontariamente) Senaldi, in una sorta di compromesso storico fra un fascio, un democristiano di destra e una fervente sostenitrice di una inesistente, oltre che pseudo, sinistra un tanto all’etto di caviale. I tre appassionatamente uniti dal disprezzo verso chi non la pensa come loro. E questa volta non si è salvato neppure l’elettorato del Movimento 5 Stelle, dileggiato e offeso.

L’elettore, quindi anch’io, paragonato a quello della lega, con un’approssimazione, una leggerezza e una più che evidente ignoranza. Secondo la tesi di Buccini e della Ridens Panella, tesi sottolineata e confermata non solo dagli assentimenti, ma anche dalle inutili e volgari risate di quest’ultima, il sottoscritto, insieme a chiunque voti il Movimento, sarebbe vicino e somigliante a un elettore della Lega. Mi chiedo fino a quando a un giornalista televisivo verrà consentito di offendere e di mortificare in questo modo.

Oggi si è veramente toccato il fondo. Posso capire l’innamoramento della Ridens per la guerra, anche quello per uno dei principali guerrafondai; posso capire che lei voglia manipolare e portare sulle sue posizioni i telespettatori perché così la pensa, così prende il bonifico, così gli sarà stato ordinato, ma ridicolizzare in quel modo, umiliare in quel modo, la passione, le idee, le convinzioni di una comunità politica intera, fatta di milioni di persone pensanti, sottolineo pensanti, è un’operazione tanto squallida, tanto di retroguardia, quanto fascista. Andrebbe querelata.

Il gabinetto di guerra di oggi ha prodotto intolleranza, dualismo, manicheismo e una totale mancanza di rispetto. Negli studi di Tagadà la guerra è cominciata, ma non solo ai russi, la guerra è stata dichiarata alla pace, al pacifismo e a chi non la pensa come la ridente conduttrice. Le consiglio di cambiare il nome della trasmissione da Tagadà a Ratatà, sarebbe un titolo molto più azzeccato.


In pochi giorni due scandali sanitari: finirà mai il mercimonio dei pazienti?


(Domenico De Felice, Medico) – Ci risiamo. In due giorni due scandali enormi nella sanità a distanza di 600 chilometri. Un comune denominatore: la mancanza di controlli adeguati sulle prestazioni sanitarie, pubbliche e private. Un sistema senza fine in cui il paziente non è l’unico beffato, per l’assistenza medica confusa con il guadagno, ma anche il Sistema Sanitario Nazionale viene utilizzato per “deviare” verso il privato ed il cittadino, se paziente, ci casca due volte nella stessa falla.

Partiamo da Milano e dal fiore all’occhiello del gruppo San Donato, il privato accreditato più grande ed influente d’Italia con capitali anche arabi. Al San Raffaele è stata usata una cooperativa di infermieri al terzo piano nella zona della medicina di cure intensive senza esperienza clinica con conseguenti elevati rischi per il paziente. La scelta è stata del nuovo, ma già allontanato, amministratore delegato posto solo a maggio ai vertici della struttura. Come si può far scegliere professioni mediche ad una persona che conosce, forse, solo ruoli amministrativi e di guadagno per l’azienda?

Ora parliamo di Roma e di un caso forse ancora peggiore. Un primario di un ospedale pubblico è stato arrestato in flagranza di reato mentre riceve da un imprenditore 3.000 euro in contanti ma gliene vengono contestati 700.000 fra soldi, auto di lusso, affitti, vacanze da sogno e contratti di lavoro per la sua compagna, medico specializzanda.

In questo caso venivano “sfruttati” pazienti nefropatici convogliati, dopo il ricovero ospedaliero, verso dialisi in strutture private con cui – secondo le accuse – il primario aveva instaurato un vero e proprio do ut des, ben sapendo che le nuove linee guida consigliano per il paziente di organizzare a domicilio questo importante tempo da dedicare alla pulizia del sangue fonte di vita. In Europa circa il 35% dei dializzati esegue la dialisi a domicilio confronto a circa il 9% italiano con evidente risparmio del Sistema Sanitario nazionale e degli infermieri che possono essere destinati ad altro.

Ma finché medici che si devono vergognare di esserlo continueranno a rimanere impuniti, fra lunghezze burocratiche della magistratura e deficienze degli ordini dei medici, non abbiamo possibilità. Passerà del tempo, si dimenticherà, nessuna punizione adeguata verrà inflitta per il mercimonio dei pazienti che diventono oggetti, non soggetti, tutto fino alla prossima volta. Senza fine.


Il governo tutto “ordine e disciplina” ha fatto incazzare anche… le forze dell’ordine


La delusione delle forze dell’ordine. Andranno in pensione più tardi. Sei mesi in più dal 2028: il governo dice no alla richiesta di stop dei sindacati del comparto sicurezza. Malumori anche su stipendi e organici. Silp Cgil: “Occasione persa”

INCONTRO A PALAZZO CHIGI TRA GOVERNO E SINDACATI DEL COMPARTO SICUREZZA

(di Valentina Conte – repubblica.it) – ROMA – Non è solo la Cgil a dire che l’incontro di ieri tra il governo e i sindacati del comparto sicurezza è stato «un’occasione persa, solo promesse». Tutte le sigle – ben 46 in rappresentanza di forze armate, polizia di Stato, carabinieri, guardia di finanza, polizia penitenziaria e vigili del fuoco, per un confronto durato quasi quattro ore a Palazzo Chigi – concordano su un punto: no ai sei mesi in più per andare in pensione dal 2028. E chiedono al ministro dell’Economia Giancarlo Giorgetti, presente al tavolo insieme ai ministri Piantedosi e Zangrillo, di cancellare la norma in manovra. La risposta su questa e altre richieste è stata negativa.

In pensione più tardi dal 2028: sei mesi in più

Il rifiuto sull’articolo 42, che porta l’età pensionabile in alto anche per chi lavora in strada, ha unito sigle tradizionalmente distanti tra loro. «Non è tollerabile che a chi ha servito lo Stato per trent’anni venga riservata una pensione da indigente», attacca il Coisp, sindacato vicino all’area Fratelli d’Italia. «L’aumento è in spregio alla specificità della divisa prevista dalla legge 183 del 2010», incalza il Sap, collocato in area Lega. Il Siulp, di area centrodestra, si unisce criticando l’assenza di impegni concreti. Mentre Silp Cgil, contrario alla manovra in più punti, definisce l’incontro «un nulla di fatto» e annuncia che i poliziotti, liberi dal servizio, aderiranno allo sciopero generale di venerdì 12.

Oltre alla pensione, il fronte delle critiche si allarga su straordinari non pagatiindennità ferme a 8 euro al giorno per l’ordine pubblico e organici carenti. «È urgente sbloccare i pagamenti del lavoro straordinario del 2024 e 2025», dice ancora il Coisp. Il Sap chiede «il ripianamento degli organici carenti di circa 10mila unità» e contesta «spese di missione tassate nonostante siano anticipate di tasca propria dagli operatori».

Per i vigili del fuoco, la Cisl Fns rivendica l’aumento delle risorse e la tutela della salute dopo l’allarme sulla presenza di sostanze cancerogene Pfas nei dispositivi di protezione. Altra richiesta emersa, quella di separare tavoli e regole negoziali tra sicurezza e difesa, sia per funzioni differenti sia per evitare che le logiche militari prevalgano sulle carriere e sulle previdenze delle forze civili. «Non si può trattare con lo stesso approccio comparti con missioni e ordinamenti profondamente diversi», avvertono i sindacati di polizia, vigili del fuoco e penitenziaria.

Le non risposte del governo

Sul fronte delle risorse, il governo rivendica i fondi aggiuntivi già stanziati dalle manovre precedenti. E che «nuovi spazi potranno aprirsi solo dopo la chiusura della procedura europea per deficit eccessivo». Cita il decreto Anticipi, che copre straordinari e un semestre di arretrato contrattuale. Ricorda le 2mila assunzioni nella polizia penitenziaria e il piano da 11mila posti nelle carceri entro il 2027. Ma sulla previdenza dedicata e sull’aumento dell’età pensionabile, chiusura netta. Il governo non modifica la linea della manovra. E quindi mezzo anno in più dal 2028.


Dentro Passaggio al Bosco: tra maschi tribali in tunica con lo spacco e i tacchi, legionari…


Ho visitato il sito di Passaggio al Bosco per dare un’occhiata al catalogo. Grafica da Foro Italico, omosessualità legionaria, e pochi autori di rilievo. Si trova di meglio nelle case editrici mainstream

(di Ottavio Cappellani – mowmag.com) – Come tanti altri lettori, non avevo mai sentito parlare di Passaggio al Bosco, così ho deciso di dare un’occhiata al sito di questa casa editrice che tanto ha fatto discutere e tanti litigi ha causato in queta edizione di Più Libri Più Liberi. Non è stato facile: il sito è tornato più o meno praticabile oggi. Fino a ieri, evidentemente, il server che lo ospita non era in grado di gestire questo flusso anomalo di visite, e per prima cosa mi appare un’avvertenza che recita: “Info dal magazzino. A causa delle centinaia di ordini pervenuti, l’evasione degli stessi richiederà 48/72 ore più del solito”: complimentoni al boicottaggio!
In home page, i primi quattro titoli che compaiono sotto la dicitura Bestsellers (nota: le parole straniere in italiano si scrivono sempre al singolare, quindi dovrebbe andare via quella “s”, e non si capisce perché non usare la dicitura “i più venduti”: state tanto a parlare di identità nazionale e poi “bestsellers”, col sibilo finale). Il più venduto in assoluto, tanto da essere “esaurito”, è “L’ultima raffica” di Antonio Guerin (che a me sembrava uno pseudonimo, dato “Il Guerrin Meschino”, titolo di un’opera cavalleresca del 1410 di Andrea da Barberino, da cui prese il nome anche “Il Guerin Sportivo”, per sottolineare l’indole battagliera del giornale) ed è “il racconto, tormentato e commovente, di una pagina di storia della guerra civile. È la cronaca romanzata dell’eroica resistenza degli ultimi fascisti: un pugno di giovani volontari delle Brigate Nere, tra i quattordici e i diciannove anni, chiamati a presidiare un casolare tra le montagne del Nord Italia. Una storia di coraggio e di abnegazione che lascia ammutoliti, dove la vita e la morte si mescolano al senso dell’onore e al rispetto della parola data, all’amor di Patria e alla spartana volontà di donare se stessi”. Immagino che tutti conosciate i libri di Sven Hassel, una saga di romanzi di guerra i cui protagonisti sono nazisti, che cominciò con il bestseller “Maledetti da Dio” e che sono pubblicati da Rizzoli. Magari, chi cerca romanzi d’armi e di battaglie narrate da un punto di vista tedesco, potrebbe preferire “Nelle tempeste d’acciaio” di Ernst Jünger: «Un insopportabile lezzo di cadaveri si levava da quei ruderi, perché i primi bombardamenti avevano sorpreso gli abitanti nelle loro case, seppellendone un gran numero sotto le macerie prima ancora che avessero avuto il tempo di allontanarsi e di mettersi in salvo. Una bambina giaceva davanti a una porta in un lago di sangue».
Altro titolo che campeggia tra i bestseller(s) è “Psicologia Oscura – Sesso e Seduzione”. L’autore si fa chiamare “Diventa Semidio” (Diventa, nome; Semidio, cognome) e dalla descrizione sembra, questo sì, “Cinquanta sfumature di grigio” venuto maluccio.

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Jack Donovan

Abbiamo ancora: “La Via degli Uomini”, di Jack Donovan, che (fonte Wikipedia, ma probabilmente Wikipedia fa parte del complottone per annientare l’uomo vero che non deve chiedere mai – magari un consensino ci vorrebbe, che dite – e che si spruzza il Denim) è stato in vari momenti suprematista bianco, per la privazione dei diritti delle donne (hai capito), è stato affiliato ai Lupi di Vinland, associazione neopagana norrena. Ovviamente gli piace fare ficchi ficchi con altri uomini, ma ha voluto ribaltare il concetto di gay, nel libro “Androphilia: A Manifesto: Rejecting the Gay Identity, Reclaiming Masculinity”; insomma, lui non è gay ma è amico dei maschi. Ha lavorato nei gay club come ballerino, ha scritto di argomenti legati al satanismo (immagino come traslitterazione moderna della vikinghitudine), si è definito “tribalista maschile” (molto ficchi ficchi) e ha promosso una versione della supremazia maschile che si concentra sul suo odio per l’“effeminatezza”, il femminismo e la debolezza, insomma tutta quella estetica un po’ legionaria, un po’ Foro Italico (più nel senso di foro che nel senso di italico) che ben conosciamo, ma che infine, voglio dire, sono gli operai sudati muscolosi, e i poliziottoni e gli indiani… insomma è un Village People. La prefazione è di Francesco Borgonovo. Olè.
Si finisce la rassegna dei bestsellers con “L’inganno antirazzista”, solito libro contro il multiculturalismo che ucciderebbe l’identità dei popoli (cose che, essendo siciliano, mi interessano poco: qui siamo tutti un po’ imbastarditi).

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La via degli uomini, di Jack Donovan, con la prefazione di Francesco Borgonovo

Vabbè, questo, accompagnato da una grafica sempre molto Foro Italico–legionaria, dovrebbe essere un po’ il “mainstream” della casa editrice: nostalgici guerriglieri che ricordano al bar quando erano in guerra e come erano battaglieri e feroci; culturisti che con la scusa della “tribù” e dell’antifemminismo giocano alla cavallina tra loro (anche se loro sostengono – legittimamente – che giocare alla cavallina tra maschi è una maniera per tornare alle vere radici dell’identità maschia e guerriera – suppongo); un po’ di Mister Gray che sottomette Anastasia; un po’ identità italica pura DOC, DOCG e pure DOP.
Niente che potesse interessarmi davvero.
Così ho fatto un giro nelle numerose collane, dove si fa dall’arte battagliera a quella guerrigliera urbana: sport, molto sport, così ti viene il corpo sano intorno alla mente sana; vari riti del solstizio, inni al sole, tuniche, tunichette, falò, spiriti vari della terra, tradizioni e certo molte radici, ritorni e controritorni, il tutto sotto l’egida di questo nome “Passaggio al Bosco”, che altro non è che il titolo di un libro di Ernst Jünger, pubblicato da Adelphi con il titolo “Trattato del Ribelle”.
Ecco, saliamo un po’ di livello. Diciamo che non ho trovato nulla che potesse completare la lista degli autori che conosco bene, e che ho trovato tranquillamente in case editrici molto meno right oriented. Carl Schmitt l’ho letto in Adelphi e in edizioni Il Mulino. Martin Heidegger viene pubblicato ovunque. Ernst Jünger anche. Gottfried Benn molto in Adelphi, Mircea Eliade molto in Bollati Boringhieri, e anche Jaca Book, e qualche Edizioni Mediterranee. Ezra Pound – andiamo veloce – Louis-Ferdinand Céline, Julius Evola, René Guénon, Emil Cioran, Georges Bataille, persino Knut Hamsun si trovano editati e pubblicati in case editrici non schierate, o addirittura schierate a sinistra. Ecco, dopo quest’oretta trascorsa a passeggiare nel boschetto villoso di “Passaggio al Bosco”, sono rimasto con due impressioni.
La prima – certo, posso sbagliarmi – è che Zerocalcare legge solo fumetti. La seconda è che “Passaggio al Bosco” sia un po’ una Adelphi che non ce l’ha fatta.


Servilismo meloniano


Questa mattina i giornali governativi esaltano la Meloni perché ha incontrato Zelensky e questo la renderebbe “centrale nella politica internazionale e nella diplomazia”.

(Alessandro Di Battista) – Questa mattina i giornali governativi esaltano la Meloni perché ha incontrato Zelensky e questo la renderebbe “centrale nella politica internazionale e nella diplomazia”. Siamo alle comiche. Come se incontrare Zelensky, ora debolissimo, fosse un segno di forza. La verità è che Meloni non ha mai toccato palla in questi anni sulla guerra in Ucraina e questa è una colpa che si porterà dietro per sempre.

È aiutata dal fatto che pochissimi politici e giornalisti le ricordano le sue immense responsabilità. Proprio per il rapporto storico che il nostro Paese ha sempre avuto con l’URSS prima e con la Russia poi, l’Italia avrebbe dovuto immediatamente scegliere la linea neutrale e proporsi come mediatrice nella guerra in Ucraina. L’Italia, lo ricordo, faceva affari con l’URSS anche quando il mondo era diviso in blocchi. Enrico Mattei, a parole elogiato dalla Meloni, comprava gas dai sovietici quando l’Armata Rossa invadeva Budapest o quando Mosca annunciava la costruzione del Muro di Berlino. Gianni Agnelli, il simbolo del capitalismo italiano, faceva affari su affari con Mosca mentre le guardie sovietiche sparavano ai tedeschi che cercavano di scavalcare il Muro. L’Italia era allora infinitamente più autonoma e sovrana di quella attuale. E la cosa ridicola è che questo governo di camerieri viene definito sovranista.

Nel maggio del 1966 venne firmato a Mosca un accordo tra Aleksandr Tarasov, ministro dell’industria automobilistica dell’URSS, e Vittorio Valletta, presidente della Fiat, per la realizzazione di un immenso stabilimento automobilistico a Togliatti, una città russa che si trova lungo il Volga. Il 2 febbraio del 1967, Nikolaj Viktorovič Podgornyj, Presidente del Presidium del Soviet Supremo dell’URSS, in visita ufficiale in Italia, visitò lo stabilimento Fiat di Mirafiori accompagnato da Andreotti, all’epoca ministro dell’Industria, e da Giusto Tolloy, ministro per il Commercio con l’estero. Venne accolto calorosamente dall’Avvocato Agnelli che volle ribadire la solidità delle relazioni industriali tra l’Italia e l’URSS. E gli affari proseguirono anche quando, a seguito della Primavera di Praga, i carri armati del Patto di Varsavia entrarono a Praga per sedare le sacrosante richieste di libertà dei giovani cecoslovacchi. Alcuni mesi dopo, un giovane studente cecoslovacco, Jan Palach, si diede fuoco per protestare contro l’occupazione sovietica del Paese. Ecco, mentre avveniva tutto questo, l’Italia faceva affari con Mosca.

Queste relazioni, solide, vantaggiose per entrambi, capaci di resistere anche ai venti più tragici della Storia, avrebbero dovuto spingere i governanti italiani a portare avanti una linea del tutto diversa da quella sostenuta nei primi anni di guerra da Biden e Ursula von der Leyen.

Ma prima Draghi e poi la Meloni non hanno fatto altro che ubbidire agli ordini NATO e UE, esponendo l’Italia ai contraccolpi economici ed energetici e al rischio di una sconfitta in Ucraina che la Meloni forse oggi ha capito che potrebbe trasformarsi in disfatta.

Oggi, soltanto oggi, e solo perché Trump ha compreso la realtà, la Meloni prova a smarcarsi da Bruxelles. Ma è la stessa Meloni che ha pubblicamente “scommesso sulla vittoria di Zelensky” decine di volte, che ha armato Kiev senza dire agli italiani cosa stessimo inviando. È la stessa Meloni che ha accettato di smettere di comprare gas russo e di sostituirlo con il gas liquido americano. È la stessa Meloni che, il 20 marzo del 2024, disse queste parole ridicole: “Putin durante il G20 sosteneva una tesi del tipo: noi vorremmo la pace ma gli altri non la vogliono, e gli ho risposto: è molto facile, ritiri le truppe e avrà la pace come lei ha voluto la guerra”. Avete letto bene. Nel marzo del 2024 sosteneva che c’era un modo per ottenere la pace: il ritiro di Mosca.

Ieri ha parlato con Zelensky di “concessioni dolorose”. Capito sì? Una delle artefici della sconfitta UE in Ucraina oggi suggerisce a Zelensky di cedere perché vuole il bacetto sulla fronte da Trump dopo aver ottenuto, come sempre grazie alla vile ubbidienza, quello di Biden.

La Meloni in questi anni non ha fatto nulla a parte ubbidire. Non ha mai avuto una linea propria. Quando la Casa Bianca sosteneva Kiev con armi e centinaia di miliardi lei stava dalla parte della Casa Bianca. Adesso che alla Casa Bianca c’è un presidente che per affarismo, amore per Putin, realismo e chissà, anche perché ha capito che la situazione potrebbe davvero degenerare, spinge per un negoziato, lei sta con la Casa Bianca. Ma vi dico questo: se le elezioni le avesse vinte la Harris (e grazie a Dio non le ha vinte lei) la Meloni oggi ubbidirebbe alla Harris come ha fatto a Biden, della quale la Harris era vicepresidente.

“Ora, questo tiranno solo non è necessario combatterlo, né abbatterlo. Si dissolve da sé, purché il Paese non accetti di essergli asservito. Non si tratta di togliergli qualcosa, ma di non dargli nulla”, scrive Étienne de La Boétie nel Discorso sulla servitù volontaria. Sono convinto che se l’Italia si fosse comportata davvero in maniera autonoma, davvero in maniera sovrana, non solo si sarebbe portata dietro altri Paesi UE che boccheggiano per via della guerra Russia-NATO in Ucraina, ma che alla fine la stessa Casa Bianca avrebbe accettato una maggiore indipendenza decisionale dell’Italia. Certo, la nostra sovranità è ancora limitata, ma siamo diventati colonia USA più per pavidità propria che per pressioni altrui. E la Meloni, la regina del finto sovranismo, è uno dei massimi artefici di questa fine ingloriosa del nostro Paese. E in tal senso è anche comprensibile che Trump tratti l’UE da serva, perché i servi vanno trattati da servi se preferiscono, per carriere personali, servire nazioni straniere piuttosto che i loro popoli.