Selezione Quotidiana di Articoli Vari

Io ballo da sola


Il solipsismo cieco di una Europa che non sa più vedere.

(Gianvito Pipitone) – Ci deve essere davvero qualcosa di guasto in questa Europa – o forse una polverina nefasta che aleggia sopra Bruxelles – se l’Alto Rappresentante per la politica estera, Kaja Kallas, arriva a dichiarare che “gli Stati Uniti sono ancora il nostro più grande alleato”. Lo ha detto al Doha Forum, il 6 dicembre 2025, proprio mentre la nuova National Security Strategy americana bollava l’Europa come un continente in declino, a rischio di “cancellazione della sua civiltà”.

Non è un dettaglio: il documento firmato da Donald Trump definisce l’Europa tecnicamente un avversario, accusandola di “aspettative irrealistiche sulla guerra in Ucraina”. Eppure Kallas, come immersa in uno dei suoi surreali viaggi onirici (per noi dal sapore di incubo), ha scelto di minimizzare, insistendo che “dobbiamo restare insieme”. Una postura che non sa di realismo, ma di naif, o di arrogante testardaggine, incapace di leggere la durezza del contesto attuale.

Non ha forse sentito Kallas che, dall’altro lato, Putin ha applaudito alla scelta degli Stati Uniti di riposizionarsi come paese non ostile alla Russia? Il presidente russo ha parlato di “pragmatismo e realismo” nella nuova amministrazione americana, esprimendo “speranza” per un reset delle relazioni.

E allora, come si può continuare a credere che l’Europa, isolata e fragile, possa ancora vincere una guerra che gli stessi (ex) alleati considerano un peso? Parlare così non è più ingenuità, né colpevole arroganza: è ostinazione cieca, un incedere sconsiderato che alla lunga si rivelerà fatale. Per la sua e la nostra stessa esistenza.

La misura è davvero colma stavolta. Non si tratta di un errore di comunicazione, ma di un segnale politico devastante: l’Europa insiste a proclamare alleanze che non esistono più, mentre dall’Est e dall’Ovest arrivano le arpie pronte a banchettare sul suo corpo istituzionale.

Il paradosso è che, proprio ora che l’Europa è rimasta sola, sarebbe un azzardo sfiduciare Ursula von der Leyen e l’intero cucuzzaro di Bruxelles: significherebbe consegnare le chiavi direttamente a Trump e Putin. Ma continuare a sostenere questa direzione equivale a prestare il fianco a chi, fuori e dentro, lavora per smantellare ciò che resta del progetto europeo.

Una cosa è certa: questa Europa non può più permettersi di vivere di illusioni. Né di giocare con il fuoco nemico. Le parole di Kallas, le minacce di Trump e l’applauso di Putin compongono un triangolo che dovrebbe far tremare i palazzi di Bruxelles. E invece, si continua a recitare la parte di chi non vede.

L’Europa ha bisogno di un passo indietro, abbandonando la postura guerrafondaia, se non vuole scomparire dalla faccia della terra. La minaccia di Trump è stata chiara: davvero abbiamo ancora bisogno di conferme dai nostri ex amici?

Occorre piuttosto invertire la rotta e lavorare a testa bassa per cambiare postura. Far emergere le capacità diplomatiche e usare il soft power per una buona ragione. Allo stesso tempo – come si è lasciato scappare Crosetto sui giornali in questi giorni -cominciare a diversificare la nostra strategia di difesa con un supporto esterno: Africa, paesi arabi, Giappone, India, perfino Cina. Diversificare strategicamente, senza più nasconderlo. Ammesso che Crosetto si riferisse all’Europa e non alle singole nazioni … Da soli, infatti, non si va più da nessuna parte. Spero che almeno questo sia chiaro ai singoli leader dei paesi europei.

Sarà probabilmente questo il nodo da affrontare nell’immediato futuro. Da europeista, anche se profondamente deluso, una chance all’Europa vorrei ancora darla. Anche se oggi non si intravedono nomi né figure in grado di salvarla, mentre il nazifascismo – annidato dentro l’Europa e da sempre solleticato da Trump – incombe minaccioso sulle democrazie già provate. Basti ricordare che, proprio questa settimana, come riporta Der Spiegel, una delegazione di AfD – il partito di estrema destra tedesca – è volata a Washington per consolidare i rapporti con i repubblicani vicini a Trump.

Insomma troviamo un gran bel regalo sotto l’albero di Natale, quest’anno. Non c’è che dire. Vae victi, diceva qualcuno. E non aveva tutti i torti.


Fino a quando?


(Dott. Paolo Caruso) – “Quousque tandem, Catilina, abutere patientia nostra?”. Così parlò Cicerone, ai Senatori romani, contro lo sciagurato Catilina, che attentava all’unità della Repubblica. Oggi quel personaggio lo incarna pienamente Trump, che continuamente umilia la nostra dignità. Vuole che la già fragile Unione Europea si sciolga, definendola fallita ed entro i prossimi vent’anni inesistente. Suo motto è l’ antico “Dividi et impera ” ( dividi e comanda ). Così fa, approfittando delle divisioni dei Paesi della UE utilizzando le sponde sovraniste, pronte a “scroccare” miliardi di euro, e poi a logorare le stesse Istituzioni dall’interno. Purtroppo dopo secoli di storia l’orgoglio civico di Cicerone non è più riscontrabile meno che mai nella Presidente della Commissione europea, Ursula von Der Leyen e nei vertici di Strasburgo. Questi ” Invertebrati ” oltre che subire personalmente lo scherno dal Tycoon, lasciano che oltre quattrocento milioni di cittadini europei vengano umiliati da un farfallone pluri condannato e sciaguratamente rieletto Presidente, nonostante i fatti criminali di Capitol Hill. “Per volere dei MAGA” , si disse, che “vogliono imporre un nuovo ordine mondiale, basato sui princìpi di forza e sul denaro, nel disprezzo più assoluto del diritto e dei valori della persona”. Un ritorno al più becero Medioevo.Trump non fa altro che disprezzare la UE ritenendola colpevole di aver lucrato per anni sull’ alleato americano, e ora continuando a sostenere l’Ucraina ne impedisce la fine del conflitto ostacolandone per di più gli affari con Putin. L’ intesa tra Cina e Russia per Trump rappresenta come il fumo per gli occhi un ulteriore ostacolo alle sue aspettative.
Di questo si rode Trump: i mancati affari! Lo disturbano perciò i Paesi europei, che gli impediscono la tregua da lui proposta. A tal punto sarebbe da auspicarsi finalmente una Unione europea con la schiena dritta, che sappia controbattere parola per parola all’incredibile ex alleato americano, purtroppo oggi però manca “Cicerone” e i politici come la von der Leyen e la Kallas sono solo delle “marionette” servizievoli. La vedo propria brutta ormai. Sui dazi ha indicato il disprezzo per i valori umani. Usò, nel suo stile, termini volgari Irripetibili. La Meloni e Salvini, risparmino l’Italia da ulteriori umiliazioni, e si riconoscano integrati perfettamente nell’Europa, la nostra naturale casa, dove la civiltà del pensiero democratico è nata, per non cadere nell’attuale disprezzo da parte dei despoti dell’intero Pianeta.


Mastella: “Mio figlio ha preso tutti quei voti e Fico lo esclude dalla giunta”


Clemente Mastella: «Ho preso tutti quei voti e Fico esclude mio figlio Pellegrino dalla giunta. Che triste fare politica così». Il sindaco di Benevento dopo le Regionali in Campania contesta la scelta del neo governatore che non vuole scegliere gli assessori tra i consiglieri: «A saperlo non lo avrei candidato. Loro sono eletti grazie al simbolo del M5S, ma di faccia non li conosce nessuno: i Mastella recuperano voti uno a uno»

07 dic 2025

(di Claudio Bozza – corriere.it) – Domenica, ora di pranzo. A casa di Clemente Mastella e Sandra Lonardo stanno per calare i cavatelli al sugo. Sono praticamente sacri, nel Sannio. «Pronto, sindaco? Mi scusi per l’ora…». «Eccomi, non si preoccupi, per il Corriere questo e altro: tanto tengono la cottura alla perfezione…».

Allora veniamo subito al dunque. Sindaco Mastella, suo figlio Pellegrino ha preso quasi 14 mila voti alle Regionali. È orgoglioso o si aspettava di più?
«Con la nostra lista, a Benevento e provincia, abbiamo surclassato tutti i partiti in assoluto. Il “brand Mastella” coincide alla perfezione con il territorio che rappresentiamo politicamente e questi numeri ne sono la prova. È un rapporto ombelicale».

Pensavano che…
«Alla vigilia delle elezioni, alcuni simpatici detrattori avevano chiesto all’Intelligenza artificiale di pronosticare il nostro risultato. L’AI, o come caspita si chiama, aveva risposto che non avremmo superato il 2,5%. Ecco: a Benevento città siamo arrivati al 27%».

Insomma: avete dato una bella mano al campo largo, spingendo alla vittoria il governatore Roberto Fico. Che ora, però, non vuole mettere suo figlio Pellegrino in giunta. L’hanno fregata eh?
«Nessuno pensava che avremmo preso tutti questi voti. E ora lui fa questa scelta. Questo modo di governare allontana la gente dalla politica. Triste ma vero: la verità è questa. Io voto una persona, che poi però viene esclusa a priori dal governo della Campania».

Una norma «contra Mastellam»?
«No, perché vale per tutti. Però Pellegrino, che è uno in gamba, rimane fuori e la gente ci sta chiamando incazzata».

La «norma» in questione è un paletto tirato fuori da Fico: non vuole che alcun consigliere faccia l’assessore. Ma non avevate fatto un patto?
«Se Fico lo avesse detto prima io non avrei candidato mio figlio. Perché io ho rischiato tutto. Se non avessimo fatto questo risultato io sarei morto politicamente e avrei fatto una figura di m… proprio a fine carriera».

La politica le ha insegnato più a vincere o a digerire le esclusioni eccellenti?
«L’uno e l’altro. Spesso sono stato vittorioso. Ho 78 anni e il prossimo anno ne compio 50 nelle istituzioni: nel 1976 fui eletto deputato la prima volta. Ho battuto pure uno incredibile come Pier Ferdinando, gliel’ho detto a Casini eh!».

Ha parlato con Fico?
«Sì, ci ho parlato. Per loro sporcarsi le mani non esiste. Loro sono eletti grazie al simbolo del Movimento 5 Stelle, ma di faccia non li conosce nessuno. Noi Mastella i voti li recuperiamo uno a uno. Abbiamo un rapporto diretto con le persone: se le cose non vanno per il verso giusto ci telefonano e ci vengono pure a citofonare a casa».

E Fico che le ha risposto?
«Che lui la pensa diversamente. Questa politica restringe il campo largo, perché non crea entusiasmo».

Si dice che entrerà in giunta anche l’ex leader verde Alfonso Pecoraro Scanio. Un déjà vu degli anni 2000…
«Vedremo se è vero. A me pare una fesseria».

Un consiglio a Fico (non richiesto, ça va sans dire) glielo vuole dare?
«Parte male. La Campania avrà pure una giunta di premi Nobel, ma con nomi fatti da Roma».


Zelensky, ancora non c’è accordo Usa-Mosca-Kiev su Donbass


(ANSA)- “Esistono visioni di Stati Uniti, Russia e Ucraina. E non abbiamo una visione unitaria sul Donbass”. Lo ha detto il presidente ucraino Volodymyr Zelensky in un’intervista a Bloomberg, dopo che Trump lo ha criticato dicendosi “deluso” dal leader ucraino che a suo dire non ha ancora letto la proposta , mentre Mosca sarebbe “d’accordo” con il piano.   

Elementi del piano Usa richiedono ulteriori discussioni su una serie di “questioni delicate”, tra cui le garanzie di sicurezza e il controllo sulle regioni orientali, ha detto Zelensky sottolineando che Kiev spinge per un accordo separato sulle garanzie di sicurezza.

Il presidente ucraino ha confermato la posizione di Kiev secondo cui le garanzie di sicurezza funzionano come il meccanismo di mutua difesa della Nato, noto come Articolo 5. Ma vuole sapere cosa gli alleati occidentali erano disposti a offrire, ha detto, con i negoziatori che stanno lavorando a un accordo separato che riguarda le garanzie. “C’è una domanda a cui io – e tutti gli ucraini – vogliamo una risposta: se la Russia dovesse di nuovo scatenare una guerra, cosa faranno i nostri partner”, ha detto Zelensky nell’intervista telefonica.

ZELENSKY, PRONTO A VEDERE TRUMP DOPO LONDRA, BRUXELLES E ROMA

(ANSA) – Dopo gli incontri a Londra, Bruxelles e Roma “avremo la nostra visione comune” per i colloqui, e “sono pronto a volare negli Stati Uniti se il presidente Trump sarà pronto per questo incontro”. Lo ha detto il presidente ucraino Volodymyr Zelensky in un’intervista a Bloomberg.

Il leader ucraino è arrivato a Londra dove incontrerà il premier Keir Starmer, il cancelliere tedesco Friedrich Merz e il presidente francese Emmanuel Macron per discutere la proposta statunitense per la fine della guerra. Tra gli elementi del piano di Trump rientrano anche la prospettiva dell’Ucraina di aderire all’Unione Europea e l’utilizzo di asset russi.

“Stiamo parlando con gli Stati Uniti, è un lavoro costruttivo”, ha detto Zelensky. “Ma ci sono questioni che riguardano l’Europa, e non possiamo decidere per l’Europa. Dobbiamo discutere con l’Europa dell’adesione dell’Ucraina all’Ue, che rientra anche nelle garanzie di sicurezza”.

A Londra Zelensky incontrerà il suo massimo funzionario per la sicurezza Rustem Umerov che ha incontrato Witkoff e Kushner nel fine settimana, per un briefing dettagliato. Poi si recherà a Bruxelles per colloqui e martedì sarà a Roma per incontrare Giorgia Meloni, ha confermato il presidente ucraino.

STARMER, ‘PERCORSO VERSO PACE DIFFICILE MA CI SONO PROGRESSI’

(ANSA) –  “Il percorso verso la pace in Ucraina è difficile ma stiamo facendo progressi”. Lo ha dichiarato il premier britannico Keir Starmer prima del vertice a Downing Street col presidente ucraino Volodymyr Zelensky, il presidente francese Emmanuel Macron e il cancelliere tedesco Friedrich Merz. Starmer, oltre a ribadire la necessità di garanzie di sicurezza “rigide” per Kiev, ha sottolineato il ruolo svolto dal presidente americano Donald Trump rispetto ai negoziati in corso per arrivare alla fine del conflitto: “è riuscito a realizzare nelle ultime settimane il risultato più importante degli ultimi quattro anni”.

ZELENSKY, ‘FONDAMENTALE UNITÀ TRA EUROPA, UCRAINA E USA’

(ANSA) –  “Ciò che è molto importante oggi è l’unità tra Europa, Ucraina e Stati Uniti”. Lo ha detto il presidente ucraino Volodymyr Zelensky parlando ai giornalisti prima del vertice a Downing Street col premier britannico Keir Starmer, il presidente francese Emmanuel e il cancelliere tedesco Friedrich Merz. “Ci sono cose che non possiamo gestire senza gli americani e cose che non possiamo gestire senza l’Europa”, ha aggiunto Zelensky.

MACRON, ‘PROBLEMA PRINCIPALE È CONVERGENZA CON USA SU UCRAINA’

(ANSA) –  “Il problema principale è la convergenza” con gli Usa rispetto all’Ucraina. Lo ha affermato il presidente francese Emmanuel Macron parlando ai media prima del vertice a Downing Street col premier britannico Keir Starmer, il presidente ucraino Volodymyr Zelensky e il cancelliere tedesco Friedrich Merz. Lanciando poi una frecciata all’amministrazione Trump ha detto che l’Europa ha “molte carte in mano” per garantire il suo sostegno a Kiev contro Mosca. Oltre ad affermare che “l’economia russa sta iniziando a soffrire” dopo le ultime sanzioni occidentali.


Ritirato lo studio che scagionava il glifosato. Lo aveva scritto Monsanto, che lo produce e lo vende


Costretta alla «retraction» la rivista scientifica che lo aveva pubblicato. Dubbi già nel 2018, ma l’articolo fin qui è sempre stato citato per sostenere il no a ogni divieto

(Andrea Capocci – ilmanifesto.it) – Uno degli studi che scagionava l’erbicida glifosato dalle accuse di nocività era stato scritto direttamente dalla Monsanto, l’azienda che il glifosato lo produce e lo vende. Per questo ieri la rivista che lo aveva pubblicato nel 2000 lo ha ritirato dalla letteratura scientifica. La «retraction» è quanto di peggio possa accadere a una ricerca: uno studio scientifico viene infatti ritirato quando si manifestano palesi errori scientifici nella sua preparazione o quando nasconde una frode. Come in questo caso.

Il glifosato oggetto dello studio è un potente erbicida commercializzato dalla Monsanto insieme alle varietà coltivabili geneticamente modificate per resistergli. Grazie alla modifica, gli agricoltori possono spruzzare il prodotto in grandi quantità senza danneggiare il raccolto. Nel tempo però le accuse per i danni dovuti al glifosato per la salute di chi lavora nei campi si sono moltiplicate. La sostanza, tuttavia, non è mai stata vietata perché diverse analisi come quella in discussione l’hanno regolarmente scagionata dalle accuse. Oggi il glifosato è classificato come «forse cancerogeno» dall’Agenzia internazionale per la ricerca su cancro dell’Organizzazione mondiale della sanità, una categoria ampissima di cui fanno parte anche la caffeina o le foglie di aloe.

Lo studio ora ritirato era intitolato «Safety Evaluation and Risk Assessment of the Herbicide Roundup and Its Active Ingredient, Glyphosate, for Humans». Lo avevano pubblicato sulla rivista Regulatory Toxicology and Pharmacology tre studiosi, Gary Williams del New York Medical College, Robert Kroes dell’università di Utrecht (Olanda) e Ian Munro della società di consulenze canadese Cantox (oggi Intertek). In apparenza, era una valutazione obiettiva sulla sicurezza dell’erbicida Roundup, nome commerciale del glifosato e uno dei prodotti di punta della società agrochimica. Nelle rassicuranti conclusioni, si legge che «il glifosato non pone un rischio per la salute umana».

In realtà, dai documenti interni resi pubblici per un’inchiesta sul legame tra glifosato e linfoma, già nel 2018 era emerso come quell’analisi fosse stata scritta dall’azienda stessa. I tre autori si erano limitati a prestare i loro nomi alla pubblicazione per conferirle rispettabilità accademica, senza rivelare i legami con Monsanto. Su quelle rassicurazioni oggi pesano molti dubbi. Come avviene in questi casi, la redazione ha fornito le motivazioni complete del ritiro: oltre al ghost writing aziendale, dietro a cui si cela probabilmente un compenso per gli scienziati-prestanome, l’analisi presentata nello studio omette anche risultati scientifici negativi per il glifosato al fine di presentarlo in una luce migliore.

Malgrado lo scandalo fosse emerso da tempo, lo studio non era stato ritirato immediatamente e ha continuato a inquinare il dibattito accademico e sanitario sulla sicurezza dell’erbicida. Nello scorso settembre, gli storici della scienza Alexander Kauros e Naomi Oreskes (autrice di «Mercanti di dubbi. Come un manipolo di scienziati ha nascosto la verità, dal fumo al riscaldamento globale», 2025, Edizioni Ambiente) avevano ricostruito in dettaglio l’influenza dello studio. La pubblicazione è stata citata in oltre seicento ricerche successive e ha rappresentato «una pietra miliare nella valutazione della sicurezza del glifosato», come afferma ora la stessa rivista che lo ha ritirato. Ma solo in tredici casi la citazione segnalava anche i dubbi sulla solidità della ricerca.

Lo studio invece è citato senza alcun avvertimento in diverse linee guida internazionali sull’uso del glifosato – l’ultima volta dal ministero della salute neozelandese un anno fa – e persino dalla Corte Internazionale di Giustizia che ha dovuto dirimere la causa tra Ecuador e Colombia sull’uso degli erbicidi spray. Lo studio ha anche influenzato il contenuto dell’enciclopedia online Wikipedia, che a sua volta fa da banca dati per le intelligenze artificiali che sempre più spesso vengono utilizzate per accedere all’informazione digitale.


Giustizia, Sì in vantaggio. Ma se diventa un referendum sul governo Meloni la partita si riapre


In una sfida elettorale meno tecnica e più politica, infatti, contro il governo si potrebbero mobilitare gli elettori dell’opposizione insieme a tanti scontenti e disaffezionati

La premier Giorgia Meloni e il Guardasigilli Carlo Nordio

(di Giovanni Diamanti – repubblica.it) – Non siamo ancora entrati nel vivo della campagna referendaria, ma le due fazioni in campo stanno già scaldando i motori. Ai blocchi di partenza, il fronte governativo, schierato graniticamente per il Sì, appare favorito: dal 57.9% di Ipsos al 56% di Youtrend, ad oggi il vantaggio fotografato dai sondaggi è piuttosto netto e supera chiaramente i rapporti di forza tra la coalizione di centrodestra e il Campo Largo.

Sono numeri che possono infondere ottimismo alla coalizione di governo, ma significano ancora molto poco. Nel 2016, ad esempio, la riforma costituzionale proposta e approvata da Matteo Renzi secondo molti istituti di rilevazione veniva inizialmente promossa da quasi due italiani su tre. Solo dopo l’estate il consenso calò drasticamente, ma all’inizio di settembre, con il voto previsto il 4 dicembre, buona parte dei sondaggi continuava a fotografare un testa a testa.

È difficile infatti misurare le opinioni dei cittadini con grande anticipo sulla data referendaria: in un’epoca caratterizzata da disaffezione e disinteresse dei cittadini verso la politica, il grande limite è la conoscenza degli argomenti. Nel caso relativo alla riforma della giustizia, ciò si nota in modo particolare: il tema è evidentemente ancora poco conosciuto dagli italiani, e un sondaggio Youtrend per SkyTg24 di inizio novembre evidenzia come solo il 10% degli intervistati si dichiari “molto informato” sul quesito.

Ci sono poi scelte strategiche che possono incidere sull’esito: nel 2016, ad esempio, a decidere il risultato del referendum fu soprattutto la scelta di Matteo Renzi di personalizzare la partita, legando il proprio destino a quello del votoGiorgia Meloni e il suo governo vivono oggi una situazione paragonabile sul fronte dell’opinione pubblica: la loro coalizione è in testa nel voto politico, ma il gradimento dell’esecutivo è ben al di sotto del 50%, ed è ulteriormente calato negli ultimi mesi, attestandosi, secondo la stessa rilevazione di Youtrend, al 32%. L’esperienza di Renzi del 2016 fungerà da monito per Giorgia Meloni, che verosimilmente eviterà di commettere lo stesso errore di personalizzazione, ma può essere anche di ispirazione per le opposizioni. Se infatti il voto diventasse un referendum sull’esecutivo, con un consenso così basso, la partita si potrebbe riaprire con più facilità. Stavolta potrebbe non essere il presidente del Consiglio (in questo caso, la presidente del Consiglio) a politicizzare e personalizzare la campagna elettorale, ma l’opposizione, per la quale trasformare questo voto in un referendum sul Governo Meloni potrebbe rappresentare una grande opportunità.

In una sfida elettorale meno tecnica e più politica, infatti, contro il governo si potrebbero mobilitare gli elettori dell’opposizione insieme a tanti scontenti e disaffezionati che non trovano alcun riferimento nei partiti, ma che allo stesso tempo potrebbero voler lanciare un segnale politico, cercando di indebolire la maggioranza.

Certo, è difficile combattere l’astensionismo senza parlare di contenuti, e la battaglia politica dovrà lasciare il giusto spazio a una discussione sul merito della riforma: c’è di mezzo il futuro della giustizia. Anche perché la campagna referendaria è ancora lunga e appare, allo stato attuale, tutt’altro che chiusa, al netto dei numeri delle rilevazioni.


Il Pd è una polveriera


L’ultima frontiera dello scontro dopo quelli su Kiev e leadership. Così è finita la «pax schleiniana». Alla segretaria manca anche la spinta di Meloni per un duello «a due»

L’ultima frontiera dello scontro dopo quelli su Kiev e leadership. Così è finita la «pax schleiniana»

(di Roberto Gressi – corriere.it) – Ragazzi, che fatica. Prima per metterli tutti insieme, poi per tenerceli, tutti insieme. Quindi per andare alla carica alle Regionali, per convincerli che si può essere competitivi, e il girone d’andata ti va malino, quello di ritorno magari più che benino, ma no che ancora non basta. Hai voglia a spiegare che la candidata premier non puoi essere che tu, perché avrai più voti, o perché ci sarà un nome da mettere sulla scheda di una legge elettorale riformata, oppure perché, alla fine, sarai sempre tu a vincere le primarie.

Macché, ci si mette pure Giorgia Meloni, che pareva la tua alleata migliore nello spingere perché il duello potrà essere solo tra voi due, le gemelle diverse e implacabili della politica italiana, e ora invece ti invita ad Atreju, ma insieme a Giuseppe Conte, perché non è lei, la premier, a decidere chi è il leader dell’opposizione. E figuriamoci se l’avvocato del popolo se la fa scappare l’occasione, sostenuto da Rocco Casalino, che ha da tempo messo nel cassetto l’uno vale uno e rilancia Giuseppe nel nome del curriculum e della competenza. E poi ancora il tuo partito, dove l’area riformista, e non solo, pensa che non puoi vincere, perché sei troppo estremista, e anche se vincessi non sarebbe un bene, perché sei troppo estremista. E fin qui passi, perché Elly Schlein non è una che si mette paura facilmente, e dei giochi di Palazzo se ne fa un baffo, convinta com’è che tra i suoi oppositori le chiacchiere sono tante, ma i voti pochini. Ma, come al solito, c’è dell’altro, più denso e più insidioso, irto dei temi della politica, estera e interna.

Le divisioni

Può darsi che ci sia pure la voglia di dare un calcio sulle ginocchia della segretaria, da parte di Graziano Delrio, ma resta il fatto che il suo disegno di legge contro l’antisemitismo ha scoperchiato, per lo meno, un bel po’ di ambiguità. Gad Lerner lo mette in guardia: «Ma non ti rendi conto che la legge speciale a tutela di noi ebrei, pur con le migliori intenzioni, finirà solo per fomentare il pregiudizio antisemita e metterci ancor più nel mirino?».

 E fin qui, come si usa dire, il dibattito è aperto. Quel post su Facebook però ha ottenuto una valanga di commenti, spesso di apprezzamento peloso. Uno sugli altri: «Condivido tutto, ma è da evidenziare che l’odio per gli ebrei lo sta fomentando il governo nazista di Israele. Fino a due anni fa c’erano solo pochi folli nostalgici del nazismo, oggi a odiare gli ebrei ci sono milioni di persone». Siamo al non giustifico ma li capisco? È così difficile dire una parola chiara su Benjamin Netanyahu, sull’ignobile pogrom del 7 ottobre e sulle orribili stragi di Gaza? Il merito si perde, e nella bocciatura del progetto di Delrio, sul quale magari si poteva ragionare, prevale il desiderio, quasi l’obbligo, di non avere nessun nemico a sinistra, a partire ovviamente dalla Cgil di Maurizio Landini, che in caso di primarie può essere ben più che l’ago della bilancia. E le ambiguità dopo le parole di Francesca Albanese, seguite all’aggressione alla redazione della Stampa, sembrano stare sullo stesso campo di gioco. È proprio a partire da un tema che brucia, come quello dell’antisemitismo, che pare fibrillare la pax schleiniana, faticosamente costruita in un partito storicamente rissoso e con alleati tradizionalmente riottosi.

Tra Ucraina ed Europa

Un discorso simile vale per gli altri temi, a iniziare dall’Ucraina, dove le divisioni nel centrosinistra sono lampanti. Sono eclatanti anche le spaccature nel centrodestra, con Matteo Salvini che è tornato a pieno titolo a difendere le ragioni di Mosca, però lì c’è un governo che alla fine prende delle decisioni, magari con minor vigore di una volta, ma con il leader della Lega costretto a votarle. Che poi la posizione da prendere sul conflitto si porti dietro il giudizio da dare sull’azione dell’Europa è scontato, e anche lì i contrasti non mancano.

Il nome del premier

In zona Nazareno c’è anche da aggiustare il tiro sul referendum sulla Giustizia, e non solo perché una buona fetta di riformisti non lo giudica quel progetto come il male dei mali. Si era partiti con un’idea di campagna da bianco e nero: è l’anticamera del fascismo, vogliono mettere in crisi le istituzioni come primo passo per fare ben altro. Pare che siano stati gli stessi magistrati, contrarissimi alla riforma, a dire che no, la strada da seguire non era quella dell’apocalisse. E allora ecco la frenata, ma senza piano B, con il risultato che del referendum ormai parla più il centrodestra del centrosinistra. 

Pure sulla legge elettorale c’è una gran confusione: il centrodestra vuole metterci mano, per evitare il rischio pareggio, soprattutto al Senato, con il conseguente timore di instabilità e governi tecnici. Guai soprattutto loro, verrebbe da dire, ma nel Pd tanti giurano che Schlein mai lo direbbe ad alta voce, ma una riforma che preveda il nome del candidato premier sulla scheda le piacerebbe parecchio. Altro motivo di divisione, con quelli di Atreju che si danno alla goliardia. Ieri hanno mostrato un cartellone con i volti di Conte e Schlein: «Scusate se vi abbiamo fatto litigare».


Che guaio la strategia trumpiana così simile al primo melonismo


Un progetto che per l’Europa prevede patriottismo nazionalismo e populismo, valori e idee a cui il pragmatismo di Palazzo Chigi ha messo la sordina, rischia di rompere incantesimo ed equilibrio della mediazione di governo, a Roma e a Bruxelles

(Giuliano Ferrara – ilfoglio.it) – Nel paragrafo dedicato all’Europa sovranazionale dal documento strategico di Trump e dei suoi si esprime una visione dello stato delle cose qui da noi (demografia, immigrazione, identità, eccesso regolativo, pericoli per le libertà liberali, distinte dai diritti umani e dalla politica di influenza delle minoranze, sicurezza) che è identica con la piattaforma di base di Meloni e dei suoi, e con ciò che essi hanno detto per anni, finché la prova del governo mainstream, in parziale ma viva sintonia con l’establishment dell’Ue, ha messo la sordina ai valori e alle diagnosi astratte per consentire alla premier il suo inserimento pragmatico nel gruppo di testa della partnership di Bruxelles. Ora questo equilibrio tra ciò che si è sostenuto dall’opposizione e quanto si fa al governo, finora prova di forza e assennatezza del primo governo di destra, sulla carta salta per aria. Della strategia americana fa parte l’idea di un’Europa senza l’Unione o con una sovranazionalità fortemente ridotta.

Vista da Washington, l’Europa è o deve diventare un insieme di nazioni autonome e sovrane, soggetti di un rapporto bilaterale con la potenza egemone dell’occidente in quanto tali, sotto l’incalzare dei partiti patriottici e sovranisti, appoggiato apertamente e senza riserve dagli Stati Uniti. Bruxelles, con tutto quello che comporta, e se è per questo anche la Nato, sono ingombri. Della Nato si dice addirittura che nel giro di alcuni anni, trasformati da immigrazione e distorsione dell’identità, molti paesi europei non saranno più gli stessi che avevano firmato il charter dell’alleanza, il percorso immaginabile è quello di un graduale e progressivo dissolvimento. 

Guido Crosetto, che con Meloni è una testa pensante decisiva nel progetto di quel partito fin dall’inizio, anche perché forte di una scelta della destra che parte da una cultura democristiana, ha subito capito l’antifona. E per primo ha messo le mani avanti con tempestività e intelligenza: ha detto che il vero problema degli Stati Uniti è la competizione con la Cina, tutto dipende da quella coordinata generale, che le espressioni dedicate al declino europeo sono sopravvalutate in commenti e analisi, e nel testo occupano uno spazio relativamente breve, e insomma forse dovrà cambiare qualcosa, chissà, ma affinché tutto resti com’è, sperabilmente. Può darsi naturalmente che si riveli notevole lo scarto tra linee strategiche, sempre un po’ rigide per natura, tanto più se codificate in un documento di stato, e politica realistica; può essere che continui a essere praticabile lo spazio occupato dal primo governo di destra italiano, questo stare sia con l’Unione europea sia con gli Stati Uniti, in una logica che premia la mediazione sulle impuntature e le coerenze formali. Crosetto se lo augura, e anche Meloni sorniona sembra sperarci, dal modo calmo con cui ha recepito il colpo di sentirsi ideologicamente e culturalmente rappresentata dal trumpismo, nella sua critica della decadenza europea e nel suo appello alla rivolta contro Bruxelles, sebbene politicamente spiazzata da un progetto che per l’Europa prevede patriottismo nazionalismo e populismo invece che conservatorismo e alleanza condizionata con l’establishment. E per soprammercato auspica stabilità strategica con la Russia, che vuoi o non vuoi dovrà essere premiata per la sua campagna di contenimento e roll back della Nato partita con la Crimea e approdata per adesso al Donbas. 

Va notato che il documento americano, anche per indicare la totale inversione di rotta rispetto alla tradizione internazionalista che lega alcune esperienze democratiche e alcune esperienze repubblicane e neoconservatrici, predica con insistenza il rispetto di un mondo di stati e società che vanno considerati per quello che sono, senza la velleità di modificare alcunché e introdurre modi di vita e di governo democratici al posto di quelli tradizionali. Alla sola Europa è dedicato, per quanto in un testo che Crosetto ha trovato felicemente breve, il progetto di un cambio di sistema: il regime change patriottico è per noi e solo per noi, i vecchi alleati oggi trasformati se non in avversari (anche) certamente in un pericoloso intralcio. Non è che Meloni debba troppo preoccuparsi di Matteo Salvini, che usa strumentalmente e in modo volatile l’America First per rilanciare il suo Prima gli italiani, per quanto anche quello alla lunga potrebbe diventare un problema. E’ proprio Trump, sono le sue idee, le sue intenzioni, terribilmente simili a quelle fondative del melonismo come movimento, che possono rompere incantesimo ed equilibrio della mediazione di governo, a Roma e a Bruxelles. 


Meloni, tre anni de noantri e “calcioni” all’economia


Per non rispondere dei ripetuti fallimenti sul piano economico-sociale la destra rilancia sul piano dei diritti, da decreto sul rave party al decreto sicurezza che criminalizza la disubbidienza civile non-violenta, fino all’attacco dell’autonomia universitaria. Il problema è che la sinistra continua a giocare di rimessa

(Piero Ignazi – editorialedomani.it) – Qual era la visione di Giorgia Meloni quando è arrivata a Palazzo Chigi? Come si capisce ora, a tre anni da quel passaggio, le idee del partito di maggioranza erano vaghe, irrealizzabili e persino pericolose. Su tutto aleggiava un sovranismo da noantri, un euroscetticismo grintoso (è finita la pacchia), una pulsione di legge e ordine, un revanscismo rancoroso nei confronti della sinistra in qualsiasi forma, politica o culturale, si presentasse. La pochezza di quel programma era inevitabile: cosa pretendere da un partito che non aveva classe dirigente in senso lato, ma solo qualche politico di lungo corso transitato da tutte le formazioni della destra neo e post fascista.

L’unico personaggio di un qualche spessore, Francesco Rampelli, animatore dei Gabbiani di Colle Oppio, è stato emarginato non appena ha iniziato a incalzare la premier. L’inconsistenza politico-culturale dei Fratelli d’Italia ha preso forma in personaggi che sembravano emergere dalla commedia dell’arte, da Francesco Lollobrigida, responsabile della sovranità alimentare – già questa etichetta non ha bisogno di commenti – a Gennaro Sangiuliano, capitato per caso al dicastero della Cultura e travolto da una commedia buffa in salsa partenopea.

Se questi casi hanno più che altro fornito un piatto d’argento alla satira, ben più grave è la mancanza di preparazione a gestire un paese. Perché questo ha pesato, e sta pesando, sul nostro sviluppo.

L’Italia ha ricevuto – dall’Unione europea, non certo grazie alla destra – circa 200 miliardi tra donazioni e prestiti: il famoso Next Generation Eu. Nonostante ciò, nel 2024 il governo ha realizzato il record negativo degli ultimi quarant’anni quanto a riduzione della spesa pubblica. Un taglio molto più forte rispetto a tutti gli altri governi degli ultimi trent’anni (Osservatorio sui conti pubblici dell’Università Cattolica).

Non basta: la nostra economia ristagna navigando tra gli ultimi per crescita e i salari sono fermi, sotto la media europea (anche in Spagna oggi sono superiori). ll paradosso è evidente: è scesa dal cielo di Bruxelles una gigantesca manna eppure la nostra economia arranca penosamente. Dove sono andati tutti questi soldi? Un’opposizione un po’ più grintosa ne chiederebbe conto tutti i giorni.

A favore di rendita

Il governo, comunque, ha centrato alcuni dei suoi obiettivi. In primo luogo ha favorito le rendite con una difesa accanita di corporazioni grandi e piccole, dai balneari, una pantomima che va avanti da anni, ai cementificatori del territorio. Poi ha introdotto una corsia preferenziale per gli amici con un interventismo nella finanza (vendita titoli di Mps a prezzi di favore e uso disinvolto della golden share) che in altri tempi avrebbero trovato la fiera indignazione di tutti gli economisti con articoli di fuoco sui vari giornali.

Inoltre, il governo ha dedicato grande energia ad occupare ogni carica possibile gratificando di vari benefit economici la corte meloniana: un assalto alla diligenza per placare una fame atavica di sotto-potere.

La stabilità del governo – diventata ora la parola d’ordine per impostare il nuovo sistema elettorale – non ha alcun valore se non si traduce in politiche efficaci. Ma per questo era necessaria una preparazione culturale che al partito di maggioranza mancava totalmente. E suonano ridicoli gli ammonimenti di coloro che ritengono la sinistra e il Pd privi di un programma credibile… Come se un partito che ha ricoperto ripetutamente negli ultimi tre decenni abbondanti incarichi di governo, che amministra grandi città e regioni da lungo o lunghissimo tempo, non avesse risorse a sufficienza per gestire la cosa pubblica. Altro che gli improvvisati fratelli di Giorgia.

Proprio per evitare di rispondere ai fallimenti sul piano economico-sociale la destra rilancia sul piano dei diritti. Dall’iniziale, fondamentale, decreto sul rave party che ha salvato l’Italia da orde giovanili, al decreto sicurezza che criminalizza la disubbidienza civile non-violenta, il governo è ora passato all’attacco dell’autonomia universitaria.

La rinuncia dell’Università di Bologna ad aprire un corso di laurea riservato a 15 cadetti dell’Accademia militare di Modena, presso l’Accademia stessa, ha offerto l’occasione al capo del governo e a ben tre ministri di denunciare la lesione di un diritto costituzionale, come fosse obbligo per una università preparare corsi di laurea ad hoc, on demand.

La destra non ha pudore di spandere falsità, e non è la prima volta (il caso Almasri insegna). Il fatto è che la sinistra gioca sempre di rimessa, e con guanti bianchi. Balla il minuetto mentre dall’altra parte si sferrano calcioni. Così ci si fa male.


Bottino Santanchè, regalo da 9 milioni per siti e immagine


La ministra attende la manovra per passare all’incasso grazie a un emendamento del senatore meloniano Gelmetti

(Stefano Iannaccone – editorialedomani.it) – Welcome to meraviglia, specie se si parla della meraviglia dei fondi per il Turismo. La ministra Daniela Santanchè attende la manovra per passare all’incasso grazie al suo partito Fratelli d’Italia. Un emendamento del senatore meloniano, Matteo Gelmetti, propone di stanziare 8,9 milioni di euro in due anni per la «realizzazione e la gestione del portale nazionale Tourism Digital Hub».

Un altro sito che rischia di fare il paio con Italia.it.

Non c’è solo per l’ennesimo portale: Gelmetti vuole dare all’Enit, l’ex agenzia ora società in house nell’ambito del turismo, un altro mezzo milione di euro all’anno per realizzare e creare «segni distintivi comuni alle “destinazioni turistiche di qualità”», individuati da una commissione ad hoc. Un bottino totale di oltre 9 milioni di euro per il ministero. Da spendere in immagine.


A chi fa comodo dimenticare il Sudan


Ucraina e Gaza, nel loro orrore, hanno un percorso, un obiettivo per quanto cinico e terribile. Nel cuore dell’Africa, dal Darfur al Kordofan, il dolore non ha più una ragione a cui aggrapparsi

A chi fa comodo dimenticare il Sudan

(Domenico Quirico – lastampa.it) – C’è chi infila, subdolamente, la guerra in Sudan nella comoda categoria delle guerre dimenticate. Bugia. Bugia comoda. Serve a tirare un sospirone fatalistico e a passare oltre. Sotto l’aggettivo si insinua una confortante auto-assoluzione: se nessuno si occupa con la memoria di un massacro vuol dire che è faccenda secondaria, carnaio periferico, una locale manifestazione di stupidità umana. E allora possiamo lavarcene le mani. Morite pure, per favore in silenzio. E se arrivano le urla dei moribondi e dei seviziati, beh!, lo stratagemma di Ulisse, tapparsi le orecchie, funziona. Abbarbicatevi al timone e alzate le vele, i marosi del rimorso son presto alle spalle.

La guerra in Sudan non è una guerra dimenticata. Quelli che contano, a Washington e a Riad, al Cairo e ad Ankara, la ricordano benissimo. La finanziano, la prolungano, vendono armi moderne (ah i droni! Anche l’Africa è entrata nel millennio della morte tecnologicamente avanzata), hanno piani per il dopo. Questa è una guerra senza senso, la sua tragicità è proprio in questo orribile vuoto. Prendete tutte le categorie di conflitti, guerre di dio e di Mammona, guerre giuste e ingiuste, guerre di aggressione, ideologiche, di liberazione. Guerre rivoluzionarie e reazionarie, guerre di status, guerre inutili… Tutte hanno un orribile senso. In Ucraina l’infinito dolore degli uomini è legato a uno scontro per il territorio, forse indirettamente per il dominio del mondo. La guerra di Gaza è la lotta per una terra che due popoli vogliono tutta. C’è un filo, una spiegazione.

La guerra tra Mohamed Dagalo detto Hemetti, il capo dei paramilitari delle forze di intervento rapido e il generale Abdel al-Burhan, golpista al potere è tra due buffoni sanguinari che non perdono tempo a indossare un frac ideologico o la mimetica di gala. Non date retta a certi pignoli, nessuno di questi due criminali parla a nome del popolo. Sono dei Bokassa senza le incoronazioni di cartapesta che servono solo a abbagliare i babbei.

Una volta i colonnelli africani golpisti si camuffavano con una “buona causa”, il comunismo casermesco, il populismo un po’ gauche. Poi ci aggiungevano nepotismo, corruzione e l’indispensabile terrorismo poliziesco. Ora son rimasti orfani. Prendete il potere sotto la mira di una pistola: guidare una rivoluzione non garantisce più niente, ciò che una pistola dà, un’altra lo riprende. In ciascuno dei subordinati sonnecchia un rivale. I due sgherri sudanesi puntano al sodo, le miniere d’oro, con cui pagano il disturbo di alleati pesanti, l’Egitto, l’Arabia Saudita, gli Emirati, la Turchia. Gli americani stanno a guardare, un po’ per impotenza un po’ perché Trump non ha ancora trovato qui motivi di business privato sufficienti. La Russia c’è, ma attende, per scegliere, prima di vedere chi vincerà. Intanto fanno affari mercenari di tutte le risme e passaporti con la ferocia di una maledizione.

È una guerra di predoni, con nessun obiettivo ideologico, senza memorie, perfino senza un esito perché chiunque vinca, il futuro sarà lo stesso, ovvero gente ebbra di potere denaro sangue. Tra i due rivali è impossibile anche al più meticoloso degli analisti stabilire dove sia il male minore, il preferibile, il buono. Mettono da parte i complessi: lo stupro di una donna, il massacro di vecchi e bambini, il martirio di intere città, undici milioni di fuggiaschi tallonati dalla fame e dalle pestilenze. Suvvia: è il battesimo del sangue che distingue tra amici e nemici.

Decine di migliaia di morti di kalashnikov, di droni, di fame, di colera, di machete, di torture e stupri sono morti senza martirio, all’orrore del morire è stato aggiunto quello di morire per niente. Senza neanche quella patetica consolazione della morte eroica per una causa, una giustizia, una fede. Si uccide, senza ragione e senza progetto. Così. La banalità dell’efferatezza. Carneficine mute.

Due anni, per una storia semplice: una pluridecennale dittatura, quella del volpino Al-Bashir, un frutto tardivo delle rivoluzioni arabe del 2011 ma altrettanto fragile, la speranza di un cambiamento, dura un nulla, un golpe militare quello del generale Al-Burhan, la ribellione di un suo complice Dagalo, il capobanda dei massacratori del Darfur all’epoca a libro paga del dittatore defunto. A lui non basta essere un vice, la parte di potere e ruberie che gli è stata assegnata. Vuole di più, vuole tutto. È iniziata così, ad aprile del 2023.

Il resto non appartiene né a von Clausewitz o a Hegel, neppure ad Allah: la battaglia per Khartum che sbriciola la grande città bianca sulle rive del Nilo, la vince il generale, la guerra si sposta a Nord. Ecco irrompe la città di Al-Fashir, e il suo assedio interminabile, una geenna di fuoco, una cloaca bollente dove si procede a una vivisezione crudele. Senza cibo e medicine decine di migliaia di abitanti scendono la scala della disperazione fino a nutrirsi del cibo per gli animali. Poi non resta più niente. La morte, sempre la morte. Perché quando Al-Fashir cade nelle mani impazienti di Dagalo è il massacro. A chi vuole fuggire, i miliziani chiedono taglie di migliaia di dollari, si paga online su banche fidate. Si prosegue il lavoro interrotto, nel Darfur le tribù non arabe devono scomparire. Ora il volenteroso macellaio va a sfogliare un’altra regione, il Kordofan.

Dove lo metteremo, nella storia del ventunesimo secolo, un suo generale, Abu Lulu al secolo Abdullah Idris? Non c’è bisogno di cercare prove contro di lui. Ha provveduto modernamente da solo, sui social. Facendosi filmare nelle vie della città espugnata mentre applica personalmente tra schizzi di sangue e mitragliate, l’arte del regolamento di conti. Alcune decine di sventurati in ginocchio gli chiedono pietà. Soldati sconfitti? Colpevoli di etnia sbagliata? Chissà. Lui sghignazza, dice che prima di perdere il conto ha già ucciso duemila persone. Provoca con la boria dell’impunità: «Continuerò a uccidere, se l’Onu vuol chiedermi spiegazioni venga qui…».

Il clamore sollevato dalle immagini (molto sommesso) ha indotto Hemetti a farlo arrestare. Per finta. Oggi sarà già nel Kordofan, antica terra dei razziatori di schiavi. Lavora. Uccide. Lulu è uno che ha compreso perfettamente dove va moralmente il terzo millennio.

Ad Al-Fashir hanno iniziato a cancellare le prove del delitto, i bulldozer scavano grandi fosse vicino all’ospedale saudita o usano le trincee di chilometri usate per l’assedio. Si deve fare in fretta.

Il quattro dicembre droni delle milizie hanno colpito nella città di Kalogi una scuola materna. Un altro drone è piombato su coloro che stavano cercando di portare soccorso: cinquanta morti, trentatré bambini. Sudan, anno del signore 2025.


L’eterna Tangentopoli. Per nove italiani su dieci non è cambiato nulla


In occasione della giornata internazionale contro la corruzione il sondaggio condotto da Demos e Libera mostra come il fenomeno sia persistente e ben presente nella percezione degli italiani

L’eterna Tangentopoli. Per nove italiani su dieci non è cambiato nulla

(di Ilvo Diamanti – repubblica.it) – Il 9 dicembre ricorre la “Giornata Internazionale contro la corruzione”, un’occasione per porre l’attenzione sulle conseguenze di un fenomeno tanto diffuso quanto persistente. E … resistente. D’altra parte, sono trascorsi più di 30 anni. da quando le inchieste riassunte con la definizione “Mani pulite” hanno rivelato e denunciato quanto fosse ampio e radicato il fenomeno della corruzione politica in Italia. Eppure, nonostante il tempo passato e le iniziative prese per contrastare questo problema, una larga maggioranza di italiani ritiene che Tangentopoli non sia mai finita.

Opere pubbliche e interessi privati

È quanto emerge da un recente sondaggio condotto da Demos e Libera, che di-mostra come quasi quasi 9 persone su 10 pensino che, rispetto all’epoca di Tangentopoli, sia cambiato poco. O niente. Certo, nell’ultimo anno la quota di coloro che ritenevano la corruzione politica più diffusa si è ridotta in modo significativo: dal 31% al 23%. Ma si tratta, comunque, di una misura analoga a quanto si osservava nel 2020. Prima, cioè, che l’irruzione del Covid ridefinisse l’agenda delle preoccupazioni e delle paure espresse dai cittadini. Oggi, comunque, secondo una larga maggioranza di persone gli ambiti maggiormente interessati e degradati dalla corruzione sono gli appalti per le grandi opere. E, quindi, la politica a livello nazionale. Lo stesso problema appare, inoltre, rilevante – e preoccupante – anche nei concorsi pubblici e nella gestione delle carriere. In altri termini, dove subentrano gli interessi personali. Collegati, soprattutto, ai percorsi professionali. Nel settore privato ma, soprattutto, pubblico. Tuttavia, la corruzione, o quantomeno la “correzione” e il condizionamento delle scelte pubbliche, diventano utili anche per ottenere servizi essenziali nell’ambiente universitario e della sanità.

La richiesta di trasparenza

Insomma, come abbiamo già rilevato in altre occasioni, nell’opinione pubblica la corruzione tende ad essere percepita come una “necessità”, più che una “deviazione”. Un metodo per favorire e agevolare il funzionamento di attività di interesse non solo imprenditoriale e politico. Ma sociale e personale. Più che di “corrompere” si tratta, cioè, di “rompere” le procedure previste dal sistema pubblico per ottenere non privilegi ma servizi. Per accedere a iniziative e attività di utilità “comune”. Non “particolare”. Anche se proprio questo aspetto sottolinea “il vero problema”. Perché segnala come il dis-funzionamento del sistema pubblico generi “distanza” fra le persone e i luoghi, i canali dove trovare risposte e affrontare le difficoltà che i cittadini incontrano nella vita quotidiana. Oppure, nel percorso professionale. Ricorrendo, per questo, a metodi impropri e irregolari. In particolare, quando si tratta di affrontare “concorsi” o “percorsi” professionali. Per questo motivo, fra i cittadini, negli ultimi anni è cresciuta sensibilmente la domanda di “trasparenza nei bandi”. Mentre rimane elevata la richiesta di rafforzare i luoghi e i sistemi di controllo pubblico, come l’Anac (Autorità Anticorruzione”) e la Procura nazionale antimafia.

Il rischio normalizzazione

Tuttavia, “il vero problema” resta quello già segnalato in precedenti indagini. Contrastare la tentazione di “normalizzare” la corruzione. Trattandola, cioè, come un sistema “normale”, comunque, “inevitabile” per favorire il funzionamento delle istituzioni e dei servizi. Senza ridurre le garanzie a metodi di “controllo dall’alto”. Perché, come sottolineano Francesca Rispoli e Alberto Vannucci, i ricercatori di Libera, «il controllo dall’alto, pur necessario, non basta senza un controllo dal basso, diffuso e competente, a cui contribuiscono associazionismo, volontariato e realtà civiche».

Per questo motivo non possiamo e non dobbiamo “dimenticare Tangentopoli”. Perché non segnala una semplice “deviazione” del nostro sistema democratico. Un incidente di percorso. Ma un rischio che incombe. E può riproporsi nuovamente. Soprattutto se dimentichiamo che “la nostra democrazia” è una “conquista conquistata” dai cittadini con fatica e determinazione. Ma in modo, però, mai “definito e definitivo”. Perché la democrazia può cambiare. E cambia. Non sempre in modo positivo. È sufficiente guardarsi intorno. Oltre ma anche dentro i nostri confini. La democrazia va ri-costruita, un giorno dopo l’altro. Senza sosta. Senza attendere che si rompa. O si … corrompa.

Sant’Eugenio, il primario Palumbo arrestato con la mazzetta in tasca. “Lucrava sui dializzati”

Sant’Eugenio, il primario Palumbo arrestato con la mazzetta in tasca. “Lucrava sui dializzati”

(di Luca Monaco e Andrea Ossino) – In manette, oltre al nefrologo, anche l’imprenditore Maurizio Terra. La squadra mobile li ha fermati mentre si scambiavano una mazzetta da tremila euro. “Ne ha presi 700mila”

Un giro di soldi e favori che per anni avrebbe orientato pazienti fragili dalla sanità pubblica verso il privato accreditato. La squadra mobile ha interrotto tutto un venerdì mattina, in una strada davanti alla sede della Regione Lazio. Il primario Roberto Palumbo, dell’ospedale romano Sant’Eugenio, era arrivato lì per incontrare l’imprenditore Maurizio Terra, riferimento di alcune tra le più note cliniche di dialisi del territorio, finito negli atti come rappresentante della Dialeur. Dentro quella macchina, fotografa la polizia, Terra ha tirato fuori un rotolo di banconote da 50 e 100 euro: tremila in totale. I due sono stati arrestati.

Il primario è finito in carcere, l’imprenditore ai domiciliari. Il procuratore aggiunto Giuseppe De Falco contesta il reato di corruzione. Ma lo scambio è solo un frammento. Attorno, un’indagine complessa con quattordici indagati. Perquisito anche Giovanni Lombardi, fondatore Nefrocenter, colosso in materia. E poi i nefrologi Carmine De Cicco e Annalisa Maria Pipicelli, Nicolo’ Lucio Vinciguerra, presidente del consiglio di amministrazione Namur, Federico Germani, legale rappresentante Omnia 2025, società emodialisi

Secondo l’ipotesi della squadra mobile, il primario avrebbe orientato i pazienti dializzati del suo reparto verso cinque strutture private. Ogni paziente dimesso, è il sospetto, «valeva» 3.000 euro. Soldi consegnati in più tranche, secondo la denuncia del nefrologo Carmelo Antonio Alfarone, che ha fatto partire l’inchiesta. È stato lui a raccontare di aver consegnato complessivamente 700 mila euro al primario, «dopo essere stato minacciato di non indirizzare più i pazienti del reparto verso le sue strutture». Nella denuncia parla anche di altro: dell’affitto di un appartamento pagato al medico, dei mobili acquistati, del leasing di un’auto di lusso, dei conti in ristoranti e boutique, di tre carte di credito messe a disposizione e infine dell’assunzione della compagna del primario.

Palumbo avrebbe creato «corsie preferenziali» per i pazienti, sfruttando le liste d’attesa pubbliche e trasformando il momento della dimissione in un passaggio obbligato verso i centri privati. «Sono percorsi — scrivono gli inquirenti — che, oltre ad avere ovvi aspetti clinici, sono ammantati da interessi esclusivamente privati.»

Nel fascicolo compaiono anche frasi intercettate dietro cui — sospettano i pm — si nasconde un sistema rodato che andava avanti almeno dal 2019. «Vendo il ghiaccio agli eschimesi», dice uno degli indagati.

Il primario Palumbo, volto noto della medicina romana, difeso dall’avvocato Antonello Madeo, ha negato tutto. Ha sostenuto di essere «socio occulto» di una delle società coinvolte e che quei tremila euro sequestrati erano «un acconto sugli utili». Una versione che gli investigatori considerano incompatibile con la documentazione analizzata. Ma l’indagine è aperta. Il mosaico deve ancora essere ricomposto.


I paradossi del Pd che aiutano Giorgia Meloni


(Antonello Caporale) – Cinque paradossi dell’Italia di centrodestra. Le ragioni del melonismo e le colpe del centrosinistra, secondo la versione di Luca Ricolfi.

Paradosso numero 1. Il governo più stabile che la Repubblica ricordi si accinge a cambiare, in nome della stabilità, la legge elettorale. L’idea di rafforzare il potere esecutivo viene da lontano ed è stata più volte sostenuta anche da esponenti progressisti. Credo che la vera posta in gioco sia il bipolarismo: la destra non vuole che risultati elettorali incerti riaprano scenari di instabilità, o alimentino la tentazione di ricorrere a governi tecnici. Il vero paradosso a me sembra l’ostilità della sinistra, che senza il premio di maggioranza non arriverà mai al 50 per cento più uno dei voti.

Paradosso numero 2. La sicurezza è il caposaldo di ogni proposta del centrodestra, eppure i dati relativi alle rapine e ai furti sono sensibilmente aumentati. In realtà ad essere aumentati sono soprattutto i reati commessi da minorenni, specie stranieri, ma il grosso dell’aumento è avvenuto fra il 2019 e il 2022, non in era Meloni, ovvero nell’ultimo biennio per cui si hanno dati consolidati (2023-2024). Ma qui il nodo è di retorica politica: la sinistra si illude se pensa che denunciare un’esplosione dei reati nell’era Meloni le porti voti. L’elettore tipico non pensa “Meloni non ce l’ha fatta, adesso proviamo con Schlein”, perché sa perfettamente che Schlein farà di meno, non di più e meglio di Meloni. L’elettore pensa semmai: “se non ce l’ha fatta Meloni a ridurre i crimini, non ce la farà nessuno”, e magari prende in considerazione l’astensione. Sempre che i Cinquestelle non mettano sul piatto una proposta nuova, sulla scia delle idee – avanzate un anno fa – di Sahra Wagenknecht (star della cosiddetta sinistra rossobruna tedesca, ndr) e di Chiara Appendino (esposte nelle ultime settimane).

Paradosso numero 3. Il contrasto alla immigrazione è l’arma contundente che il centrodestra impugna per contestare la “mollezza” del centrosinistra. Eppure il governo ha approvato per il prossimo triennio un decreto flussi monstree per permettere l’ingresso di circa 500 mila nuovi immigrati. Pure questo non mi sembra un paradosso, anche se può diventarlo a livello applicativo. Il governo punta sull’immigrazione regolare per aiutare le imprese, ma rischia di ritrovarsi con molte permanenze irregolari se non si preoccupa di creare le condizioni di un inserimento ordinato dei nuovi arrivati nella vita economica e sociale.

Paradosso numero 4. L’opinione pubblica si alimenta grazie alla dose quotidiana di cronaca nera, che sta divenendo il sostituto funzionale della politica interna, la cui reputazione è ai minimi termini. Giorgia Meloni però ne resta indenne. La cronaca nera rafforza sempre la destra, perché – sul tema criminalità e immigrazione – la sinistra è testardamente negazionista.

Paradosso numero 5. L’Italia invecchia con gioia. Sale infatti l’occupazione povera e quella dell’età avanzata, dai 50 anni in su. Scende invece — e drammaticamente — il numero dei giovani che trovano lavoro. L’anomalia dell’Italia non è quanto pochi giovani trovano lavoro, ma quanto pochi ne cerchino uno vero. Un fenomeno che ho descritto ne La società signorile di massa, e che trova alimento innanzitutto nel “flusso successorio”, ovvero nell’enorme quantità di ricchezza che – attraverso donazioni in vita ed eredità – passa ogni anno nelle mani delle generazioni più giovani. Senza questo trasferimento annuo, che è dell’ordine di dieci Finanziarie, l’offerta di lavoro sarebbe più ampia e il tasso di occupazione meno lontano dagli standard europei.

Quale dei paradossi la colpisce di più, la inquieta di più? Forse il quarto, quello della infausta centralità della cronaca nera. Giusto in questi giorni, per fare ordine negli scaffali della Fondazione Hume, sto buttando via decenni di ritagli di giornale, e quel che più mi colpisce è il confronto con l’oggi: 20-30 anni fa c’erano ancora dibattiti appassionati su questioni cruciali (federalismo, povertà, evasione fiscale, legge elettorale, burocrazia, tasse, sistema pensionistico, sanità, scuola, università, conti pubblici, euro…). Oggi invece, al di fuori della cronaca e dei pensosi editoriali di chi la commenta, non c’è più quasi nulla.


Il disastro ucraino e il terremoto politico


(Tommaso Merlo) – Se vivessimo un’era di galantuomini, i responsabili del disastro ucraino ne trarrebbero le conseguenze levandosi dai piedi, ma viviamo un’era di arrivisti senza scrupoli che stanno disperatamente trovando il modo di uscirne indenni e riciclarsi. A partire dai principali colpevoli, i politicanti europei che hanno sostenuto per anni una guerra suicida per tutto il continente. Roba da dimissioni di massa in quel di Bruxelles. Questo modello di Europa tecnocratica non è solo inutile, è pericoloso perché aggrava la mafia lobbistica che sottrae sovranità democratica ai cittadini per darla a classi dirigenti indecenti e affaristi da corridoio. Il progetto politico continentale ha storicamente senso, l’attuale baraccone burocratico brussellese non ne ha. E se l’Europa va rifondata, la Nato va smantellata per sempre in quanto principale minaccia alla nostra sicurezza. Ma le colpe del disastro ucraino ricadono anche sui governi europei che hanno cocciutamente boicottato ogni soluzione diplomatica puntando tutto su una guerra persa in partenza e contro la volontà di pace dei loro popoli. Hanno sottratto miliardi alla povera gente nel bel mezzo di una crisi permanente e li hanno versati nelle tasche della lobby della guerra e del corrotto governo di Kiev farcito di neonazisti intenti in deliri politici da secolo scorso oltre che in un attualissimo arraffare. Miliardi in armi mentre sanità e scuola vanno a pezzi e la qualità della vita crolla. Un suicidio politico perché ha interrotto il più lungo periodo di pace in Europa e tradendo la sua missione originaria, l’ha ridotta in macerie. Ed un suicidio economico perché ha rovinato i legami con la Russia, nostra fonte energetica principale nonché partner fondamentale. Il tutto per una guerra senza prospettive strategiche se non l’autodistruzione nucleare. Davvero una follia suicida. Roba da dimissioni di massa, ma i galantuomini sono stati rimpiazzati da arrivisti senza scrupoli. Molti politicanti europei tenteranno di scaricare tutto su Trump che sta giocando tutt’altra partita. Trasformare la resa ucraina in accordo di pace e prendersi tutti i meriti nella speranza di strappare il Nobel mentre ammazza venezuelani ed arma i carnefici dei palestinesi. Per i più benigni Trump vuole la pace per mettersi a fare affari coi russi, per i più maligni Putin ha nel cassetto le prove dei suoi vizietti proibiti. Quello che ha frenato Trump fino ad oggi, è la sua debolezza ed incapacità oltre che lo stato profondo americano tradizionalmente russofobo. Ma che voglia ostinatamente la pace con la Russia rimane una buona notizia, con Biden saremmo già all’escalation mondiale. A sbloccare la situazione saranno le notizie dal fronte. Zelensky deve sventolare quella maledetta bandiera bianca e scappare in esilio finché è in tempo. Altrimenti lui ed i suoi soci rischiano di non godersi le villone con piscina e le fuoriserie comprate coi soldi dei contribuenti occidentali. Zelensky passerà alla storia come colui che ha distrutto l’Ucraina con la complicità dei suoi amichetti europei. Quanto al domani, se in Europa non vi sarà un terremoto politico a seguito della disfatta, queste classi dirigenti insisteranno col riamo e la militarizzazione sociale in vista di uno scontro diretto con la Russia o di un anacronistico scenario da guerra fredda. Accetteranno inizialmente controvoglia un congelamento del conflitto e appena pronti gli eserciti, si inventeranno le solite scuse per una nuova escalation col rischio di scatenare la terza guerra mondiale. Quanto agli americani, bisognerà vedere in che condizioni Trump lascerà l’impero, ma più procede il crollo, più si dovranno chiudere in loro stessi per riuscire a ricostruire. E in tale fase, averci separato dalla Russia gli fa molto comodo. L’Europa non è mai stata così isolata e detestata anche dai suoi stessi cittadini. L’unica speranza è un terremoto politico e pure di potente magnitudo che porti ad un cambiamento radicale. Quella in Ucraina non è solo una sconfitta militare e politica, ma anche democratica per colpa di classi dirigenti che danno più retta alla mafia lobbistica che ai loro popoli. Ed una sconfitta culturale perché ci eravamo illusi di essere oltre certi deliri bellici. Dopo secoli di guerre sanguinarie tra di noi, dopo decenni di guerre a vanvera in giro per il mondo, siamo ripiombati nella paura di perdere i nostri figli ed i nostri nipoti per le bizze di qualche insulso politicante. Tra declino economico e culturale, tra spopolamento e nuovi paradigmi, la vecchia Europa è destinata a svanire se non reagisce. L’unica speranza è nella ribellione delle nuove generazioni, una ribellione che fermi la folle spirale guerrafondaia e ritrovi l’entusiasmo di credere in una democrazia vera, in una società sana e nel bene supremo della pace.


Il vero volto del PD


Nel DDL non è mai citata Gaza. Mai citata la Palestina. Nessun riferimento ai bambini palestinesi trucidati. Niente.

(Alessandro Di Battista) – Come avrete letto nelle scorse ore il Partito democratico ha presentato un DDL “per la prevenzione e il contrasto dell’antisemitismo”. Dieci senatori del PD lo hanno firmato. Dieci. Il primo firmatario è Graziano Delrio. A seguire: Simona Flavia Malpezzi, Alessandro Alfieri, Alfredo Bazoli, Pier Ferdinando Casini, Tatjana Rojc, Filippo Sensi, Walter Verini, Sandra Zampa e Beatrice Lorenzin.

Nel DDL non è mai citata Gaza. Mai citata la Palestina. Nessun riferimento ai bambini palestinesi trucidati. Niente.

All’articolo 1 del disegno di legge c’è scritto questo: “Ai fini della presente legge si applica la definizione operativa di antisemitismo approvata dall’Alleanza internazionale per la memoria dell’Olocausto (International Holocaust Remembrance Alliance – IHRA)”. La definizione IHRA include tra gli esempi di antisemitismo anche critiche politiche allo Stato terrorista di Israele. Significa che chi denuncia il genocidio dei palestinesi, chi racconta dei bambini palestinesi fatti a pezzi dai terroristi israeliani, chi parla dell’occupazione della Palestina, può essere additato come antisemita. Come già avvenuto svariate volte a chi, come me, ha denunciato il genocidio dei palestinesi dall’8 ottobre 2023.

All’articolo 2 si passa alla fase operativa con interventi “ai contenuti antisemiti diffusi sulle piattaforme on line di servizi digitali”. Si stabilisce la rimozione accelerata di contenuti giudicati antisemiti secondo i criteri IHRA, maggiori poteri di vigilanza all’AGCOM e un sistema privilegiato di segnalazioni per le comunità ebraiche: “prevedere che gli utenti delle piattaforme on line possano segnalare direttamente, in forma associata, all’AGCOM casi specifici di diffusione di contenuti antisemiti e che a tal fine l’AGCOM, in collaborazione con gli organismi rappresentativi delle comunità ebraiche compili un registro delle associazioni di utenti che, su richiesta, possano segnalare direttamente all’Autorità un insieme aggregato di segnalazioni – e ancora – l’AGCOM disciplini procedure semplificate di collaborazione tra l’Autorità, le piattaforme on line di servizi digitali e gli organismi rappresentativi delle comunità ebraiche”.

Poi c’è l’articolo 4: “L’articolo 4 dispone che presso l’organismo di vigilanza di ogni università sia individuata un soggetto preposto all’attività di verifica e monitoraggio delle azioni per contrastare i fenomeni di antisemitismo, in linea con il codice etico dell’università stessa”. In pratica in ogni università ci sarebbe un organo incaricato di stabilire se una critica allo Stato terrorista di Israele debba essere perseguita come antisemitismo.

Quello del Partito democratico è un capolavoro. Ufficialmente dicono che è un’iniziativa personale di Delrio. Personale. Peccato che la proposta di legge l’abbiano firmata undici parlamentari. Se il PD fosse coerente li espellerebbe domattina e li inviterebbe a unirsi ai partiti di Scalfarotto (Italia Viva), Romeo (Lega) e Gasparri (Forza Italia), che da tempo presentano proposte di legge molto simili. Ma non lo faranno. Non possono. Perché il PD vive di questa ambiguità strutturale: da un lato fa finta di denunciare il genocidio dei palestinesi (senza avere il coraggio di chiamarlo genocidio), dall’altro si tiene in casa chi presenta queste porcherie. Si tengono la vicepresidente del Parlamento europeo Pina Picierno che incontra ex generali sionisti nel pieno del genocidio. Si tengono Fassino, che si è collegato alla Knesset e ha detto: “Israele è una società aperta, una società libera, una società democratica, una società che anche su questi due anni e sulle prospettive ha una dialettica democratica tra chi propone certe soluzioni e chi ne propone altre”.

Lo dico da molto tempo: il Partito democratico è il partito peggiore di questo Paese perché è il più ipocrita. Il PD ha due facce: una faccia per i comunicati e una faccia per “rassicurare” i poteri che contano a cominciare dal potere sionista, un potere che sta realizzando lo sterminio di un popolo.