Avviata un’indagine su chi avrebbe rivelato i movimenti dei membri ai giornalisti della trasmissione condotta da Sigfrido Ranucci

(di Antonella Baccaro – roma.corriere.it) – Dimissioni al Garante della Privacy. Ma a lasciare non è il collegio, finito nel mirino di Report, bensì il segretario generale Angelo Fanizza. Il comunicato dellâAutorità , diramato stasera, non dà spiegazioni ma quello che sâintuisce è che potrebbe essere ricaduta sul dirigente la responsabilità di unâindagine interna troppo invasiva sui dipendenti, esperita dopo lâinchiesta di Report per cercare eventuali âtalpeâ.
Ma riavvolgiamo il nastro. La notizia di unâassemblea dei lavoratori del Garante della Privacy che allâunanimità avrebbe sfiduciato lâintero collegio guidato da Pasquale Stanzione, comincia a circolare oggi in tarda mattinata, lanciata dal sito di Wired. A riprenderla, sostenendo la richiesta di dimissioni, Dario Carotenuto, membro M5S in commissione di Vigilanza Rai e Elisabetta Piccolotti per Alleanza Verdi Sinistra. Ma anche Sigfrido Ranucci, il conduttore di Report, che è stato multato dal Garante per aver diffuso una telefonata tra lâex ministro Gennaro Sangiuliano e la moglie e che, allâattività del Collegio, ha dedicato tre puntate di fuoco.
Tuttavia, man mano che le ore passano, dellâammutinamento di piazza Venezia si fatica a saperne di più. Tra i sindacati, che pure hanno preso lâiniziativa, pare Fisac Cgil e Uilca, câè chi si tira indietro circa ulteriori spiegazioni perché âla questione è troppo delicataâ. E chi parla, ma a mezza bocca, ricostruendo una vicenda in effetti intricata.
Questo il sunto di fonte sindacale: già ieri ci sarebbe stata unâassemblea del personale dellâAutorità , circa 200 dipendenti, che avrebbe discusso soprattutto del mandato di cui il Collegio avrebbe investito il segretario generale Angelo Fanizza (nominato lo scorso mese): indagare sulla fuga di notizie che ha alimentato le puntate di Report. Chiamata al voto sulla richiesta di dimissioni del collegio, lâassemblea si sarebbe spaccata. Si sarebbe così deciso di chiedere un confronto con i membri del Garante, una richiesta che oggi sarebbe stata accettata da Stanzione che, in un primo momento, avrebbe preferito incontrare i dipendenti senza i sindacati. Ma alla fine anche questi sono stati ammessi. E qui la versione si fa molto delicata, perché dal botta e risposta sarebbe emerso che in effetti unâindagine interna sarebbe stata avviata e che riguarderebbe anche un controllo della corrispondenza dei dipendenti che risalirebbe indietro fino al 2001.
La circostanza sarebbe apparsa così inaccettabile da provocare una sollevazione e un nuovo voto dellâassemblea, convinta a quel punto allâunanimità a chiedere le dimissioni dei quattro membri del collegio. Per ore la versione non ha trovato conferma da parte del Garante fino al comunicato serale in cui sono state annunciate le dimissioni. Ma quelle del segretario generale Fanizza. Ma in serata è arrivata una nota con cui «il Collegio del Garante per la protezione dei dati personali afferma la propria totale estraneità alla comunicazione a firma dellâex Segretario Generale – alla quale, peraltro, non è mai stato dato seguito – riguardante una richiesta di dati dei dipendenti relativi allâuso dei sistemi informatici.
Il Garante ricorda che come da suo costante orientamento giurisprudenziale lâaccesso da parte del datore di lavoro a taluni dati personali dei dipendenti relativi allâutilizzo dei sistemi informatici può costituire violazione della privacy».
Una polemica montata ad arte per disincentivare resistenze ai propri progetti sulla legge elettorale e per lâennesimo diversivo di massa dai reali problemi del governo con un Paese in difficoltà . Se non fosse grave, una querelle che meriterebbe solo di essere riportata in trattoria, dove è nata

(Eugenio Mazzarella – editorialedomani.it) – Accusato di un piano contro Meloni, il consigliere Garofani, cattolico, ancorché di sinistra, non ha purtroppo tenuto a mente, a tavola, lâammonimento di Qohèlet, 10,20: «Non dire male del re neppure con il pensiero/ e nella tua stanza da letto non dire male del potente, / perché un uccello del cielo potrebbe trasportare la tua voce/ e un volatile riferire la tua parola».
Roma è piena di uccellacci ed uccellini, e di uccellati di conseguenza. Peccato, perché un peccato di imprudenza a tavola si è trasformato in un tramestio sgangherato ai danni delle istituzioni da parte dei soliti noti a Palazzo Chigi. Cui non è sembrato vero di tornare a proporsi come vittime dellâennesimo complotto, e di poterci offrire un saggio della Premierada alla Sgarbatella che ci ammanniranno da qui alle elezioni del â27 dove arrivare con una nuova legge elettorale con il premier eletto, nei fatti, direttamente dal popolo con maggioranza assicurata al seguito.
«Complotto e rivoluzione» â complotto loro e rivoluzione nostra â sembra essere per Fratelli dâItalia la strategia per rivoltare, a favor di popolo ovviamente, il paese come un calzino. Dopo che le scatolette di tonno delle Camere sono state largamente svuotate, ora pare essere arrivato il turno del Quirinale. à la nuova scatola da svuotare. E da intimidire, imputandogli un inesistente complotto dei Consiglieri di cui, «là dove si puote», «non si poteva non sapere». Ma la scatola si è confermata fortunatamente, come è stata pensata dai Costituenti, uno Scatolone, e bello pieno. E che, capita lâantifona, in modo inusuale ha reagito facendo intendere che lo Scatolone è ben abitato, e che tutta la verità de La Verità ricamata da Belpietro e sventolata da Bignami come un drappo rosso per infilzare le banderillas dellâindignazione istituzionale sulle terga del povero Garofani (ma in realtà il toro da cominciare a sfiancare nellâarena era un altro), era una stupidaggine ai limiti del ridicolo.
Il resto va da sé: incontro quirinalizio, «non ce lâho con Lei», «piena sintonia», «ma quello lì deve scusarsi, io sono una tosta».
Poco conta che lâimprudente Garofani, facendosi riprendere da ex Pd dalle sirene delle questioni interne del suo vecchio partito con amici della sua vecchia squadra, il buon De Bartolomei compreso, lo âscossoneâ pare non lo intendesse rivolto da dare al governo, ma al Pd perché attrezzasse una candidatura più performativa di Schlein contro Meloni alla prossima tornata elettorale.
Si deve scusare, questa è la richiesta. Forse proprio del goffo tentativo di togliere a Meloni la sparring partner dalla premier ritenuta ideale per vincere la prossima volta. E non parlasse di un impossibile scossone al governo in carica per cui nessuno ravvede i termini politici, tra cui la limpida correttezza istituzionale di Mattarella. Che a chi scrive appare essere ben disponibile allâascolto, ma sulle questioni essenziali benissimo in grado di consigliare ai suoi consiglieri cosa consigliargli, se proprio vogliono.
Insomma, una polemica montata ad arte per disincentivare resistenze ai propri progetti sulla legge elettorale e per lâennesimo diversivo di massa dai reali problemi del governo con un Paese in difficoltà . Se non fosse grave, una querelle che meriterebbe solo di essere riportata in trattoria dove è nata, con Garofani che dichiara che non stava affatto chiedendo uno scossone alle istituzioni o al Pd ma semplicemente lo scorzone sullâamatriciana, visto che non è ancora tempo di tartufi, che non si trovano.
Credo che questo Paese più che di Amazzoni, Medee e Zarine â un machismo al femminile â comincia ad avvertire il bisogno di una âpaternità â responsabile, serena, consapevole, in cui tutti possano riconoscersi. Inclusiva, non divisiva. Mattarella ne è unâicona, non andrà bene a scalmanati e scalmanate, ma va bene, a stare ai sondaggi, a moltissima Italia, quella di tutti.

(dagospia.com) – Il Garofani-gate, nonostante le polemiche politiche e i tanti articoli dedicati al caso dalla stampa nazionale, è ben lontano dal chiudersi.
Il tentativo di Fratelli dâItalia di gettare acqua sul fuoco, con la nota distensiva verso il Quirinale dei capigruppo, Lucio Malan e Galeazzo Bignami, non dissipa i tanti dubbi alimentati dagli articoli de “La Verità ”.
Innanzitutto, esiste o no un audio di Francesco Saverio Garofani, consigliere di Sergio Mattarella che a una cena si sarebbe lasciato andare a considerazioni politiche che il quotidiano di Belpietro ha tradotto in un roboante quanto inconsistente âpiano del Quirinale per fermare la Meloniâ?
Il condirettore del quotidiano, Massimo De Manzoni, ieri ha fatto il vago: âPotrebbe esserci una registrazioneâ.
Oggi il vice di Belpietro, Martino Cervo, ospite di SkyTg24, ha ribadito: “Non è una cosa che posso né confermare né smentire. […] Non possiamo escludere che esista perché dato il luogo dove sono state pronunciate quelle frasi, confermate dal diretto interessato, nessuno di noi può escludere che questo audio ci sia’, ma allo stesso modo ‘non posso confermare in questa sede che questo audio esista né io l’ho ascoltato'”.
In realtà lâesistenza di un file appare, con il passare delle ore, sempre meno probabile.
D’altronde se la registrazione esistesse, perché non pubblicarla e fare così definitivamente chiarezza?
Il sospetto è che lâesistenza dell’audio sia stata ventilata più come spauracchio, forse come “mind game” verso Garofani che, temendo di essere sbugiardato da una registrazione, non ha potuto né tacere né smentire gli articoli de “La Verità ”.
Mettetevi nei suoi panni: era a una cena conviviale con amici, si è lasciato andare a qualche considerazione politica, ha dialogato sullo stato di salute del Pd. Non poteva avere, giorni dopo, l’esatta contezza delle parole effettivamente utilizzate.
Sapeva, questo sì, di non aver evocato alcun “provvidenziale scossone” né di aver tratteggiato chissà quale “piano” per abbattere Giorgia Meloni e il suo governo. Ma le parole usate per commentare lo stato di salute dei dem, queste no, non poteva ricordarle. E allora, nel dubbio, Garofani ha rilasciato qualche dichiarazione al “Corriere della Sera”. I più hanno voluto leggere le sue parole come una conferma dello “scoop” di Belpietro. Ma in buona sostanza ha riconosciuto di aver preso parte alla conversazione politica, si è intestato i ragionamenti sul Pd, ma ha smentito qualunque trama complottista. E tanto basterebbe per ritenere chiarito lo “scandalo”.
E invece no. I giornali ci hanno ricamato su, si sono concentrati sui possibili risvolti fanta-politici della vicenda. Francesco Malfetano sulla âStampaâ evoca gli âapparatiâ, Monica Guerzoni sottotraccia fa capire che dietro allo âscandaloâ ci sia un âduelloâ Crosetto-Meloni per il Quirinale, âmentre Stefano Folli ne fa una questione di scacchiere internazionale e di ombre russe:
âNon bisogna dimenticare [â¦] che il Quirinale è oggetto degli strali del Cremlino con un’insistenza più che sospetta. Nel quadro della “guerra ibrida” a cui era dedicato il Consiglio di difesa dell’altro giorno, con i dati forniti dal ministro Crosetto, questa pressione putiniana rivela soprattutto un aspetto: a Mosca c’è chi ritiene che l’Italia sia il “ventre molle” [â¦] dello schieramento occidentale. E tra le posizioni russofile di Salvini e quelle analoghe dei Cinque Stelle non è strano che qualcuno ritenga di poter ricavare qualche vantaggio a buon prezzoâ.
Tocca ricorrere al solito rasoio di Occam: tra più spiegazioni valide, bisogna sempre scegliere la più semplice.
Questa volta dunque, più che una âguerra ibridaâ o una trama di âapparatiâ, ad aver innescato il Garofani-gate potrebbe essere stata una “gola profonda”, anche un po’ pasticciona.
Per capire bene cosa sia avvenuto, occorre ripartire dai fatti.
Giovedì 13 novembre, al Tempio di Adriano, in pieno centro a Roma, si tiene un evento organizzato da Luca Di Bartolomei per lâassociazione intitolata a suo padre Agostino. Un convegno per promuovere le attività solidali dellâente, che offre borse di studio ai giovani in difficoltà , per farli studiare e praticare sport.
Come racconta Lorenzo De Cicco su âRepubblicaâ: âDiversi ospiti, anche volti noti: il conduttore di Di Martedì Giovanni Floris, il prefetto di Roma, Lamberto Giannini, manager come Paolo Del Brocco, amministratore delegato di Rai Cinema [â¦]. Câera anche Lando Maria Sileoni, che ieri è stato intervistato da Panorama, settimanale diretto sempre da Belpietro, descritto così: âIndiscusso leader della Fabi, il più potente sindacato dei bancari italianiââ.
A fine convegno, una piccolissima parte degli invitati, 16 persone e nessuno di quelli elencati sopra, va a cena alla Terrazza Borromini, con affaccio su piazza Navona, il cui titolare ha ottimi rapporti con Luca Di Bartolomei. La sala non era riservata, ciò significa che il ristorante era aperto anche ad altri clienti.
Al tavolo di Luca di Bartolomei, organizzatore della serata, sedeva un gruppo di amici. Era una cena ristretta, d’altronde.
Insieme a Francesco Saverio Garofani c’erano vari manager, consulenti, un amministratore delegato di una banca, due cronisti sportivi Rai (Carlo Paris e Fabrizio Failla) eâ¦un giornalista che in passato ha lavorato in un quotidiano di destra, già diretto in passato da Belpietro.
Un dettaglio, quello del vecchio impiego del cronista, che ha attirato l’attenzione degli “addetti ai livori”.
Va tenuto a mente, infatti, che la mail inviata dal misterioso âMario Rossiâ (dallâaccount stefanomarini@usa.com), con il resoconto della serata e le dichirazioni di Garofani, è stata recapitata ad altri quotidiani. Sicuramente l’ha ricevuta âil Giornaleâ di Sallusti, che ha preferito non dar seguito alla segnalazione. A “Libero” non sarebbe arrivato nulla, almeno così dice il direttore Mario Sechi.
L’atmosfera della tavolata alla “Terrazza Borromini” era assolutamente conviviale: si parlava di calcio, di lavoro e a un certo punto il discorso è scivolato verso la politica. Tema caro a molti dei presenti: il futuro del centrosinistra e lo stato comatoso del Pd.
Francesco Saverio Garofani, assicurano a Dagospia alcuni presenti alla cena, non ha mai parlato né di Giorgia Meloni né ha mai pronunciato la parola âscossoneâ.
Del resto, nemmeno lâimprovvido âMario Rossiâ attribuisce lâinvocazione di un âprovvidenziale scossoneâ al consigliere di Mattarella. Nella mail le due parole non erano virgolettate ma erano frutto di un ragionamento di chi ha vergato il racconto.
E’ stato Maurizio Belpietro, nel suo articolo di martedì, ad aggiungere le virgolette a quelle parole, affibbiandole di fatto a Garofani.
Una mossa da prestigiatore che ha così permesso a Belpietro, pur sempre cresciuto al magistero di Vittorio Feltri (uno che sapeva come creare scandali), di sparare in prima pagina il titolo evocativo e esagerato: âPiano del Quirinale per fermare Meloniâ.
Câè anche un secondo âerroreâ, come ricorda ancora Lorenzo De Cicco su “Repubblica”:
âNon tornano le date. La conversazione, scrive Mario Rossi nella mail di domenica, risalirebbe al giorno prima: si legge infetti che âlâincontro conviviale è avvenuto ieriâ. Dunque sabato. La Verità non ha nemmeno cambiato questa parte, nonostante sia andata in edicola martedì. Da quanto apprende Repubblica, invece, la cena in questione è avvenuta giovedì 13 novembreâ.
Pasticcione, dunque, questo “Mario Rossi”. Ma anche a “La Verità ” non scherzano.
In ogni caso, la misteriosa “gola profonda”, di ora in ora, è sempre meno misteriosa…
E’ facile immaginare come, su una tavolata di 16 persone, sfogliando la margherita dei sospetti, sia stato possibile arrivare rapidamente a un nome. Tolti Garofani, Luca Di Bartolomei e qualche altro fidatissimo amico, lo spazio si è ristretto fino a individuare il maldestro spione…
DI BARTOLOMEI ‘COMPLOTTO? SOLO TAVOLATA TRA AMICI ROMANISTI’

(ANSA) – “Ma quale complottone contro il governo… Io sono anni che lavoro in contesti prossimi alla politica e so riconoscere quando una discussione fa un salto di scala, diventa sensibile. Invece ho letto delle cose campate in aria, costruite in maniera totalmente artificiosa. Sono stati estrapolati pezzi di conversazione, anche di soggetti diversi”.
Lo afferma in una intervista a La Repubblica Luca Di Bartolomei, il figlio di Agostino, calciatore bandiera della Roma tragicamente scomparso. E’ stato Luca ad organizzare la cena alla quale ha partecipato Francesco Saverio Garofani, il consigliere del presidente della Repubblica, poi finito al centro delle polemiche.
Si trattava, spiega Di Bartolomei, della “cena annuale, lo scorso giovedì 13 novembre, che ha seguito la presentazione al Tempio di Adriano delle attività dell’associazione nata per ricordare Agostino con l’obiettivo di aiutare i giovani in difficoltà a studiare e praticare sport”.
“Sappiamo tutti – sottolinea – chi è Francesco, a cui sono legato da molti anni da affetto e stima. Quale sia il suo stile. E’ la persona più moderata e più istituzionale che abbia mai conosciuto. Uno cui non ho mai sentito dire una parolaccia in vita, per dare un’idea del tipo. Figuriamoci i complotti”.
“Era tutto tranne che un incontro carbonaro. Anche perché – ricostruisce Di Bartolomei – il locale era aperto al pubblico. C’era convivialità , qualche sfottò e anche la garanzia della massima riservatezza. Per questo sono amareggiato. Come si può accettare questo attacco volgare al capo dello Stato e a Francesco, finito in un tale tritacarne mediatico? La violazione di uno spazio amicale è inaccettabile”.
MARIO ROSSI INFORMATORE, GIALLO SULLA MAIL AI GIORNALI
(ANSA) – L’articolo lo ha pubblicato La Verità , firmato con uno pseudonimo, Ignazio Mangrano. Ma lo stesso identico testo è arrivato domenica all’ora di pranzo in almeno tre redazioni, di area di centrodestra, inclusa quella del Giornale, dalla casella mail stefanomarini@usa.com, e firmato Mario Rossi.
Questo elemento getta tinte di giallo sullo scontro politico istituzionale nato dal caso Garofani, anche perché è diventato un dato lampante quando le testate online di Repubblica e Stampa hanno fatto emergere questo retroscena poche ore dopo la conclusione dell’incontro al Quirinale fra Sergio Mattarella e Giorgia Meloni, pubblicando anche la foto della mail.
Di certo nessuno ha riportato quell’articolo lunedì, il giorno del Consiglio supremo di difesa, con Mattarella, Meloni e mezzo governo riuniti al Colle. L’edizione odierna del Giornale (di proprietà del deputato della Lega Antonio Angelucci e prima della famiglia Berlusconi), nel pezzo sulle “tensioni” fra FdI e Colle, ha riferito di aver ricevuto quella mail.
“Temo ci sia un po’ di invidia in quel pezzetto del Giornale – ha commentato Massimo De Manzoni, condirettore de La Verità , ospite di Un giorno da pecora, su Radio1 – Pensa che avremmo fatto tutto questo sulla base di una lettera anonima? E se fosse vero, come mai il Giornale non c’è andato dietro?”.
“Assolutamente”, ha garantito De Manzoni, conosciamo la fonte, “non è un Mario Rossi”. à “una fonte più che autorevole”, aveva messo nero su bianco il direttore Maurizio Belpietro nell’editoriale sul “piano del Quirinale per fermare la Meloni”. Ora ci si interroga sull’esistenza di un audio della conversazione che ha avuto come protagonista Francesco Saverio Garofani, consigliere del presidente della Repubblica. “à possibile” che esista, ha confermato De Manzoni senza escludere che il giornale abbia tenuto dell’altro materiale per nuove puntate nei prossimi giorni: “Top secret. Un po’ di casino lo abbiamo fatto già , intanto stiamo sfruttando le reazioni”.

(Matteo Parini – lafionda.org) – Se la corruzione degli oligarchi ucraini e il genocidio della Palestina sembrano oggi coinvolgere emotivamente una fetta crescente di opinione pubblica â verrebbe da dire che non è mai troppo tardi â non si può certo dire lo stesso dellâimmane tragedia umanitaria che da anni fa del Sudan lâennesimo angolo di inferno in Terra. Situazione complicata, per la verità , che si prova qui a raccontare a partire da un breve excursus storico.
Allâinizio del nuovo millennio Omar al-Bashir è al governo già da una decade, da quando, alla testa di un colpo di Stato militare, rovescia il governo eletto di Sadiq al-Mahdi. Il suo è un sistema autoritario in un Paese segnato da profonde differenze etniche e culturali. Guerriglie e violenze, pertanto, sono la stretta attualità di quei giorni. Il neonato Consiglio di Comando Rivoluzionario per la Salvezza Nazionale â di fatto una giunta militare che concentra il potere nelle mani delle forze armate â insieme allâinfluenza ideologica di Hassan al-Turabi, lâideologo del radicalismo religioso e del Fronte Islamico Nazionale, trasforma il regime in una dittatura a carattere islamista con una solida centralizzazione del potere. In quel lustro, dal 1991 al 1996, il Sudan ospita anche Osama bin Laden.
Il sodalizio tra al-Bashir e al-Turabi si spezza già alla fine degli anni Novanta: il primo teme la crescente popolarità del secondo che, come spesso accade in questi contesti, finisce incarcerato. Con lâepurazione dellâalleato divenuto scomodo, al-Bashir rimane il leader incontrastato di un Paese pronto ad esplodere. Inflazione alle stelle, pane che manca, così come medicinali e carburante, alimentano proteste popolari che nel Darfur diventano particolarmente agguerrite.
Il perché lâepicentro del malcontento sia proprio il Darfur è presto detto. Oltre alla drammatica situazione economica generale, la popolazione africana non araba della regione percepisce con buone ragioni di essere trattata come cittadina di seconda classe. Gruppi etnici come i Fur, i Masalit e gli Zaghawa sono esclusi dalle cariche di governo, quasi impossibilitati a ricoprire incarichi nellâesercito, privati del sostegno statale in materia di scuole, ospedali e infrastrutture. A tutto ciò si aggiunge la questione dellâacqua. Il Darfur è una regione arida e nei conflitti tra pastori nomadi arabi e agricoltori sedentari africani il governo di Khartoum finisce sempre per penalizzare questi ultimi.
Non sorprende, dunque, che le comunità autoctone si organizzino in movimenti di ribellione: nascono il Sudan Liberation Army e il Justice and Equality Movement, questâultimo vicino ad al-Turabi. Entrambi rivendicano i diritti negati dal regime di al-Bashir. Marginalizzazione politica, discriminazione etnica, conflitti per le risorse, assenza di mediazione tradizionale e diritti calpestati sfociano nellâattacco alla base governativa di El-Fasher. à la scintilla che fa esplodere la guerra.
Lâesercito regolare risponde con una brutale repressione, appoggiandosi a milizie regionali occasionali che, dieci anni più tardi, confluiranno nelle RSF, le Rapid Support Forces. Mohamed Hamdan Dagalo, detto âHemedtiâ, diventa il leader di una forza paramilitare leale allâestablishment che si affianca allâesercito regolare, il SAF (Sudan Armed Forces). Fino al 2019, la presenza di al-Bashir funge da collante tra due anime destinate a divergere. Alle RSF spetta il controllo delle miniere dâoro e delle rotte commerciali, al SAF quello dellâapparato statale e delle frontiere.
La crisi economica, il malgoverno e la corruzione endemica spingono la popolazione stremata a scendere in piazza. Inoltre, dal 2011, con lâindipendenza del Sud Sudan, alle casse dello Stato viene sottratta la quasi totalità del petrolio, causando un ammanco enorme. Nel dicembre 2018, ad Atbara, la protesta per il prezzo del pane triplicato diventa simbolo del cambiamento imminente. Dalle rimostranze di piazza nasce il Consiglio Militare di Transizione guidato dal generale Abdel Fattah al-Burhan, con Hemedti come vice, che raccoglie effettivi sia delle RSF sia del SAF.
Lâesercito, dunque, volta le spalle ad al-Bashir che viene arrestato con lâaccusa di ostacolare la stabilità del Paese. Ma, nonostante la caduta del dittatore, le proteste non si placano e le due anime del CMT cominciano a mostrare insofferenza reciproca. La popolazione chiede un governo civile; al-Burhan vuole inglobare le RSF nel SAF entro due anni; Hemedti esige almeno una decade di autonomia, convinto di poter fare all-in sul Paese in quel periodo di transizione. Ambizioni inconciliabili.
Khartoum, centro dellâegemonia politica del Sudan, è teatro della frattura insanabile. Nel 2023 le RSF organizzano unâadunata militare non concordata intorno alla capitale con lâesercito che interpreta la mossa come un tentativo di colpo di Stato. Forte del controllo sulle risorse del sottosuolo, Hemedti punta alla capitale per estromettere al-Burhan dal potere. Inevitabilmente Khartoum diviene il campo di battaglia, la genesi della guerra civile sudanese.
I due eserciti fortificano le rispettive posizioni con il SAF nelle basi tradizionali e le RSF nelle regioni controllate, e il conflitto si estende a macchia dâolio al resto del Paese, intrappolando milioni di civili sotto il fuoco incrociato. Inizia la carneficina, una guerra di logoramento tra artiglieria pesante, mezzi blindati e droni. La carestia, secondo la definizione di FAO e FSNAU, colpisce oltre il 20% della popolazione con insicurezza alimentare grave, il 30% dei bambini sotto i 5 anni soffre di malnutrizione acuta e il tasso di mortalità supera le 2 persone ogni 10.000 al giorno per fame e malattie correlate.
Uno scontro che diventa progressivamente più asimmetrico e muta le sue dinamiche. Lo scorso marzo lâesercito di al-Burhan riconquista Khartoum e dichiara la capitale âliberataâ, mentre le RSF mantengono il controllo delle aree periferiche e dei corridoi economici. à guerriglia urbana, la forma di guerra peggiore per la sopravvivenza dei civili. Secondo lâUNHCR, oltre undici milioni di persone sono sfollati interni e quattro milioni hanno cercato rifugio nei Paesi limitrofi. Metà della popolazione soffre fame acuta. Ondate di omicidi etnici fanno oggi della crisi sudanese, secondo lâONU, la peggiore emergenza umanitaria del mondo.
Il SAF, in sintesi, controlla una capitale ridotta in macerie, con le RSF che si radicano nel Darfur e conquistano città strategiche come al-Mahla e al-Rahid per proteggere le aree ricche di risorse e instaurare una governance parallela. Il Sudan appare, così, spaccato in due, al netto del Sud Sudan che resta una fragile entità riconosciuta. Eppure al resto del mondo sembra importare poco che trenta milioni di sudanesi siano a rischio di morte per fame, nonostante le prime immagini terrificanti inizino a circolare sul web nellâepoca dei genocidi in diretta streaming.
La situazione nel Darfur è, se possibile, quella peggiore, dove le RSF hanno appena conquistato El-Fasher al termine di un assedio durato diciotto mesi. Testimoni fuggiti dalla città , ultima roccaforte del SAF nella regione, riferiscono di scene raccapriccianti: violenze sessuali, massacri, esecuzioni di civili mentre decine di migliaia di persone tentano invano di scappare.
Intanto cominciano a cristallizzarsi le posture degli attori esterni, con la prospettiva di una guerra di attrito a tempo indefinito e di una spartizione de facto del Sudan che appare sempre più concreta. Gli Emirati Arabi Uniti, i principali alleati di Israele nella regione, rafforzano il controllo delle RSF sul Darfur in cambio di accesso allâoro e alle rotte del Mar Rosso. Stati Uniti, lo stesso Israele, Regno Unito e Francia rincorrono le stesse ambizioni coloniali. La stessa piramide di potere e interessi globali che opera a Gaza, un sinistro filo rosso che collega idealmente i popoli martoriati di Palestina e Sudan. Armi occidentali e diplomazie conniventi, morti di serie A e di serie B, il tristemente consueto doppio standard del Nord globale quale colonna sonora dei genocidi in atto.
La disintegrazione del Sudan, inoltre, resta un obiettivo dichiarato del sionismo israeliano, che già nel 2011 si era adoperato con raid aerei tollerati dalla Comunità internazionale per raggiungere tale scopo. Conseguenza di quella ingerenza, come accennato pocâanzi, fu la nascita eterodiretta del Sud Sudan in chiave essenzialmente anti-iraniana. Da Israele, non deve stupire, arriva dunque il sostegno allo sforzo bellico delle RSF e agli annessi massacri in cambio della cessione di fatto della sovranità su unâarea geograficamente strategica e di appetibili ricchezze.
Per Tel Aviv, ancora, il Sudan è tuttâaltro che periferico: è un ponte geografico verso lâAfrica e unâancora strategica sul Mar Rosso, che protegge una delle arterie marittime più importanti del mondo, quella tra il Canale di Suez e lo Stretto di Bab el-Mandeb. Israele, in altri termini, utilizza la brutale guerra del Sudan per giustificare agli occhi dellâopinione pubblica la sua espansione militare nel Mar Rosso con il pretesto di proteggere le rotte di navigazione globali dalle minacce degli Houthi. Tradotto, la volontà di fare del Sudan una zona cuscinetto.
Appare evidente come la situazione in atto non possa più essere interpretata soltanto come un conflitto civile o una crisi regionale. Si inserisce invece in un quadro geopolitico più ampio, che vede contrapporsi quello che viene definito lâAsse della Resistenza (Iran in testa, con Hezbollah, Hamas, Houthi e milizie sciite irachene) allâasse Stati UnitiâIsraele. In questo contesto, cresce in questi ultimi la preoccupazione per una possibile saldatura tra i fronti yemenita e sudanese in un unico teatro di confronto, con il Mar Rosso al centro di una competizione strategica sempre più intensa. La contesa non riguarda più soltanto il controllo delle rotte marittime, ma la definizione degli equilibri strategici dei prossimi anni. Con Israele, già impegnata su più fronti bellici, che considera il controllo dellâarea alla stregua di una questione di natura esistenziale con tutte le implicazioni del caso.
Lâimmagine odierna del Sudan restituisce, in definitiva, un Paese ormai sezionato in due in un contesto geopolitico più vasto che è campo di battaglia di ingombranti attori terzi. Per restare alla guerra intestina, da una parte lâesercito regolare, arroccato nel nord-est e determinato a preservare il proprio controllo; dallâaltra le milizie paramilitari, radicate a ovest e sempre più autonome nelle loro catene di comando ed efferate contro i civili. Una geografia del potere interno fratturata che riflette la natura profonda del conflitto. Se il futuro del Sudan è avvolto nellâincertezza, lâunica realtà innegabile è lâemergere di un nuovo disastro umanitario; una crisi con poco appeal che sta lasciando una scia di morte e devastazione destinata a segnare ulteriormente questa fase terribile della storia contemporanea.
Il Ppe chiede aiuto alle destre e blocca una missione dellâUe in Italia su libertà di stampa e giustizia. Secondo quanto apprende Ilfattoquotidiano.it da fonti vicine al dossier, la pressione del partito europeo di cui fa parte anche Forza Italia è arrivata per far sì che i membri della commissione LIBE del Parlamento Ue non disturbassero l’esecutivo di Roma nell’anno del referendum sulla giustizia. Bloccata anche la missione della commissione per l’Occupazione e gli Affari Sociali

(di Gianni Rosini – ilfattoquotidiano.it) – Vietato disturbare Giorgia Meloni. Il messaggio è arrivato chiaro anche al Parlamento europeo, tanto che con un blitz in Conferenza dei presidenti il capogruppo e presidente del Partito Popolare Europeo, Manfred Weber, ha chiesto e ottenuto, con lâaiuto dellâestrema destra, il blocco di una missione in Italia dellâEurocamera con focus sullo stato di diritto, la libertà di stampa e la giustizia. Lo stop ordinato, e ottenuto, dal Ppe non solo getta lâistituzione europea di nuovo nellâimbarazzo e fa gridare opposizioni, ma non solo, al servilismo dellâUe nei confronti di alcuni governi, ma rappresenta il terzo punto di rottura allâinterno della maggioranza Ursula, con i Popolari che per la terza volta usano le destre per far passare le proprie posizioni.
Lâaccordo sulla missione era stato trovato già due mesi fa e la Commissione per le libertà civili, la giustizia e gli affari interni del Parlamento europeo (LIBE) stava già lavorando ai preparativi del viaggio e degli incontri che si sarebbero dovuti tenere. Incontri che avrebbero trattato i temi dello Stato di diritto e, con particolare attenzione, della giustizia e libertà di stampa, anche alla luce delle pesanti dichiarazioni del conduttore di Report, Sigfrido Ranucci, e del direttore di Fanpage, Francesco Cancellato, in audizione a Bruxelles lo scorso maggio. Tutto è filato liscio fino al pomeriggio del 19 novembre, quando è stata convocata la conferenza dei presidenti che ha lâultima parola anche sulle missioni organizzate dal Parlamento Ue. Secondo quanto appreso da Ilfattoquotidiano.it, Manfred Weber, alleato di Antonio Tajani in Europa e allâinterno dello stesso Ppe, ha chiesto e ottenuto, col supporto dellâestrema destra di Ecr (partito europeo di Giorgia Meloni) e Patrioti (formazione nella quale milita la Lega), di annullare il viaggio della delegazione. La motivazione, da quanto riferito da fonti interne, è legata a possibili interferenze nel processo di voto in vista del referendum in Italia. Referendum che, fanno sapere da ambienti di governo, potrebbe tenersi il 22 marzo, tanto che la stessa missione era stata posticipata dopo le prime consultazioni a giugno 2026. Non è un caso, quindi, che questo stop irrituale, dopo settimane di preparativi e un accordo trovato ben due mesi fa, arrivi proprio nei giorni in cui la Corte di Cassazione ha accettato i quattro quesiti referendari. Segno che il vero intento di Weber e del suo partito era quello di non arrecare disturbo al governo italiano su temi al momento estremamente delicati come la giustizia e la libertà di stampa. Contemporaneamente è arrivata anche la decisione di annullare unâaltra missione, quella della commissione per lâOccupazione e gli Affari Sociali che dal 30 marzo al 2 aprile si sarebbe dovuta recare a San Patrignano, Foggia e Caserta.
Il blitz del Ppe ha fatto infuriare sia le opposizioni che gli altri partiti che compongono la cosiddetta maggioranza Ursula in Parlamento Ue. Anche perché si tratta della terza volta in cui i Popolari abbandonano il gruppone centrista allâEurocamera a sostegno della presidente della Commissione per allearsi con lâestrema destra. La prima si era registrata quando nella riunione dei coordinatori di luglio il Ppe appoggiò la richiesta delle destre di assegnare il ruolo di relatori sulle due proposte sulla definizione di Paesi terzi sicuri a Ecr. Infine, giovedì 13 novembre, nel corso della mini-plenaria, il Ppe ha votato insieme ai Conservatori e allâestrema destra sul pacchetto omnibus che mirava a ridurre la burocrazia a carico delle imprese sugli obblighi di rendicontazione e due diligence sul rispetto delle norme climatiche, ambientali e dei diritti umani lungo tutta la catena di approvvigionamento. Tanto che in quellâoccasione, tra gli eurodeputati di Fratelli dâItalia, si diceva che in Ue si era passati âdalla maggioranza Ursula alla maggioranza Giorgiaâ.
Così la presidente dei Socialisti, Iratxe GarcÃa Pérez, ha commentato a Politico la mossa del Ppe: âDovremmo rispettare le competenze del Parlamento e la Conferenza dei Presidenti non dovrebbe contraddire il lavoro svolto a livello di commissione. Cosa nasconde lâItalia per rifiutare una delegazione al Parlamento europeo col sostegno del Ppe?â.
Dure anche le opposizioni, con il Movimento 5 Stelle che parla di episodio âgravissimo quello che è accaduto a Bruxelles. Secondo quanto si apprende la destra europea, con un blitz nella conferenza dei capigruppo, avrebbe cancellato la missione del Parlamento europeo in Italia che avrebbe dovuto monitorare lo stato di diritto, compresa la libertà di stampa â ha dichiarato la senatrice Barbara Floridia â Proprio mentre nel nostro Paese si discute delle querele contro i giornalisti, delle pressioni politiche e dellâattentato contro Sigfrido Ranucci. Proprio mentre alla Camera viene esaminata una mozione che denuncia criticità sempre più evidenti. Proprio mentre si discute una riforma della Rai che non va minimamente incontro al Media Freedom Act europeo e con la commissione di vigilanza Rai bloccata dalla maggioranza. Censurare il monitoraggio europeo in un momento così delicato è un segnale politico intimidatorio. Se Giorgia Meloni non ha niente da nascondere dica ai suoi in Europa di evitare questa vera e propria censura, o magari invece le fa comodo?â.

(dagospia.com) – Câè un dettaglio importante nel Garofani-gate, poco valorizzato oggi dai giornali. In pochi hanno notato una discrepanza di non poco conto tra la mail di Mario Rossi (partita dallâaccount stefanomarini@usa.com) e lâarticolo di martedì sulla âVerità â, firmato da Maurizio Belpietro.
Occhio, non stiamo parlando del pezzo con la firma del nom de plum Ignazio Mangrano, che è un copia incolla pressoché integrale della lettera elettronica, ma di quello firmato dal direttore. Quello che in prima pagina è stato titolato, a caratteri cubitali, âPIANO DEL COLLE PER FERMARE LA MELONIâ.
Nellâarticolo, Belpietro a un certo punto scrive: âA quanto pare si ragiona di una âgrande lista civica nazionaleâ, una specie di riedizione dellâUlivo, con dentro tutti. Unâammucchiata centrista per togliere voti alla Meloni.
Ma forse questo potrebbe non essere sufficiente e allora il consigliere di Mattarella, Francesco Saverio Garofani, tre legislature come parlamentare del Pd, invoca la provvidenza. âUn anno e mezzo di tempo forse non basta per trovare qualcuno che batta il centrodestra: ci vorrebbe un provvidenziale scossoneâ, sussurra lâuomo del Colleâ.
âProvvidenziale scossoneâ, due paroline che però non sarebbero mai state pronunciate da Garofani. La prova è nella stessa mail di Mario Rossi, dove si legge:
âGarofani dipinge un quadro chiaro. Se il contesto politico restasse quello attuale, Giorgia Meloni sarebbe destinata al Quirinale. Lo dice quasi sorridendo, sì, ma come chi sta dicendo una cosa che lo preoccupa parecchio.
E soprattutto aggiunge un dettaglio non irrilevante: âIn quellâarea non câè nessuno adeguatoâ.
Tradotto: Meloni è lâunica. E questa unicità , secondo il consigliere del Colle, sarebbe un problema. Poi câè il calendario, già definito. Si voterà nella tarda primavera del 2027, probabilmente maggio.
Manca un anno e mezzo. Unâera geologica per la politica. Ma al Colle â è questo il punto â non sembrano così convinti che il tempo basti a cambiare gli equilibri, se non interviene qualche provvidenziale scossone.
Non a caso Garofani si lascia scappare un commento che racconta un mondo: âSperiamo che cambi qualcosa prima delle prossime elezioni, io credo nella provvidenza. Basterebbe una grande lista civica nazionaleâ. Non proprio una dichiarazione di neutralità istituzionaleâ.
Le parole âprovvidenziale scossoneâ, nella mail, non sono attribuite a Garofani. Sono un ragionamento di chi scrive, ma con un gioco di prestigio da vecchio mestierante, vengono virgolettate da Belpietro per scatenare la polemica.
Perché Belpietro lâabbia fatto, se sia stata una sua iniziativa o se ci sia una regia politica, poco importa: lâeffetto è stato deflagrante, e Fratelli dâItalia si è buttata a pesce sulla vicenda, con lâormai celebre comunicato con cui il capogruppo alla Camera, Galeazzo Bignami, ha chiesto a Garofani di smentire, scatenando lâira del Quirinale, che ha reagito con una nota di inusuale durezza (âStupore, confina nel ridicoloâ).
Più importante è notare, come fa Francesco Cundari su âLinkiestaâ, il rapporto osmotico tra âVerità â e Giorgia Meloni: âDa tempo ripeto che per capire cosa pensi Meloni bisogna leggere la Verità , esattamente come per capire cosa pensi Giuseppe Conte bisogna leggere il Fatto. Anche Conte, quando era ancora fresco della sua gratificante esperienza a Palazzo Chigi, manteneva una posizione assai più atlantista, europeista e responsabile di quella che poi sarebbe andato via via assumendo.
Ma se allora, quando per fare un solo esempio votava a favore dellâinvio di armi allâUcraina, si fosse guardato a cosa scriveva in proposito il Fatto quotidiano, anziché i cantori della grande svolta progressista dellâAvvocato del popolo, si sarebbe capito con largo anticipo dove sarebbe andato a parare (cioè esattamente al punto di partenza [â¦]).
Allo stesso modo, quanti si bevono oggi la favola della svolta liberale, atlantista ed europeista di Meloni, farebbero bene a leggere piuttosto la Verità , quotidiano smaccatamente filo-putiniano, no vax e no euro. La verità del governo Meloni, e della presunta evoluzione di Fratelli dâItalia, sta tutta lìâ.

(Paolo Tomaselli – il Corriere della Sera) – Sono trascorsi tre anni da quel monologo di 61 minuti, alla vigilia del Mondiale in Qatar, con il quale Gianni Infantino entrò sulla scena della politica internazionale: «Oggi mi sento qatarino, arabo, africano, gay, disabile, mi sento un lavoratore migrante». Eppure la sua raccomandazione più accorata, in quel discorso che spaziava dal bullismo subito da bambino figlio dâimmigrati in Svizzera fino allâipocrisia dellâEuropa neocolonialista, era di segno opposto: «Pensate solo al calcio, please, please, please ».
Anche oggi, quando viene invitato a Sharm el-Sheikh nel vertice sul futuro di Gaza e marca a uomo Donald Trump nello Studio Ovale, il presidente della Fifa non deroga del tutto a questo principio: il calcio, a partire dal trionfo dellâItalia al Mundial â82, per lui è riscatto sociale. E la sua passione, anche quella per lâInter, è intatta.
Ma il problema, a sette mesi da un altro torneo che per la federazione del calcio mondiale vale oltre 10 miliardi di euro, è semplice: pensare solo al calcio è impossibile.
Tra le continue ironie della stampa anglosassone e gli strali di chi ha dimenticato quale era la credibilità della Fifa quando è diventato presidente nel 2016 dopo Blatter, Infantino ha scelto di cavalcare una sorta di pericoloso gigantismo, del quale il nuovo Mondiale a 48 è lâemblema, con il suo motto mostrato ai 3,5 milioni di follower su Instagram: «Vivere il calcio, unire il mondo attraverso il calcio e rendere il calcio davvero globale».
Del resto è stato lui, in vista dei possibili accordi di Abramo, a tratteggiare (prima del 7 ottobre 2023) la possibilità di un Mondiale organizzato da Arabia e Israele, con lâobiettivo di vincere il Nobel per la pace.
Per adesso, Infantino ha istituito un premio per la pace, che il 5 dicembre nel sorteggio mondiale a Washington avrà il suo primo vincitore, Donald Trump, attirandosi un surplus di sarcasmo: «Solo la Fifa, che è una organizzazione non profit e ha reinvestito dal 2016 5 miliardi di dollari per la crescita del calcio, può essere criticata perché vuole la pace â recita la risposta del capo della comunicazione Bryan Swanson al Guardian â . La Fifa deve essere riconosciuta per ciò che è: un organismo di governo globale che vuole rendere il futuro del mondo più luminoso».
Un manifesto, dove calcio e politica si fondono. E pazienza se per perseguire lâobiettivo è servito lâ endorsement della politica di Trump, non consentito dallo statuto della Fifa. Ma quel che conta per Infantino è il risultato. E ogni partita ha la sua storia: solo grazie alla sua insistenza nel 2018 entrarono 1.500 donne allo stadio di Teheran per una partita del Persepolis dove lui era lâospite dâonore.
Trump ha voluto Infantino a Sharm el-Sheikh, ufficialmente per mostrare «quello che il calcio può fare nella ricostruzione di Gaza», anche se per la morte del calcio nella Striscia, la Fifa per due anni non ha preso posizione.
La vera peculiarità di Infantino utile a Trump, in un mondo nel quale lo sportwashing è la prassi (nella speranza che le sue ricadute siano sociali e non solo economiche), è il rapporto col mondo arabo. E la sua presenza, un poâ offuscata da quella di Ronaldo, allâincontro e poi alla cena alla Casa Bianca tra Trump e il principe saudita Bin Salman è la chiusura del cerchio.
Allâinterno del quale câè lâopera più ambiziosa: lâassegnazione allâArabia (per acclamazione e senza avversari) del Mondiale 2034.
Lâassegnazione a Usa-Canada-Messico è arrivata invece durante il primo mandato di Trump e otto anni dopo Infantino non avrebbe mai pensato di ritrovarsi The Donald come interlocutore. Per la riuscita del torneo gli deve stare accanto ogni minuto: sorridendo a denti stretti alle sue sparate sugli altri Paesi organizzatori («Allora per il narcotraffico bombardiamo il Messico?») o sulle sedi delle partite, con Seattle messa in discussione dopo lâelezione di una sindaca democratica.
La Fifa ha il suo quartier generale nella Trump Tower, ha appena organizzato il primo Mondiale per club negli Usa grazie ai soldi sauditi, ha accettato Washington come sede del sorteggio. E in cambio nelle ultime ore ha ottenuto la soluzione del problema dei visti veloci per chi compra i biglietti per il Mondiale.

(di Antonio Pitoni – lanotiziagiornale.it) – Ora che il Piano segreto in 28 punti tra Mosca e Washington per la pace in Ucraina è stato svelato dal sito Axios, la corsa al riarmo dellâUnione europea appare ancora più insensata. Cosa che dovrebbe indurre i cosiddetti leader Ue a riflettere sulla fallimentare gestione del conflitto.
Tanto sul piano militare, visto che i miliardi in armi e denaro inviati a Kiev a spese dei contribuenti non sono bastati a ribaltare le sorti di una guerra segnata fin dallâinizio. Quanto su quello politico-diplomatico che, qualora il Piano Usa-Russia dovesse andare in porto, vedrebbe lâEuropa tagliata ancora una volta fuori da un negoziato che, dâaltra parte, ha fatto di tutto per sabotare e niente per favorire. Ma il vero psicodramma sarebbe spiegare ai cittadini europei, semmai il conflitto in Ucraina dovesse chiudersi, da quale nemico dovremmo difenderci buttando nel cesso â a parte quelli dâoro della tangentopoli che ha travolto il governo di Kiev â 800 miliardi del Piano di Riarmo targato Ursula bomb der Leyen. A cui sommare pure il conto della ricostruzione di un Paese distrutto dalla guerra per procura fomentata dagli Usa (di Biden) e che hanno già chiarito (con Trump) che dovremo saldare noi.
Così per non perdere la faccia, ai leader europei non resta che sperare nella prosecuzione della guerra. Magari usando, come arma di distrazione di massa, la stessa propaganda che imputano al Cremlino. Martedì abbiamo appreso del dossier del ministro della Difesa Crosetto sui rischi della guerra ibrida da parte della Russia con tanto di capitolo dedicato allâItalia esposta, secondo Repubblica, su tre fronti: âEnergia, infrastrutture critiche ed ecosistema politico e socialeâ. Ora si dà il caso che in questi quasi quattro anni di guerra, lâunica infrastruttura (energetica) critica europea colpita sia stato il gasdotto Nord Stream, sabotato dai nostri alleati ucraini e non dai presunti nemici russi.
Quanto alle âcampagne di disinformazioneâ per influenzare lâopinione pubblica, gli hacker del Cremlino devono aver fatto un pessimo lavoro se, ormai dal suo insediamento a Palazzo Chigi, i sondaggi danno il partito della premier Meloni â tra le più strenue sostenitrici dellâUcraina al punto da scommettere sulla sua vittoria â stabilmente intorno al 30% dei consensi. Non sappiamo chi abbia scritto il dossier, ma se questo è il livello, qualche domanda al posto di Crosetto inizieremmo a porcela.

(di Silvia Truzzi – ilfattoquotidiano.it) – Tra involtini di spigola e fragoline di bosco, circondati da una nutrita schiera di ministri, Edi Rama e Giorgia Meloni hanno siglato una serie di accordi bilaterali a Villa Pamphilj. Cultura, cybersicurezza, narcotraffico e un sacco di altre materie sulle quali non ci dilungheremo (16 in tutto) perché il centro di tutto erano, sono e saranno gli ormai famigerati centri per i migranti a Shengjin e Gjadër, al di là dellâAdriatico, costati quasi 700 milioni di euro più altri 70 previsti dalla nuova Finanziaria. Giorgia Meloni abbassa la voce ma non cambia i verbi a un anno di distanza da quella minacciosa cantilena di Atreju, sillabata con toni da balcone di Piazza Venezia: funzionare e funzioneranno. Sostiene la premier che quando entrerà in vigore il nuovo Patto Ue su migrazione e asilo, i centri âfunzioneranno come dovevano dallâinizio. Avremo perso due anni per finire esattamente comâera allâinizioâ. La responsabilità , te pareva, ânon è mia, ciascuno si assumerà le sueâ (attenti magistrati). E, sempre rivolta alle toghe, spiega: âMolti hanno lavorato per frenare o bloccare il progetto, ma noi siamo determinati ad andare avantiâ. Il tempo non è servito a nulla, e nemmeno lâossessiva modifica della materia a colpi di decreti: nei due dispendiosi centri ci sono una ventina di migranti, a dispetto delle magniloquenti cifre che snocciolavano allâindomani dellâintesa (tremila al mese).
Dopo questo show condito dalle solite lusinghe del premier albanese, due notizie in apparenza piccole mettono in dubbio le certezze della premier. Il 5 novembre la Corte dâAppello di Roma ha firmato unâordinanza di rinvio alla Corte di Giustizia Ue che chiede lumi sulla competenza dellâItalia a siglare accordi come quello con Tirana. I giudici romani domandano se â tenuto conto del Trattato dellâUnione europea e del Trattato sul funzionamento dellâUnione europea, âin base ai quali lâUe ha competenza esclusiva per la conclusione di accordi internazionali allorché tale conclusione può incidere su norme comuni o modificarne la portataâ â lâintesa Italia-Albania sia stata legittimamente siglata: se la Corte darà ancora ragione ai giudici italiani, il Protocollo sarà nullo. Câè poi un altro ricorso che invece riguarda la competenza delle Corti dâAppello a decidere in prima istanza sui richiedenti asilo. Come si sa, il governo ha fatto di tutto per aggirare le ordinanze dei Tribunali che avevano disapplicato i decreti âCutroâ e âPaesi sicuriâ (confortati anche da una sentenza della Corte di Giustizia europea dellâagosto scorso): uno dei tanti decreti aveva spostato la competenza dai Tribunali (che giudicano in primo grado) alle Corti dâAppello (che giudicano in secondo grado). Ora la Corte dâAppello di Lecce si rivolge alla Consulta perché i migranti oggetto dei provvedimenti non possono impugnare la decisione davanti a un giudice dâAppello, quindi a un giudice di merito, ma solo davanti alla Cassazione, quindi solo per motivi di legittimità formale. Il diritto alla difesa â che sappiamo essere molto importante per Fratelli dâItalia e parenti vari â risulta âcompressoâ in maniera âirragionevoleâ. Lâimpugnazione è possibile in tempi âestremamente ridottiâ, cinque giorni, e appunto âsolo per violazione di leggeâ.
Tutto questo â dicono giornalisti e commentatori â è troppo tecnico e complicato da capire per i cittadini. Si può riassumere in una semplice frase: questo governo non riconosce lâautorità giudiziaria quando intralcia le sue decisioni e prova ad aggirare le decisioni della magistratura, che applica le leggi fatte dal Parlamento, con decreti che non hanno mai i requisiti straordinari di urgenza e necessità prescritti dalla Costituzione. Ma visto che nemmeno le forzature funzionano, arrivano le varie riforme per imbrigliare la magistratura: e addio Stato di diritto. Più semplice di cosìâ¦
Ci sono molte sfumature tra il collaborazionista e chi non aderisce al principio di Nato o barbarie. La guerra in Ucraina chiamata dal Cremlino âOperazione militare specialeâ è iniziata il 24 febbraio del 2022 In quasi 4 anni la Russia continua ad avanzare ma molto lentamente a costo di perdite in vite umane molto elevateÂ

(Domenico Quirico – lastampa.it) – Ma insomma: dove sono i putiniani? à forse una razza portentosamente impagliata a grandezza naturale? Anzi: esistono i putiniani, i filorussi, reincarnazione aggiornata degli antichi supporter di Baffone, di Cruscev perfino di Breznev, ovvero gente che al momento buono, quello del passare dalle chiacchiere agli atti, tirerebbe fuori le bandiere della Federazione russa accuratamente nascoste in cantina in attesa della epifania del Piccolo Padre delle autocrazie, del Vento dellâest versione riveduta e corretta, e maniacalmente coatto lo piazzerebbe sul personale balcone? Pronto a obbedire e a credere, se non proprio a combattere.

Se usciamo dalla semantica degli eufemismi e dalle arzigogolate manovre dei politici nostrani a cui di quello che accade tragicamente tra Odessa e il Donbass importa meno che una elezione amministrativa nel triveneto, perché mai in Italia anno domini 2025 terzo millennio qualcuno dovrebbe esser putiniano? In nome di che cosa? Il presunto putiniano italico mi sembra un Innominato matusalennamente ridestato da utilitaristiche rivisitazioni dellâallarmi, nemico alle porte! Si può ragionevolmente credere che ci sia qualcuno disposto a cadaverizzarsi su quellâabborracciato patchwork che sarebbe il putinismo: Borodino a braccetto con Stalingrado, Santa Russia e lâInternazionale, capitalismo oligarchico e soprattutto galere? Una sgangherata ricapitolazione storica davvero poco raccomandabile in cui perfino i russi sghignazzano e fanno fatica a inventariarla: figuriamoci eventuali virgulti e apostoli di Chivasso o Catanzaro disposti a immergersi nella stessa pece. Le ideologie, forse, tentano e sviano. Ma a Mosca dove è la ideologia?
Ammiratori della Forza autocratica come categoria dello Spirito forse? Ma quale? Una forza che non riesce neppur ad aver ragione in quattro anni degli scalcagnati ex sudditi ucraini? E che dovrebbe entro cinque anni! avanzare verso di noi simile a una inondazione.
Eppure… Più gli anni passano (quelli della ormai eternizzata guerra nelle pianure del centro Europa, quello sì il vero problema), più si acclimata, dalle nostre parti soprattutto, un maccartismo un poâ goffo, sbilenco, un maccartismo da cucina che denucia: spie… infiltrati… seduttori subdoli… doppiogiochisti! voci ahimè autorevoli annunciano il dilagare di ibride intromissioni e predicano ferree cautele, versione aggiornata del vecchio, primitivo taci il nemico ci ascolta. Si moltiplicano le rivelazioni: infiltrazioni russe attraverso prezzolati dal titolo accademico e quinte colonne di più bassa lega âsocialâ, in attesa che arrivino anche qui i misteriosi droni e chissà quali altre avvenieristiche diavolerie. Indagini lombrosianamente antropometriche misurano i tiepidi e gli esitanti nelle maledizioni antirusse, sarebbero già elementi patogeni della famiglia autoritaria.
Domanda. Non si rischia in questo modo di rendere reale ciò che reale non è, ovvero moltiplicare in modo contagiosamente tracotante i pochi grulli che trovan simpatico il sorrisino di Putin o fanno e rifanno i conti in tasca di quanto ci costa resistere (è vero, con scarsi risultati) a fianco di Kiev? Non si dà credito perfino al manipolo di âespertiâ che hanno accettato il ruolo di controcampo allâOccidente uguale al Bene, sospettati, misericordia! di esser devoti ai rubli di Mosca?
Allora per definire i putiniani si è costretti ad operare âa contrarioâ. Secondo molti lo sarebbero tutti quelli che non sono dichiarati, sottoscritti, entusiasti âperinde ac cadaverâ dellâOccidente, semplificato in Nato, Unione europea e Stati uniti. Ma qui la ingombrante presenza di Trump consente alcuni sostanziosi distinguo. Che non si uniscono al polifonico coro della necessità del riarmo.
à un concetto pericolosamente sviluppabile proprio per la sua indeterminatezza. Putiniani quindi diventano tutti i cosiddetti pacifisti che ormai è nebbiosa e smunta categoria assimilabile allâinsulto. Un tempo la âgaucheâ anche nostrana li trovava carini, un piccolo mondo antico come si deve. Oggi equivale a vigliacchi pantofolai, disposti a tutto pur di dormir sonni tranquilli, o a utili idioti che non si accorgono di sognare ad occhi aperti mentre alle loro spalle scatta la tagliola dellâuomo del Cremlino. Manovali pronti al soccorso sarebbero anche coloro che, pur considerando nefasta e orribile la vittoria di Putin, ricordano che le strategie messe in piedi a Bruxelles finora non hanno prodotto alcun risultato; e che render permanente la guerra, riproponendo blocchi e cortine di ferro o porcospini di acciaio, fa il gioco proprio di Putin. Lui che nel torbido brodo della guerra permanente nuota benissimo e si rafforza. Tra il collaborazionista e chi non aderisce al predicatorio: Nato o barbarie, forse ci sono larghi spazi di pensiero. Critico, non putiniano.
Le modifiche prioritarie. A 3 giorni dal voto Meloni e soci chiedono di riaprire le sanatorie dallâ85 in poi e ne vogliono di nuove

(di Marco Palombi – ilfattoquotidiano.it) – Ne era atteso uno e invece dalle parti di Fratelli dâItalia hanno deciso di fare le cose in grande: tra i 400 emendamenti segnalati alla Manovra, quelli che andranno al voto in commissione in Senato fra le migliaia presentati dai gruppi, il partito di Giorgia Meloni ha presentato ben sei proposte di condono o sanatoria edilizia. Una cornucopia perdonista che arriva a tre giorni dal voto in Campania, la Regione che secondo gli ultimi dati disponibili, purtroppo non recentissimi, ha il maggior numero di domande inevase, oltre 650 mila: roba da vincerci le elezioni in carrozza. Sarà che la premier ha cambiato idea da quando, era appena arrivata al governo, discettava col direttore del Corriere della Sera Luciano Fontana di questa âItalia dei condoniâ, rivendicava che FdI fu âmolto criticoâ con quello per Ischia deciso dal governo Conte-1 nel 2018 (in realtà era un tentativo di accelerare la definizione delle pratiche inevase nellâisola) e parlava di âapproccio culturale diversoâ e di âcura del territorioâ: ora siamo arrivati ai Fratelli dellâItalia dei condoni.
Torniamo al florilegio di proposte edilizie che i meloniani hanno âsegnalatoâ come fondamentali per lâiter della manovra. Un paio riguardano il condono del 2003, il secondo e ultimo targato Berlusconi, e sono pensate proprio per la Campania, che allâepoca provò a opporsi (senza successo) alla legge del fu Cavaliere: il primo emendamento affida la riapertura dei termini per fare domanda a leggi regionali da varare entro fine febbraio, il secondo garantisce â in una manovra a tenaglia â che per sanare gli abusi non sia richiesta (comâè oggi) la doppia conformità normativa, ma solo quella alle norme edilizie precedenti il 2003. Il perdono vale per tutti, esclusi â comâè ovvio â gli abusi in zone vincolate o a rischio.
Gli altri sono pure peggio. Un emendamento riapre i termini dei condoni dal primo, quello di Bettino Craxi del 1985, per gli abusi terminati entro il 30 settembre 2025 (avete letto bene): lâobiettivo è sanare balconi, terrazze, logge, ristrutturazioni e quantâaltro sia stato realizzato âin difformità dal titolo abilitativo edilizioâ, purché non siano aumentate le volumetrie. Ma si torna anche più indietro: per le âdifformità parzialiâ precedenti il 1977 â abusetti antichi â ci si mette a posto con 1.032 euro. Il quinto emendamento meloniano, invece, prova a connettere tutta questa meraviglia ai piani casa regionali: una modifica ingegnosa che consentirebbe ai condonati e condonanti secondo le leggi del 1985, 1994 e 2003 â in via di resurrezione â di partecipare ai regali di volumetrie per chi ristruttura un immobile inserite nei piani casa regionali.
Vi dobbiamo, infine, il sesto emendamento condonista di FdI, non si sa se il più pericoloso o il più inutile: prescrive che i Comuni debbano rispondere entro il 31 marzo 2026 a tutte le richieste inevase dal 1985 in poi. Non câè scritto cosa succede in caso contrario, essendo escluso per ora che a una materia del genere possa applicarsi il silenzio-assenso (ma mai dire mai). La cosa è particolarmente assurda, specie in assenza di personale aggiuntivo dedicato (lo chiedono da anni le associazioni ambientaliste), perché le domande inevase sono milioni: come Il Fatto ha già scritto più volte, quelle totali per i tre condoni furono 15 milioni e spiccioli, quelle pendenti al 2019 erano oltre 4 milioni; la Campania, come detto, guidava questa speciale classifica con 656 mila domande davanti a Lazio e Sicilia (dati del centro studi Sogeea).
Tutto questo in un Paese che, a stare bassi, produce circa 20 mila edifici abusivi ogni anno e una miriade di piccole e grandi infrazioni su quelli vecchi: anche loro aspettano i nuovi condoni, come pure gli abusi che verranno finiti in questi mesi e quelli ancora in mente dei (sì, succede spesso che si chieda la sanatoria per un abuso ancora da fare). Ci sarebbe almeno da ricordare, di fronte alla valanga meloniana, che i condoni costano e non solo in termini ambientali ed estetici: in media lo Stato mette circa 24 mila euro ad abuso. Lâerario dal 1985 ha incassato 15 miliardi dai condoni edilizi (invece dei 30 previsti) e ne ha spesi tre volte tanti in oneri di urbanizzazione (trasporti, fognature, illuminazione, etc.). Poco importa, âbisogna uscire dallâipocrisiaâ, raccomanda Matteo Piantedosi: âLâalternativa al condono è lâabbattimento delle case e lo sgombero di migliaia di persone che nessuno faâ. E buon voto dal ministro dellâInterno.
Ucraina, nuovo piano Usa-Russia: addio a Zelensky, Crimea e Donbass. In 28 punti. Negoziata in segreto da Mosca e Washington la pace, con la liquidazione della leadership ucraina

(di Cosimo Caridi – ilfattoquotidiano.it) – Berlino. Lâamministrazione statunitense ha messo a punto un piano segreto per lâUcraina, articolato in 28 punti, negoziato direttamente con la Russia. Secondo Axios e il Wall Street Journal, il documento prende spunto dal cessate il fuoco nella Striscia di Gaza e punta a definire condizioni di pace, garanzie di sicurezza per Kiev e rapporti futuri tra Washington e Mosca. Lâiniziativa nasce anche dalla frustrazione per i molteplici tentativi di negoziato falliti e dalla convinzione che la Russia possa essere più ricettiva a interlocutori militari di alto livello. Secondo fonti Usa, il presidente Volodymyr Zelensky non sarebbe stato incluso nella stesura del piano. Washington ha inviato a Kiev una missione del Pentagono: il segretario dellâEsercito Dan Driscoll, il capo di Stato maggiore Randy George e il generale Chris Donahue. Driscoll, amico del vicepresidente Jd Vance, è stato nominato segretario dellâEsercito da Trump nel febbraio 2025 è considerato un ponte tra il Pentagono e il mondo politico. Il generale George, dal settembre 2023 capo di Stato maggiore dellâEsercito, ha servito in Italia nel 2001 come ufficiale esecutivo e oggi guida una riforma interna delle forze armate. Il generale Chris Donahue, a quattro stelle, ha assunto a dicembre 2024 il comando dellâUs Army Europe and Africa: veterano con oltre 20 missioni, tra cui Iraq e Afghanistan, ha avuto contatti diretti con le forze ucraine e ha coordinato operazioni anche sul territorio europeo, comprese attività congiunte in Italia.
Secondo il Wsj, lâobiettivo della delegazione è valutare la situazione sul campo e riferire direttamente alla Casa Bianca. Lo stesso gruppo dovrebbe poi andare a Mosca, per incontrare dei funzionari russi. Dietro le quinte, la stesura del piano è guidata dallâinviato speciale di Trump, Steve Witkoff. Secondo un funzionario Usa, Witkoff ha discusso il piano con lâinviato russo Kirill Dmitriev, a capo del fondo sovrano russo. Dmitriev ha trascorso tre giorni a Miami, dal 24 al 26 ottobre, a confronto diretto con Witkoff e il suo team. Axios riporta che Dmitriev ha espresso ottimismo sulle possibilità di successo dellâintesa, sottolineando la differenza rispetto ai precedenti tentativi: âSentiamo che la posizione russa è davvero ascoltataâ. Lâincontro mostra come gli Usa stiano cercando un approccio più pragmatico, affidandosi a interlocutori militari di alto livello per ottenere risultati concreti sul terreno.
La Casa Bianca ha iniziato a informare funzionari europei e ucraini, ma sembra che il piano sia stato elaborato senza il coinvolgimento diretto del presidente Zelensky. Secondo Axios, il segretario del Consiglio di sicurezza nazionale ucraino, Rustem Umerov, ha discusso il piano con Witkoff, ma Zelensky non è stato parte della stesura. La dinamica dei negoziati lascia emergere una crescente pressione statunitense sul presidente ucraino affinché accetti un accordo già definito, con indicazioni di compromessi poco vantaggiosi per Kiev. Politico e altri media Usa riportano che la Casa Bianca sembra voler accelerare il processo di pace, riducendo il peso politico di Zelensky nel definire i termini dellâintesa. Non ci sono dichiarazioni ufficiali di un tentativo di escludere il presidente, ma la gestione delle trattative e la distanza tra la sua posizione politica e lâapproccio pratico degli Usa e della Russia suggeriscono un certo grado di marginalizzazione. Parallelamente, ieri si sono svolti in Turchia i colloqui tra Zelensky e il presidente Recep Tayyip Erdogan. âConfidiamo nella forza della diplomazia turca e nella sua comprensibilità a Moscaâ, ha detto Zelensky, auspicando la ripresa degli scambi di prigionieri entro fine anno. Il presidente ucraino tenta di rimanere protagonista con incontri diplomatici, ma il quadro generale evidenzia uno scollamento tra la sua leadership interna e le manovre internazionali per la definizione di un accordo di pace.
Il piano di pace di 28 punti, ancora in fase di definizione, si concentra su quattro aree principali: pace in Ucraina, garanzie di sicurezza (ma truppe dimezzate), sicurezza Ue e rapporti Usa-Russia-Ucraina, addio Crimea e Donbass, restano però incertezze sul controllo territoriale nellâUcraina orientale. Witkoff, dopo gli incontri con Dmitriev, ha posticipato lâincontro con Zelensky previsto ieri a Istanbul. La Casa Bianca sostiene che lâobiettivo rimane fermare il conflitto con âflessibilità â da entrambe le parti.
(di Michele Serra – repubblica.it) – à totalmente inutile cercare di far notare alla presidente del Consiglio Meloni suoi eventuali errori, perché quanto a presunzione di infallibilità fa impallidire il più narciso dei maschi; e almeno in questo senso può ben vantare la raggiunta parità di genere.
Ma quanto detto in un comizio ad altissima voce (uno dei suoi infiniti comizi ad altissima voce, perché Meloni non discute, non risponde, non si esprime argomentando: comiziare a volume alto è la sua sola maniera di esprimersi in pubblico), quanto detto, dicevamo, merita una risposta che lei non terrà in alcun conto; ma noi sì, ed è quanto ci basta.

âParità non vuol dire chiamarsi presidentaâ, ha detto scimmiottando il politicamente corretto. Peccato che nessuno abbia mai preteso di chiamarla âpresidentaâ, non essendo così cretini, così caricaturali, le sue oppositrici e i suoi oppositori. Le è semplicemente stato detto da molte e da molti, ai tempi, che farsi chiamare âil presidente del Consiglioâ è un errore di grammatica che nemmeno la più disinvolta delle forzature politiche può consentire. Presidente è participio presente tal quale reggente, partecipante, assistente, eccetera. Si dirà dunque il o la reggente, il o la partecipante, lo o la assistente (con elisione della vocale), il o la presidente, a seconda che sia maschio o femmina la persona in questione.
Altro da dire non câè, se non che una donna che pretende di farsi chiamare il presidente ha deciso di deviare dalle regole della lingua italiana per ragioni ideologiche: ed è precisamente quanto le destre rimproverano alla cultura woke, stortare la realtà per adattarla al proprio sentimento.

(di Massimo Gramellini – corriere.it) – In un mondo dove ormai persino il calciatore più sprovveduto mette una mano davanti alla bocca anche solo per dire «ciao», si rimane stupiti dalla nonchalance con cui i potenti di ogni disordine e grado esternano il loro pensiero in pubblico senza prendere la benché minima precauzione. Lâultimo caso riguarda quel Garofani consigliere del Quirinale che si augurava, pare, uno scossone politico in grado di arginare Giorgia Meloni. E se lo augurava non a casa sua, tra commensali fidati, ma al tavolo di un ristorante del centro di Roma, luogo che ha lo stesso livello di riservatezza di una portineria.
Le cronache descrivono Garofani come uomo schivo e riservato, addirittura ermetico. Che cosa lo avrà spinto ad aprire la scatola dei suoi pensieri davanti a persone che conosceva a malapena e ad altre che non conosceva affatto? Lâatmosfera del posto, il vino, il bucatino, lâinvoltino? O più banalmente i potenti sono meno furbi e avveduti di come ce li immaginiamo? à la stessa domanda che mi faccio sempre davanti alla trascrizione di certe telefonate tra indagati illustri: ma perché avranno parlato così a ruota libera? Possibile non coltivassero il sospetto di essere ascoltati, intercettati, registrati? Lì almeno câè lâattenuante del contesto: al telefono sei spesso da solo e finisci per illuderti che lo sia anche il tuo interlocutore. Invece in un locale pubblico è consigliabile, specie per un consigliere, mettersi una mano davanti alla bocca, e magari lâaltra sulla coscienza.
Finanziaria-laccio emostatico per i poveri e manna per i ricconi; Sanità pubblica da Paese sottosviluppato; 70 miliardi in più allâanno per le armi; salari fermi da 30 anni. […]

(di Daniela Ranieri – ilfattoquotidiano.it) – Finanziaria-laccio emostatico per i poveri e manna per i ricconi; Sanità pubblica da Paese sottosviluppato; 70 miliardi in più allâanno per le armi; salari fermi da 30 anni. Per fortuna i funzionari del Quirinale straparlano del governo in luoghi pubblici facendosi registrare dal primo che passa (e che riferisce a La Verità ), consegnando al governo un mega-regalo di Natale.
Facendo evocare dal suo capogruppo alla Camera Bignami il complotto contro di lei, Meloni non intende attaccare il Quirinale, che semmai, nella persona di un suo alto funzionario, ha attaccato un partito votato dagli italiani, ma seminare dubbi sulla terzietà della figura del presidente della Repubblica così come prevista dal nostro ordinamento. Nel quadro persecutorio compulsivo che sostiene la narrazione meloniana, non sfigura un Quirinale infestato da agenti dellâopposizione, peraltro in un contesto in cui lâopposizione reale sembra farle il solletico. Il promesso presidenzialismo â poi diventato premierato perché il fondamentale appoggio di Renzi e frattaglie è vincolato al sogno del âsindaco dâItaliaâ, cioè un premier votato direttamente dai cittadini â darebbe al nuovo presidente della Repubblica il potere di sciogliere le Camere come âatto dovutoâ, una facoltà che a un partito inspiegabilmente altissimo nei sondaggi farebbe comodo adesso, senza aspettare la fine della legislatura, quando le rovine saranno troppe.
Il consigliere per la Difesa del Quirinale Garofani, che a pranzo esprime lâauspicio di uno âscossoneâ per impedire alla Meloni di ri-vincere le elezioni (laddove lo scossone sarebbe la vittoria di Ernesto Maria Ruffini a capo di un partito catto-dem: praticamente un golpe armato coi passamontagna), non viene indicato come un funzionario a dir poco incauto, ma subito reclutato da FdI come attore del suo teatro ansiogeno, in cui non passa giorno senza che il governo sventi un attentato contro la Meloni. La quale Meloni ha preso i voti promettendo di far âfinire la pacchiaâ per le élite economiche e politiche, schiave dei poteri forti sovranazionali che negli ultimi anni hanno succhiato sovranità al popolo. Non che questo sia falso: i governi tecnici e di larghe intese sono serviti precisamente a ignorare o a ribaltare la volontà popolare (infatti le ultime elezioni le ha vinte lâunico partito che non faceva parte del governo Draghi) e fare la volontà dellâUe e dei mercati. Peccato che Giorgia si sia rivelata una draghetta anche fuori dal mondo fantasy che ama, una che viene baciata in testa da Biden, abbracciata dalla Von der Leyen, elogiata da Trump, benvista da Netanyahu (che Tajani ospiterebbe volentieri in Italia con garanzia di non essere arrestato) e ringraziata da Zelensky per le armi che continuiamo a mandargli su ordine della Nato, a cui lei (e non solo lei) ha allegramente acconsentito di dare il 5% del Pil sottraendolo allo Stato sociale. A bilancio: è quasi fatta per la cosiddetta riforma della Giustizia, che dopo lâabolizione dellâabuso di ufficio, il depotenziamento del traffico di influenze, il bavaglio alla stampa, il limite alle intercettazioni e altre volgarità si completerà con la inutilissima e dannosa separazione delle carriere. Resta lâiniqua e per niente nazionalista Autonomia differenziata, su cui i leghisti pressano per avere la loro scodella di cibo, ma non si mette bene. Forse rileva troppo che nel giorno del casino sul Quirinale Meloni in un comizio a Padova abbia detto: âVogliamo una riforma che dica basta agli inciuci, ai giochi di palazzo, ai governi che passano sopra la testa dei cittadiniâ. à il presidenzialismo (o premierato che sia: basta che si elegga qualcuno), dove lâarbitro lo scelgono i cittadini (fosse pure La Russa o Pino Insegno) e i suoi consiglieri non vanno nelle osterie ad augurarsi che a fermare la destra sia un exploit elettorale dellâex capo dellâAgenzia delle entrate (come no: con 100 miliardi di evasione totale in Italia).