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Ucraina, no di Mosca alle condizioni di pace Ue: chiusura totale su Donbass e truppe Nato


Mosca frena sull’accordo di pace: nessuna concessione sul Donbass e chiusura totale sulle truppe Nato in Ucraina. No alla tregua di Natale

Ucraina, no di Mosca alle condizioni di pace Ue: chiusura totale su Donbass e truppe Nato

(di Raffaella Malito – lanotiziagiornale.it) – In attesa di un nuovo incontro, probabilmente nel fine settimana, tra Ucraina e Stati Uniti, la Russia frena l’entusiasmo di Stati Uniti, Europa e Kiev scaturito dai colloqui di ieri a Berlino. Mosca parla sì di progressi importanti, sostenendo che si è vicini a raggiungere un accordo, ma non cede sul Donbass, dice no alla tregua di Natale e ribadisce il suo veto alle truppe Nato in Ucraina.

Mosca frena sull’accordo di pace a Kiev

Il viceministro degli Esteri russo Sergej Ryabkov ha dichiarato in un’intervista esclusiva ad Abc News di ritenere che le parti in conflitto siano “sul punto” di raggiungere una soluzione diplomatica per porre fine alla guerra. “Siamo pronti a raggiungere un accordo”, ha detto Ryabkov, aggiungendo di sperare che un accordo venga raggiunto “il prima possibile”. Eppure le condizioni di Mosca non vengono meno.

Il Cremlino dice chiaramente che non accetterà alcuna presenza di truppe Nato sul territorio ucraino né è disposta a concedere nulla sui territori. Ryabkov spiega che Mosca non sottoscriverà, accetterà o sarà soddisfatta “di alcuna presenza di truppe Nato sul territorio ucraino”. E non accetterebbe la presenza di militari neanche come una garanzia di sicurezza.

Inoltre sottolinea che la Russia non farà concessioni sui territori contesi come Donetsk, Lugansk, Zaporizhzhia, Kherson e Crimea: “Non possiamo assolutamente scendere a compromessi”, dice. Il Cremlino respinge pure la proposta di una tregua di Natale avanzata dal cancelliere tedesco, Friedrich Merz, e sostenuta anche dal presidente ucraino, Volodymyr Zelensky.

I veti russi, l’ostinazione dei volenterosi

“Vogliamo la pace, non una tregua che dia sollievo agli ucraini e permetta loro di prepararsi a continuare la guerra”, afferma il portavoce del Cremlino Dimitry Peskov. Che sottolinea anche come non ci sia stata alcuna telefonata tra Donald Trump e Vladimir Putin dopo quella del 16 ottobre, contrariamente a quanto lasciato intendere dal presidente statunitense.

Nonostante i veti russi i leader dei Paesi che fanno parte della Coalizione dei Volenterosi hanno espresso la loro disponibilità a inviare forze di supporto in Ucraina come parte delle garanzie di sicurezza dopo la fine della guerra. Lo ha affermato il vice capo dell’ufficio del presidente dell’Ucraina, Ihor Zhovkva. Oltre “trenta Paesi” sono disposti a contribuire alle garanzie di sicurezza, ha spiegato Zelensky, ma “non tutti con le truppe”. Francia e Gran Bretagna sono pronti a scendere in campo mentre l’Italia si sfila.

Zelensky ha affermato che le proposte negoziate con gli statunitensi su un accordo di pace potrebbero essere finalizzate entro pochi giorni, dopodiché gli inviati americani le presenteranno al Cremlino. Il leader ucraino ha spiegato che il Congresso Usa deve votare sulle garanzie di sicurezza.

Nasce a L’Aja la commissione per risarcire i danni di guerra all’Ucraina

Intanto è nata la commissione internazionale per il risarcimento dei danni di guerra all’Ucraina: la convenzione istitutiva promossa dal Consiglio d’Europa è stata adottata a L’Aja. Il nuovo organismo dovrà quantificare i danni dell’invasione russa ed esaminare le richieste di risarcimento sulla base del registro dei danni che conta già oltre 86 mila segnalazioni. “Si tratta di un passo storico”, ha detto il segretario generale del Consiglio d’Europa Alain Berset. Il fondo per i risarcimenti verrà istituito nel 2026.

Domani intanto è previsto uno dei Consigli europei più difficili della storia recente comunitaria. Sul tavolo l’uso degli asset russi congelati. Ieri l’Eurocamera ha approvato, per alzata di mano, la richiesta di accelerare il processo legislativo relativo al progetto di legge per il prestito all’Ucraina basato sui beni di Mosca a seguito della decisione di applicare la cosiddetta procedura d’urgenza. Al momento, sull’uso dei beni di Mosca per finanziare l’Ucraina ci sono due Paesi contrari – Ungheria e Slovacchia – e cinque molto vicini ad esserlo (Italia, Malta, Bulgaria e Belgio della dichiarazione congiunta in cui si chiede di studiare soluzioni alternative più la Repubblica Ceca). L’Ungheria frena pure sull’adesione di Kiev nell’Unione europea.

Ucraina, Cacciari: “Ormai l’Occidente si sente in guerra contro la Russia e tacita il dissenso”

“Irragionevole gridare allo scontro con Mosca, Trump vuole conflitti a bassa intensità”

Ucraina, Cacciari: “Ormai l’Occidente si sente in guerra contro la Russia e tacita il dissenso”

(di Riccardo Antoniucci) – “È normale questa situazione, è tipica di uno stato di guerra. E l’Occidente ha deciso di essere in guerra, da un lato con il mondo islamico, dall’altro con la Russia e un domani con la Cina”. Il filosofo Massimo Cacciari ha chiaro quale sia la posizione dell’intellettuale “L’intellettuale che fa il suo mestiere sa come stanno le cose e deve dire quello che gli consente di stare a posto con la sua coscienza, ma se è onesto è anche realista, e si rende conto i poteri in guerra mentiranno, sa che potranno perfino censurarlo e metterlo in galera, certo”.

È così che si sente?

Io sono tranquillo, dico quello che devo dire a chi vuole ascoltarmi. Sono in pace col mio dio. Ma riconosco che siccome il mainstream occidentale ha deciso di essere in guerra, allora deve cercare di pacificare il dibattito interno, sussumere le voci dissonanti. In guerra c’è un diritto sovrano, lo ius mendacii ossia il diritto di dire il falso, perché lo scopo è vincere. È chiaro che la voce critica, quella che stona quando bisognerebbe cantare la marcia tutti insieme e andare alle armi, non può che aspettarsi di essere frainteso, o ricondotto al mainstream, se non censurato. Dà fastidio, ed è vero, come dava fastidio Karl Kraus nella prima guerra mondiale. Non per questo si smette di essere critici. Lo siamo in tanti, tra i miei colleghi. Limes lo è con un accento più scientifico del mio.

La “polizia del linguaggio” si è esercitata molto anche sul conflitto a Gaza. In Parlamento si discutono ddl per assimilare le critiche alle politiche dello Stato di Israele, o l’antisionismo, all’antisemitismo, ispirati dalla definizione dell’Ihra americano contestata da noi da oltre 1200 docenti…

Assimilare la critica al sionismo all’antisemitismo è semplicemente un errore storico. Anche importanti intellettuali ebrei della diaspora hanno criticato il sionismo. È ancora più sbagliato e ignorante usare la categoria dell’antisemitismo quando si parla delle critiche all’attuale Stato di Israele, al suo governo. Trattandosi di uno Stato come gli altri, può essere combattuto esattamente come gli altri. C’è un disegno politico, che è fondato sulla falsificazione. Ma ripeto, in guerra la falsificazione è un diritto del potere.

Il problema allora è: chi ha deciso che siamo entrati in guerra?

Bisognerebbe chiederlo a chi ci vuole andare, ai potenti. Di certo siamo all’irragionevolezza totale. Questo parlare di ‘guerra ibrida’ usando i termini a sproposito… è guerra e basta. Io credo che nella testa di Trump ci sia il progetto di creare una situazione in cui la guerra continui come un basso in sottofondo, fissata sostanzialmente attorno all’asse Israele-Palestina e a quello Russia-Ucraina: che continuino a massacrarsi, ma a bassa intensità.

Però in Europa i leader parlano di una guerra diretta, epocale, con la Russia…

Sono parole per coprire una crisi strutturale. L’Unione europea è passata in 20 anni dal 25% al 14% del Pil mondiale, scavalcata da Usa e Cina, ha una crisi demografica spaventosa e non la sa affrontare con la politica dell’immigrazione. I leader europei, che non sono ciechi, hanno bisogno di colossali diversivi: paventare un nemico alle porte è una tecnica vecchia come il mondo per attutire i contrasti sociali. Ma la situazione è delicata. L’Ue è in crisi radicale, ma dall’altra parte la Russia non lo è di meno, costretta ad appoggiarsi economicamente sempre più a Oriente, non intenzionata a cedere nulla sul fronte ucraino. È un rischio quando si scontrano due debolezze, perché possono scattare scelte irrazionali e istintive. Non credo però che gli Usa permetteranno il suicidio della Russia o dell’Ue. Ricondurranno anche questa crisi dentro l’alveo di un conflitto a bassa intensità.


Sei morto e ben ti sta


(di Massimo Gramellini – corriere.it) – Sarebbe persino rassicurante liquidare le condoglianze aggressive di Trump – quelle in cui «saluta» il regista ucciso mortificandolo e dileggiandolo – come un nuovo genere letterario riferibile soltanto a lui. Trump unisce brutalità e ottusità, un mix difficilmente riscontrabile nello stesso essere umano, ma non è un cavaliere solitario. Interpreta, esasperandolo, lo spirito di un’epoca che ha dichiarato guerra alla gentilezza e considera la buona educazione una forma di ipocrisia. Il rispetto dovuto ai morti, per esempio: avversari politici compresi. 

Davanti alla testa mozzata di Pompeo, Cesare ebbe un moto di ribrezzo e parole di solidarietà per il nemico assassinato. La morte azzerava tutto e anche chi non se la sentiva di tessere l’elogio del defunto rimaneva quantomeno in silenzio.

Ai trumpiani nell’animo tutto questo appare arcaico, fasullo, insincero. Se andavano d’accordo col morto, lo piangono in modo teatrale (ricordate i funerali di Charlie Kirk?), spargendo granelli di rabbia sulla loro retorica per non correre il rischio di passare per buoni. Se invece, come nel caso del regista di «Harry ti presento Sally», il de cuius aveva idee diverse, non nascondono il loro disprezzo né rinunciano alla tentazione di attribuire la sua fine alle sue opinioni. 

Un impasto di vittimismo e senso di inferiorità: tu da vivo parlavi male di noi? E allora perché dovremmo piangerti o restarcene zitti? 

Quelli come Trump nel nemico morto non vedono il morto. Vedono soltanto il nemico.


Pensioni come bancomat, sulla manovra l’ultimo tradimento di Meloni


L’ultimo emendamento smonta la legge di Bilancio varata dal governo a ottobre. Per fare cassa penalizzate le uscite anticipate e il riscatto degli anni di laurea

Il ministro dell'Economia Giancarlo Giorgetti

(Stefano Iannaccone – editorialedomani.it) – Il governo Meloni doveva abolire la legge Fornero con Matteo Salvini nel ruolo di alfiere. E invece, alla quarta legge di Bilancio, c’è la nemesi: fa cassa sulle pensioni per provare a dare qualche risposta alle imprese e accontentare Confindustria.

La sintesi del disastro meloniano è tutto nell’ennesimo emendamento alla legge di Bilancio, calato dall’alto per riscrivere pezzi portanti del provvedimento. Un testo che esce stravolto rispetto alla formulazione iniziale. Negli ultimi giorni c’è stata una sfilza di modifiche presentate dallo stesso ministero dell’Economia, guidato da Giancarlo Giorgetti.

Auto-bocciatura

Un’auto-bocciatura che ha lasciato esterrefatte le opposizioni, anche perché non si tratta della solita grandine di mancette che in genere appare nel corso del confronto.

«La legge di Bilancio, che abbiamo letto due mesi fa, non esiste più. Per fortuna hanno accolto alcune delle nostre critiche», dice a Domani Daniele Manca, capogruppo del Pd in commissione Bilancio al Senato. Se ogni manovra è difficile, quest’anno la destra si è superata.

Nel caos generale hanno almeno preso forma i 3,5 miliardi di euro promessi proprio da Giorgetti alle imprese per garantire il supporto a Transizione 5.0, l’iperammortamento, il finanziamento delle Zes e il fondo contro il caro-materiali. Per attingere alle risorse, il governo ha sostanzialmente rotto il salvadanaio del Pnrr, rimodulando – in pratica saccheggiando quel che resta del Piano.

La sorpresa arriva dal fatto che si poteva fare tutto fin da subito, prevedendo determinate misure, senza balletti last minute. Un modus operandi che lascia intendere la volontà della destra di agire con il “favore delle tenebre”, ossia con le votazioni in piena notte e in gran velocità con la scusa di dover evitare l’esercizio provvisorio. Una strategia utile anche a evitare qualsiasi dibattito nel merito. Ma che non è un modello di confronto, proprio mentre Fratelli d’Italia in piena celebrazione di Atreju ha esaltato “l’arena” di Castel Sant’Angelo, a Roma, come luogo di dialogo.

L’ultimo cortocircuito, il più clamoroso, è arrivato con le risorse drenate sulle pensioni, colpendo in particolare il riscatto della laurea per un “risparmio” dello stato tra i 500 e i 600 milioni di euro. «Una mega fregatura per chi ha riscattato la laurea», l’ha definita senza mezzi termini la deputata del Pd, Maria Cecilia Guerra. Mentre il Movimento 5 stelle ha parlato di una «macelleria», annunciando «battaglia». Un fatto è certo: gradualmente, fino al 2035, sarà annullato il beneficio del riscatto per i laureati intenzionati a far valere il loro titolo di studio ai fini previdenziali. Intervento ancora più duro sul pensionamento anticipato: la “finestra” di tre mesi si allargherà da tre a quattro (per chi matura i requisiti nel 2032 e 2033).

Diventerà di cinque mesi per il biennio successivo con un beneficio per la casse statali di mezzo miliardo nel 2033, ma con una cifra che è destinata a triplicarsi, arrivando quasi al miliardo e mezzo, nel 2035. Ma oltre i numeri c’è la scelta politica di un governo che diceva di voler introdurre Quota 41 come principio per andare in pensione, ossia la possibilità di uscire da lavoro – in maniera anticipata – alla maturazione di 41 anni di contributi.

Appena poche settimane fa, il sottosegretario al Lavoro, il leghista Claudio Durigon, aveva promesso interventi per favorire il pensionamento anticipato. Al contrario la previdenza viene impiegata come un bancomat. Il governo «peggiora le condizioni, allunga i tempi, scarica i costi sulle spalle di chi lavora e di chi studia», ha detto il deputato di Alleanza verdi-sinistra, Angelo Bonellio.

Per il partito di Salvini c’è un altro elemento negativo: deve mandare giù pure la rimodulazione dei fondi stanziati per il Ponte sullo Stretto. Sull’opera, peraltro, sono giunte anche le ulteriori motivazioni della Corte dei conti sulla bocciatura. «Dopo anni di slogan, la manovra chiude la propaganda e lascia Sicilia e Calabria senza risposte», ha commentato il senatore dei 5 stelle, Pietro Lorefice.

La linea leghista resta quella di minimizzare e tirare dritto con la promessa di provvedere ad aprire i cantieri «prima possibile».

Voto notturno e natalizio

Alla voce “impegni disattesi” sulla manovra, spicca quello sulla tempistica dell’iter. Il calendario prevedeva che il testo approdasse in aula al Senato il 15 dicembre, in quella data non c’era nemmeno stata una sola votazione in commissione Bilancio. Solo il 16 dicembre sono iniziati i primi voti sui temi comuni per avviare almeno un cammino che si annuncia ancora tortuoso. La seduta è stata aggiornata in attesa di avere un quadro più chiaro.

Uno scenario di improvvisazione che costringerà i senatori a maratone notturne per velocizzare l’esame e garantire il via libera dell’assemblea di palazzo Madama entro Natale.

Con questo timing, il testo arriverebbe di gran carriera alla Camera, che dovrebbe approvarlo tra il 29 sera e il 30 mattina molto probabilmente con la blindatura della fiducia. Fornendo l’ennesima immagine di un parlamento ridotto al ruolo di passacarte. A Montecitorio i deputati non hanno preso molto bene l’incartamento sulla manovra, benché molti avessero messo in conto il ritorno prima della notte di San Silvestro per “bollinare” la babele di norme firmata Giorgetti-Meloni.


Il bavaglio al dissenso


Il bavaglio al dissenso

(di Michele Ainis – repubblica.it) – Uno scandalo che costantemente si ripete non cessa d’essere uno scandalo. È il caso, per esempio, della manovra finanziaria. Difatti anche quest’anno il panettone della legge di bilancio giungerà alla Camera fra Natale e San Silvestro; sicché i nostri deputati dovranno digerirlo senza avere il tempo di scartarlo dalla sua confezione. L’anno scorso toccò al Senato, di lavorare (si fa per dire) con le ore contate: la par condicio degli abusi. Monocameralismo alternato, lo chiamano così. Nel senso che una volta s’esercita la prepotenza su una Camera, la volta dopo su quell’altra. Succede pure con i decreti, che vanno convertiti in legge entro sessanta giorni dal Parlamento. Succede sempre, quando la Costituzione impone una scadenza.

Anche a costo di violare le scadenze altrui, anche a costo d’imporre un bavaglio al capo dello Stato. Lui avrebbe un mese di tempo, per decidere la promulgazione (o il rinvio) degli atti legislativi. Ma come fa, se gli arrivano sulla scrivania all’ultimo minuto? Come può valutarne la legittimità costituzionale, come può rappresentare i propri dubbi al Parlamento chiedendone una nuova deliberazione, se in questi casi il giallo del semaforo si trasforma giocoforza in rosso? Il rinvio presidenziale d’una legge di conversione dei decreti, quando mancano soltanto pochi giorni al termine finale, significa la cancellazione definitiva del decreto, azzerando pure le sue norme utili, insieme a quelle inutili o sbagliate. Il rinvio della legge di bilancio a ridosso del 31 dicembre significa innescare l’esercizio provvisorio del bilancio, con tutti i guai che ne conseguono. È un ricatto, per dirla con parole crude: un prendere o lasciare.

D’altronde il bavaglio si stringe anche sul muso dei parlamentari. Anzi un doppio bavaglio: maxiemendamento e voto di fiducia. Succederà pure stavolta, perché così si tagliano i tempi della discussione, perché così si mettono a tacere le voci di dissenso nell’ambito della stessa maggioranza. Di conseguenza i parlamentari non possono discutere, correggere, emendare i testi licenziati dal governo (l’ultima variazione, per mano del ministro Giorgetti, è del 16 dicembre, e vale 3,5 miliardi). Ma forse non possono nemmeno leggerli, se non dispongono d’un traduttore. Un solo esempio: l’articolo 13, che interviene in modo criptico sulle criptovalute. Dice così: «Le disposizioni di cui al primo periodo si applicano… ai redditi diversi e agli altri proventi di cui alla lettera c-sexies del comma 1 dell’art. 67 del testo unico delle imposte sui redditi, approvato con d.P.R. 22 dicembre 1986, n. 917, derivanti da operazioni di detenzione, cessione o impiego di token di moneta elettronica denominati in euro, di cui all’art. 3, par. 1, n. 7, del regolamento Ue 2023/1114».

La chiarezza delle leggi, anche su materie tecniche e complesse, costituisce una forma di rispetto: per i parlamentari che devono votarle, per i cittadini che devono applicarle. E l’osservanza dei tempi stabiliti è una forma di rispetto per la democrazia, per la sua grammatica, per i suoi valori. Solo i tiranni regnano a tempo indeterminato; solo i regimi calpestano le procedure regolamentari. Quanto alla legge di bilancio, sta di fatto che i termini fissati dalla legge di contabilità e finanza pubblica non vengono mai rispettati. Tanto che nel 2019 la Consulta alzò la voce contro le distorsioni procedurali che infettano ogni manovra finanziaria. Di questo passo – disse – verrà raggiunto «quel livello di manifesta gravità» che rende incostituzionale la stessa legge di bilancio.

C’è una violenza, insomma, in questo modo di procedere. Contro le istituzioni, se non contro le persone. E il fatto che l’andazzo duri ormai da tempo non è una giustificazione. Anche perché il governo in carica sta abusando dell’abuso. Esordì alla media di un voto di fiducia ogni 11 giorni, sommando 47 questioni di fiducia nei suoi primi 18 mesi, un record. E nei primi tre mesi d’esistenza mise in pista 15 decreti legge (addirittura tre in un giorno solo: il 10 gennaio 2023), un altro record. Sarà per questo che gode dei favori popolari: secondo l’ultimo Rapporto Censis il 30 per cento degli italiani guarda con favore alle autocrazie, «più adatte allo spirito dei tempi». Ma sono tempi spiritati.


La verità, la giustizia e la pace


Il vertice di Berlino

(di Gustavo Zagrebelsky – repubblica.it) – I modi di dire, chissà perché, sembrano tanto più veri quanto più sono antichi. Non c’è chi, nel chiedere sempre più armi, non dica d’essere per la pace. Il suo motto è “se vuoi la pace, prepara la guerra”. Insomma, la guerra è pace, mentre la pace è guerra. È pura ed eterna verità o è purissimo ‘bispensiero’ orwelliano?

Morto Giulio Cesare (Idi di marzo), la Repubblica romana fu scossa dalle mire di Marco Antonio. Cicerone prese la parola in Senato (la settima Filippica) per convincere a muovere guerra contro di lui. Disse, più o meno, così (19, 7): non ch’io non sia per la pace, ma questa parola non ci impedisca di vedere il pericolo che corriamo. Perciò, facciamo guerra per scongiurarlo e non seguiamo gli illusi che confondono la pace con la capitolazione.

Nel lungo tempo dell’Impero romano, il “si vis pacem para bellum” diventò un luogo comune. Lo troviamo in un manualetto di guerra, scritto nel IV secolo da un funzionario governativo, tal Publio Vegezio (Epitoma rei militaris, 3, 14). I generali vincitori, celebrati in “trionfo”, erano figli di quel motto imperialista. Questa fu, nei secoli, la pax romana generata da guerre sempre da farsi per guadagnare e conservare l’Impero.

Oggi, alle stesse parole si dà un altro valore: non l’effettuazione, ma la prevenzione della guerra. La preparazione della guerra sarebbe il realistico presupposto della pace. L’amor di pace si dimostrerebbe correndo alle armi. Non c’è dittatore che, preparando la guerra, non abbia detto: è per la pace futura. La minaccia della forza difensiva può, in effetti, scoraggiare l’uso della violenza aggressiva. Tante più armi in giro, tanta maggiore sicurezza del mondo: nessuno potrebbe usare impunemente le sue. A condizione, naturalmente, che la distribuzione tra le diverse “potenze” sia in equilibrio. Allora, nessuna oserebbe scatenare un conflitto se prevedesse di uscirne sconfitta. È la “pace del terrore”, come quella miracolosamente perdurata nei decenni della “guerra fredda” (Cuba 1962 e incidenti vari tenuti nascosti), meglio comunque d’una guerra guerreggiata. La “corsa agli armamenti” sarebbe dunque il dovere sovrano di ogni Stato. La folle corsa, una volta incominciata, non finirebbe mai. Da soli o in coalizione, occorrerebbe sempre pareggiare o, meglio ancora, soverchiare i potenziali nemici.

La guerra, così concepita, sarebbe un grande wargame. Nelle teorie dei giochi si troverebbe la base scientifica dell’equilibrio cibernetico tra le forze in competizione che, attraverso il calcolo di azioni e reazioni plausibili, renderebbe non conveniente per tutte trattenersi dal farla scoppiare. Ma, ci si può fidare? Le teorie dei giochi sono azzardi basati su previsioni statistico-probabilistiche, pericolose sempre e pericolosissime quando le sfide sono mortali. L’affidabilità dipende da tre (anzi quattro) condizioni, tutte inesistenti quando si parla di pace e di guerre reali, non virtuali. La prima è che gli intenti, da cui dipende la razionalità e la prevedibilità delle azioni dei diversi attori, siano omogenei. La seconda è che ognuna sia perfettamente a conoscenza della consistenza degli armamenti altrui. La terza è il numerus clausus delle armi, cioè che nessuno possa crearsene a proprio piacimento e, così, alterare unilateralmente gli equilibri tra i giocatori.

C’è poi la quarta condizione, la più incerta, che i giocatori possano fare conto su una dote comune tutt’altro che scontata tra i despoti: che non si abbia a che fare con pazzi fanatici.

Nessuna di queste condizioni esiste nel “gioco” in questione, ciò che spiega perché, nella storia, gli equilibristi tra pace e guerra hanno sempre finito per cedere alla guerra. Quanto alla prima condizione — l’obiettivo comune — nei “giochi di società” si è concordi sul perché si gioca. Nella guerra, ognuno sceglie il proprio: nuovi territori, risorse naturali, liberazione e annessione di popolazioni, dominio razziale, gloria nazionale e riscatto da umiliazioni, difesa di identità nazionali, cementificazione di oligarchie fameliche di potere, eccetera. Che cosa attira o respinge un popolo, una nazione, un governo nel muovere guerra o nel trattenersi non è qualcosa che possa assumersi come un dato comune su cui innestare azioni razionali che si incontrano e si equilibrano. Se Hitler avesse avuto a disposizione l’arma atomica, l’avrebbe probabilmente usata per il suo Reich millenario. Truman la usò, perché aveva in mente altri progetti. La teoria dei giochi avrebbe permesso di trovare un equilibrio tra i due?

Anche la seconda condizione è improbabile: ogni “giocatore” nello scenario della guerra è inevitabilmente portato a trasferire agli altri le sue ambizioni, come se i soggetti fossero mossi da medesime motivazioni. Ma le guerre prendono origine, per l’appunto, dall’eterogeneità e dall’incolmabilità delle distanze delle ragioni degli uni e degli altri.

La terza condizione, infine, è indeterminabile poiché la tecnologia della guerra è sempre in movimento e ciascun “giocatore” tende a promuovere lo sviluppo della propria, oltretutto cercando di coprirla del più rigoroso di tutti i segreti, il segreto militare. Così, le “regole del gioco” in guerra vanno in fumo e variano a seconda della potenza di ciascun giocatore e la possibilità di imporre le proprie, se sono forti, e l’eventualità di subirle, se sono deboli: tutto il contrario della lealtà che deve contraddistinguere, oltre che rendere possibili, i giochi che meritano questo nome.

Quando si gioca a un gioco, si può vincere o perdere. Quando “si gioca alla guerra”, soprattutto alla guerra che si avvale di strumenti di distruzione come quelli attuali, non si può perdere. Quando “si gioca alla guerra” si deve essere pronti a tutto, a usare qualunque mezzo, arma, inganno, sotterfugio. Non è vero, dunque, che il si vis pacem… possa renderci tranquilli. Non esistono le condizioni per poterlo sperare. Chi si prepara alla guerra dicendo che lo fa per evitarla, in realtà è disposto a farla e, se è disposto, la farà. Se non fosse disposto, dove starebbe la deterrenza?

E allora? Al motto mentitore, diffusivo di guerre, opponiamone un altro, altrettanto antico, che viene dalla sapienza biblica. Dice così: su tre cose si regge il mondo, la verità, la giustizia, la pace. La verità genera la giustizia e la giustizia porta la pace. Al contrario: la menzogna genera l’ingiustizia e l’ingiustizia porta la guerra. Per combattere il flagello delle guerre c’è molto da fare, ma predisponendo le condizioni della pace.


È arrivato l’ambasciatore


(di MICHELE SERRA – repubblica.it) – Che l’ambasciata russa si pronunci, non importa come, sulla compravendita di un giornale italiano, prima di essere inopportuno è assurdo. E anche molto ridicolo. È come se il Milan emettesse una nota sulla guerra in Ucraina; il Cern commentasse le qualificazioni agli europei di calcio; o Bankitalia dicesse la sua sul cast del Festival di Sanremo.

La sola reazione sensata, e meritata, è dire: ma tu, scusa, che c’entri? A che titolo parli? Perché commenti una cosa che non ti riguarda, che esula del tutto dalle tue competenze, dalle tue funzioni, dal tuo mestiere? Sei qui per fare l’ambasciatore, mica l’influencer o il tiktoker o il sensale d’affari. Datti una regolata, diventa beneducato e formalmente ineccepibile (qualità di base richieste, da secoli, al corpo diplomatico) e non impicciarti di editoria, che già troppi se ne impicciano qui in Italia senza avere idea di che mestiere si tratti, pensa un po’ se c’era bisogno della noterella bizzarra del signor ambasciatore di un Paese nel quale scrivere e pubblicare è come fare il trapezista: una sfida estrema.

In un mondo fuori di testa, dove nessuno sembra più capace di rispettare gli ambiti e le competenze, ci si illude che soprattutto chi ha un ruolo istituzionale cerchi di svolgerlo portandone la responsabilità. Gli onori e gli oneri. I parlatori a vanvera sono già milioni, forse miliardi, i social sono intasati di fesserie digitate con incoscienza, e a rischio zero, da chi non sa nulla, ma giudica tutto. Se ci si mette pure un ambasciatore, per giunta del Paese più grande del mondo, non ci resta che sperare in un vaccino contro il vaniloquio. Parlare a vanvera è il male del millennio.


Deliri di guerra


Non serviva un esperto per prevederlo: il piano di pace riscritto dai volenterosi è stato respinto dal Cremlino

Deliri di guerra

(di Antonio Pitoni – lanotiziagiornale.it) – Non serviva un esperto di geopolitica per capire come sarebbe finita. Il famoso piano di pace riscritto dai volenterosi, cioè un gruppo di leader europei capeggiati da Ursula Bomb der Leyen, con al seguito il guerrafondaio britannico Starmer – che ha appena invitato i sudditi di sua Maestà ad abituarsi all’idea di subire perdite umane nella prossima guerra contro la Russia – è stato respinto dal Cremlino.

Cose che capitano quando gli sconfitti, abbandonati al proprio destino dall’alleato Trump che ha rinnegato la scelta scellerata di provocare il conflitto in Ucraina, pretendono di dettare le condizioni al vincitore. Secondo il cenacolo di statisti riuniti l’altra sera dal cancelliere Merz, Putin dovrebbe rinunciare ai territori occupati e accettare la presenza di truppe Nato sul territorio ucraino. Cioè la principale causa che nel febbraio 2022 scatenò l’invasione russa dell’ex repubblica sovietica.

L’ennesimo tentativo di sabotaggio da parte europea del negoziato di pace in corso che, qualora andasse a buon fine, certificherebbe non solo il fallimento totale dei leader Ue, che non hanno mai neppure tentato una soluzione diplomatica del conflitto, ma renderebbe impossibile spiegare alle opinioni pubbliche europee il già inviso piano di riarmo da 800 miliardi, firmato Bomb dei Leyen, che proprio ieri ha visto un’accelerazione grazie al voto del Parlamento Ue.

Intanto l’Italia stanzia altri 3,5 miliardi per le spese militari. Un capitolo che ha ormai raggiunto le dimensioni di una mini-manovra, mentre il governo continua a riscrivere la Finanziaria per raschiare il fondo del barile. Per le armi, invece, i soldi si trovano sempre.


Più in basso di così c’è solo da scavare


(di Gianvito Pipitone – gianvitopipitone.substack.com) – “Più in basso di così c’è solo da scavare”. Quando le parole non bastano più a descrivere razionalmente ciò che accade, si fa prima a evocare un poeta o un artista, come se la loro voce potesse restituire la vertigine di questo tempo. Per il resto, non rimane che un respiro profondo e il tentativo di riconnettersi al mondo in maniera laterale: attraverso la meditazione, lo yoga, le filosofie orientali. Non per anestetizzarsi di fronte a una realtà che ha cambiato pelle in modo radicale, ma per imparare a digerire – con atteggiamento stoico – le narrazioni grottesche e la follia che si riversano ormai a piene mani su questo scorcio di secolo che ci è toccato vivere.

È roba che nemmeno un complottista della prima ora avrebbe potuto immaginare, neppure nell’iperbole più acuta della sua visionarietà più malata. Eppure non si tratta di un complotto, ma della più triste delle verità: la realtà che ci circonda.

Donald Trump, nel suo secondo mandato, sta demolendo ciò che resta dell’impalcatura della democrazia americana, trascinando con sé quel poco che rimane del vecchio Occidente verso un futuro che di radioso non ha nulla. E proprio mentre ci abituiamo a questo scenario, si insinua un pensiero ancora più inquietante: potrebbe andare peggio. Trump non ha fatto altro che imprimere la spinta finale a una trottola che già da tempo, per inerzia e per l’imperizia dell’alternativa democratica, aveva iniziato a girare velocemente verso destra.

L’uomo “che non deve chiedere mai” ci ha ormai abituati a ogni eccesso. Le sue ultime uscite – dall’Arco di Trionfo più grande di quello di Parigi alle parole vergognose pronunciate nel giorno della morte violenta del compianto Bob Reiner e della moglie – non suscitano più né indignazione né ironia. Non ci fanno ridere, non ci fanno tremare di paura. Ci consegnano soltanto l’immagine di un uomo privo di misura, incapace di contenere la propria deriva, ormai lontano da qualsiasi razionalità.

Eppure, al netto di questa quotidiana follia, nemmeno la prospettiva di un futuro più roseo pare offrirci sollievo. Quando penseremo che, finalmente, sarà passata ’a nuttata, non è affatto scontato che la generazione del post Trump – e del suo brother-in- arms Putin – possa essersi lasciata alle spalle il peggio.

Il sospetto è che, continuando di questo passo, i successori in pectore non porteranno ad alcun sollievo. Al contrario, peggioreranno, se possibile, le cose. Non c’è speranza per chi varca quella soglia di dantesca memoria, pare: il mondo, consegnato nelle loro mani, sembra avviato verso un disimpegno totale, un abbandono a sé stesso, un “go with the flow” drammatico che trascina tutto come un fiume in piena, travolgendo qualunque cosa vi si opponga.

Troppo pessimista, dite? Può essere. E mi auguro sinceramente di sbagliare. Ma sapete com’è: la predictio malorum – specie di questi tempi – è sempre da preferire. Chi parlò si salvò, si dice dalle mie parti.

Pensavamo di averle sentite e viste tutte. Non abbastanza, evidentemente. Nessuno avrebbe potuto immaginare che le teorie strampalate – per non dire assurde e vergognose – di Curtis Yarvin, ideologo della tecnodestra americana, non solo sarebbero potute uscire dalle fogne in cui parevano confinate insieme all’odio e all’orrore, ma che sarebbero diventate materia di ascolto per settori dell’amministrazione Trump.

Precursore del concetto di “Illuminismo oscuro”, Yarvin ha sempre trattato la democrazia come un fallimento storico, da sostituire con forme di governo autoritarie e tecnocratiche. Le sue visioni, imbevute di riferimenti a Matrix, alla cultura geek e alle teorie del fascista Julius Evola, non sono soltanto provocazioni intellettuali: sono proposte deliranti.

Non tutti gli uomini sono uguali, dice Yarvin, perché il maschio caucasico avrebbe un QI più alto e quindi il diritto di comandare sul resto delle razze. Una teoria che riecheggia a spanne quelle del Terzo Reich. E ancora: una soluzione per togliere di mezzo gli uomini a basso quoziente intellettivo dalla strada o dalla droga? Semplice: rinchiuderli 24 ore su 24 in strutture di realtà virtuale, sorta di “pollifici” umani … incapaci di produrre persino un uovo. Un incubo delirante, fuori da ogni razionalità, che non dovrebbe nemmeno essere pronunciato e che invece trova spazio e ascolto.

Ci si può solo chiedere come sia stato possibile arrivare a questo punto, e come figure che dovrebbero restare confinate nei sottoboschi più oscuri della rete più profonda possano d’un tratto diventare mainstream.

Il quadro, già cupo, non si chiude senza l’ascesa – prevedibile e insieme perturbante – di una figura finora rimasta in penombra: il vicepresidente degli Stati Uniti, J.D. Vance, che molti già indicano come il prossimo candidato alla presidenza. Vance, dietro il suo sorriso freddo e sornione, con l’aria di un felino annoiato ma pronto a colpire, non rinuncia a stoccate nette e letali. Lo si è visto durante la prima visita-imboscata di Zelenski alla Casa Bianca, quando la sua postura implacabile ha rivelato la stoffa di chi sa trasformare l’attesa in un balzo al centro della scena.

Freddo, scarsamente empatico, Vance non urla, non improvvisa, non ha bisogno di eccessi. Lui prega – dall’alto del suo sbandierato cattolicesimo – per quanto molte delle sue preghiere paiano intersecare gli insegnamenti religiosi più conservatori e fondamentalistia: antiabortista, ferocemente contro i diritti LGBTQ+, contro la fecondazione assistita, radicalmente contro le politiche migratorie e …chi più ne ha più ne metta.

Alla Conferenza di Monaco di febbraio scorso, ha dichiarato – in uno dei suoi frequenti attacchi contro la cultura del political correct – che “in Europa la libertà di parola è in ritirata”, accusando l’Unione di bullizzare le Big Tech. Non un dettaglio: brandire la libertà di parola come arma significa legittimare, in quel caso, gli estremisti neonazisti di AfD, erodere gli anticorpi istituzionali, scavare nel cuore della democrazia.

Per completare il quadro, l’allineamento con forze populiste europee e la narrazione dei “valori occidentali traditi” costituisce l’ulteriore terreno ideologico da preparare: delegittimare media, istituzioni e organismi sovranazionali, aumentare la polarizzazione, contro l’inclusione,  ridurre la capacità di mediazione della democrazia.

Ecco perché la sua figura – in divenire – potrebbe incutere, se possibile, più paura dell’attuale scenario già da incubo. Perché non solo conferma la direzione verso cui sta andando l’umanità di Trump, ma la legittima con un peso di natura intellettuale. Vance, cioè, non parla più alla pancia della gente, come Trump, ma alla testa delle persone.

Sembrano lontani i tempi in cui ci lamentavamo del bacchettonismo woke che proveniva dalle Università fricchettone dell’America libera e liberale, o della ultra-normativizzazione  della Comunità Europea. Non vorremmo doverci pentire di aver scambiato quelle lamentele per il peggio, quando il peggio, quello vero, non solo non è oggi, ma potrebbe ancora dover arrivare.


Chiude la quinta edizione della rassegna Avellino letteraria, Angelo Cristofano con il libro: “Noè… Noè… ma dove vuoi portarci!!!???”


Si conclude sabato 20 dicembre alle 17.30, presso il Palazzo Vescovile, la rassegna di cultura, Avellino letteraria giunta alla quinta edizione, ideata ed organizzata da Annamaria Picillo, direttore artistico dell’evento. Un programma ricco e complesso quello del 2025. La tematica di quest’anno è stata: “Resistere”. Si è discusso di tanti temi di vita sociale, numerosi confronti su letteratura, arte, musica, teatro, incontri con i protagonisti. Una iniziativa nata dalla voglia di favorire e promuovere la diffusione della cultura, attraverso i libri e la lettura. Una quinta edizione che ha riscontrato un importante partecipazione da parte del pubblico, di critici, di editori e scrittori, creando così un punto fermo per gli anni futuri. Insieme agli autori, al pubblico presente, agli appassionati di cultura, si è vissuto momenti di condivisione, di emozioni, di confronto, proposte che potrebbero, anzi dovrebbero essere un’occasione soprattutto per l’universo giovanile di avvicinarsi alla lettura, alla conoscenza, alla socialità ed alla riflessione comune. Sarà l’autore, Angelo Cristofano, a chiudere questa edizione con il libro: “Noè… Noè… ma dove vuoi portarci!!!???”. Dopo i saluti di Monsignor Arturo Aiello, vescovo di Avellino, Giuliana Perrotta, commissario straordinario del comune di Avellino, Edgardo Pesiri, presidente Aps Carlo Gesualdo e Gianni Festa direttore del Corriere dell’Irpinia, interverranno: Ada Ciaglia, dirigente scolastico e Antonella Prudente, docente di lettere. Dialoga con l’autore, Milena Montanile, docente Università degli Studi di Salerno. Interludio musicale, con le dolci note di canti natalizi, riscalderanno l’atmosfera. La danza vedrà protagoniste: Beatrice Giordano, Clarissa Di Iorio e Claudia Barbato. Coordina la giornalista, Daniela Apuzza. Sostiene la serata “Oliviero dolciaria”, la lunga tradizione irpina, ed il celebre torrone, simbolo del Natale italiano. Gran finale, ed un brindisi ideale, che sarà di buon auspicio per la sesta edizione di Avellino letteraria.


Ad Atreju Giorgia Meloni mette in mostra “il presepe degli intellettuali”. E la sinistra glielo lascia fare…


Pasolini “vate dei porci”. Era questa la definizione data nel 1968 da Giovane Italia (l’organizzazione juniores del Movimento Sociale Italiano) in un comunicato stampa. Ma ad Atreju di Pasolini, come di Gramsci, si è parlato. Sapete perché? Perché la destra ha bisogno di un “presepe culturale” e lo sta rubando anche alla sinistra, che, tanto per cambiare, glielo lascia fare

Ad Atreju Giorgia Meloni mette in mostra “il presepe degli intellettuali”: dal Pasolini “vate dei porci” al Gramsci di Alessandro Giuli. E la sinistra glielo lascia fare…

(di Fulvio Abbate – mowmag.com) – Giorgia Meloni sembra detestare chiunque non le somigli. E, si sappia ancora, non è l’unica a provare risentimento, se non proprio livore, per tutti noi che, per semplici ragioni di eleganza e stile, non possiamo perdonarle di non avere mai mostrato discontinuità rispetto a una sua, interamente sua, matrice neofascista, temo ostentata come fosse un peluche festivo. Altrettanto meschini, anzi, “rosiconi” risultiamo agli occhi dei suoi molti instancabili sostenitori, cioè in chi ha votato il suo miracoloso partito che, fin dal nome, mostra pretese familiari, forse anche familistiche, quasi fossimo in presenza di un patto tra consanguinei, sorta di prima comunione e cresima identitarie: Fratelli d’Italia. Implicitamente, assodata la narrazione da rotocalco popolare e populista, perfino “sorelle”, in questo caso non meno italiane, cristiane, convinte che prima d’ogni altri debbano essere gratificati i nostri dirimpettai connazionali, implicito disprezzo verso l’immigrati, concepiti come immondizia umana, indesiderabili.

Giorgia Meloni, come molti fanno inutilmente notare, dimentica, forse strumentalmente, di trovarsi da tre anni in una posizione apicale, addirittura alla presidenza del Consiglio, ciononostante tutto ciò non le impedisce di attribuire agli altri, ai cosiddetti, sempre parole sue, “rosiconi” e “sinistri”, “residenti delle ZTL”,  appunto, i propri limiti, i doverosi compromessi che realismo politico impone; d’altronde il vittimismo risentito è tra le armi principali di chi, notava il liberale Ennio Flaiano, vive in uno stato di perenne profondo senso di inferiorità culturale, oltre che politico. Non si dimentichi che agli occhi di molti il luogo ideale di chi non abbia mai marcato distanza dalla memoria dell’orbace mussoliniana prende il nome di “fogna”. Per antifrasi, gli stessi “camerati”, anni addietro, ritennero giusto chiamare una loro fanzine altrettanto identitaria proprio “La voce della fogna”. Non sembra che, diversamente da Gianfranco Fini, abbiano mai definito il fascismo “male assoluto”. Quanto ai rapporti con la “comunità” non si sono mai interrotti.  

 Giorgia Meloni ad Atreju

Accanto al vittimismo temperato di rabbia mal trattenuta, il Minculpop intestato a una creatura fantasy di Giorgia Meloni da settimane ormai lavora ad ampliare le sale del proprio pantheon già prossimo scenograficamente a una cripta, includendo accanto all’immaginario già sufficientemente citato – “Il Signore degli Anelli” di J. R. R. Tolkien, e ancora “La storia infinita” di Michael Ende: da cui trarre il “logo” Atreju per le proprie manifestazioni-vetrina-showroom – figure del tutto improprie rispetto al patrimonio genetico iniziale.

L’appropriazione di Antonio Gramsci, in funzione della legittimazione di una propria egemonia venata di revanchismo tuttavia non meno nibelungico come già nelle premesse “non conformi”, è in questo senso esemplare, ed essendo condotta in un contesto segnato dalla post-verità dell’Intelligenza artificiale che tutto concede e consente appare in definitiva irrilevante che storicamente non possano esserci punti di contatto da il promotore dell’“Ordine Nuovo” nei giorni dell’occupazione armata delle fabbriche torinesi, Gramsci, e chi giunge invece dal “bunker” di Colle Oppio, alle cui pareti figuravano semmai i ritratti votivi di Corneliu Codreanu, leader ultranazionalista e ideologo antisemita romeno de la “Guardia di Ferro” o di Léon Degrelle, quest’ultimo un politico belga, fondatore del rexismo, movimento nazionalista di ispirazione ultra-cattolica, pronto a virare ideologicamente verso il fascismo, combattente nella seconda guerra mondiale nel contingente vallone delle Waffen-SS. Oppure, in un caso più “colto” ed estetizzante nel controluce mortuario della destra “sublime”, suggerendo quindi temperature eroiche, Robert Brasillach, scrittore francese collaborazionista e come tale fucilato nel febbraio 1945 al forte di Montrouge. Sorge perfino il dubbio che il culto di Ezra Pound cui molta destra fa riferimento, come fiore all’occhiello al posto delle “cimice” del trascorso Pnf, non ne riguardi con esattezza l’opera poetica straordinaria, si pensi alla complessità immaginifica dei “Cantos”, semmai l’immagine ben più prosaica e vittimistica del “prigioniero in gabbia”, catturato dai partigiani italiani e consegnato ai militari statunitensi che lo internarono nel campo di prigionia di Coltano, nei pressi di Pisa.

Il panel ad Atreju su Pasolini e Mishima

C’è anche il caso del non meno improbabile tentativo di appropriazione di Pier Paolo Pasolini, poeta, scrittore, cineasta, critico letterario, semiologo civile, intellettuale (anzi, “intelletuale”, così come scrisse un anonimo segretario di sezione friulana sulla sua tessera di militante comunista del 1947), polemista “corsaro” e “luterano” e legato “sentimentalmente” all’epica resistenziale. Basterebbe in questo caso leggere la sua dichiarazione di voto del giugno 1975 per abbattere ogni dubbio: “Voto comunista perché ricordo la primavera del 1945, e poi anche quella del 1946 e del 1947Voto comunista perché ricordo la primavera del 1965 e anche quella del 1966 e del 1967. Voto comunista, perché nel momento del voto, come in quello della lotta, non voglio ricordare altro”.

Rispetto a un possibile Pasolini “conservatore”, se non “reazionario” o addirittura “fascista e delatore”, come ha suggerito Federico Mollicone, deputato di Fratelli d’Italia e presidente della commissione Cultura alla Camera – “Sì, in pochi lo sanno. E tuttavia è un fatto. Non certo una mia opinione” – ritengo che basti citare un remoto “comunicato stampa” della Giovane Italia, organizzazione juniores del Msi, stilato intorno al 1968, per “manifestare contro il clima di sporcizia morale che ha invaso il cinema italiano servo del P.C.I. e dei preti del dialogo”, dove Pasolini viene indicato come “vate dei porci” per rispondere nel merito senza fatica alcuna. Evidentemente anche in questo caso “le radici non gelano”, semmai si prova a rimuoverle. Il documento che trovate qui allegato lo abbiamo ricevuto dal nostro amico Umberto Croppi, intellettuale, lui sì, ingovernabile che tuttavia giunge da Destra.  

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Il comunicato stampa di Giovane Italia del 1968 in cui si definisce Pier Paolo Pasolini “vate dei porci”

Ma è forse ciò che definiremo “presepe familiare” è ciò che più di ogni altra cosa restituisce il nucleo del consenso che la Meloni riesce a ottenere: come ho avuto modo di notare nei giorni scorsi anche altrove, l’apparizione della madre di “Giorgia”, Anna Paratore, tra il pubblico di Atreju è in questo senso rivelatorio ed esemplare, Anna Paratore ci consegna infatti sia l’immagine di una Madre Coraggio capitolina sia, per postura e stazza (e non sembri “body shaming”, semmai un dato oggettivo) la sagoma di Sora Lella che accompagna Mimmo al seggio elettorale in “Bianco rosso e Verdone”, così in un paese mai pienamente pervenuto alla convinzione che Dio Patria e Famiglia, categorie queste presenti nella pochette meloniana, siano valori regressivi, proprio di un’angustia piccolo-borghese soffocante proprio di un tempo antecedente le più significative conquiste civili. Temo invece che, al contrario, l’immagine della Ur-Madre Anna nel caso di “Giorgia” sembra essere un sigillo ulteriore di verace “autenticità”. In verità, ci sarebbe da citare altrettanto, sempre lì ad Atreju, la presenza tra il pubblico dell’ex compagno, nonché padre della figlia Ginevra, Andrea Giambruno… Irrilevante che la piccina sia nata fuori dal vincolo matrimoniale. La Destra non sottilizza molto in tema di morale confessionale quando si tratta di sé stessa; il peso del sentire clericale lo riserva infatti ad altri, magari evocando l’uso del “Maalox” per questi ultimi.

Peccato che a dispetto di questo deposito di retorica populista da sottoscala, a Sinistra prevalga il timore di pronunciare parole che possano indispettire, o ancora peggio amareggiare, i perbenisti, lasciando agli altri il monopolio di una presunta irrefrenabile libertà, così Donald Trump potrà letteralmente continuare a “cacare in testa” in effigie a chiunque – testuale come da video postato tempo addietro – tra i sorrisi impliciti della cara “Giorgia”. 


Francesca Albanese, la delegittimazione come metodo: processo in tre fasi per neutralizzare i suoi rapporti alla fonte


Dagli attacchi personali alle sanzioni economiche: così si colpisce la relatrice Onu per rendere irrilevanti i suoi rapporti su Gaza

Francesca Albanese, la delegittimazione come metodo: processo in tre fasi per neutralizzare i suoi rapporti alla fonte

(di Giulio Cavalli – lanotiziagiornale.it) – Ma davvero sono solo polemiche quelle contro Francesca Albanese? Non proprio. Bisogna partire dall’inizio per provare a fare un po’ di chiarezza. Nel maggio 2022 Francesca Albanese assume l’incarico di Relatrice speciale delle Nazioni Unite sui diritti umani nei Territori palestinesi occupati.

È un mandato strutturalmente esposto allo scontro politico: unico incarico geografico a tempo indeterminato, destinato a durare fino alla fine dell’occupazione israeliana, con il compito esplicito di indagare le violazioni della potenza occupante. In questa cornice, la reazione ostile era più che prevedibile, praticamente scontata. Ma quello che si è dispiegato nei tre anni successivi segue invece una traiettoria diversa: una strategia coerente, progressiva, riconoscibile, che non mira a contestare i rapporti ma a svuotare di legittimità chi li produce.

La delegittimazione di Albanese procede per accumulo. Ogni passaggio prepara il successivo, ogni attacco rende plausibile quello dopo. Non è una polemica. È un’architettura.

Il meccanismo della delegittimazione sistemica

Il primo livello è reputazionale. La campagna prende avvio con la riesumazione di un post social del 2014, scritto durante l’operazione militare israeliana “Margine di Protezione”. L’operazione è condotta in modo sistematico da organizzazioni come UN Watch, diretta da Hillel Neuer, e rilanciata da network affini come NGO Monitor e International Legal Forum.

Una frase infelice, già chiarita e corretta dalla stessa Albanese, viene isolata dal contesto e trasformata in prova permanente di antisemitismo. Il tempo trascorso, il chiarimento successivo, la distinzione tra critica politica e odio antiebraico diventano irrilevanti. L’obiettivo è fissare un’etichetta, a nessuno interessa realmente discutere del contenuto. E così l’etichetta rimane, come un’ombra, la prima. Missione compiuta. 

Il secondo livello è mediatico e politico. I dossier prodotti da queste Ong vengono amplificati da diverse testate fino a diventare argomento di interrogazioni parlamentari e richieste formali di rimozione. Negli Stati Uniti la pressione arriva fino a dichiarazioni pubbliche di funzionari e parlamentari; in Europa coinvolge direttamente governi come quelli di Germania e Francia, che nel 2024 sollecitano chiarimenti al Segretario generale Onu António Guterres. La critica si sposta definitivamente dal merito dei rapporti alla presunta inaffidabilità morale della Relatrice. In questa fase il nome di Albanese viene reso “tossico”: chi la invita, chi la ascolta, chi la difende è a sua volta sospetto.

Il terzo livello è istituzionale. Israele le nega l’accesso ai Territori occupati, consolidando una prassi già applicata ai predecessori Richard Falk e Michael Lynk, ma estendendo l’ostracismo anche dopo il 7 ottobre 2023. Negli Stati Uniti la pressione diplomatica si traduce in un salto di qualità: nel luglio 2025 il Dipartimento del Tesoro inserisce Albanese nella lista Ofac – Specially Designated Nationals, attivando l’Executive Order 14203, lo stesso strumento usato contro la Corte penale internazionale. È la criminalizzazione finanziaria di un mandato ONU.

Un protocollo collaudato per rendere irrilevante chi indaga

Dentro questo schema si inserisce il caso italiano. Nel dicembre 2025, dopo incontri con studenti in scuole superiori toscane per presentare il libro “Quando il mondo dorme”, il ministero dell’Istruzione dispone ispezioni ministeriali citando articoli di stampa e ipotizzando profili di reato. L’innesco arriva da una campagna mediatica di alcuni organi di stampa di area centrodestra, rilanciata politicamente dalla Lega. La sequenza è lineare: attacco mediatico, reazione politica, intervento amministrativo. L’autonomia scolastica viene sospesa in nome di un controllo che non riguarda la didattica ma il contenuto politico di una voce ritenuta scomoda.

L’effetto va oltre il singolo episodio. Anche in assenza di sanzioni formali, l’ispezione produce un messaggio chiaro: invitare Albanese comporta un rischio. Il procedimento diventa esso stesso punizione, deterrente, avvertimento preventivo rivolto a dirigenti, docenti, amministrazioni locali che le avevano conferito cittadinanze onorarie.

Nel frattempo la pressione si estende alla sfera privata. UN Watch apre un fronte contro il marito di Albanese, Massimiliano Calì, economista alla Banca Mondiale, accusandolo di conflitto di interessi per precedenti consulenze con l’Autorità nazionale palestinese e chiedendone pubblicamente il licenziamento al presidente Ajay Banga. Anche qui il messaggio è esplicito: il prezzo del mandato ricade anche sui familiari.

II punto di rottura arriva con il rapporto Onu del 2 luglio 2025, “From Economy of Occupation to Economy of Genocide”, in cui Albanese cita un elenco di aziende per il loro ruolo economico e tecnologico nell’occupazione e nella guerra a Gaza. Quando l’analisi tocca le corporation e i flussi finanziari globali, la risposta diventa immediata e sproporzionata. Neutralizzare la fonte è la soluzione più veloce e più comoda. 

E siamo a oggi. Non si tratta solo di Francesca Albanese: la sua vicenda mostra un modello ripetibile. Scavo nel passato, etichettatura morale, isolamento fisico, lawfare, pressione economica, attacco ai familiari. Una sequenza che trasforma il diritto internazionale in un terreno ad alto costo personale. Il messaggio è rivolto al futuro: chi esercita quel mandato sa cosa lo aspetta. Non per quello che dirà, ma per il solo fatto di dirlo.


Al Bano, in versione storico-geopolitico: “Il Donbass? Quel territorio è stato un regalo della zarina Caterina… sarebbe un ritorno alle origini”


(da “Un giorno da pecora” – Rai Radio1) – La mia disponibilità ad ospitare i membri della Famiglia del bosco? “Quando la offrì una signora mi disse che avrei dovuto aspettare il 16 dicembre, che è oggi. Quindi vediamo cosa diranno”. A parlare, ospite di Rai Radio1, a Un Giorno da Pecora, è il cantante e imprenditore Al Bano Carrisi, intervistato da Giorgio Lauro e Geppi Cucciari.

“Io sono sempre disponibile per ospitarli nel mio bosco – ha ribadito l’artista -, quando e come vogliono”. Sarebbe disposto a trovare anche un lavoro ai genitori? “Se vogliono il lavoro troveremo anche quello”, ha assicurato Al Bano a Un Giorno da Pecora.

L’UE e la trattativa di pace in Ucraina? “Visto che esistiamo dobbiamo anche esser presenti, altrimenti quando fanno l’appello rispondono solo in pochi”. A parlare, ospite di Rai Radio1, a Un Giorno da Pecora, è il cantante e imprenditore Al Bano Carrisi, che molte volte si è esibito in Russia, intervistato da Giorgio Lauro e Geppi Cucciari. Zelensky dovrebbe accettare di perdere un po’ di territorio?

“Da quello che so quel territorio è stato un regalo della zarina Caterina circa trecento anni fa’, quindi sarebbe un ritorno alle origini. Il dramma del Donbass è che per anni sono andati d’amore d’accordo, poi a seguito di una presa di coscienza sbagliata, quelli dell’ovest hanno iniziato a sparare a quelli dell’est”. Chi vuole meno la pace tra il leader ucraino e quello russo? “Se si mettono d’accordo dovranno volerla entrambi”.


Di Maio, il prototipo del politico italiano: furbo, opportunista, privo di scrupoli


(Bartolomeo Prinzivalli) – Di Maio rappresenta per circa la metà dell’elettorato, quello che non vota più, il prototipo del politico italiano: furbo, opportunista, privo di scrupoli.

Ha saputo cogliere un’opportunità, forse inizialmente persino in buona fede, e ne ha fatto un trampolino per la carriera individuale, sacrificando senza alcun rimorso reputazione e rispetto di coloro che in lui riponevano ogni speranza.

Ha cavalcato l’onda del cambiamento diventandone alfiere ed è stato lesto ad imparare quali slogan fossero più efficaci, quali parole risuonassero maggiormente nelle orecchie di un popolo stanco di essere sfruttato maltrattato e deriso in modo da poterlo truffare per l’ennesima volta.

Ha assaporato il potere che giurava di combattere divenendone estimatore, dipendente, infine succube; per raggiugere tale scopo ha tradito ogni sguardo, supporto, faticoso contributo di chi si era illuso che in Italia una rivoluzione pacifica e reale fosse possibile.

Come c’è riuscito?

Un po’ per merito suo, mettendo a frutto la tipica furbizia di chi sa insinuarsi in ogni spiraglio riuscendo nel contempo a distinguersi fra schiere di contendenti ed ostacolando eventuali rivali, ma molto per colpa di un popolo di creduloni che dall’idea iniziale di un’organizzazione orizzontale è finito con l’adorare nuovi idoli ergendoli ad eroi infallibili ed insostituibili, tanto da rifiutarsi di riconoscerne evidenti limiti, errori madornali ed ambiguità.

Da lì ad attuare la frase simbolo di Wanna Marchi il passo è breve, persino naturale; lui l’ha fatto forse in maniera palese, eccessivamente roboante perché ha puntato in alto, altri si sono accontentati di molto meno rimanendo in sordina, tutto qua.

Una ferita aperta che diventa repulsione, disillusione, nichilismo, infine urna vuota.

Come invertire la tendenza? E chi dovrebbe farlo?

Non lo so. Forse mia nonna, se fosse ancora viva…


UE: liste di proscrizione contro il dissenso


(Sassi nello stagno – lafionda.org) – Ormai siamo alla follia. L’UE non si limita più a censurare le voci scomode, ma ha iniziato a stilare vere e proprie liste di proscrizione, utilizzando lo strumento delle sanzioni – nato come misura commerciale – per mettere di fatto “fuori legge” semplici cittadini colpevoli di avere opinioni divergenti dalla narrazione di regime. Era già accaduto a tre giornalisti tedeschi. Ora, con l’ultimo pacchetto di sanzioni, è toccato anche al noto analista ed ex colonnello svizzero Jacques Baud, accusato di fare “propaganda filorussa” per il solo fatto di avere una lettura del conflitto in Ucraina diversa da quella ufficiale (e – addirittura! – di aver concesso interviste a canali d’informazione russi).

Per questo – in un salto logico che lascia esterrefatti – viene ritenuto “responsabile delle azioni della Federazione Russa”. È evidente che ci troviamo di fronte a un attacco alla libertà di espressione e allo Stato di diritto senza precedenti nell’Europa del dopoguerra. Né sorprende che dietro questa deriva vi sia l’UE, che da oltre trent’anni rappresenta il principale strumento di smantellamento della democrazia nel continente.

È importante sottolineare che le sanzioni dell’UE non sono comminate da alcun tribunale. Si tratta di punizioni emanate direttamente dal potere esecutivo, nei confronti di individui che non sono stati giudicati colpevoli di alcun reato da nessuna corte: l’elaborazione e la proposta delle misure fanno capo all’ufficio di Kaja Kallas. Le conseguenze per i sanzionati sono devastanti: non solo viene loro impedito l’ingresso e il transito nel territorio dell’Unione – il che significa, per chi si trovi già in un Paese UE, non poterne uscire – ma, cosa ancora più grave, subiscono il congelamento dei beni e dei conti bancari.

Se non ci ribelliamo a questa terrificante deriva totalitaria, presto potrebbe essere troppo tardi per farlo.


Per Trump la democrazia è solo un fastidioso dettaglio


(ANSA) – WASHINGTON, 16 DIC – Donald Trump ha firmato più ordini esecutivi in meno di un anno di presidenza di quanti ne avesse firmati nell’intero primo mandato, aggirando ripetutamente il Congresso e costringendo i tribunali a confrontarsi con i limiti costituzionali del suo potere.

Lo scrive il Washington Post. Lunedì Trump ha firmato un provvedimento che dispone la designazione del fentanyl come “arma di distruzione di massa”, il 221/mo ordine esecutivo del suo secondo mandato.

Dalla sua inaugurazione, Trump ha utilizzato questi ordini per imporre dazi su larga scala, cercare rappresaglie contro quelli che considera i suoi nemici e intervenire su questioni culturali di ogni tipo, dalle leggi sull’immigrazione alla regolamentazione della pressione dell’acqua nelle docce.   

Secondo un’analisi del Wp basata su dati delle organizzazioni non profit CourtListener e JustSecurity, un terzo degli ordini esecutivi di Trump è stato esplicitamente impugnato in tribunale entro il 12 dicembre.

I presidenti statunitensi hanno progressivamente concentrato il potere esecutivo per aggirare il Congresso sin dall’inizio del XX secolo. Tuttavia, Trump ha accelerato una tendenza che si è intensificata negli ultimi decenni, in un contesto di calo dell’attività legislativa e di crescente scontro partitico.