Selezione Quotidiana di Articoli Vari

L’autoattacco polacco


(Marco Travaglio – Il Fatto Quotidiano) – I soliti imbecilli pensano che ci occupiamo delle fake news atlantiste sull’attacco imminente o addirittura in corso della Russia all’Europa perché siamo putiniani. Abbiamo scritto fin dal primo giorno che l’invasione russa dell’Ucraina è un crimine internazionale ingiustificabile anche se provocato dalla Nato. Ma basta unire i puntini di dichiarazioni e decisioni dei leader europei pericolanti o morituri per capire che vogliono salvarsi le poltrone trascinandoci nella terza guerra […]


Gaza brucia…


(Dott. Paolo Caruso) – Gaza brucia, messa a ferro e fuoco da terra e dal cielo. Le truppe terrestri della Stella di Davide sono penetrate con i carri armati fin dentro la città provocando un esodo biblico della popolazione palestinese. Non sanno dove andare, non c’è Terra per loro, e nessuno li vuole. Una tragedia umanitaria di portata devastante, un vero genocidio voluto dal criminale Netanyahu con la complicità di Trump, a cui il Premier israeliano esprime profonda gratitudine. Del resto non c’era alcun dubbio. I due, legati a doppio filo, hanno pianificato tali misfatti. I Palestinesi morti sono già oltre sessantamila, di cui ventimila bambini, e gli altri… in forzata evasione. Per dove? Chi vivrà vedrà. Lo hanno decretato i due amici e alleati da sempre Bibì e Donald, mentre gli altri governi della pavida Europa vergognosamente stanno a guardare. L’arbitro del mondo, il Presidente americano da vero megalomane dice di essere rivestito di poteri “divini”. Il mondo sotto sotto però gli ride dietro. Lo vede rivestito di sole boriose chiacchere. Segni di alterazione mentale? Eppure continua a pretendere di dettare i ritmi della Storia. Un barlume storico fa pensare a Caligola e al suo cavallo “senatore”. Cosa ci si aspetta negli altri tre anni di sua presidenza? Putin nella sua ambiguità e nelle sue pretese da vincitore, a dire della propaganda occidentale, è tentato a mostrare i muscoli anche agli Europei che senza il padrino a stelle e strisce si piangono addosso,
inascoltati. Intanto il silenzio assordante della comunità internazionale circonda Gaza che brucia, e l’ Europa che fu culla di civiltà e di diritto, da pusillanime quale è oggi, non riesce con voce univoca a sanzionare con l’ embargo delle armi il criminale Netanyahu. “Quousque tandem abutere patientia nostra? (Cicerone). Fino a quando i nostri governanti potranno abusare della nostra pazienza? E fino a quando l’ Europa continuerà a voltarsi dall’ altra parte della Storia? Un’ onta che resterà scolpita a perenne memoria nelle coscienze di intere generazioni.


Il ministro israeliano Smotrich getta la maschera: “Gaza è un miniera d’oro immobiliare, già avviati i negoziati con gli Usa per la spartizione”


Nella Striscia c’è una tale “abbondanza immobiliare” da far sì che la ricostruzione “si paghi da sola”, sottolinea il ministro di estrema destra del governo Netanyahu

(ilfattoquotidiano.it) – Mentre prosegue l’operazione militare di occupazione di Gaza City il ministro delle Finanze israeliano, Bezalel Smotrich, getta definitivamente la maschera: alla fine della guerra la Striscia di Gaza sarà “una miniera d’oro immobiliare”, dichiara entusiasta alla conferenza immobiliare Urban Renewal Summit a Tel Aviv. Mentre la Commissione europea annuncia le possibili sanzioni contro Israele (con il nome di Smotrich che compare tra quelli inclusi nel pacchetto) e la Commissione indipendente delle Nazioni Unite accusa Tel Aviv di genocidio, il ministro di estrema destra parla addirittura di “negoziati avviati con gli americani” per come spartirsi la Striscia alla fine del conflitto.

Come se stesse parlando di una qualsiasi operazione immobiliare Smotrich sottolinea che “la demolizione, la prima fase del rinnovamento della città, l’abbiamo già fatta. Ora dobbiamo solo costruire”. Fase, dimentica di dire, che ha provocato fino a oggi oltre 65mila morti, tanti dei quali bambini. Il ministro delle Finanze tiene anche a precisare gli aspetti prettamente economici del progetto: nell’enclave palestinese c’è una tale “abbondanza immobiliare” da far sì che la ricostruzione “si paghi da sola“, insiste ancora.

Per il ministro di Netanyahu il progetto “dell’Eldorado Gaza” è stato già condiviso con gli Stati Uniti: “Abbiamo investito molti soldi in questa guerra. Dobbiamo vedere come distribuiremo il terreno in percentuale“, ha aggiunto sottolineando che “il business plan” per Gaza è sulla scrivania del presidente americano Donald Trump che “sta verificando come questa situazione diventerà una manna dal cielo immobiliare”. Tra l’altro a febbraio scorso era stato lo stesso presidente Usa a lanciare il piano della “Riviera Gaza” senza palestinesi.

Il progetto di Smotrich e del governo israeliano non si ferma alla Striscia. È stato proprio lui ad annunciare ad agosto il via libera alla costruzione di 3.400 nuovi insediamenti in Cisgiordania, la contestatissima Colonia E1 che – come lui stesso ha sottolineato – “cancella l’illusione dei due Stati e consolida la presa del popolo ebraico sul cuore della Terra d’Israele”: “Lo Stato palestinese viene cancellato dal tavolo non con slogan, ma con i fatti“, ha ribadito presentando i nuovi insediamenti come “un altro chiodo nella bara di questa pericolosa idea”. Dalla Cisgiordania alla Striscia di Gaza, pertanto, il progetto di Smotrich e del governo israeliano va verso un unico obiettivo.


Alleluja, le Marche stanno diventando la regione più ricca d’Italia!


Il regalo del governo alle Marche: 60 milioni di euro a pochi giorni dal voto. La nuova assegnazione decisa ieri durante il pre-Cipess. I finanziamenti alla regione verranno sbloccati la settimana prossima (le elezioni sono il 27 e 28 settembre) e servono a garantire alle opere i finanziamenti che ancora mancano. In corsa l’uscente di FdI Acquaroli e il dem Ricci. Oggi Meloni ad Ancona

La premier Giorgia Meloni e il governatore uscente delle Marche e ricandidato, Francesco Acquaroli

(di Giuseppe Colombo – repubblica.it) – ROMA – Sessanta milioni di euro a pochi giorni dal voto. Ecco il “regalo” elettorale del governo alle Marche guidate da Francesco Acquaroli (FdI), governatore in carica e candidato-presidente per il centrodestra alla corsa per le regionali in calendario il 28 e 29 settembre. Se anche gli ultimi passaggi tecnici fileranno liscio tra qualche giorno potrà contare su un’assegnazione importante. Tutto merito della delibera del Comitato interministeriale per la programmazione economica e lo sviluppo sostenibile (Cipess) che dovrebbe riunirsi il 24, proprio a ridosso della chiamate alle urne dei marchigiani.

Un assist importante che si materializza a poche ore dall’arrivo di Giorgia Meloni nelle Marche. Oggi la premier sale sul palco di piazza Roma, ad Ancona, insieme ai suoi vice Matteo Salvini e Antonio Tajani. All’appuntamento, in programma alle 18, presenti anche il leader di Noi Moderati, Maurizio Lupi, e il senatore Antonio De Poli, insieme ai rappresentanti locali dei partiti del centrodestra che sostengono la volata di Acquaroli.

Non è la prima volta che l’esecutivo assegna risorse ai territori a pochi giorni dal voto. A dieci giorni dal voto in Abruzzo (il 10 ottobre 2024), dove a correre per la riconferma era un altro governatore meloniano, l’uscente Marco Marsilio (FdI), la premier guidò la riunione del Cipess che sbloccò 720 milioni per la Roma-Pescara. La ferrovia che promette di collegare i due capoluoghi in un’ora e venti minuti era finita fuori dal Pnrr. Fu ripescata proprio ridosso delle elezioni regionali. Salvata e rifinanziata con altri fondi. E Salvini si presentò ad Avezzano per promettere che l’A24 Roma-Teramo non avrebbe avuto aumenti di pedaggio per sette anni.

Ora il “soccorso” arriva nelle Marche. ll lavoro istruttorio è già pronto. È finito martedì sul tavolo del pre-Cipess, la riunione preparatoria che mette in fila le carte per le decisioni che spetterà ai tecnici approvare in via definitiva. Ecco allora la nuova assegnazione. Spunta in un documento del Dipe, il Dipartimento per la programmazione economica e il coordinamento economico di Palazzo Chigi. Alla lettera b del punto 1 si fa riferimento al Fondo sviluppo e coesione 2021-2027. È il salvadanaio per i territori che l’esecutivo ha blindato con gli Accordi di coesione sottoscritti, uno per uno, con le Regioni. Le Marche possono contare in tutto su 333,6 milioni di euro: le risorse saranno impiegate per finanziare sedici investimenti, con un’attenzione particolare alle infrastrutture e alla rete di trasporto.

Nella nota del Dipe, che Repubblica ha potuto consultare, l’oggetto è l’assegnazione di risorse per tre progetti: i primi due sono accorpati, il terzo viaggia in autonomia. Ecco il dettaglio: 43 milioni vanno al completamento del progetto “Nuovo complesso sede dell’Ircss Inrca e dell’ospedale di rete sud Ancona”, mentre altri 17 milioni al collegamento stradale Macerata-Villa Potenza.

È stato proprio Acquaroli, il 3 settembre, a dare il via all’iter della proposta attraverso una segnalazione. La pratica è stata istruita dal Dipartimento per le politiche di coesione e il Sud di Palazzo Chigi. I finanziamenti che il Cipess ha messo in conto di sbloccare la settimana prossima servono a garantire alle opere i finanziamenti che ancora mancano. Soldi extra perché i 145,4 milioni dell’Fsc serviranno a coprire i costi aggiuntivi che sono maturati durante la progettazione e la realizzazione del nuovo complesso che ospiterà l’Istituto nazionale ricovero e cura degli anziani (Inrca), e di un ospedale del capoluogo. Il costo complessivo ora è pari a 188,4 milioni, di cui 145,4 già dotati di copertura finanziaria. Mancano 43 milioni, che sono quelli in arrivo. Le risorse – si legge nel documento – servono a completare il polo sanitario “attesa la relativa rilevanza strategica”.

Per la strada che collegherà Macerata a Villa Potenza, il costo complessivo è pari a 25 milioni, di cui otto già coperti. In questo caso, quindi, l’assegnazione ammonta a 17 milioni. La motivazione: l’intervento ha un carattere strategico “sia ai fini dei collegamenti regionali interni, sia ai fini del raccordo con altre importanti arterie stradali”.

ll totale del finanziamento fa 60 milioni. Soldi e prescrizioni. Così come avvenuto con le altre delibere del Cipess che hanno assegnato le risorse dell’Fsc, anche questa per le Marche prevederà “un termine di riferimento” per ogni opera “ai fini dell’applicazione della revoca automatica delle risorse”. Non appena lo schema di delibera otterrà il via libera della Corte dei conti, l’amministrazione regionale potrà avviare le attività che servono ad attuare gli interventi sul territorio.

Prima, però, serve il disco verde del ministero dell’Economia. La nota del Dipe, infatti, fa sapere che lo schema di delibera è stato sottoposto al Mef per le verifiche di finanza pubblica. In caso di esito positivo potrà essere approvata direttamente “nella prossima seduta del Comitato”. Seduta che fonti di governo collocano al 24 settembre. A quattro giorno dal voto.


Opposti Mainstremismi


(di Marco Di Salvo – glistatigenerali.com) – Mancassero i motivi di preoccupazione internazionale, eccoci di fronte al sorgere di un tentativo sempre più concreto di realizzare un obiettivo mancato all’incirca un secolo fa, quello delle estreme destre unite a livello globale.

Nei giorni scorsi il cuore di Londra ha battuto al ritmo di una protesta che ha acceso un nuovo allarme nel panorama politico britannico. Sabato passato, guidata da Tommy Robinson, figura controversa (per usare un eufemismo) e leader dell’estrema destra britannica, la manifestazione ha visto decine di migliaia di sostenitori sfilare per le strade della capitale. L’evento, ufficialmente indetto contro l’immigrazione islamica, si è trasformato in una dimostrazione di forza che ha riacceso i timori di una crescente radicalizzazione della società. La retorica utilizzata è stata quella che conosciamo bene a base di nazionalismo e identità culturale sotto attacco. Quella di Robinson non è una voce isolata, ma parte di un coro ben più ampio che sta risuonando in Gran Bretagna (vedi posizioni non dissimili nei vertici del partito di Farage e degli stessi Conservatori) e un po’ in tutta Europa.

Pochi giorni dopo che i sostenitori di Robinson hanno marciato su Londra, un evento apparentemente slegato è accaduto dall’altra parte dell’Atlantico, con implicazioni altrettanto significative, la vicepresidente del partito di estrema destra tedesco Alternative für Deutschland (AfD) in visita alla Casa Bianca. L’incontro, sebbene non con le più alte cariche e tutt’altro che formalizzato da note ufficiali, rappresenta un segno inquietante: la legittimazione politica di movimenti che fino a poco tempo fa erano considerati ai margini del dibattito democratico, una legittimazione che avviene con la copertura dell’attuale vicepresidente Vance. Questo parallelismo tra eventi distanti ci costringe a fare un passo indietro nel tempo, a un’epoca che molti speravano non si sarebbe mai più ripetuta.

La mente infatti corre agli anni ’30 del Novecento, un periodo in cui l’ideologia nazista cercò di espandersi ben oltre i suoi confini. In Gran Bretagna, il British Union of Fascists (BUF) di Oswald Mosley, un partito di estrema destra fortemente ispirato al fascismo italiano e al nazismo tedesco, radunava decine di migliaia di seguaci. Negli Stati Uniti, l’American Bund rappresentava la punta di diamante del tentativo nazista di penetrazione politica, organizzando raduni di massa, il più famoso dei quali si tenne al Madison Square Garden di New York nel 1939. La storia, come un’eco, sembra ripetersi, seppur in forme diverse. Oggi, certo non vediamo bandiere con svastiche, ma l’ideologia sottostante relativamente immutata ha trovato nuove vesti e nuovi canali di diffusione, come i social media.

In questo scenario, si inserisce l’influenza di figure di spicco come Elon Musk che, seppure in tono minore che nei mesi scorsi, mantiene una sua linea politica che tiene a ribadire spesso. Il proprietario di X (ex Twitter) ha espresso apertamente il suo sostegno per l’AfD in Germania, affermando che il partito è l’unica via per “salvare” il Paese, per non parlare degli attacchi all’attuale governo britannico. Tali dichiarazioni, diffuse sulla sua piattaforma, hanno scatenato forti polemiche, con i critici che accusano Musk di amplificare la retorica dell’estrema destra.

Questo sostegno ha un’inquietante risonanza storica. Negli anni ’30, i nazisti cercarono e trovarono un’apertura nel mondo degli affari e dell’alta società americana attraverso figure influenti. Henry Ford, il pioniere dell’industria automobilistica, fu un fervente ammiratore di Adolf Hitler e un noto antisemita. Il suo libro “The International Jew” fu tradotto in tedesco e distribuito in Germania, dove Hitler lo elogiava pubblicamente. Ford fu l’unico americano a ricevere la Gran Croce dell’Ordine dell’Aquila Tedesca, la più alta onorificenza nazista per gli stranieri. Parallelamente, Charles Lindbergh, l’eroe dell’aviazione americana, si espresse a favore del nazismo e dell’isolazionismo americano. Lindbergh era un convinto sostenitore della superiorità razziale e delle teorie naziste, e usò la sua fama per promuovere una politica di non intervento degli Stati Uniti nella Seconda Guerra Mondiale, sostenendo che la Germania nazista non fosse una minaccia per l’America.

Il supporto di Musk all’AfD ha radici storiche in questo tipo di dinamiche, dove l’appoggio di figure carismatiche e influenti legittima movimenti radicali e li spinge dalla marginalità verso il mainstream. Il sostegno di Musk non è un’eccezione, ma si inserisce in un contesto di crescita concreta per l’AfD. Nelle recenti elezioni locali in Nord Reno-Vestfalia, il Land più popoloso della Germania, l’AfD ha registrato un risultato notevole, quasi triplicando i suoi consensi e diventando la terza forza politica con circa il 14-16% dei voti. Questo successo non è più confinato alle tradizionali roccaforti dell’est, ma sta guadagnando terreno anche nei Länder occidentali, superando un “voto di protesta” in favore di una base elettorale più solida.

La marcia di Robinson e la visita dell’AfD non sono eventi isolati, ma parti di un fenomeno interconnesso che vede i partiti di estrema destra guadagnare terreno in tutta Europa, e che ora cercano una legittimazione sulla scena politica mondiale. E il mondo, ancora una volta, osserva con il fiato sospeso. E questa volta i partiti di estrema destra non devono nemmeno faticare a essere antisemiti: grazie al governo Netanyahu e a quanto sta succedendo a Gaza, infatti, sembra che stiano diventando tali da soli i pacifisti e la maggioranza dei cittadini in molte parti del mondo, con politiche e retoriche che creano un clima tossico e divisivo senza bisogno di sforzi diretti da parte dei tradizionali gruppi di estrema destra. Come diceva qualcuno che conoscevo anni fa, poca spesa, tanta resa.


Come siamo arrivati fin qui. Un invito a pensare più a fondo, in un’epoca che premia la semplificazione


Viviamo in un tempo che riduce ogni cosa a scelte nette, dove il dubbio viene percepito come debolezza e la complessità come un ostacolo da evitare. Eppure, è proprio nel dubbio che nasce il pensiero, e nel pensiero la possibilità di riconoscerci. Capire davvero è l’ultimo atto rivoluzionario che ci resta.

(Di Gianvito Pipitone –ilpensieromediterraneo.it) – C’è una domanda che ci accompagna da tempo, silenziosa ma insistente: come siamo finiti in questo groviglio inestricabile? La sensazione è diffusa, e non priva di fondamento. Il mondo di oggi appare più complicato, più frammentato, più rumoroso. E non necessariamente migliore.

Il periodo successivo alla pandemia avrebbe potuto renderci più consapevoli, più attenti, più capaci di ascolto. Invece ci ha restituito una società nervosa, impaziente, spesso incapace di elaborare. Orientarsi è diventato un esercizio faticoso. Riconoscere l’altro, cogliere le sfumature, accettare ciò che non si può spiegare in due righe è ormai quasi un privilegio. Per non soccombere al logorio della vita – come recitava quella vecchia pubblicità – serve una mappa interna. Non una bacchetta magica, ma un sistema di coordinate che ci permetta di leggere il presente nella sua interezza, evitando scorciatoie, etichette, contrapposizioni. Pensare non basta. Bisogna capire da cosa proteggerci per continuare a essere umani.

Le relazioni umane hanno subito una trasformazione profonda. I social network, da Facebook in poi, hanno progressivamente sostituito gli spazi condivisi di un tempo: il campetto dell’oratorio, il bar dell’angolo, il muretto del quartiere. Luoghi dove si imparava a stare insieme, a mediare, a riconoscere l’altro senza bisogno di filtri. Oggi ognuno costruisce il proprio personaggio, alimenta aspettative, cerca conferme. La vita si racconta più che si vive. E nel farlo, si perde il contatto con l’esperienza.

La società liquida descritta da Bauman ha reso tutto instabile. Le relazioni si sono fatte leggere, ma anche fragili. Un “ci vediamo presto” sotto un post sostituisce l’incontro reale. Le amicizie si mantengono con emoji, le conversazioni si riducono a vocali ascoltati a doppia velocità. La presenza dell’altro si dissolve, e il bisogno di semplificare prende il sopravvento. In questo contesto, il pensiero critico fatica a trovare spazio.

Chi è cresciuto nell’analogico ricorda un tempo in cui ciò che non si conosceva veniva trattato con rispetto. Il mistero apriva spazi di meraviglia, di possibilità. Oggi ciò che sfugge alla comprensione viene ignorato o ridicolizzato. Il sapere si è trasformato in oggetto da esibire. Non nasce dal desiderio di comprendere, ma dalla necessità di possedere risposte pronte. Dire “non lo so” è diventato imbarazzante. Meglio improvvisare una risposta che ammettere un dubbio.

Da questa certezza superficiale nasce una nuova forma di ignoranza. Le teorie complottistiche – dal terrapiattismo al rettilianesimo – non sono semplici eccentricità. Rivelano un rifiuto della complessità. Non emergono da percorsi di pensiero, ma da vuoti di riflessione. Chi prova a ragionare viene isolato. Il pensiero critico diventa bersaglio.

Lovecraft scriveva che “la paura più antica è quella dell’ignoto”. Oggi quell’ignoto non genera rispetto. Si trasforma in caricatura. Il confine tra immaginazione e realtà si dissolve. La fantasia diventa convinzione. Il mondo si popola di universi paralleli, dove tutto è possibile e nulla è verificabile.

Questa deriva è costruita. I media, spesso legati a programmi politici, contribuiscono a creare un clima ostile al pensiero critico. Le emozioni collettive vengono manipolate con precisione chirurgica. Steve Bannon ha teorizzato questa strategia: disgregare il ragionamento, esasperare l’identità.

Negli Stati Uniti, questo brodo ha prodotto una radicalizzazione diffusa. Un mix di polarizzazione mediatica, retorica tribale e semplificazione estrema. Donald Trump ha incarnato questa grammatica pubblica. Il suo stile arrogante e sgradevole ha sdoganato un linguaggio politico che punta al dominio. La rozzezza diventa cifra comunicativa, segno di autenticità, strumento di potere.

Le opinioni si irrigidiscono. I dubbi fanno paura. Il confronto scivola nel conflitto. Le verità si moltiplicano, ciascuna modellata sul punto di vista di chi la pronuncia. Il sistema di valori condivisi si restringe. La mediazione perde spazio.

La violenza verbale e fisica che attraversa gli Stati Uniti è il sintomo di una frattura profonda. La vita, che dovrebbe essere il valore più alto, viene ridotta a slogan. La polarizzazione ha separato il mondo in blocchi contrapposti. La moltiplicazione dei temi rende ogni confronto più difficile da decifrare.

A questa deriva contribuisce anche una visione individualistica della giustizia. Non più principio condiviso, ma strumento personale di rivalsa. Il senso del limite si dissolve. La violenza diventa linguaggio. Risposta. Identità.

Un tempo bastava osservare le inclinazioni di una persona – più sociale o più individualista, più autoritaria o più inclusiva – per intuire chi avevamo di fronte. Non si trattava di ceto o classe sociale. Era un’attitudine. Una forma di riconoscimento reciproco. Oggi la personalizzazione si è spinta oltre. Le posizioni si moltiplicano. La catalogazione diventa impossibile. Anche chi condivide lo stesso meme può pensarla in modo opposto. Il dissenso viene vissuto come offesa.

La politica affronta ogni giorno questa frammentazione. I valori fondanti non aggregano. I partiti cercano argomenti che uniscano senza respingere. In questo vuoto, il populismo cresce come lievito madre. Investe ogni tema con logiche radicali.

Un tempo c’era l’Idea che aggregava. Oggi ci sono le idee dei militanti. Una somma che fatica a produrre sintesi. Il pensiero si militarizza. Ogni argomento diventa terreno di scontro. Sui social, ogni tema si trasforma in una guerra di link. La fonte conta meno del contenuto. Conta solo che confermi la propria posizione. Il dialogo lascia spazio alla conferma identitaria.

La polarizzazione attraversa tutte le categorie. Non risparmia nessuno. Viene spesso manipolata da soggetti politici abili, che ne comprendono il meccanismo e lo usano per alimentare l’odio.

La domanda iniziale ritorna. Come siamo arrivati a tutto questo? Chi ci ha condotti in questa condizione di incomprensione? Di chi è la responsabilità? La società ha smarrito il senso del limite? La politica ha rinunciato alla complessità? Oppure siamo noi, come individui, ad aver ceduto alla comodità del pensiero binario? Queste dimensioni si intrecciano. Si alimentano a vicenda. Rendono difficile tracciare confini. Per questo, vista la povertà del pensiero pubblico e la tendenza a semplificare, è meglio non cercare risposte definitive. Non per prudenza. Per evitare nuove semplificazioni.

Una cosa resta chiara. Serve recuperare il rispetto per ciò che non si conosce. Henri Bergson suggeriva di semplificare la vita con lo stesso ardore con cui la si complica. Da lì si può ripartire. Ritrovare il senso del dubbio. Della domanda. Della meraviglia. Serve una nuova alfabetizzazione emotiva e cognitiva. Una cultura del pensiero che accolga la complessità come risorsa. Servono spazi dove il pensiero venga coltivato. Dove il dissenso sia una possibilità.

Che il mondo dei vivi ci sia lieve. Che il pensiero torni ad abitare le nostre conversazioni. Non come ornamento. Come strumento per riconoscerci. Comprendere la complessità non è un lusso. È una necessità. Pena l’estinzione.


Perché in Italia non si dimette mai nessuno


Neppure una condanna definitiva riesce a scollare dalla sua poltrona chi si ritiene coperto dall’immunità

(Sebastiano Messina – lespresso.it) – Ammettiamolo: noi italiani abbiamo letto quasi con stupore che Angela Rayner, vice primo ministro inglese, ha lasciato l’incarico dopo che un’inchiesta ha accertato un versamento insufficiente di tasse per quarantamila sterline nell’acquisto di una casa. Non un’evasione, ha detto la commissione, soltanto superficialità. Ma tanto è bastato perché una delle donne più potenti di Londra considerasse compromessa la sua credibilità. Un passo indietro, le scuse, l’uscita di scena.

Lo stupore nasce dal fatto che nel nostro Paese questo è diventato evento raro. Da noi ormai non esiste la vergogna, non esiste l’onore, non esiste il senso delle istituzioni. Abbiamo ministri sotto processo per truffa allo Stato che siedono tranquilli al loro posto, parlamentari condannati per peculato che ogni sera parlano nei telegiornali a nome del partito della premier. Ma l’eccezione non è l’Inghilterra: l’eccezione siamo noi. Nella vicina Francia, per dire, negli ultimi quindici anni dieci ministri – Thevenoud, de Rugy, Flessel, Cayeux, Cahuzac, Le Roux, Goulard, Bayrou, Gaymard e Griset – hanno lasciato l’incarico per motivi che vanno dai rimborsi gonfiati alla frode fiscale. In Italia, nello stesso arco di tempo, solo tre ministri hanno fatto un passo indietro: Scajola per l’attico “a sua insaputa”, Josefa Idem per l’Imu non pagata, Federica Guidi per “Tempa Rossa”. Tre contro dieci. Il resto è un deserto morale, un Paese dove neppure una condanna definitiva riesce a scollare dalla sua poltrona chi si ritiene coperto dall’immunità del politico. Perché?

C’è chi spiega con intelligente acutezza questa differenza con la religione. Nel mondo protestante non esiste la scorciatoia del perdono: il peccato è un marchio che resta addosso. Nel cattolicesimo, invece, la confessione e l’assoluzione aprono sempre una via d’uscita. Così il politico italiano si sente al riparo: il peccato sarà cancellato, la macchia rimossa, la colpa dimenticata.

Ma la spiegazione vera è politica. Nei sistemi anglosassoni l’elettore sceglie direttamente il suo parlamentare. E a fine mandato lo giudica, confermandolo o sostituendolo. Da noi no. Con le liste bloccate, il rapporto tra cittadino e rappresentante si è spezzatoNon decide l’elettore, decide il capo. È lui che compila la lista, che premia o punisce, che salva o cancella. Perciò il parlamentare, anche travolto dallo scandalo, non teme il giudizio dell’opinione pubblica: ha paura solo di perdere la copertura del suo leader.

E così la vergogna evapora, lo scandalo si normalizza, l’illegalità diventa rumore di fondo. Un Paese intero impara a convivere con la corruzione come se fosse un clima naturale, con l’abuso come fosse destino, con l’impunità come se fosse un diritto acquisito. Per spezzare questa catena occorrerebbe restituire al cittadino il potere che gli è stato tolto. L’elettore dovrebbe tornare a scegliere direttamente il suo rappresentante. Non basta tornare alle preferenze della Prima Repubblica, che produssero clientelismo e corruzione. Servirebbe un sistema di collegi uninominali, chiari e trasparenti, in cui ogni candidato risponda al suo elettorato. Come in Gran Bretagna, come in Francia, come negli Stati Uniti. Solo un rapporto diretto tra chi governa e chi vota potrebbe restituire alla politica la responsabilità, alla società la fiducia, alla democrazia il suo respiro. Potrebbe: peccato che i piani del governo Meloni vadano nella direzione opposta.


Perché a Gaza è un genocidio: cosa dice il rapporto della Commissione d’inchiesta ONU


(Enrica Perucchiettilindipendente.online) – Quello commesso a Gaza dall’esercito israeliano contro la popolazione civile palestinese è giuridicamente “genocidio”. È quanto afferma senza mezzi termini il rapporto stilato da una commissione d’inchiesta internazionale indipendente delle Nazioni Unite, istituita dal Consiglio dei Diritti Umani (OHCHR) e guidata da Navi Pillay: per la prima volta un organo ufficiale dell’ONU qualifica come genocidio le azioni condotte da Israele nella Striscia di Gaza e negli altri territori occupati. Secondo il documento, ciò che è accaduto dal 7 ottobre 2023 in avanti non può essere ridotto alla logica di una guerra asimmetrica o a un’operazione antiterrorismo. Si tratta, al contrario, di una campagna sistematica che ha comportato la distruzione deliberata delle condizioni di vita della popolazione palestinese, con l’obiettivo di annientarla in parte significativa.

Le accuse del rapporto

Navi Pillay, giurista sudafricana, ex Alta Commissaria ONU per i Diritti Umani e attuale presidente della Commissione d’inchiesta internazionale indipendente delle Nazioni Unite (OHCHR).

Il dossier stabilisce non solo che vari atti qualificabili come genocidio sono stati compiuti, ma che tali atti sono stati associati a un “intento genocida”, ravvisabile nelle azioni, nella strategia militare, nei danni arrecati e nei discorsi di figure chiave dello Stato israeliano. Il rapporto, di 72 pagine, non si limita a elencare dati e numeri. Ricostruisce invece il quadro normativo, richiama la Convenzione del 1948 per la prevenzione e la repressione del crimine di genocidio e applica i criteri giuridici ai fatti documentati sul terreno. Ne risulta un’accusa precisa e fondata, destinata ad avere conseguenze politiche e legali di lungo periodo. Secondo la Commissione, le autorità e le forze di sicurezza israeliane hanno commesso «quattro dei cinque atti genocidi» definiti dalla Convenzione del 1948 per la prevenzione e la repressione del crimine di genocidio. Gli investigatori delle Nazioni Unite hanno stabilito così che, quanto commesso da Israele a Gaza dall’ottobre 2023, è stato fatto con «l’intento di distruggere i palestinesi» presenti nel territorio. La commissione in questione non è un organo legale, ma i suoi rapporti possono aumentare la pressione diplomatica e servire a raccogliere prove da utilizzare nei tribunali dato che ha anche un accordo di cooperazione con la Corte penale internazionale (Cpi), con la quale «abbiamo condiviso migliaia di informazioni». Israele respinge le accuse «categoricamente», definendo il rapporto in questione come «parziale e mendace».

La definizione giuridica di genocidio

Per capire la portata delle conclusioni della Commissione, è necessario ricordare che la Convenzione sul genocidio e lo Statuto di Roma della Corte penale internazionale individuano cinque atti che, se commessi contro un gruppo nazionale, etnico o religioso con l’intento di distruggerlo, configurano il crimine più grave del diritto internazionale. Non basta, dunque, la gravità dei fatti: ciò che trasforma un conflitto in genocidio è la prova dell’intento di eliminare, in tutto o in parte, il gruppo preso di mira. È questo l’elemento soggettivo, l’“intento genocida”, che spesso si rivela il più difficile da dimostrare. La Commissione afferma però che, nel caso di Gaza, tale intento risulta evidente sia dalle modalità dell’offensiva israeliana sia dalle dichiarazioni dei suoi vertici politici e militari. Secondo il rapporto, dai discorsi di alcuni leader israeliani e dalle modalità con cui sono state condotte le operazioni militari (tipo di armi, tipi di attacchi, distruzione sistematica di infrastrutture civili, blocco degli aiuti) emerge che l’intento genocida è l’unica inferenza ragionevole dati i fatti. Non si tratta, dunque, di un’interpretazione forzata, ma della conclusione a cui si giunge considerando l’insieme delle prove raccolte.

Gli atti accertati

Il documento elenca quattro atti previsti dalla Convenzione che sarebbero stati effettivamente commessi. In primo luogo, vi è l’uccisione diretta di migliaia di civili, donne e bambini compresi, attraverso bombardamenti e attacchi indiscriminati. Secondo la Commissione, «Israele ha utilizzato munizioni pesanti non guidate, con un ampio margine di errore, in aree residenziali densamente popolate. L’esito di questi attacchi è coerente con la strategia dichiarata impiegata da Israele. Come ha affermato un portavoce delle forze di sicurezza israeliane, “ci concentriamo su ciò che provoca il massimo danno”». La Commissione ha osservato che «le forze di sicurezza israeliane hanno ripetutamente sottoposto le aree urbane della Striscia di Gaza a pesanti bombardamenti con armi esplosive ad ampio raggio, anziché con armi di precisione (o “intelligenti”), portando alla distruzione completa di interi quartieri». In secondo luogo, viene sottolineato il danno fisico e mentale arrecato alla popolazione: ferimenti, amputazioni, traumi psicologici, malattie non curate per il collasso del sistema sanitario. La Commissione ha anche dettagliato nei suoi precedenti rapporti «l’uso sistematico, da parte di Israele, della violenza sessuale e di genere». Un terzo atto riguarda l’imposizione di condizioni di vita insostenibili, dal blocco degli aiuti umanitari alla distruzione di ospedali e infrastrutture essenziali, fino alla mancanza di acqua potabile e cibo. Infine, la Commissione cita episodi in cui sono state colpite e smantellate le strutture mediche per la fertilità e la riproduzione, interpretandole come misure volte a impedire la nascita di nuovi membri della comunità palestinese. Il quinto atto tipico del genocidio, cioè il trasferimento forzato di bambini, non è stato invece accertato con lo stesso livello di evidenza. Ciò non riduce, tuttavia, la gravità delle conclusioni: quattro su cinque atti previsti dalla Convenzione sono stati considerati realizzati.

L’intento genocida

Il punto centrale del rapporto è la dimostrazione dell’intento. Gli investigatori sostengono che l’unica inferenza ragionevole che si può trarre dal complesso delle prove è che Israele abbia agito con l’obiettivo di distruggere, almeno in parte, la popolazione palestinese. A supporto di questa affermazione vengono riportati i discorsi di esponenti israeliani di primo piano, in cui si parla di “guerra santa” o si evoca l’annientamento e la cancellazione della Striscia, del calibro di: «Li ridurremo in macerie… andatevene ora perché opereremo con forza ovunque» (Netanyahu, 7 ottobre 2023), «È un’intera nazione laggiù ad essere responsabile… Non è affatto vero che i civili non fossero coinvolti» (Isaac Herzog, 13 ottobre 2023) o «Polverizzeremo ogni maledetta porzione di terra… la distruggeremo e la sua memoria… fino a quando non sarà annientata» (Brigadiere Generale David Bar Khalifa). Dichiarazioni di questo tipo non possono essere liquidate come “retorica politica”: per la Commissione rappresentano segnali concreti di incitamento al genocidio. A queste parole si aggiunge uno schema di condotta militare difficilmente spiegabile come semplice azione difensiva. La sistematicità dei bombardamenti su infrastrutture civili, la distruzione di scuole e ospedali, il blocco degli aiuti, l’assedio che impedisce alla popolazione di rifugiarsi o sopravvivere dignitosamente delineano un disegno coerente, incompatibile con l’idea di limitare il danno collaterale in un’operazione militare: «Tali azioni hanno creato condizioni di vita calcolate per provocare la distruzione fisica del gruppo palestinese, in tutto o in parte». È questo insieme di elementi a costituire la prova dell’intento genocida.

Le responsabilità dei vertici

La Commissione non si ferma a un’analisi astratta. Indica con chiarezza le responsabilità politiche di Benjamin Netanyahu, Primo Ministro, di Isaac Herzog, Presidente dello Stato, e di Yoav Gallant, già Ministro della Difesa. Le loro dichiarazioni, secondo gli investigatori, hanno contribuito a incitare al genocidio, mentre le autorità israeliane non hanno adottato alcuna misura efficace per prevenire gli atti o per punirne i responsabili. Si tratta di un’accusa diretta che apre scenari inediti: per la prima volta, i massimi vertici di uno Stato alleato dell’Occidente vengono formalmente accusati da una Commissione ONU di aver istigato un genocidio. Leggiamo, infatti, nel rapporto: «Le dichiarazioni dei leader israeliani, incluso il Primo Ministro, costituiscono una prova diretta dell’intento genocida. La Commissione conclude che il modello di condotta delle operazioni militari, considerato unitamente al linguaggio ufficiale, non lascia altra inferenza plausibile che l’intento fosse quello di distruggere, almeno in parte, il gruppo palestinese a Gaza».

Il metodo dell’inchiesta

Il lavoro della Commissione si basa su interviste a vittime, testimoni, operatori sanitari e umanitari, integrate da dati forniti da ONG, agenzie delle Nazioni Unite e organizzazioni indipendenti. Le immagini satellitari hanno consentito di verificare la distruzione sistematica di interi quartieri, mentre la raccolta di documenti open-source ha permesso di incrociare testimonianze e fonti. Israele non ha collaborato con l’inchiesta, ma secondo la Commissione questa mancanza non intacca la solidità delle conclusioni raggiunte. Anzi, il rifiuto di fornire dati e accesso può essere interpretato come un ulteriore ostacolo alla trasparenza. Non sorprende che Israele abbia respinto il rapporto, definendolo un attacco politico e negando qualsiasi intento genocida.

Le implicazioni internazionali

Il rapporto richiama anche gli obblighi della comunità internazionale: nessuno Stato può rimanere complice, sia attraverso forniture di armi sia con sostegni diretti o indiretti a un conflitto qualificato come genocidio. Da qui la raccomandazione di sospendere immediatamente assistenza e cooperazione militare con Israele, di adottare sanzioni mirate e di rafforzare il sostegno agli strumenti della giustizia internazionale, dalla Corte Penale Internazionale alla Corte Internazionale di Giustizia. L’appello è rivolto anche alle Nazioni Unite, cui si chiede di monitorare costantemente la situazione, riferire al Consiglio di Sicurezza e valutare la creazione di meccanismi di protezione internazionale per la popolazione di Gaza. La portata del documento è, quindi, duplice. Da un lato, fornisce una base giuridica autorevole per eventuali procedimenti giudiziari che potrebbero influire sui procedimenti già avviati, come la causa del Sudafrica presso la Corte Internazionale di Giustizia e che potrebbero coinvolgere direttamente la leadership israeliana, dall’altro obbliga gli Stati a prendere posizione. Il rapporto della Commissione ONU segna, pertanto, un passaggio decisivo e rompe un tabù diplomatico: quello che avviene a Gaza e nei territori occupati non è l’“effetto collaterale” di una guerra: è un crimine assoluto che richiede prevenzione, punizione e cessazione immediata.


La storia (e i veleni) della nave fantasma che vaga nel Mediterraneo


Dopo Spalato e Crotone, la Drea respinta anche da Taranto. La decisione dell’Autorità di Sistema Portuale del Mar Ionio (AdSP) è arrivata intorno a mezzogiorno: nessuno vuole (per ora) l’ex traghetto della Moby (ora di proprietà della società Med Fuel) e il suo carico di amianto

(di Valentina Petrini – ilfattoquotidiano.it) – “La nave Drea, ex traghetto della compagnia Moby in attesa di bonifica per la presenza al suo interno di lastre di amianto, non può attraccare nel Porto di Taranto”. La decisione dell’Autorità di Sistema Portuale del Mar Ionio (AdSP) è arrivata intorno a mezzogiorno. Non è stata concessa né verrà concessa alcuna autorizzazione per l’attracco del mezzo presso le banchine del porto Jonico. E così Taranto, dopo aver temuto di doversi accollare questa emergenza ambientale, può tirare un sospiro di sollievo. “Le operazioni di bonifica – sottolinea l’AdSP – dovranno avvenire esclusivamente in condizioni di massima sicurezza, nel pieno rispetto della normativa vigente in materia di salute e ambiente”. La priorità assoluta – aggiunge l’autorità competente nel comunicato – è tutelare “la salute pubblica e proteggere l’ecosistema marino e costiero del territorio ionico, allontanando ogni ipotesi di ingresso della Drea nello scalo tarantino“. Fine.

L’amianto è cancerogeno. Il suo utilizzo è vietato dagli anni Novanta, ma visto che è stato impiegato in edilizia e nei mezzi di trasporto per decenni, ce n’è ancora in abbondanza da smaltire. Persino in molti edifici pubblici italiani tuttora abitati. L’amianto è altamente tossico e pericoloso quando si frantuma perché, se fatto senza le dovute precauzioni e con tutti i supporti tecnici per la bonifica, si disperdono nell’atmosfera le particelle di fibre, che – se respirate – sono dannose per la salute. Dopo il diniego di Taranto, la popolazione può tirare un sospiro di sollievo, ma resta la storia, inquietante, che da mesi accompagna la nave Drea orfana di un porto di attracco in giro per il Mediterraneo. Drea tra l’altro non va dismessa, ma rimessa a posto per tornare a fare il suo lavoro in mare: quello della nave traghetto. È Drea stessa dunque che va bonificata, “non è il carico che trasporta il problema, piuttosto i pannelli all’interno delle cabine, tutte in amianto”, spiega una fonte interna al porto di Taranto.

“È una nave non armata, cioè non sta camminando con i suoi motori, con il suo equipaggio – continua la fonte – è trainata da un rimorchiatore. Ecco perché lei legge in rete la definizione per Drea di ‘nave fantasma’. Non perché questa si voglia nascondere, ma semplicemente perché essendo non armata non viene, diciamo, individuata dai sistemi di tracking, i sistemi che rintracciano le navi. Se, invece, si cerca il rimorchiatore, il Protug 75, si può localizzare anche la nave”. Ad agosto il traghetto Drea era stato respinto da Spalato, Croazia. Le proteste della cittadinanza hanno indotto il ministero competente a non concedere il permesso per attraccare. “Non vogliamo che Spalato diventi la discarica d’Europa” è stato uno dei tanti slogan intonato dai manifestanti croati da quando il vecchio traghetto (del 1975) è approdato in alto Adriatico.

Ma Drea è rimasta in rada fino a fine agosto, prima di riprendere il mare e dirigersi verso un altro porto. I primi di settembre Drea ha lasciato Spalato e si è diretta a Crotone, ma anche qui la Capitaneria ha negato l’accesso al porto calabrese. “Crotone l’ha fatto per motivi tecnici – spiegano da Taranto – Non dispone dei rimorchiatori e di servizi tecnico-nautici adeguati per una nave di quelle dimensioni”. Taranto sì, invece. Quindi perché non è stata fatta attraccare? Ci sono notizie di interesse pubblico sui rischi sanitari che l’attracco della nave comporterebbe? “Non posso commentare”. Ma nella nota dell’autorità portuale di Taranto si sottolinea che la priorità è “la tutela della salute pubblica e ambientale”. “Sì, queste sono state le dichiarazioni del nostro commissario straordinario”. Il caso Drea è stato rivelato ai primi di agosto dal quotidiano Avvenire che ha anche dato notizia del nome degli attuali proprietari del traghetto da dismettere: Drea sarebbe stata acquistata a maggio dalla siciliana Med Fuel, batterebbe dunque bandiera italiana.

Ora Drea, respinta anche da Taranto, dopo Spalato e Crotone, è ancora a 7 miglia dalla costa ionica. Prima di riprendere il mare sia a Spalato che a Crotone sono passati diversi giorni. Sarà così anche per Taranto? È probabile che prima di riprendere il mare la proprietà voglia capire dove può dirigersi per essere smontata e bonificata in sicurezza. Da Crotone sembra che Drea avesse chiesto aiuto alla Mantua&De Iacovo shipping s.r.l, agenzia marittima di Taranto. “Li abbiamo contattati, sì, è vero. Ma non rilasciamo commenti a riguardo”. Il giallo di Drea è monitorato anche da “Ship breaking platform”, una rete di ong che vigila sullo smaltimento delle vecchie imbarcazioni. Dove si dirigerà ora?


Come ti ribalto la democrazia in uno stato di polizia


USA, DISCORSI D’ODIO CHE SUPERANO LIMITI SARANNO PERSEGUITI

(ANSA) – WASHINGTON, 16 SET – “I discorsi di odio che oltrepassano il limite e diventano minaccia di violenza non sono protetti dal primo emendamento. È un reato. Per troppo tempo abbiamo visto la sinistra radicale normalizzare le minacce, incitare all’assassinio e incitare alla violenza politica.

Quell’era è finita”: lo afferma su X l’attorney general Pam Bondi, annunciando quindi l’intenzione di perseguire quei discorsi “ai sensi del 18 USC õ 875 (c)”, secondo cui è un reato federale trasmettere “qualsiasi comunicazione contenente una minaccia di rapimento di una persona o una minaccia di lesioni di un’altra persona”.

“Allo stesso modo – prosegue – il 18 USC õ 876 e il 18 USC õ 115 considerano un reato minacciare funzionari pubblici, membri del Congresso o le loro famiglie”. “Non puoi – aggiunge la ministra della giustizia – chiedere l’omicidio di qualcuno. Non puoi colpire un membro del Congresso. Non puoi fare la doxing (raccolta di dati on line) di una famiglia conservatrice e pensare che verrà liquidata come ‘libertà di parola’.

Questi atti sono reati punibili e ogni singola minaccia verrà affrontata con tutta la forza della legge”. “La libertà di parola – sottolinea – protegge le idee, il dibattito e persino il dissenso, ma non protegge e non proteggerà mai la violenza. È chiaro che questa retorica violenta è progettata per impedire ad altri di esprimere ideali conservatori.

Non saremo mai messi a tacere. Né per le nostre famiglie, né per le nostre libertà, e mai per Charlie. La sua eredità non sarà cancellata dalla paura o dall’intimidazione”.


Un genocidio che allunga la vita a Netanyahu


Un genocidio che allunga la vita a Netanyahu

(di Antonio Pitoni – lanotiziagiornale.it) – C’è una singolare coincidenza temporale tra i raid israeliani e le vicende processuali del premier Benjamin Netanyahu. Il 9 settembre scorso, giorno del bombardamento in Qatar – che aveva come obiettivo dichiarato (e mancato) i negoziatori di Hamas, riuniti a Doha per discutere il piano di pace americano – il primo ministro ricercato dalla Corte penale internazionale per crimini di guerra era atteso in un altro tribunale, a Tel Aviv.

Avrebbe dovuto testimoniare nel processo che lo vede imputato in relazione al caso relativo al produttore cinematografico Arnon Milchan, accusato di aver cercato di ottenere un visto statunitense di lunga durata proprio con l’aiuto di Netanyahu. Non se ne fece nulla. Ieri, il premier israeliano è comparso di nuovo davanti ai giudici. Giusto il tempo di chiarire che, nel giorno dell’offensiva finale su Gaza, non poteva certo perdersi in quisquilie. Tipo le sue grane giudiziarie, ovvero i tre distinti procedimenti giudiziari nei quali è accusato di corruzione, frode e abuso d’ufficio.

Ma tanto è bastato per assicurarsi l’ennesimo rinvio. E tirare ancora a campare, sulla pelle dei palestinesi. Finché c’è guerra c’è speranza, verrebbe da dire. Se solo quella nella Striscia di Gaza fosse una guerra. Invece sul campo c’è soltanto un esercito, quello israeliano, che ha già sterminato oltre 60mila civili inermi. Un genocidio che per Netanyahu è una manna dal cielo. Gli allunga la vita (politica) e lo tiene al riparo dai giudici.


L’ordine, il disordine e la sinistra delle guerre giuste


(Orazio Luongo – lafionda.org) – Da tempo si dibatte di crisi dell’ordine globale: l’ordine post Guerra Fredda a guida americana oggi insidiato dall’avanzata di un mondo sempre più multipolare.

Una crisi di cui anche la sinistra è stata corresponsabile, arrivando ad esserne in qualche modo fagocitata. Divorata dalle contraddizioni: su tutte, quella più dirompente della guerra.

La guerra, da sempre per la sinistra, terreno di confronto e di scontro tra le sue diverse anime. Questione su cui nei decenni si sono consumate laceranti discussioni, e drammatiche rotture.

Come nella lunga storia dispiegatasi dall’89 ai nostri giorni, coincidente con la parabola di quell’ordine globale considerato oggi dai più in crisi. Un periodo in cui la sinistra europea, e più nello specifico quella italiana, ha dovuto misurarsi costantemente con la questione della guerra, annunciatasi sin dalla prima Guerra del Golfo, come cifra costituente del nuovo ordine post ‘89. Poi snodatasi attraverso le bombe su Belgrado e gli attentati dell’11 Settembre, fino all’attuale guerra russo-ucraina e ai tanti conflitti in Medioriente.

Un ordine mondiale unipolare che se da un lato ha incontrato negli anni la critica e l’opposizione di una sinistra anticapitalista – portatrice di una visione della guerra permanente come risultato ultimo dei processi di globalizzazione e ristrutturazione del capitale – dall’altro ha visto una sinistra di governo, maggioritaria nelle urne e nelle istituzioni, confondere quel dominio unipolare con il trionfo di un mondo libero e pacificato. Un mondo, restando all’interpretazione di questa seconda sinistra, giunto al capolinea della Storia, alla fine della sua evoluzione, col contemporaneo disfacimento del blocco sovietico e con la definitiva affermazione della democrazia liberale, celebrata come punto più alto del progresso politico umano.

Qualcosa che a vederla con gli occhi d’oggi, con i venti di guerra che imperversano ovunque, col riaffacciarsi degli autoritarismi, e col graduale ridefinirsi delle gerarchie mondiali, fa persino tenerezza per quanto fosse una pia illusione.

Un’illusione di cui, mentre la Storia continuava imperterrita il suo corso, era praticamente impossibile non vederne le crepe. E che eppure gran parte della nostra sinistra – supportata da una fetta notevole di informazione e intellighenzia nostrana – scelse di rincorrere, assumendo una posizione di subalternità rispetto a tutte le narrazioni di guerra alternatesi dagli anni Novanta in poi: da quella “umanitaria” a quella “preventiva”, passando per la guerra infinita esportatrice di democrazia. Fino ad adoperare gli stessi termini e la stessa retorica del campo politico avverso. Con cui più volte poi si è finiti col condividere il sostegno a quelle operazione di “polizia internazionale” o di “guerra al terrore” (Kosovo, Afghanistan, Iraq) che un passo alla volta ci avrebbero condotto all’attuale disordine globale: in cui il numero dei conflitti in corso nel mondo cresce costantemente, e la guerra è tornata ad insanguinare ancora l’Europa.

Interventi armati giustificati all’epoca coll’urgenza di restituire primato alla politica (formula ad alto tasso orwelliano, verrebbe da dire), e in nome di un senso di responsabilità ripetutamente sbandierato, spesso contrapposto al pacifismo giudicato irenico ed ideologico dell’altra sinistra. Quella minoritaria nei palazzi, ma sempre presente nel paese. Che ancora vedeva nella guerra uno strumento di dominio imperiale, e soprattutto ancora avvertiva il richiamo imperativo al ripudio della guerra contenuto nella Costituzione. Mentre la sinistra di governo si assumeva la responsabilità storica e politica di tradirne il messaggio solenne di contrarietà proveniente dall’Articolo 11.

Mentre la sinistra riformista post-comunista restava folgorata sulla via del mercato e di Washington. Dove la direzione impressa alla Storia, che nel frattempo continuava sempre a filare senza sosta, corrispondeva ad un ordine globale ormai stabilmente fondato sul ricorso alla violenza delle armi, e sulla legittimazione della forza quale principio informatore delle relazioni internazionali.

Insomma, su una progressiva normalizzazione della guerra come dato della realtà e mezzo della politica. E, naturalmente, come occasione eccellente per dirottare enormi quantità di denaro dalla spesa sociale al riarmo.

Praticamente, il Voi siete qui che ancora oggi ci tocca rintracciare sulla cartina.

Il punto in cui, a dispetto della Storia che procede verso nuovi equilibri, l’umanità si è fermata in un perenne stato di assedio o di guerra. Dal quale, girandosi intorno, lo spettacolo che si vede è quello di un mondo in fiamme.

Un mondo sull’orlo dell’autodistruzione, travolto da una deriva di barbarie e bellicismi. Contro cui ci si chiede, fermi sempre nello stesso punto, cosa ha fatto la sinistra delle “guerre giuste”, se non condurci proprio sin qui.


Santanchè, blitz della destra: va salvata prima dell’udienza


Relazione della leghista Stefani: conflitto d’attribuzione in base al precedente di Renzi. “L’utilizzo di email e registrazioni contra legem”

(di Giacomo Salvini – ilfattoquotidiano.it) – Un blitz tentato. E una corsa contro il tempo: bloccare tutto prima della prossima udienza del 17 ottobre a Milano. Sollevando un conflitto di attribuzioni alla Corte costituzionale contro la Procura di Milano per l’utilizzo di email e registrazioni senza l’autorizzazione parlamentare.

L’obiettivo della maggioranza sulla ministra del Turismo Daniela Santanchè – indagata a Milano con l’accusa di truffa ai danni dello Stato per l’utilizzo della cassa Covid per i dipendenti di Visibilia – è emerso ieri a pranzo in Giunta per le immunità del Senato. Dopo la relazione di maggioranza della senatrice leghista Erika Stefani, che ha proposto di sollevare conflitto di attribuzione contro i pm lombardi, la maggioranza – soprattutto su spinta di Fratelli d’Italia – ha tentato una mossa inusuale: votare subito senza permettere agli altri senatori della Giunta di analizzare la relazione. Tentativo bloccato dalle opposizioni.

L’imperativo, comunque, è fare presto: il voto in Giunta arriverà martedì prossimo e in aula l’obiettivo è fare lo stesso entro inizio ottobre. Prima dell’udienza del 17, così da bloccare tutta la fase dell’udienza preliminare e impedire la possibile decisione sul rinvio a giudizio che, come hanno spiegato più volte i vertici di Fratelli d’Italia, porterebbe alle sue dimissioni da ministra del Turismo.

Ieri, nella seconda seduta della Giunta che si è occupata della vicenda Santanchè, la leghista Stefani ha letto la relazione per chiedere di sollevare conflitto di attribuzione contro i pm di Milano facendo riferimento ad alcune email e registrazioni che la riguardano fatte da privati. Nel documento, che il Fatto ha letto, Stefani spiega che la richiesta di autorizzazione alla Camera competente “è necessaria e va richiesta prima di eseguire un provvedimento di intercettazione o sequestro di corrispondenza nei confronti di un parlamentare”. In particolare, la relatrice Stefani, per sostenere la sua tesi, si appoggia al precedente della sentenza della Corte costituzionale del 2023 che aveva accolto il conflitto di attribuzione promosso dal Senato sull’inchiesta Open che riguardava Matteo Renzi e l’uso delle chat da considerare come “corrispondenza” e quindi da autorizzare prima dal Senato. Sull’utilizzo delle email, la leghista spiega che se “l’acquisizione dei dati esteriori di comunicazioni già avvenute” (cioè i tabulati telefonici) deve rientrare nelle tutele degli articoli 15 e 68 della Costituzione, “è impensabile che non ne fruisca, invece, il sequestro di messaggi elettronici, anche se già recapitati al destinatario”. Un discorso che, secondo la relatrice, vale a maggior ragione per le registrazioni fatte da terzi che devono essere considerate come intercettazioni “in senso ampio” e quindi devono essere sottoposte all’autorizzazione del Parlamento. “Non può non intendersi configurabile come intercettazione di conversazioni, nell’accezione posta dalla norma costituzionale, una registrazione effettuata in modo occulto da un privato che carpisca brani di conversazione di un parlamentare”, scrive Stefani. La leghista arriva al paradosso secondo cui se la polizia giudiziaria non potrebbe mai “registrare di nascosto un parlamentare e poi impiegare quella conversazione in sede penale senza autorizzazione della Camera”, lo stesso deve valere anche per una registrazione fatta da un privato. L’utilizzo di queste email e registrazioni, dunque, viene definito contra legem e gli investigatori avrebbero dovuto estrarre tutto e chiedere l’autorizzazione. Da qui la richiesta di sollevare conflitto di attribuzione.

Dopo la relazione, Ã¨ intervenuto il forzista Adriano Paroli che ha condiviso il discorso di Stefani e i meloniani hanno proposto di metterla subito ai voti. Niente da fare, rinviato a martedì. L’obiettivo è votare in aula entro inizio ottobre per far sì che il conflitto venga sollevato prima del 17, data della prossima udienza. La destra ha la maggioranza ed è scontato che questo sarà il risultato finale con la conseguenza di bloccare l’indagine per mesi e permettere a Santanchè di restare al suo posto. Non è chiaro cosa farà Italia Viva, ma potrebbe astenersi. “Assistiamo all’orrendo spettacolo della protezione politica, al sistema di potere che si compatta e corre usando le istituzioni per blindare sè stesso”, dice la senatrice M5S Ketty Damante.


Europa, verso la guerra come sonnambuli


La non belligeranza italiana e le bugie che portano al fronte. Quelle similitudini con il 1939

Europa, verso la guerra come sonnambuli

(Domenico Quirico – lastampa.it) – Siamo diventati da poco orfani di una bugia. Purtroppo. Perché era una bugia utile, che ci ha miracolato da un abisso, bugia condivisa tra nemici e quando le bugie sono così diventano quasi pseudoverità che si possono far bere ai sudditi facendole gestire da manichini parlanti sugli schermi. Se l’interesse reciproco lo richiede il bianco può persino diventare nero. Lo rimpiangeremo questo “adminiculum” un po’ losco che permetteva di socchiudere gli occhi sulle cose sconvenienti. Hanno strappato il velo alla guerra europea: è ufficiale, dichiarato, garantito: siamo, noi, in guerra con la Russia.

Se vi attardate tra coloro che attendono di ottenere una spiegazione del perché in nell’età della ragione si sia aperta, in piena luce, questa abominevole voragine nella cerniera d’Europa, se siete affaticati dal disagio indefinibile di fronte a tanti fantasmi guerreschi, a tanti illuminati spiriti che son lì ogni giorno a sobillarci perché il tempo dei deliri guerrafondai è tutt’altro che passato, anzi deve impegnare le nostre midolla per i prossimi decenni, almeno avete un po’ di chiarezza. Ora le sole domande reali sono quelle che la realtà ci pone e non più quelle che ci ponevamo per evitare di rispondere al presente.

Tutta colpa del prosaico portavoce della presidenza russa Peskov: «Di fatto siamo in guerra con l’Alleanza atlantica». “Di fatto” vuol dire che manca solo il ritiro degli ambasciatori. Non è rozza propaganda alla Medvedev, è una secca constatazione della realtà. Mentre diecimila soldati Nato si schierano alla frontiera con quarantamila polacchi e dall’altra parte, a vista, decine di migliaia di russi con i vassalli bielorussi “manovrano”. Tutto ciò che da tre anni funzionava “normalmente”, come numerazione decimale, quotidiana di missili vittime e insulti, è ammutolito. Il fruscio della parola maledetta si è levato: siete in guerra. Lo scenario è perfetto per provocazioni, incidenti pilotati, errori fatali: sono tutti gli armamentari che precedono e scatenano sempre le guerre grosse.

La guerra indiretta si reggeva dunque su una condivisa, reciproca bugia: intendo la bugia che significa banalizzazione, normalizzazione, viatico alla indifferenza. Tutti d’accordo a Mosca, a Washington, a Roma che il conflitto fosse solo tra Kiev e Russia. Punto e basta. Nel leggero show della classe politica e propagandistica occidentale era una aggressione che si legava alla ancestrale bulimia di conquiste, l’ossessione dello spazio vitale ex sovietico e zarista che farebbe parte della “aggressività” russa, con un Putin replica in miniatura delle caldane di Caterina la grande e di Stalin. Da Mosca invece si predicava la necessità di punire i “nazisti” di Kiev e difendere i fratelli del Donbass. Entrambi anno dopo anno hanno omesso per reciproco utile di dichiarare la verità: che lo scontro era diretto, un duello di potere e di status, e che gli sventurati ucraini erano solo protagonisti e vittime per procura. In realtà la guerra non dichiarata, neppur troppo nascosta, con armi sofisticate, informazioni satellitari, “istruttori”, specialisti travestiti da contractor o volontari in azione sul campo perché gran parte degli armamenti navali terrestri e missilistici sono fuori portata per i soldati ucraini, procedeva e cresceva anno dopo anno.

Entrambi fingevano perché ne hanno ricavato vantaggi interni, oltre che il poter posticipare il baratro del possibile conflitto globale e soprattutto atomico.

I leader occidentali potevano servire alle proprie perplesse, indifferenti, talora ostili opinioni pubbliche ed elettorali il fiabesco menu a la carte: noi non siamo in guerra con la Russia, per carità!, semplicemente aiutiamo con armi e sanzioni l’eroica Ucraina a resistere. Si poteva sdilinquire con l’Ucraina fino alla pace giusta! senza dover affrontare l’incandescente furore non delle lillipuziane minoranze dei pacifisti tolstoiani ma delle moltitudini dei richiamati mediante cartolina precetto e relative famiglie. Ecco: si capitalizzava il diffuso rifiuto di prevedere e prepararsi, eloquente testimonianza sia della forza che della debolezza delle democrazie. Manca la abitudine alla tragicità. Ma chi ne ha voglia di parlarne in Paesi, Europa e Stati Uniti, che sono un gran teatro di attriti economici, sociali, razziali? Quindi: minacce, esecrazioni, pacchetti di soldi e di sanzioni, proiettili e propaganda ma nessun atto che potesse far superare la linea della guerra diretta. Nelle retrovie gli sciacalli ingordi del riamo intanto arrotavano i denti.

Putin a sua volta, poteva prolungare il raccontino della “operazione militare speciale”, insaporendola, visti gli imprevisti tempi lunghi, con gli spartiti di nuovi ordini mondiali. Che la tenace resistenza ucraina sia una conseguenza del sostegno occidentale i russi lo sanno benissimo: non è come dice il presidente un’altra prova del subdolo assedio nemico iniziato nel disgraziato ottantanove?

Perché Mosca ha scelto di annunciare la guerra diretta? Forse perché dopo il vertice di Anchorage sa che di fronte non ha la Nato, ma la Nato senza Trump. Come ha dimostrato la levità con cui Washington ha osservato la vicenda dei droni in volo sulla Polonia. La Nato degli europei non vale neppur la pena di reticenze nello scavalcare il Rubicone. Reagirà a chiacchiere, eserciti futuribili e i soliti pacchetti di sanzioni, ovvero con il niente.

A rinunciare candidamente alla semantica dell’eufemismo è stato il ministro della difesa italiano Crosetto: «In caso di attacco non siamo in grado di difenderci… ». Queste singolari impotenze valgono anche per i sedicenti Grandi del continente, Francia e Gran Bretagna. Allo scoppio della guerra nel 1939, dopo vent’anni di quadrati legioni e di milioni di baionette, anche Mussolini dovette annunciare che non eravamo pronti… Adotteremo anche noi la scorciatoia della non belligeranza?


Israele, il conto con la storia


L’assalto finale a Gaza è un errore strategico

(di Lucio Caracciolo – repubblica.it) – L’assalto alla residua popolazione palestinese di Gaza non è solo un crimine ma un errore strategico di Israele. Figlio della retorica di Netanyahu, finito prigioniero di sé stesso quando ha posto come obiettivo della guerra — ormai più che sovraestesa su innumerevoli fronti, tutti aperti, nessuno chiuso — la distruzione totale di Hamas, fino all’alba del 7 ottobre finanziato in collaborazione con Qatar ed Egitto per dividere i palestinesi. Machiavellismo di cui Bibi andava (va ancora?) particolarmente fiero.

L’assalto a Gaza City si ritorce contro Gerusalemme, mentre ha fatto di Hamas il simbolo della causa palestinese su scala globale. Ma il capo di Israele non può accettare un qualsiasi compromesso perché suonerebbe ammissione di sconfitta. Quando si entra nella logica della guerra totale, potenzialmente infinita perché fine a sé stessa, in genere si finisce male.

Dopo essersi inchiodato alla sua propaganda, il premier israeliano sta trascinando nel gorgo la patria. Israele affronta lo scenario dell’orrore che nelle scuole militari di tutto il mondo è modello da evitare come la peste: la guerra urbana. Aggravata dal fatto che di Gaza City ce ne sono molte: quella di superficie, ormai azzerata, più i vari strati disegnati da centinaia di chilometri di tunnel dove si annidano ancora miliziani di Hamas. Israele si assume davanti alla storia la responsabilità della liquidazione di una popolazione civile trattata quale banda di terroristi. Peggio: “animali”. Non bastasse, Netanyahu sacrifica gli ostaggi, a rischio di finire uccisi per errore dai suoi stessi soldati e/o di essere usati quali scudi umani da Hamas.

Quale che sia l’esito militare dell’operazione in corso, criticata dallo stesso capo di Stato maggiore delle Forze armate che la stanno eseguendo, se ne intravvedono già gli effetti sul piano interno e internazionale. Le crepe nello Stato profondo israeliano, con il Mossad che rifiuta di partecipare all’attacco contro i dirigenti di Hamas a Doha (quindi lo fa fallire) e le aspre dispute fra governo e militari, oltre che tra alcuni ministri, espongono le faglie che da ben prima del 7 ottobre minano la fabbrica sociale e istituzionale di Israele.

Lo Stato ebraico è in crisi di identità. Lo conferma il rifiuto di molti riservisti di andare in battaglia. Il motivo principale per cui Netanyahu apre sempre nuovi fronti senza chiuderne nessuno è che oramai la sua alternativa è fra guerre esterne e guerra civile. L’impossibilità di chiudere con una vittoria decisiva le partite con palestinesi, huti, iraniani e altri più o meno minacciosi nemici può finire per chiudere il cerchio producendo una spirale suicida.

La nuova fase della strage di palestinesi inasprisce lo scontro nella regione. Altro che accordi di Abramo fra Stato ebraico e Golfo. Il vertice arabo-islamico di Doha, convocato in seguito all’attacco di Israele al Qatar, disegna ripercussioni di portata strategica. In attesa dell’annunciatissimo nuovo raid contro l’Iran — ma per ottenere che cosa? — si profila all’orizzonte la minaccia, non immediata ma visibile, di uno scontro fra Israele e Turchia. Rovesciando quella che è stata per decenni la collaborazione sotterranea quanto effettiva fra gli Stati profondi di Gerusalemme e Ankara, Netanyahu ed Erdo?an sono ai ferri corti. Si guardano in faccia a Damasco, dove i turchi hanno appena piazzato presunti clienti — jihadisti riciclati — sul decrepito trono degli Asad. Ma come assicura il ministro Bezalel Smotrich, capo dei coloni più estremisti, la capitale dell’ex Siria spartita in vari pezzi deve tornare a casa, nel Grande Israele comandato da Dio. L’avanzata che ha portato i tank con la stella di Davide a mezz’ora da Damasco esplicita tanta ambizione, coltivata dall’ala teocratica dello schieramento che sostiene Netanyahu.

In parallelo la crescita esponenziale dell’influenza turca in una vastissima area che dall’Asia centrale si diffonde in Africa via Levante anticipa la resa dei conti per l’egemonia mediorientale: Israele contro Turchia. Stato ebraico contro paese Nato a vocazione imperiale, che in teoria se attaccato potrebbe invocare il famoso articolo 5, coinvolgendo gli Stati Uniti in un conflitto con il “gemello” strategico. Ciò che ovviamente non avverrà. Ma già solo poter concepire uno scenario così paradossale rende conto della rivoluzione geopolitica in corso. Di cui nessuno è più in grado di determinare gli sviluppi. Le guerre mangiano chi pensa di dominarle. Proprio mentre Netanyahu scatena l’offensiva su Gaza City, la commissione d’inchiesta delle Nazioni Unite bolla “genocidio” la campagna dello Stato ebraico nella Striscia. Risposta del ministero degli Esteri di Gerusalemme: gli estensori della sentenza sono “clienti di Hamas”. L’autismo del governo lascia immaginare quali saranno, forse per generazioni, i costi in termini di reputazione, quindi di sicurezza, che lo Stato ebraico pagherà per la liquidazione dei gazawi. E per il suo senso di onnipotente impunità. Con conseguenze già visibili per gli ebrei dovunque si trovino. Coloro per i quali Israele fu fondato e che ora sembra aver dimenticato.