
(Andrea Zhok) – Oggi il Teatro Grande Valdocco di Torino ha negato la sala, preventivamente noleggiata, al prof. Angelo D’Orsi che insieme al prof. Alessandro Barbero e ad una pluralità di altri intellettuali avrebbero dovuto dar vita all’evento “Democrazia in tempo di guerra. Disciplinare la cultura e la scienza, censurare l’informazione”.
Simultaneamente si è infiammata ulteriormente la polemica per la presenza della casa editrice “Passaggio al Bosco” alla kermesse libraria “Più libri, più liberi” di Roma. Dopo Zerocalcare oggi è la volta di Corrado Augias ad annunciare la propria assenza dalla manifestazione per protesta contro il fatto di aver dato ospitalità ad una casa editrice di estrema destra.
Questi due eventi hanno qualcosa di profondo in comune, qualcosa, vorrei dire, di epocale. Per metterlo in evidenza bisogna fare due osservazioni, la prima intorno alla temperie ideologica e la seconda intorno allo stile.
Sul piano ideologico, osserviamo innanzitutto come i posizionamenti di autori come D’Orsi e Barbero da un lato e dell’editore “Passaggio al bosco” dall’altro non potrebbero essere più diversi. Essi hanno una sola cosa in comune: testimoniano di narrazioni divergenti rispetto al conformismo perbenista sedicente “liberaldemocratico” che domina i centri di potere e di informazione in tutta Europa.
Questo conformismo, originariamente nato come frutto del trionfo neoliberale, oggi è ideologicamente immensamente flessibile, annacquato, ma è tenuto assieme, più che da qualche idea definita, dall’identificazione “virtuosa” con le preferenze dei “ceti erogatori di prebende”.
In sostanza, per quanto di principio questo groppo ideologico ritenga di far riferimento ad un certo impianto liberale e neoliberale (europeismo, atlantismo, liberismo, dirittumanismo, femminismo, scientismo, secolarismo, individualismo) in verità è straordinariamente disponibile a tutti gli aggiustamenti del caso, battendo i tacchi di volta in volta a favore della legge e dell’ordine o del libertarismo assoluto, della mano invisibile o dei “prestiti di guerra”, dell’inclusivismo buonista o del bullismo ghignante.
Questa posizione ideologicamente fluida, tenuta assieme dai desiderata delle oligarchie paganti, ha un grande problema, e questo ci porta al secondo punto. Le “opinioni giuste” oggi non possono più fidarsi di essere coerenti con un paradigma, neppure liberale o neoliberale. Come nelle epoche più oscure della storia, non ci si può fidare del proprio intelletto o della ragionevolezza o del principio di non contraddizione per “pensare la cosa giusta” o almeno per essere esenti da rimprovero.
No, bisogna percepire con grande attenzione quali sono i desideri lassù in alto; bisogna continuamente giocare ad un gioco di rincorsa all’ultima “opinione buona”, una rincorsa che potremmo chiamare di “conformismo estremista”.
Bisogna tenere le antenne all’erta per capire se è il momento di dimostrarsi patriottici prestando il petto alle baionette nemiche, o di dimostrarsi anarconidividualisti nel perseguimento del proprio utile; se bisogna dimostrarsi empatici con l’oppresso o se è il momento di colpevolizzare le vittime per il mal che gliene incolse; se è il momento di venerare le regole o di denigrarle col saggio cinismo della Realpolitik, ecc.. E soprattutto, bisogna tenersi sempre all’erta per capire in quali contesti bisogna utilizzare un criterio di giudizio o invece quello opposto.
Vale tutto e dunque niente vale stabilmente.
Ora, l’unico modo per tenersi all’altezza di questo processo di sottile continuativa sintonizzazione verso la voce del padrone (le richieste del caporedattore, le circolari del dirigente, le valutazioni del ministero, ecc.) consiste nel lanciare costanti segnali della propria virtù, della propria ottemperanza, e di riceverne dagli altri.
Questa è l’essenza di ciò che gli americani chiamano “virtue signalling”: l’esibizione costante di segni di appartenenza al gregge dei buoni, dei disponibili, della gente perbene, di tutti quelli che non discutono mai, ma al massimo aggrottano le sopracciglia.
Il teatro che non concede il palcoscenico ad un dibattito che protrebbe contestare la lettura oggi prevalente rispetto alla Russia non sta, ovviamente, mettendo in discussione quelle opinioni. Non le conosce, non gli interessa conoscerle, non sarebbe in grado di discuterle e non vuole discuterle. Sta solo lanciando un segnale alla propria catena di erogatori di prebende, un segnale che dice: “Ci siamo capiti, sono ottemperante, sono a disposizione.”
La stessa cosa fanno i Zerocalcare, gli Augias et alii, con i loro proclami che ricordano tanto Ecce Bombo (“Mi si nota di più se vengo e me ne sto in disparte o se non vengo per niente?”). Stanno segnalando alle loro catene (afferenti ai medesimi erogatori) che stanno dalla parte dei buoni, di chi sa come pensarla giusta, quelli di cui ci si può fidare, che non metteranno mai in imbarazzo i vertici della catena alimentare.
Naturalmente la sostanza del contendere è perfettamente pretestuosa. Chiunque abbia avuto un libro esposto in libreria sarà stato in compagnia di altri libri che considerava odiosi. Il punto non è mai la sostanza, ma la sceneggiata, la segnalazione.
L’essenza di questa ubertosa fioritura delle “segnalazioni di virtù” consiste nel rifiutare rigorosamente ogni discussione nel merito, ogni confronto su contenuti, ogni analisi materiale. Ci si conforma e ci si coordina tra quelli che la pensano bene, e che perciò possono continuare a ricevere becchime, e quelli che deviano o – Dio non voglia – si oppongono.
Fornire un diapason su cui sintonizzare le parole per chi “pensa bene” è, più o meno, l’unica funzione rimasta alle “grandi testate giornalistiche” che oramai non vendono neanche per coprire le spese di riscaldamento.
E questo li aiuta a coprire le spese rimanenti.
Il documento di National Security Strategy firmato dal presidente Usa: difesa dei confini e mantenimento della leadership planetaria. Tra gli obiettivi la fine della guerra in Ucraina, la stabilità strategica con la Russia e il mantenimento di un rapporto economico vantaggioso con la Cina

(di Viviana Mazza – corriere.it) – DALLA NOSTRA INVIATA WASHINGTON – Donald Trump vuole mantenere una maggiore presenza miliare statunitense nell’emisfero occidentale per combattere le migrazioni, il narcotraffico e l’ascesa di potenze rivali nella regione, secondo la Strategia di sicurezza nazionale, un documento di 33 pagine a firma del presidente pubblicato giovedì senza grandi annunci sul sito della Casa Bianca.
Il documento, diviso per regioni, parla anche dell’Europa e della guerra in Ucraina e contiene passaggi molto duri sul Vecchio Continente «in declino»: «I funzionari americani si sono abituati a pensare ai problemi europei in termini di insufficiente spesa militare e stagnazione economica. È in parte vero, ma i veri problemi dell’Europa sono più profondi – si legge nel documento -. Il suo declino economico è eclissato dalla reale e stridente prospettiva di cancellazione della civiltà».
È una tradizione pubblicare ad ogni mandato questi documenti di strategia da parte dell’esecutivo: è un modo di definire le priorità per il bilancio e le politiche del governo, anche se poi eventi come l’11 settembre o la guerra in Ucraina hanno cambiato le traiettorie definite da presidenti Usa come Bush o Biden.
La National Security Strategy di Trump afferma che «è un interesse chiave degli Stati Uniti negoziare una rapida cessazione delle ostilità in Ucraina, al fine di stabilizzare le economie europee, prevenire l’escalation ed espansione non voluta della guerra e ristabilire una stabilità strategica con la Russia, come pure di consentire la ricostruzione dell’Ucraina dopo la guerra perché possa sopravvivere come Stato».
Ma il documento non critica Mosca. Invece riserva alcuni dei suoi commenti più duri ad alcuni alleati in Europa. «L’amministrazione Trump si trova in disaccordo con i funzionari europei che mantengono aspettative irrealistiche per la guerra, arroccati in governi instabili di minoranza, molti dei quali calpestano i principi basilari della democrazia per sopprimere l’opposizione. Una ampia maggioranza in Europa vuole la pace, ma questo desiderio non si traduce in politica in gran parte per via del sovvertimento dei processi democratici da parte di questi governi».
Una delle preoccupazioni espresse è l’ascesa della Cina: «La Guerra in Ucraina ha avuto l’effetto perverso di aumentare le dipendenze esterne dell’Europa, specialmente della Germania. Oggi le aziende chimiche tedesche stanno costruendo alcuni dei più grandi impianti del mondo in Cina, usando gas russo che non possono ottenere in patria».
Un bersaglio particolare è l’Ue: «Le questioni più ampie che affronta l’Europa includono le attività dell’Unione europea e di altri organismi transazionali che minano le libertà politiche e la sovranità, le politiche migratorie che stanno trasformando il continente e creando conflitti, la censura delle libertà di espressione e la soppressione della opposizione politica, facendo crollare le nascite, con la perdita di identità nazionale e sicurezza in sé».
L’amministrazione, in termini velati, critica i tentativi di limitare l’influenza dei pareri di destra, definendola una forma di censura. Il documento sembra anche suggerire che le migrazioni cambieranno in modo fondamentale l’identità europea, al punto che ciò potrebbe danneggiare l’alleanza economica e militare con gli Stati Uniti.
«Nel lungo periodo, è più che plausibile che nel corso di un paio di decenni al massimo, alcuni membri della Nato diventeranno per la maggioranza non europei», si legge nel testo. «Perciò si pone la domanda se vedranno il proprio posto nel mondo o la propria alleanza con gli Stati Uniti allo stesso modo di coloro che firmarono il Trattato della Nato».
In questo scenario, gli Usa starebbero proseguendo il loro processo di disimpegno dalla Nato: secondo quanto riportato in esclusiva dalla Reuters, gli Stati Uniti vorrebbero che l’Europa prendesse il controllo della maggior parte delle capacità di difesa convenzionali dell’Alleanza, dall’intelligence ai missili, entro il 2027. La volontà statunitense sarebbe stata trasmessa durante una riunione questa settimana a Washington tra il personale del Pentagono che supervisiona la politica della Nato e diverse delegazioni europee.
Il documento di National Security Strategy riconosce tuttavia l’importanza economica e culturale dell’Europa, come pure il fatto che l’alleanza degli Usa con gran parte del Vecchio continente abbia aiutato l’America. L’enfasi è sul far sì che «l’Europa rimanga europea»: «Non possiamo permetterci di mettere da parte l’Europa… sarebbe controproducente per gli obiettivi di questa strategia. Il nostro obiettivo dovrebbe essere aiutare l’Europa a correggere la sua attuale traiettoria».
Il focus sull’Emisfero occidentale è superiore a quello delle precedenti amministrazioni, che si sono spesso concentrate sulla Russia, la Cina e la lotta al terrorismo. È presentato come cruciale per proteggere gli Stati Uniti.
Questi piani vengono definiti parte di un “Corollario Trump” della Dottrina Monroe, ovvero la nozione presentata dal presidente James Monroe nel 1823 che gli Stati Uniti non tollereranno interferenze di avversari stranieri nel proprio emisfero. «La sicurezza dei confini è l’elemento primario della sicurezza nazionale», si legge nel documento, che fa velati riferimenti al tentativo della Cina di conquistare terreno in America Latina, il “cortile di casa” degli Stati Uniti. «Gli Stati Uniti devono essere preminenti nell’Emisfero occidentale, come condizione per la nostra sicurezza e prosperità – si legge nel documento -. I termini delle nostre alleanze, e sulla base dei quali forniamo ogni genere di aiuto, devono essere dipendenti dalla riduzione dell’influenza esterna rivale incluso il controllo di installazioni militari, porti, infrastrutture chiave fino all’acquisto di beni strategici ampiamente definito”.
Questo è anche il primo di una serie di importanti documenti sulla strategia di politica estera e difesa che l’amministrazione Trump dovrebbe pubblicare, inclusa la National Defense Strategy. La pubblicazione ha subito ritardi in parte per via di dibattiti interni nell’amministrazione sulla Cina. Il segretario del Tesoro Scott Bessent ha spinto per ammorbidire il linguaggio su Pechino, secondo fonti del sito Politico, dal momento che continuano i negoziati commerciali.
La Strategia di sicurezza nazionale del primo mandato di Trump era fortemente puntata sulla competizione con la Russia e la Cina, ma il presidente di fatto cercò spesso di negoziare con i leader delle due superpotenze. La nuova strategia sembra riflettere meglio la visione di Trump, che nel documento viene definito un «Presidente di Pace» che «usa la diplomazia in modo non convenzionale».
La Strategia dice che gli Stati Uniti non possono più occuparsi di tutto il resto del mondo. «Dopo la fine della Guerra fredda, le elite di politica estera americane si convinsero che il dominio americano permanente del mondo intero fosse nel miglior interesse del nostro Paese. Ma gli affari di altri Paesi sono di nostro interesse solo le loro attività minacciano direttamente i nostri interessi», afferma l’attuale dottrina.
Nell’introduzione, Trump dichiara che questa è la «roadmap per assicurarsi che l’America resti la nazione più grande e di maggior successo nella storia umana e la casa della libertà».
Il testo è in linea con diverse scelte della Casa Bianca in quest’ultimo anno, incluso un maggiore schieramento di forze militari nell’Emisfero occidentale (che non è intesa come una mossa solo temporanea e punta anche a identificare nella regione materie prime strategiche come le terre rare), le mosse finalizzate alla riduzione dell’immigrazione, la spinta per rafforzare la produzione industriale e la promozione della «identità occidentale», anche in Europa.
Nel testo si menzionano i valori tradizionali evocati spesso dalla destra cristiana, con obiettivi quali «la restaurazione e il rafforzamento della salute spirituale e culturale americana», «un’America che celebra le sue glorie passate e dei suoi eroi». «Un numero crescente di famiglie tradizionali forti che crescano figli sani».
Anche la Cina, considerata da molti politici americani bipartisan la maggiore minaccia per gli Stati Uniti, è centrale nel documento, anche se non sempre menzionata direttamente. L’amministrazione promette di «bilanciare i rapporti economici con la Cina, dando la priorità alla reciprocità e equità per ripristinare l’indipendenza economica americana», ma dice anche che «il commercio con la Cina dovrebbe essere bilanciato e puntare su fattori non sensibili» e suggerisce di «mantenere un rapporto economico davvero vantaggioso per entrambi».
La strategia afferma che l’amministrazione Usa vuole evitare la guerra nell’Indo-Pacifico: «Manterremo la nostra tradizionale politica su Taiwan, ovvero che gli Stati Uniti non appoggiano alcun cambiamento unilaterale allo status quo dello Stretto di Taiwan», una frase che rassicura quanti in Asia si preoccupano che Trump si tiri indietro all’appoggio a Taiwan.
Il leader M5s replica al governatore Schifani che in aula ha definito deplorevole il suo recente intervento alla Cala

(di Giusi Spica – repubblica.it) – «Schifani mi attacca? Si tenga stretto Cuffaro». Il leader nazionale di M5s replica a distanza al governatore che lo ha chiamato in causa nel suo intervento all’Ars. E attacca la premier Giorgia Meloni «che non può fare finta di nulla» di fronte alle inchieste per corruzione che stanno scuotendo le forze di centrodestra al governo nell’Isola, Fratelli d’Italia incluso.
Conte, il governatore Schifani ha definito deplorevole il suo recente discorso davanti al murale di Falcone e Borsellino a Palermo. Cosa replica?
«Mi tengo stretti i cittadini e i valori che sono sfilati sotto quel murale, i valori per cui ci battiamo ogni santo giorno. Lui può tenersi stretti le foto e gli abbracci con Cuffaro».
A proposito di Cuffaro, le carte dell’inchiesta descrivono un “sistema” per controllare appalti e concorsi. È stato un errore riaprire le porte della politica a un ex governatore già condannato per favoreggiamento?
«Ognuno ha i suoi riferimenti, il M5S ha portato in politica campioni dell’antimafia come Antoci, Scarpinato, De Raho. Quando si vuole raggiungere il potere con tutti i mezzi possibili pur di prendere voti e clientele, calpestando non solo la legalità e l’etica pubblica ma la stessa dignità dei siciliani, i risultati sono questi: una Regione in cui si truccano gli appalti in sanità mentre si muore di tumore dopo aver aspettato per 8 mesi un esame istologico. Serve un moto di orgoglio dal basso per ribaltare questa idea di politica».
Quella su Cuffaro è solo l’ultima inchiesta sul centrodestra siciliano. Cosa si aspetta dal governo nazionale?
«Meloni ha detto più volte di essere in politica da decenni per Borsellino, per quel che ha rappresentato. La riporto alla dura realtà: tutti i partiti di maggioranza che sostengono Meloni proprio nella Sicilia di Borsellino e Falcone sono travolti da scandali per corruzione, truffa e altre pesanti accuse, a partire dal presidente dell’Assemblea regionale e dall’assessora al Turismo, entrambi di Fratelli d’Italia. Oggi assistiamo al fallimento totale della vecchia e nuova classe politica e dirigente della destra siciliana. Meloni non può far finta di nulla e far credere che tutto questo non la riguardi in quanto leader di FdI».
M5S, con le forze di opposizione, ha promosso la mozione di sfiducia al presidente della Regione poi bocciata all’Ars. Ci sono i margini per il prosieguo della legislatura?
«Assolutamente no. Qui siamo alla restaurazione della peggiore politica: appalti truccati in sanità, arresti, rinvii a giudizio e, ciliegina sulla torta, anche il rafforzamento della tutela della casta. Noi abbiamo lottato per anni per tagliare i vitalizi e ridurre il numero dei parlamentari, i costi e i privilegi della politica e adesso la loro unica premura è di ampliare il numero dei deputati regionali blindando la maggioranza».
Sulla mozione l’opposizione ha dimostrato compattezza. Lo sarà anche alle Regionali?
«Come opposizione abbiamo già condiviso diverse battaglie contro la destra: oltre alla mozione di sfiducia al governo regionale, a giugno abbiamo fatto una manifestazione unitaria sulla sanità e siamo insieme anche nella battaglia contro il Ponte sullo Stretto. Il M5S è promotore di un progetto alternativo per la Regione che per noi dovrà passare dall’ascolto dei cittadini».
Schifani accusa l’opposizione di non avere proposte alternative e di essere il partito del no (al Ponte, ai termovalorizzatori)…
«Noi le proposte alternative le abbiamo sempre fatte, anche se Schifani ha fatto sempre orecchie da mercante. Metta la politica fuori dalla sanità, come chiediamo da sempre, visto che i giochi di palazzo la stanno distruggendo. Accolga le nostre proposte per famiglie e imprese in difficoltà. E usiamo i fondi che vogliono mettere sul fallimentare progetto del Ponte sullo stretto per le infrastrutture che servono davvero, come strade, ferrovie, impianti idrici».
Ha ragione Calenda: la Sicilia va commissariata?
«Per noi la parola deve tornare ai cittadini siciliani».
Come si affronta la questione morale?
«Mettendo al primo posto sempre l’interesse dei cittadini e delle istituzioni, come fa il M5S. I partiti che esprimono rappresentanti nelle istituzioni non possono agire come gruppi di potere che piazzano i loro amici pur di alimentare un sistema clientelare basato sullo scambio di favori. Servono regole interne rigide, rigorose. Se al loro interno emergono casi di possibile illegalità, ma anche solo comportamenti contrari all’etica pubblica, bisogna fare pulizia, pretendere trasparenza e assunzione di responsabilità verso i cittadini».
La fiamma olimpica rinfocola quella di Fratelli d’Italia. La presenza di Meloni all’inaugurazione romana del viaggio del braciere di Milano-Cortina è il primo atto di una stagione che tra i Giochi, l’America’s Cup a Napoli nel 2027 e la battaglia politica sulla sede delle Atp Finals, vedrà la maggioranza impegnata in una battaglia più elettorale che sportiva

(Stefano Iannaccone – editorialedomani.it) – La fiamma della fiaccola olimpica rinfocola la fiamma di Fratelli d’Italia. La presidente del Consiglio, Giorgia Meloni, è pronta a presenziare venerdì 5 dicembre alla cerimonia di inaugurazione dell’inizio del viaggio da Roma verso Milano, dove sarà acceso il braciere dell’Olimpiade invernale 2026. È il primo atto di una stagione all’insegna dello sport e della propaganda.
L’esempio della spasmodica attenzione intorno all’Olimpiade invernale arriva anche dal vicepremier, Matteo Salvini: da mesi sta portando avanti il countdown per l’apertura dei Giochi di Milano-Cortina. Il leader della Lega rivendica il risultato, attribuendolo al suo partito per interposta persona: uno dei grandi fautori è stato l’ex presidente della regione Veneto, Luca Zaia. Il governo, attraverso vari protagonisti, ha messo la faccia e anche le mani sull’evento, togliendo a Giovanni Malagò la soddisfazione di presenziare all’evento da presidente del Coni. Nonostante i vari tentativi, l’esecutivo non ha concesso deroghe o proroghe al suo mandato.
La sua ingombrante figura non farà troppa ombra a chi andrà a cercare la passerella sulle piste da sci. Una vittoria personale del ministro dello Sport, Andrea Abodi, che ha resistito agli assalti, anche all’interno della stessa maggioranza, di prevedere misure ad personam per Malagò.
L’attenzione su Milano-Cortina è dunque massima: nei mesi scorsi sono arrivati stanziamenti vari, come i 43 milioni di euro dati per la sicurezza dell’evento a discapito del fondo per le vittime dei clan mafiosi. Anche nel decreto Anticipi, che la prossima settimana sarà votato alla Camera, sono state previste delle risorse ulteriori (59 milioni di euro) per il commissario straordinario e per la realizzazione di alcune opere.
Dalla neve sulle montagne alla brezza lungo il mare, lo spartito eseguito è sempre lo stesso: per la destra i grandi eventi sportivi sono volano di propaganda. L’America’s Cup del 2027 a Napoli è una grande scommessa: tra mille incertezze sugli investimenti della manovra, c’è il caposaldo di 30 milioni di euro, spalmati su due anni, messo a disposizione della legge di Bilancio per la competizione velistica. La tempistica non è affatto banale: la Coppa America cadrà infatti nell’anno elettorale, tra la primavera e l’estate, quando probabilmente gli italiani saranno chiamati a votare per le politiche, visto che è sempre più quotata l’ipotesi di anticipare le elezioni di qualche mese rispetto alla scadenza naturale dell’autunno di quell’anno. Sarà comodo fare una sfilata sul lungomare napoletano per una photo opportunity di campagna elettorale.
Ma uno dei grandi strumenti di comunicazione politica è diventato il tennis, baciato da una popolarità mai vista prima grazie ai trionfi di Jannik Sinner e al tris azzurro calato in Coppa Davis. Le Atp Finals, conquistate poche settimane fa proprio dal campione altoatesino, sono un boccone ghiotto per la destra. In estate il governo ha approvato il decreto Sport, che assegna maggiori poteri alla società Sport e Salute, cassaforte e longa manus governativa, proprio nelle Atp finals.
La sede di Torino è stata vincente, come ha confermato l’ultima edizione, esaltata dal presidente della Federazione italiana tennis e padel, Angelo Binaghi. Eppure non è un mistero la tentazione della destra, Fratelli d’Italia in testa, di portare le Finals a Milano in futuro, dal 2028. Non ci sarebbero ragioni pratiche, visti appunto i numeri garantiti dal Piemonte. Ma c’è uno snodo tutto politico: a Milano si voterà nel 2027, così come la regione Lombardia. E unire il diritto di Sinner ai piedi del Duomo alla campagna elettorale può risultare prezioso in tempi di lontananza popolare dalla politica.
Certo, non sempre lo sport è foriero di successi per la destra di Meloni. È scolpita nella memoria la figuraccia della storica vittoria a Wimbledon di Sinner senza alcun rappresentante del governo a rappresentare le istituzioni italiane. E sullo sfondo resta il moloch del calcio, che resta lo sport più popolare della penisola.
Solo che la nazionale azzurra dà più dolori che gioie, mentre l’organizzazione dell’Europeo 2032, in coabitazione della Turchia, è un fardello. Addirittura la nomina del commissario per gli stadi, Massimo Sessa, è stata complessa. Fortuna della destra è che l’evento è calendarizzato lontano nel tempo. A differenza degli appuntamenti da strombazzare con le fanfare della propaganda.
Quest’anno la festa diventa meno festa identitaria e più piattaforma politica, laboratorio di un partito che vuole presentarsi come forza affidabile e dialogante, capace di parlare a mondi che finora erano rimasti ai margini del perimetro meloniano. Sullo sfondo, l’ipotesi di un voto anticipato

(Marco Antonellis – lespresso.it) – Fratelli d’Italia prova a cambiare pelle. La “fase due” evocata da Giorgia Meloni prende forma dentro e attorno ad Atreju, che quest’anno diventa meno festa identitaria e più piattaforma politica, laboratorio di un partito che vuole presentarsi come forza affidabile, dialogante, capace di parlare a mondi che finora erano rimasti ai margini del perimetro meloniano.
A via della Scrofa lo chiamano “allargamento controllato”: inviti selezionati, incontri con rappresentanti dell’economia, accademici, professionisti. Una strategia pensata per spostare l’immagine di FdI oltre il recinto originario, rendendo più solido il profilo istituzionale del partito e preparando una nuova generazione di dirigenti. Meloni sa che per governare a lungo servono competenze, radicamento amministrativo, reti nei luoghi chiave dello Stato. Non più solo militanza, ma struttura.
Su questo sfondo si inserisce un tema che comincia a circolare con insistenza: l’ipotesi di un voto anticipato nel 2026. Non un piano, non un annuncio. Piuttosto, una possibilità che alcuni considerano realistica se il governo dovesse vincere il referendum sulla giustizia. Quel risultato darebbe alla premier un capitale politico significativo, da spendere evitando l’ultimo tratto di legislatura, considerato il più instabile.
Il nodo riguarda i rapporti interni alla coalizione. Nel gruppo dirigente di FdI è diffusa la convinzione che la Lega di Salvini possa irrigidire il confronto nell’ultimo anno, alzando i toni per recuperare consenso. Una fase che potrebbe complicare l’azione di governo e rendere più incerta la prospettiva del secondo mandato. Da qui la suggestione di “giocare d’anticipo”, evitando mesi di tensioni e presentandosi alle urne in una condizione più favorevole.
Per ora, però, la priorità della premier resta un’altra: consolidare l’immagine di FdI come partito di governo, capace di parlare ai ceti medi, alle imprese, ai moderati in cerca di stabilità. Una transizione delicata, che richiede equilibrio tra identità originaria e apertura verso nuovi interlocutori.
Atreju, in questo senso, è la scena dove Meloni prova a mostrare il volto rinnovato del suo partito. Un passo verso quella “normalizzazione” che, nelle intenzioni dei fedelissimi, dovrebbe traghettare FdI da movimento identitario a forza cardine del sistema. Il resto, elezioni comprese, verrà dopo. Ma nel partito nessuno esclude che il 2026 possa diventare l’anno della scelta.
UE MULTA X PER 120 MILIONI, È LA PRIMA PER VIOLAZIONI DSA

(ANSA) – La Commissione Ue ha inflitto una multa da 120 milioni a X di Elon Musk per aver violato gli obblighi di trasparenza previsti nella legge europea sui servizi digitali (Dsa).
Quella odierna è la prima decisione di non conformità adottata ai sensi del Dsa, volto a mettere fine al far West online.
Le violazioni includono il design ingannevole della spunta blu, la mancanza di trasparenza dell’archivio pubblicitario e la mancata fornitura di accesso ai dati pubblici per i ricercatori. Ancora in corso l’indagine per sospette violazioni del Dsa legate alla diffusione di contenuti illegali.
VANCE CONTRO UE, ‘VOCI DI MULTA A X, È ATTACCO ALLE AZIENDE USA’
(ANSA) – Affondo del vice presidente Usa JD Vance contro l’Ue. “Girano voci – scrive in un tweet – secondo cui la Commissione europea multerà X di centinaia di milioni di dollari per non aver applicato la censura. L’Ue dovrebbe sostenere la libertà di parola invece di attaccare le aziende americane per spazzatura”. Messaggio rilanciato sempre su X dallo stesso Elon Musk, accompagnato dal commento: “apprezzo molto”
UE A VANCE, ‘IL DSA NON CENSURA NÈ LIMITA CONTENUTI’
(ANSA) – La tutela del Dsa “non riguarda la censura, non limita i contenuti, ma riguarda la trasparenza: siamo d’accordo di non essere d’accordo” con le critiche americane. “Noi non siamo contro alcuna azienda”. Così i portavoce della Commissione replicano alle critiche espresse dal vice presidente americano, Vance circa la multa contro X.
FONTI UE, ‘MULTE DSA PROPORZIONALI, IMPORTO LEGATO A VIOLAZIONI’
(ANSA) – L’importo della multa a X è stato calcolato “non sulla base della struttura societaria, ma piuttosto in base alle violazioni” riscontrate. Una volta determinata la multa, la Commissione si assicura che non superi il limite massimo legale del 6%, definito dalla legge. Lo spiega un funzionario della Commissione europea.
L’importo, precisa, è definito sulla base di “criteri di legge” e in particolare sul principio di proporzionalità che a sua volta prende in considerazione diversi criteri, tra cui “la natura, la gravità, la ricorrenza e anche la durata” delle violazioni contestate.
Il processo per determinare le sanzioni ai sensi della legge sui servizi digitali “si articola in due fasi completamente indipendenti: la prima è che la sanzione deve essere proporzionata alla violazione e la seconda è che non può superare il 6% del fatturato annuo globale. La sanzione quindi non è fissata in percentuale del fatturato globale”.
La Commissione ha proceduto a valutare separatamente anche le diverse violazioni contestate a X. “Per la violazione relativa al segno di spunta blu, stiamo imponendo una sanzione di 45 milioni di euro; per la violazione relativa alla trasparenza dell’archivio pubblicitario, stiamo imponendo una sanzione di 35 milioni di euro, e per la violazione legata all’accesso ai dati per i ricercatori, stiamo imponendo una multa di 40 milioni di euro. Il totale ammonta a 120 milioni di euro”.
UE, ‘IMPEGNI TIKTOK A PIENA TRASPARENZA SU ARCHIVI PUBBLICITARI’
(ANSA) – La Commissione Ue ha ottenuto l’impegno di TikTok a fornire archivi pubblicitari che garantiscano la piena trasparenza degli annunci sui suoi servizi, come richiesto dalla legge europea sui servizi digitali.
Lo comunica l’esecutivo comunitario in una nota. Dopo un ampio confronto con la Commissione, TikTok ha presentato impegni vincolanti che rispondono a tutte le preoccupazioni sollevate dalla Commissione nella sua indagine e nelle conclusioni preliminari del maggio 2025. Questi impegni garantiranno la piena trasparenza.
Il Dsa impone alle piattaforme di mantenere un archivio accessibile e consultabile degli annunci pubblicitari pubblicati sui loro servizi. Gli archivi sono fondamentali per consentire alle autorità di regolamentazione, ai ricercatori e alla società civile di individuare truffe, pubblicità di prodotti illegali o inadatti all’età, pubblicità false e operazioni di informazione coordinate, anche nel contesto delle elezioni.
Il 19 febbraio 2024 la Commissione ha avviato un procedimento formale per valutare se TikTok abbia violato il Dsa. Per quanto riguarda la trasparenza della pubblicità, nel maggio 2025 la Commissione ha pubblicato i risultati preliminari di non conformità e ha accettato gli impegni. Il procedimento ha riguardato anche gli effetti negativi derivanti dalla progettazione di TikTok, compresi i sistemi algoritmici, la verifica dell’età, l’accesso ai dati per i ricercatori (risultati preliminari adottati nell’ottobre 2025) e l’obbligo di proteggere i minori, per il quale l’indagine è ancora in corso. La Commissione ha inoltre avviato un procedimento formale contro TikTok nel dicembre 2024 in merito alla sua gestione dei rischi legati alle elezioni e al dibattito civico, per il quale l’indagine è ancora in corso.

(ANSA) – Secondo una rivelazione del quotidiano britannico The Telegraph, Nicolás Maduro avrebbe chiesto al presidente statunitense Donald Trump di poter trattenere 200 milioni di dollari della sua fortuna privata in cambio della fuga dal Venezuela.
La telefonata, durata circa 15 minuti, si è svolta nei giorni scorsi, in un clima di crescente pressione da parte di Washington perché il leader chavista lasci il potere. Oltre ai fondi, Maduro avrebbe chiesto un’amnistia per un centinaio di funzionari del regime e un passaggio sicuro verso un Paese “amico”.
Richieste respinte dalla Casa Bianca, che non intende garantire protezione a figure accusate di legami con narcotraffico e corruzione. Maduro avrebbe inizialmente indicato Cuba come possibile destinazione, mentre Trump gli avrebbe suggerito Russia o Cina.
La pressione su Caracas è aumentata dopo la designazione del Cartello dei Soli come organizzazione terroristica internazionale. Trump, che mantiene un dispositivo militare nel Mar dei Caraibi, continua a sollecitare pubblicamente l’uscita di Maduro: “Non è una semplice campagna di pressione, va molto oltre”, ha dichiarato il presidente Usa nei giorni scorsi.
In vendita su un network immobiliare, viene proposto come soluzione per affitti brevi. La denuncia del Comitato che si batte per arginare il fenomeno: «Come ha potuto ottenere l’abitabilità?»

(Pino Di Blasio – lastampa.it) – FIRENZE. Ricorda il monolocale nella scena cult del film, “Il ragazzo di campagna”, un piccolo cubo tutto pannelli scorrevoli, con tavolo, sedie e letto a saliscendi alternati, che l’agente immobiliare affitta a Renato Pozzetto per un milione e mezzo di lire al mese, convincendolo che “la finestra è sorpassata, cosa se ne fa se ha riscaldamento, aria fredda e deumificatore elettrici?”. Anche Firenze si adegua al mercato immobiliare delle grandi capitali europee, soprattutto Parigi: nei volantini e annunci di un network immobiliare è comparsa l’offerta di un monolocale di 12 metri quadrati in zona Santa Croce, stanza con cucina elettrica e bagno, in vendita a 130 mila euro, 11 mila euro a metro quadro. “A segnalarcelo – racconta Massimo Torelli, portavoce del Comitato Salviamo Firenze e animatore delle battaglie contro gli affitti brevi turistici, le keybox e l’overtourism che ha trasformato radicalmente la città del Giglio – è stata una nostra associata che vive in Santa Croce. Un alloggio di 12 metri quadri senza finestre, in vendita a 130 mila euro. Non c’è solo il prezzo folle, la prima domanda è come abbia fatto questo monolocale, che sembra più una ‘cantina’, ad avere l’abitabilità”.

Se si trattasse di una casa dove il potenziale acquirente avesse intenzione di viverci, sarebbe la domanda essenziale. Ma Torelli aggiunge un altro dettaglio che accende luci diverse su quell’annuncio di monolocale pezzettino. “Il network immobiliare ha messo in grande rilievo il fatto che l’alloggio ha il Codice Identificativo Nazionale per gli affitti brevi turistici, obbligatorio per legge dal settembre 2024. Ma il Comune di Firenze ha approvato il regolamento sugli affitti turistici, fissando 28 metri quadri come limite minimo di superficie degli alloggi da affittare. Il Cin non può essere ceduto ad altri e il Comune aveva anche annunciato la nascita di una task force per i controlli su chi violava il regolamento. La task force è attiva?” chiede il portavoce di Salviamo Firenze come epilogo. E dopo aver segnalato l’annuncio alla stampa, Massimo Torelli ha già inviato una Pec al comando della Polizia Municipale di Firenze e alla questura, segnalando quel monolocale senza finestre e chiedendo risposte sull’abitabilità dei 12 metri quadrati in zona Sana Croce. In vendita a 130 mila euro.
Segnalazione del Codacons ad Antitrust, Enac e ministero dei Trasporti. La Regione Sicilia ripropone il treno low cost

(di Gioacchino Amato – repubblica.it) – Più di tremila euro per tornare in Sicilia in aereo durante le festività natalizie. È il conto salatissimo che deve affrontare una famiglia di quattro persone per l’ormai tradizionale impennata delle tariffe aeree che si registra nei periodi di maggiore traffico soprattutto nelle rotte verso gli aeroporti del Sud. Da giorni le principali associazioni dei consumatori denunciano rincari da record. Assoutenti ha calcolato che «per volare in Italia durante le festività, partendo il 24 dicembre e tornando il 6 gennaio, si spende un minimo di 505 euro per andare da Torino a Palermo, e 492 euro per volare da Pisa a Catania”.
E ancora: da Torino a Catania, nelle stesse date, servono 422 euro, che scendono a 411 euro da Milano a Palermo, stesso prezzo della tratta Verona-Palermo. Da Milano a Crotone la spesa minima è di 390 euro (con partenza il 23 dicembre). A seconda della compagnia scelta e dell’orario del volo, i biglietti di andata e ritorno possono superare quota 800 euro, come nel caso del collegamento Milano Linate – Catania che raggiunge il record di 841 euro, ovvero più di un volo intercontinentale.
Il Codacons che ha inviato una segnalazione ad Antitrust, Enac e ministero dei Trasporti parla di aumenti «fino al 900% in più rispetto alle normali tariffe aeree. Da Milano a Catania il biglietto del 23 dicembre costa 178 euro, il 790% in più rispetto ai 20 euro del 13 gennaio». L’Autorità della concorrenza e del mercato ha aperto un’istruttoria sul caro voli, in particolare sui collegamenti con Sicilia e Sardegna e dopo un rapporto preliminare pubblicato nel luglio scorso ha aperto un confronto con l’Unione Europea per modificare le norme sulla continuità territoriale.
Nel frattempo, però, il ritorno a casa per lavoratori e studenti meridionali fuorisede si trasforma in un salasso. «Un’ingiustizia – scrive il sindaco di Siracusa, Francesco Italia, che ricorda che la sua città è fra quelle con la più alta percentuale di studenti universitari fuori sede – Si parla moltissimo di inclusione, di un Paese che non lascia indietro nessuno, di giovani che devono avere le stesse opportunità da Nord a Sud, si parla moltissimo anche di quanto sia in crisi l’istituzione famiglia. Ma poi, nei fatti, permettiamo che la mobilità diventi un lusso e consentiamo che tantissimi giovani (e anche tanti non più giovani) trascorrano le festività più intime lontano dai loro cari. Chi può permetterselo vola diretto. Gli altri si arrangiano: Varsavia, Cracovia, Malta, ore e ore in aeroporti stranieri pur di risparmiare cento euro oppure decidono di rinunciare. È questa l’idea di uguaglianza che vogliamo trasmettere?».
Mentre il responsabile Coesione e Sud della segreteria nazionale del Pd, il deputato Marco Sarracino, ha presentato un’interrogazione al ministro dei Trasporti, Matteo Salvini, la Regione Sicilia continua la sua politica di sconti per i residenti nell’Isola. Un taglio dei costi pari al 25% per tutti i siciliani e del 50% per alcune fasce protette. Bonus che hanno, però, due limiti: escludono i fuorisede che hanno trasferito la loro residenza al Nord o all’estero e prevedono un tetto rispettivamente di 75 e 150 euro per un biglietto di andata e ritorno che riduce l’efficacia dello sconto proprio nei periodi di tariffe alle stelle.
La giunta Schifani, in più, per il secondo Natale consecutivo ha organizzato con Treni turistici italiani del gruppo Fs il “Trinacria Express” a prezzi calmierati. I biglietti che partono da 29,90 euro sono destinati a 500 fortunati che il 20 dicembre dalle stazioni del Nord potranno arrivare in Sicilia dopo un viaggio di quasi 24 ore. Il ritorno è previsto il 5 gennaio.
Unica eccezione, ma sempre per i residenti in Sicilia, è l’aeroporto di Comiso dove da novembre è attiva la continuità territoriale gestita da Aeroitalia con collegamenti per Roma e Milano con prezzi fra 56 e 72 euro a tratta che viaggiano sempre pieni. Così, nel pieno del caro voli, fa discutere l’annuncio del deputato ex meloniano Manlio Messina, di recente passato al Gruppo misto in polemica con Fratelli d’Italia, della nascita di una nuova compagnia aerea tutta siciliana, la Etna Sky che dovrebbe iniziare a volare entro la prossima estate.
Messina afferma di essere a capo di una cordata di imprenditori catanesi e lombardi che in cinque anni porteranno la compagnia ad avere 15 Airbus e coprire tratte nazionali e intercontinentali «con prezzi super speciali per i nostri conterranei». Una sfida già vista nei cieli siciliani, da Air Sicilia e WindJet, fino ad oggi durata solo pochi anni.
Il nuovo rapporto disegna un Paese sempre più povero e anziano, disilluso dalla politica e oberato da un debito pubblico senza precedenti. Che reagisce però con una intensa vita sessuale e di relazioni affettive

(di Maria Novella De Luca – repubblica.it) – “L’Italia nell’età selvaggia, del ferro e del fuoco”. Si apre con questo titolo, volutamente apocalittico, il nuovo rapporto Censis, il numero 59 dell’istituto di ricerca fondato nel 1964 da Giuseppe De Rita. Una radiografia altamente scannerizzata dello stato di salute economica, sociale, ma anche emotiva, sentimentale e spirituale del nostro Paese. Un’Italia che oggi però sembra oscillare “ tra paure ancestrali e tensioni messianiche, veementi fedi religiose e risorgenti fanatismi ideologici”. Età selvaggia, appunto, scrive il Censis “di predatori e prede”, di totale sfiducia nella politica e di seduzione invece verso le autocrazie, guardate con favore (ed è preoccupante) “dal 30% degli italiani” che le ritengono “più adatte allo spirito dei tempi”.
Capitolo dopo capitolo, partendo da quello che è il dato economico per eccellenza, ossia il Grande Debito, che determina non solo le nostre vite, ma peserà sui nostri figli e nipoti, il Censis, il cui segretario generale oggi è Giorgio De Rita, si inoltra nelle pieghe della società italiana, sempre più anziana e sempre più povera di bambini, tracciandone un ritratto in chiaroscuro, dove l’unico leader che conquista cuori è papa Leone.
Eppure, in questa nebbia dove tutto appare confuso, la reazione della “nazione” strappa un sorriso: donne e uomini, ragazze e ragazzi reagiscono alla paura dell’abisso facendo allegramente sesso, tanto e spesso, in un “edonismo liberato dalle antiche censure”.
Il grande debito inaugura, secondo il Censis, il secolo delle società post-welfare. L’Italia spende più per interessi (85,6 miliardi) che per investimenti (78,3 miliardi): superano dieci volte le risorse destinate alla protezione dell’ambiente (7,8 miliardi). Sul fronte politico il 62% degli italiani ritiene che l’Unione europea non abbia un ruolo decisivo nelle partite globali. Il 53% crede che sia destinata alla marginalità, il 55% è convinto che la spinta del progresso in Occidente si sia esaurita e adesso appartenga a Cina e India. Il 39% ritiene che le controversie tra le grandi potenze si risolvano ormai mediante i conflitti armati. E il 30% condivide una convinzione inaudita: le autocrazie sono più adatte allo spirito dei tempi.
Ma un intervento militare italiano, anche nel caso in cui un Paese alleato della Nato venisse attaccato, è disapprovato dal 43%. Il 66% ritiene che, se per riarmarsi l’Italia fosse obbligata a tagliare la spesa sociale, allora dovremmo rinunciare a rafforzare la difesa. Alle ultime elezioni politiche del 2022 gli astenuti hanno raggiunto la quota record del 36,1% degli aventi diritto, 9 punti percentuali in più rispetto alle precedenti elezioni del 2018. E le mobilitazioni di piazza raccolgono sempre meno adesioni: nel 2003 il 6,8% degli italiani aveva partecipato a cortei, vent’anni dopo il 3,3%. Rappresentano quindi una eccezione le piazze piene, nell’ultimo anno, per le manifestazioni a favore della Palestina.
Secondo il 72% degli italiani la gente non crede più ai partiti, ai leader politici e al Parlamento. Il 63% è convinto che si sia spento ogni sogno collettivo in cui riconoscersi. L’unico leader con una proiezione globale che ottiene la fiducia della maggioranza degli italiani (60,7%) è Leone XIV. Seguono Sánchez (44,9%), Merz (33,5%), von der Leyen (32,8%), Macron (30,9%), Starmer (29,0%), Lula (23,0%), Trump (16,3%), Modi (14,9%), Xi Jinping (13,9%), Putin (12,8%), Orbán (12,4%), Erdo?an (11,0%), Netanyahu (7,3%), Khamenei (7,3%), Kim Jong-un (6,1%).
Da molti anni il Censis (e in particolare Giuseppe De Rita) segnala come l’impoverimento del ceto medio, anzi la sua progressiva scomparsa, stia minando quello che era, appunto, il pilastro della società italiana. La regressione demografica, con il progressivo invecchiamento della popolazione e i tassi di natalità in caduta libera, provoca l’arresto dei processi di proliferazione delle piccole imprese. In vent’anni (2004-2024) il numero dei titolari d’impresa si è assottigliato da oltre 3,4 milioni a poco più di 2,8 milioni: -17,0% (quasi 585.000 in meno). I giovani imprenditori con meno di 30 anni sono diminuiti nello stesso periodo del 46,2% (quasi 132.000 in meno). Si indebolisce anche l’altro pilastro: il lavoro. Nel 2024 il valore reale delle retribuzioni risulta inferiore dell’8,7% rispetto al 2007. Nello stesso periodo il potere d’acquisto pro capite ha subito un taglio del 6,1%. Così il ceto medio vive in uno stato febbrile: nella stagnazione o, peggio ancora, rischia di perdere lo status conquistato nel tempo.
Di fronte a quello che il Censis definisce il “Grand Hotel Abisso”, gli italiani reagiscono però aggrappandosi ai piaceri della vita. In primis il sesso, liberato dalle antiche censure. I rapporti sessuali tra le persone di 18-60 anni sono molto frequenti. I performanti fanno sesso ogni giorno (sono il 5,3% del totale), gli attivi hanno rapporti due o tre volte alla settimana (29,9%), i regolari una volta alla settimana (27,3%), i saltuari con una cadenza tra il mensile e il quadrimestrale (21,9%), gli occasionali una volta ogni cinque o sei mesi (7,1%) e gli astinenti (chi non fa mai sesso) sono l’8,5%. Insomma, quasi due terzi degli italiani tra i 18 e i 60 anni (il 62,5%) hanno una vita sessuale molto intensa, contrassegnata da un ritmo settimanale.
Tra i giovani con meno di 35 anni la percentuale è ancora più alta: il 72,4% (tra loro solo il 6,4% non fa mai sesso). Quali sono le pratiche più diffuse? Il 78,8% pratica con regolarità i preliminari prima del coito, il 74,2% fa sesso orale, il 58,2% la masturbazione reciproca, il 32,6% il sesso anale, il 30,2% il sexting (lo scambio di messaggi espliciti e foto personali), il 26,4% utilizza sex toys durante il rapporto, il 26,0% guarda video porno in coppia, il 22,1% utilizza cibi o bevande nei giochi erotici, il 17,6% fantastica apertamente con il partner su altri amanti, il 14,3% si riprende con lo smartphone durante i rapporti. Una quota minoritaria (il 14,0%) si dedica a pratiche non convenzionali (feticismo, bondage, sadomasochismo), il 7,7% fa sesso con più partner contemporaneamente e partecipa a orge.
Negli ultimi vent’anni (2004-2024) la spesa per la cultura delle famiglie italiane si è drasticamente ridotta (-34,6%). Si tratta di poco più di 12 miliardi di euro nell’ultimo anno, ovvero poco più di un terzo di quanto spendiamo nell’insieme per smartphone e computer (quasi 14,5 miliardi nel 2024: +723,3% negli ultimi vent’anni) e servizi di telefonia e traffico dati (17,5 miliardi). La riduzione dei consumi culturali dipende dalla forte contrazione della spesa per giornali (-48,3% in vent’anni) e libri (-24,6%). Ma contemporaneamente gli altri consumi di beni (+14,2%) e servizi culturali (+28,9%) non sono affatto diminuiti. Nell’ultimo anno il 45,5% degli italiani è andato al cinema, il 24,7% ha assistito a eventi musicali, il 22,0% a spettacoli teatrali, il 10,8% a concerti di musica classica e all’opera.
L’Italia continua a invecchiare rapidamente, nonostante la forte presenza di immigrati, più di 5,4 milioni, ossia il 9,2% della popolazione residente, ma la gran parte si trova in condizioni di marginalità. Le persone dai 65 anni in su rappresentano il 24,7% della popolazione (14,6 milioni di persone): erano il 18,1% nel 2000 (10,3 milioni) e il 9,3% nel 1960 (4,6 milioni).
L’aspettativa di vita è arrivata a 85,5 anni per le donne e 81,4 per gli uomini: circa 5 mesi in più solo nell’ultimo anno. E i centenari, 594 nel 1960, diventati 4.765 nel 2000, oggi sono 23.548. Nel 2045 le persone dai 65 anni in su saranno aumentate di quasi 4,5 milioni e raggiungeranno i 19 milioni, cioè il 34,1% della popolazione. Dunque la presenza, anzi i nuovi arrivi di famiglie immigrate potrebbero (in parte) mitigare lo scenario di un’Italia sempre più vecchia.
L’inclusione e i diritti di cittadinanza agli stranieri sono invece visti con ostilità dagli italiani. Il 63% degli italiani pensa che i flussi in ingresso degli immigrati vadano limitati, il 54% percepisce gli stranieri come un pericolo per l’identità e la cultura nazionali, solo il 37% consentirebbe l’accesso ai concorsi pubblici e solo il 38% è favorevole a concedere il voto alle elezioni amministrative.

(Tommaso Merlo) – Israele dovrebbe venire escluso da ogni competizione europea perché in un altro continente e perché stato terrorista. E come tale delle democrazie vere e libere lo dovrebbero trattare. Isolandolo, boicottandolo finché il suo regime sanguinario crollerà e l’ideologia sionista verrà estirpata dalla storia per crimini contro l’umanità. Paesi che applicano l’apartheid e sterminano civili innocenti per ragioni ideologiche e religiose, non sono degni di appartenere alla comunità internazionale e vanno combattuti. Punto. Chiunque essi siano. Se le classi deficienti occidentali ancora gli stendono tappeti rossi, è perché viviamo nell’era della democrazia virtuale. Col potere che appartiene alle piovre lobbistiche invece che al popolo e quella sionista è una delle più potenti. I loro affiliati politici e giornalistici sono riusciti per decenni a ribaltare la realtà. Spacciando sanguinari carnefici come vittime sacrificali. Spacciando un bieco progetto coloniale come democrazia modello mentre calpestava ogni diritto umano. E se le classi deficienti occidentali ancora gli stendono tappeti rossi, è perché viviamo nell’era della realtà virtuale. Con la propaganda che prevale sulla realtà. Ma non quella partorita da qualche complottista, ma del sistema politico e mediatico mainstream che la piovra sionista infiltra da decenni. Una operazione davvero impressionante e che entrerà nei libri di storia. Negli Stati Uniti una manciata di sionisti hanno corrotto la politica ed i media al punto da conquistare un potere abnorme che gli ha permesso di succhiare per decenni immense risorse finanziare e militari ed una copertura mediatica e politica incondizionata. Col potere di veto all’ONU come perla. Un vero e proprio sistema annegato nel sangue innocente di Gaza. I sionisti hanno peccato di onnipotenza, pensavano di controllare il mondo e che il 7 ottobre gli permettesse di coronare i loro sogni di pulizia etica. Un errore drammatico e che potrebbe portare alla loro fine. Hanno sottovalutato l’emancipazione delle masse occidentali già schifate dal sistema politico e mediatico di matrice lobbistica, ed hanno sottovalutato le nuove tecnologie che hanno permesso di eludere la censura e far emergere la verità. E non solo sul genocidio, ma su quando succede in Medioriente dal 1948. Dopo due anni di immane carneficina, oggi siamo al solito fasullo cessate il fuoco dove gli altri smettono di combattere ed i sionisti continuano a bombardare ed ammazzare, mentre la piovra sionista cerca di rimuovere tutto. Vuole che le masse occidentali scrollino oltre, vuole business as usual. Mano libera, totale impunità e supporto in modo da finire il lavoro sporco, cacciare o ammazzare i palestinesi e rubargli la terra. Troppo arroganti e acciecati dall’odio per capire che il genocidio a Gaza ha cambiato tutto. Negli Stati Uniti per la prima volta i politici rifiutano pubblicamente i soldi sporchi di sangue della lobby sionista, mentre gli indici di ascolto dei media alternativi antisionisti volano alle stelle e quelli corrotti crollano. Da una parte la pura verità, dall’altra ritornelli propagandistici ormai ridicoli e crimini indifendibili. I numeri dicono che la pacchia americana è finita, la grande maggioranza dei giovani vuole interrompere ogni legame con Israele, si sentono ingannati e vogliono che la loro democrazia torni a servire i loro bisogni e non quelli di uno stato genocida. Uno spartiacque storico di cui si vedono segnali anche in Europa. Puoi avere tutti i soldi che vuoi e corrompere tutti i politici e presunti giornalisti che vuoi, ma se i popoli sono fermamente contro, sei spacciato. E questo perché la storia la fanno i popoli nel lungo periodo. Altro che classi deficienti, altro che democrazie e realtà virtuali, altro che tappeti rossi, Israele va isolato e boicottato finché il suo regime sanguinario crollerà e l’ideologia sionista verrà estirpata dalla storia per crimini contro l’umanità. Fin quando questo non avverrà, non vi sarà mai pace in Medioriente. Mai. La piovra sta resistendo disperata, ma il genocidio a Gaza ha cambiato tutto. Le nuove consapevolezze dei popoli occidentali porteranno a nuove politiche e si potrà finalmente girare pagina. Ponendo fine alla disumana persecuzione dell’eroico popolo palestinese ed aprendo una nuova fase storica in cui prevalga la verità su quanto successo dal 1948 oltre che buonsenso e realismo politico in modo da arrivare finalmente alla convivenza democratica e alla pace.
L’avvertimento (in privato) di Macron a Zelensky: “Gli Usa potrebbero tradire l’Ucraina”. Lo «Spiegel» rivela le parole scambiate in privato tra i leader europei e il presidente ucraino. Poco diplomatica anche l’uscita del cancelliere tedesco Merz, che invita Zelensky a «stare molto attento»

(di Stefano Montefiori – corriere.it) – DAL NOSTRO CORRISPONDENTE PARIGI – «C’è la possibilità che gli Stati Uniti tradiscano l’Ucraina», avrebbe detto Emmanuel Macron durante la conference call di lunedì con Zelensky e altri leader europei. Una preoccupazione in fondo diffusa, e da tempo. La novità sta nella formulazione, nel chiamare le cose con il loro nome e pronunciare quindi la parola proibita: «tradimento» significa giudicare e condannare le scelte dell’America.
Quando Volodymyr Zelensky è tornato a Parigi per la decima volta dall’inizio della guerra, lo scorso lunedì, il clima all’Eliseo era, in effetti, Ucraina ed Europa da una parte, Russia e Stati Uniti dall’altra, nonostante le esibite premure verso Trump e gli sforzi di alcuni europei, in particolare della premier italiana Giorgia Meloni, di fare da ponte tra le due sponde dell’Atlantico.
Le frasi della telefonata tra europei rivelate ieri dal giornale tedesco Der Spiegel mostrano che una spaccatura esiste, ed è ormai tanto profonda che alcuni leader in privato la esplicitano senza remore. «C’è la possibilità che gli Stati Uniti tradiscano l’Ucraina sulla questione del territorio senza chiarezza sulle garanzie di sicurezza», avrebbe detto per la precisione Macron, secondo la trascrizione in inglese della chiamata ottenuta dallo Spiegel. «Un grosso pericolo» per Zelensky, avrebbe aggiunto il presidente francese. Anche il cancelliere tedesco Friedrich Merz avrebbe messo da parte i toni diplomatici per dire a Zelensky di «stare molto attento». A proposito dei due negoziatori americani inviati a Mosca, Steve Witkoff e il cognato di Trump, Jared Kushner, Merz avrebbe detto a Zelensky che «si stanno prendendo gioco di te e di noi».

Nonostante un rapporto personale con Trump coltivato con il golf, anche il finlandese Alexander Stubb avrebbe sottolineato che «non possiamo lasciare l’Ucraina e Volodymyr da soli con questi individui» e il segretario generale della Nato, Mark Rutte, in pubblico pieno di riguardi per il presidente americano, ha aggiunto che «dobbiamo proteggere Volodymyr».
Niente di sorprendente se non l’uso di certe parole, e infatti l’Eliseo ha smentito che Macron abbia mai parlato di tradimento, mentre gli uffici delle altre capitali hanno preferito non commentare. Lo Spiegel ha confermato la trascrizione, dicendo che due partecipanti hanno confermato la sua accuratezza.
Mentre Macron è in Cina in visita di Stato per chiedere al presidente Xi Jinping di allentare il sostegno alla Russia e di aiutare a trovare un cessate il fuoco in Ucraina, Merz è intervenuto ieri sulla questione degli asset russi congelati a Bruxelles, con una lettera pubblicata sulla Frankfurter Allgemeine Zeitung nella quale esorta a non sottostare alle pretese di Trump e all’idea di finanziare progetti di ricostruzione guidati dagli Usa.
«Non possiamo lasciare che siano Stati non europei a decidere cosa accade alle risorse finanziarie di un Paese aggressore che sono state legittimamente congelate nell’ambito della nostra giurisdizione e nella nostra stessa valuta. Le decisioni che prendiamo ora plasmeranno il futuro dell’Europa — scrive Merz —. La Commissione europea ha presentato la sua proposta concreta per mobilitare oltre 165 miliardi di euro in finanziamenti aggiuntivi per l’Ucraina. Questi fondi sarebbero sufficienti a coprire i bisogni finanziari e militari dell’Ucraina almeno per i prossimi due anni. È quindi nel nostro potere non solo rafforzare l’Ucraina, ma anche inviare a Mosca un segnale inequivocabile che proseguire questa guerra di aggressione è inutile. Non si tratta di un segnale per prolungare il conflitto, ma di un segnale per porvi fine».
I democratici chiedono conto del ruolo di Becchetti, leghista che ha firmato il rogito e anche l’atto sulla Stretto di Messina. «Chiarezza sul prezzo della casa. E vogliamo sapere come e da chi sono state pagate le diverse prestazioni del professionista»

(Nello Trocchia – editorialedomani.it) – L’acquisto di una villa da 674 metri quadrati a un prezzo stracciato, il notaio leghista che firma il rogito e che è lo stesso che ha vergato l’atto di riaccensione della società Stretto di Messina Spa. Su questi due punti l’opposizione, dopo le inchieste di Domani, passa al contrattacco e ha depositato un’interrogazione indirizzata proprio a Matteo Salvini, ministro delle Infrastrutture, e ad Adolfo Urso, titolare del dicastero del Made in Italy.
Il testo inizia elencando il disagio abitativo che riguarda una larga fetta della popolazione italiana e il piano casa più volte annunciato dal governo e mai realizzato. «Il combinato disposto dei bassi redditi, della carenza di case in affitto e gli elevati costi di acquisto fanno sì che l’emergenza casa in Italia riguardi oltre 4 milioni di persone», scrivono i deputati dem, Andrea Casu e Anthony Barbagallo, per poi entrare nel merito dell’affaire di villa Salvini: «Si chiede di sapere se non appare del tutto incoerente l’azione del ministro e del governo rispetto al tema casa e se non si evidenzi un enorme conflitto di interessi».
Puntando sul groviglio di rapporti pubblici e privati tra Salvini e il notaio Becchetti, leghista, nominato in una società pubblica dal ministero del Made in Italy e, appunto, che ha firmato il verbale di assemblea che ha riacceso la società che si occupa di realizzare il Ponte sullo Stretto.
Sull’acquisto il ministro Salvini è intervenuto con la sua solita ironia: «Mi stanno stressando perché ho avuto l’ardore e l’ardire di trovare casa su Immobiliare.it. Quindi ho avuto questo favore: sono andato come qualche altro milione di italiani su immobiliare.it. Peraltro da fesso, pagando esattamente la cifra richiesta», ha detto Salvini ai cronisti commentando le rivelazioni di questo giornale.
L’operazione immobiliare è diventata un caso. Il ministro, insomma, si lamenta per aver pagato precisamente il prezzo richiesto dai venditori. Eppure anche tra i sostenitori del Capitano l’acquisto di un villa (classificata A7) da 674 metri quadrati, in tutto 28 vani al costo di 2mila euro a metro quadrato, ha suscitato sentimenti ambivalenti: qualche mugugno, molti sorrisi, un certo scalpore. Soprattutto perché lontana anni luce dall’immagine che il leader leghista ha costruito negli anni: il politico tra la gente, diviso tra sagre e feste paesane, che rivendicava di vivere in un bilocale a Milano, che militava nel partito diventato del “Roma ladrona”.
Ora più che ladra, è la città in cui Salvini si trova a suo agio. In quel sistema di potere che abita proprio negli atti di compravendita della magione acquistata con la compagna Francesca Verdini.
Le venditrici, infatti, sono le sorelle Acampora, figlie di Giovanni Acampora, scomparso lo scorso anno. Avvocato e affarista condannato, insieme a Cesare Previti, ex ministro e fondatore di Forza Italia, per corruzione nei processi Imi-Sir e Lodo Mondadori. La villa che fu del sodale di Previti ci riporta a una girandola di società che arrivano fino al paradiso fiscale del Lussemburgo.
Da questo intreccio da Prima Repubblica, quando Salvini era un giovanissimo militante padano, l’immobile ora vive una seconda vita con nuovi proprietari sempre di alto profilo, come sono Salvini e Verdini.
Nonostante le lamentele del ministro, nella zona di Roma nord dove c’è la sua villa alla Camiluccia, in un comprensorio esclusivo e ambito, le case costano in media 3.800 euro al metro quadro, il leghista ne ha spesi appena 2mila.
Il rogito infatti indica quale prezzo finale dell’acquisto 1,35 milioni di euro per, appunto, 674 metri quadri. Lo studio legale Previti, fondato proprio dall’ex berlusconiano e ora gestito dal figlio e da un team di professionisti, ha avuto una procura finalizzata a rappresentare le sorelle Acampora di fronte al notaio, Alfredo Maria Becchetti.
Becchetti è stato coordinatore cittadino a Roma e candidato, non eletto, alla camera dei Deputati per la Lega. Ora guida Infratel, società di Invitalia, quest’ultima interamente posseduta dal ministero dell’Economia e delle Finanze. E, nel 2023, ha firmato l’atto con il quale è stata riaccesa la società Stretto di Messina spa, con a capo Pietro Ciucci.
Da qui l’interrogazione del Partito democratico firmata dai deputati Casu e Barbagallo. Scrivono di «un enorme conflitto di interesse» e, a questo proposito, chiedono di sapere il ruolo e i rapporti con il «notaio, già candidato alle elezioni politiche nelle liste del partito di cui il ministro è segretario nazionale, che ha riesumato la società del Ponte sullo Stretto, che attualmente è alla guida di una società pubblica e che cura affari privati dello stesso ministro».
In attesa della risposta, le opposizioni hanno criticato Salvini anche per l’annunciata riforma dell’edilizia. «Porta il condono in Consiglio dei ministri», ha attaccato Angelo Bonelli, leader di Alleanza Verdi-Sinistra. Il riferimento è alle norme che dovrebbero introdurre una nuova sanatoria per gli abusi storici e prevedere procedure semplificate. In fondo, è noto, la destra ha sempre avuto una certa passione per la materia. Oltreché per gli affari immobiliari.

(di Antonio Pitoni – lanotiziagiornale.it) – Sembra passato un secolo da quando le destre si strappavano le vesti solo a sentir parlare di Mes. Il famigerato (e temutissimo) Fondo Salva-Stati, che per mesi, un giorno sì e l’altro pure, imputavano al governo Conte di voler attivare col favore delle tenebre – cosa peraltro mai avvenuta – nel periodo dell’emergenza Covid, mettendo un cappio intorno al collo dell’Italia.
Ora ad evocare il Mes è il ministro degli Esteri Tajani. Mica per potenziare la Sanità alla canna del gas, però. Stavolta il nodo scorsoio dovremmo stringercelo intorno alla giugulare per finanziare il riarmo. Il sillogismo tajaneo è più o meno questo. Poiché “sui beni russi congelati ci sono delle riserve giuridiche per usarli come garanzia per le armi all’Ucraina”, come peraltro “ha ribadito anche la Bce”, allora “si possono usare i fondi” del Salva-Stati. Anche se “noi eravamo contrari per diversi motivi alla riforma del Mes”, questa “è la posizione dell’Italia”.
Apriti cielo. Il leghista Borghi liquida l’ideona di Tajani con un tweet su X: “Ovviamente è stato frainteso perché non è possibile che il ministro abbia detto che la posizione dell’Italia è l’utilizzo del Mes per comprare armi dal momento che mai questa idea è stata discussa”. È il primo cortocircuito della giornata, cui segue in serata la bagarre sulla cannabis light, per mesi al centro di una vera e propria crociata da parte delle destre. Fino all’emendamento alla manovra, a firma Fratelli d’Italia, che di fatto rilegalizza la vendita di “infiorescenze fresche o essiccate e prodotti” che contengono Thc in quantità “non superiore allo 0,5%”.
Ma con una novità: una maxi-imposta di consumo in misura pari al 40% del prezzo di vendita al pubblico. Insomma, se fino a ieri la cannabis, compresa quella light, nuoceva gravemente alla salute, una volta tassata farà addirittura bene, di sicuro alle casse dello Stato. Un pasticcio che in serata FdI prova a risolvere così: nessuna “volontà occulta di legalizzazione”, l’obiettivo resta “contrastare la diffusione e la vendita” attraverso la “super tassazione al 40%”. La classica toppa peggio del buco che costringe, alla fine, il partito di Meloni ad annunciare che l’emendamento sarà ritirato. Ora dite la verità, dopo una giornata così, non vi verrebbe voglia di farvi una canna? Ovviamente light.
Intervista al presidente dei senatori del M5s: “La verità è che il meccanismo europeo di stabilità non funziona. Prendiamo quei soldi per fare altro”

(di Gabriella Cerami – repubblica.it) – Utilizzare i soldi del Mes, del Meccanismo europeo di stabilità, come garanzia sugli asset russi congelati «è una dinamica che non ha senso». Stefano Patuanelli, presidente dei senatori del Movimento 5 Stelle, respinge l’idea avanzata dalla Commissione europea e subito appoggiata dal ministro degli Esteri, Antonio Tajani.
I soldi degli asset russi congelati sarebbero destinati a un prestito che l’Unione europea girerebbe a Kiev per coprire deficit e avviare la ricostruzione, perché non ha senso dotarli di una garanzia?
«Avrebbe più senso dire che il Mes non esiste più. All’interno del Meccanismo europeo di stabilità esistono però risorse già versate dagli Stati membri, si possono utilizzare questi per ricostruire l’Ucraina».
Quindi bisogna abolire il Mes?
«Ha delle condizionalità eccessive. Poi bisogna vedere come questi soldi verrebbero declinati in caso di utilizzo come garanzia sugli asset russi».
Anche la Lega si è detta contraria all’utilizzo dei fondi del Mes come garanzia sugli asset russi. Potreste essere accusati di avere una posizione filo-putiniana?
«Basta con queste accuse ridicole. Anzi, paradossalmente mi sembra più filo-russo chi vuole utilizzare i soldi del Mes come garanzia».
Per quale ragione?
«L’Europa vuole mettere dei soldi a garanzia perché sa bene che questo processo di confisca degli asset russi verrà giù come un castello di carta. O si decide che questi beni confiscati alla Russia vengono portati via e si capisce chi è l’ente preposto a dire che è lecito conquistarli, oppure è meglio muoversi in altro modo. Non ha senso dire “abbiamo conquistato degli asset però mettiamo i soldi come garanzia”. Perché il rischio di doverli dare alla Russia è altissimo. Porto un esempio».
Quale?
«Nel porto di Trieste c’è lo yacht di un oligarca russo. Il sequestro sta già costando all’Italia delle cifre spropositate. Quando sarà confiscato potrà essere venduto e si incasseranno i soldi. Solo allora si potranno utilizzare. Ma utilizzare i soldi russi dovendo però mettere quelli del Mes a garanzia è un ragionamento che non torna».
Forse questa sua posizione è legata anche al “no” M5S all’invio delle armi in Ucraina?
«Sono due discorsi diversi. Noi vogliamo aiutare l’Ucraina finanziariamente e nella fase della ricostruzione. Già nel governo Conte II eravamo contrari all’utilizzo del Mes perché ha condizioni non convenienti. Ma rimane una tipologia di prestito meno impegnativo, più diretto e rapido, senza dover attendere i ricorsi dei russi e la restituzione non solo dei soldi degli asset ma anche di quelli del Mes».