
(di Jonathan Lemire – The Atlantic) – Per un decennio, i comizi di Donald Trump sono stati intrecciati alla sua identità politica. Le sue grandi folle erano il modo in cui inizialmente aveva costretto i media e il Partito Repubblicano a prenderlo sul serio, e gli fornivano un riscontro in tempo reale.
Ma sono passati molti mesi dall’ultima volta che Trump ha organizzato un vero comizio in stile campagna elettorale. Ha optato invece per viaggi all’estero, partite di golf nei suoi club privati e cene con amici facoltosi, leader d’impresa e grandi donatori.
Oltre ai comizi, Trump ha drasticamente ridotto discorsi, eventi pubblici e viaggi interni rispetto al primo anno del suo primo mandato. E questa mancanza di contatto regolare con gli elettori ha alimentato un crescente timore tra i repubblicani e gli alleati della Casa Bianca: che Trump sia troppo isolato e sia diventato fuori dal mondo rispetto a ciò che il pubblico desidera dal suo presidente.
Ogni presidente, naturalmente, deve fare i conti con il rischio di vivere in una bolla, isolato dalle richieste del suo ruolo e dalle straordinarie esigenze di sicurezza legate all’incarico. Ma nel suo ritorno alla presidenza quest’anno, Trump raramente ha attraversato il Paese andando altrove che nei suoi club.
Inoltre, vive in una sorta di silo informativo, guardando canali via cavo dell’estrema destra come One America News Network e Newsmax insieme a Fox News. Anche il suo consumo di social media si è ristretto: invece di stare sull’app un tempo chiamata Twitter, dove occasionalmente intercettava opinioni contrarie, ora pubblica esclusivamente su Truth Social, che possiede e dove è circondato da adulanti. E il personale della sua Casa Bianca, questa volta composto in larga parte da veri credenti e yes-men (e poche yes-women), non fa che rafforzare la camera dell’eco.
Chi gli sta attorno, e tutto ciò che lui vede in TV e sul telefono, gli sta dicendo che ha ragione. Ma sondaggio dopo sondaggio suggerisce che gli americani credono che ora Trump stia sbagliando e abbia perso di vista ciò che lo ha portato all’elezione.
Ho analizzato l’agenda dei viaggi di Trump dall’autunno del 2017, il primo anno del suo primo mandato, e l’ho confrontata con quella di quest’autunno, e sono rimasto sorpreso dal calo.
All’epoca, viaggiava per il Paese più di una dozzina di volte tra settembre e novembre per parlare ai lavoratori del settore energetico in North Dakota, raccogliere sostegno in Alabama per un candidato al Senato, ed esporre direttamente la sua agenda ai sostenitori. Nello stesso periodo di quest’anno, ha viaggiato a malapena.
Quest’autunno è uscito dall’area metropolitana di Washington, dal suo club del New Jersey e dalla Florida, dove si trova Mar-a-Lago, solo cinque volte. Quattro di questi viaggi interni erano a New York, inclusi tre per trascorrere del tempo con amici ricchi in lussuose tribune di eventi sportivi. L’altro viaggio era per partecipare a riunioni delle Nazioni Unite, ma è rimasto solo una notte, contro le cinque del 2017. Il quinto viaggio è stato in Arizona, per partecipare al memoriale di Charlie Kirk.
Anche l’unico ambito in cui Trump ha aumentato i viaggi lo ha allontanato dagli americani; quest’autunno ha fatto tre viaggi internazionali, contro uno solo otto anni fa.
Alcuni dei suoi sostenitori più fedeli del MAGA, come Laura Loomer e Stephen Bannon, lo hanno esortato a frenare il girovagare per il mondo e concentrarsi sui problemi interni. Marjorie Taylor Greene ha dichiarato che “vorrebbe vedere l’Air Force One parcheggiato e fermo a casa” (in seguito ha rinnegato il suo sostegno a Trump e ha annunciato le dimissioni dal Congresso). La mancanza di viaggi negli Stati Uniti, temono alcuni alleati, ha compromesso il suo fiuto politico.
I repubblicani vogliono che Trump, anche con numeri nei sondaggi bassi, torni in viaggio nel 2026 per convincere gli elettori che tendono a presentarsi solo per lui a sostenere altri repubblicani. (Il GOP subì pesanti perdite alle prime elezioni di metà mandato di Trump, nel 2018.) Trump è molto preoccupato per le elezioni di metà mandato; sa che se i democratici conquistassero uno dei rami del Congresso, avrebbero in mano il potere di emettere citazioni e paralizzerebbero la sua amministrazione con indagini. Ma il ruolo che avrà nelle campagne dell’anno prossimo resta incerto.
La portavoce della Casa Bianca, Karoline Leavitt, mi ha detto che anche quando Trump ha viaggiato all’estero, il suo “obiettivo è stato ottenere accordi per gli americani a casa.” E ha aggiunto che ha intenzione di “essere là fuori attivamente a fare campagna per i candidati repubblicani prima delle loro vittorie nelle elezioni di metà mandato del prossimo autunno.”
Dal 2015, Trump afferma di aver tenuto più di 900 comizi, rendendoli gli eventi simbolo di quest’era della politica americana. Ha continuato a farli persino nel pieno della pandemia, nel 2020, e in seguito al tentato assassinio dello scorso luglio a un comizio a Butler, in Pennsylvania.
Il suo ultimo comizio elettorale si è tenuto a Grand Rapids, Michigan, nelle prime ore del Giorno delle Elezioni. Lì, Trump si è rivolto a pochi stretti collaboratori e ha detto, con un misto di tristezza e sollievo, che pensava sarebbe stato il suo ultimo, mi ha detto una persona che ha ascoltato le sue parole. Alcuni mesi dopo, in aprile, Trump ha organizzato un evento più piccolo, simile a un comizio, sempre in Michigan, per celebrare i 100 giorni in carica. Ma i comizi roboanti per cui è noto si sono fermati.
Non è l’unico modo in cui si è isolato. In questo mandato, ci sono pochissime voci all’interno della Casa Bianca in grado di dirgli di no o di riportarlo sui binari. E questo è voluto.
All’inizio del suo primo mandato, Trump aveva composto la sua squadra con un mix di veterani di precedenti amministrazioni repubblicane e figure dell’establishment del GOP, che moderavano alcuni dei suoi impulsi più estremi. Ma Trump mal sopportava quegli argini.
Nel 2025, si è circondato di facilitatori—non figure come John Kelly, Rex Tillerson e James Mattis. Trump si fida dei suoi istinti e indica la sua storica rielezione come prova che è il suo miglior consigliere. La sua capo di gabinetto, Susie Wiles, ha chiarito che non vede il suo ruolo come quello di contenere il presidente. Inoltre, non c’è un leader repubblicano dall’altra parte di Pennsylvania Avenue che possa interpretare il ruolo di Mitch McConnell nel bilanciare il potere di Trump.
E sebbene Trump continui a chiamare i suoi vecchi amici a New York, lo fa meno frequentemente rispetto al suo primo mandato, mi ha detto una persona informata sulle telefonate, privando il presidente di un riscontro sincero da parte di persone che lo conoscono da decenni e potrebbero non essere d’accordo con lui su ogni questione. Al contrario, la sua attenzione è rivolta ai magnati e ai miliardari con cui spesso ha cenato alla Casa Bianca e a Mar-a-Lago, che vogliono qualcosa da lui e gli dicono ciò che vuole sentirsi dire.
Trump rimane nella camera dell’eco del MAGA anche quando è solo nella residenza della Casa Bianca o nella sala da pranzo privata adiacente allo Studio Ovale. Sì, occasionalmente guarda MSNOW o CNN, ma i suoi televisori sono quasi sempre sintonizzati su Fox News, OAN e Newsmax, che praticamente non trasmettono mai notizie negative sul presidente. (Fox non ha nemmeno mandato in onda la recente conferenza stampa con le vittime di Epstein.) Lo stesso vale per il suo telefono: Truth Social fornisce un flusso di elogi da parte di devoti ammiratori, oltre a contenuti generati dall’IA e altri post provocatori che fanno leva sugli istinti politici più basilari del presidente.
Nemmeno due settimane fa, Trump ha amplificato un post che diceva “IMPICCATELI LO FAREBBE GEORGE WASHINGTON!!” mentre chiedeva che venissero presentate accuse di sedizione contro sei parlamentari democratici che avevano creato un video esortando i membri delle forze armate a ignorare ordini illegali. Poco dopo, Trump ha pubblicato un suo appello all’esecuzione dei parlamentari. Ancora una volta, le speranze dei repubblicani che Trump si concentrasse sui temi cari agli elettori sono rimaste disattese.
Vitali per elettronica, fonti rinnovabili e armamenti, Pechino usa il monopolio su questi minerali come leva nel confronto economico con Usa ed Europa. Ma il problema è la nostra dipendenza dalle forniture a basso costo

(di Giulio Alibrandi – tpi.it) – Sono presenti negli smartphone, nelle batterie, negli schermi televisivi e nei veicoli elettrici. Ma anche nei motori dei jet, nei sistemi radar e nei missili. Definite “critiche” o “essenziali” per diversi settori strategici, le terre rare sono ritenute da molti esperti uno dei principali punti deboli delle economie occidentali nello scontro con la Cina.
Pechino, secondo l’Agenzia internazionale per l’energia, estrae il 50 per cento delle terre rare del mondo ma ne raffina più del 75 per cento. Una supremazia che ha assegnato a Pechino un quasi monopolio nella fornitura dei materiali, come i magneti, realizzati con questi 17 elementi, fino a renderli una delle pedine di scambio per la Cina nella guerra commerciale scatenata da Donald Trump.
Supremazia globale
Questo predominio non è tanto il risultato dalla disponibilità di terre rare nel sottosuolo ma del vantaggio tecnologico acquisito nell’estrazione e nella raffinazione, attività considerate dai Paesi acquirenti troppo costose e sporche. Per questo i Paesi occidentali hanno progressivamente abbandonato le produzioni legate a questi elementi, che, a dispetto del nome, sono tutt’altro che rari in natura. Piuttosto la difficoltà negli ultimi anni è stata quella di reperire produttori su larga scala indipendenti dalla Cina, che ha accumulato competenze altamente specializzate nella lavorazione dei materiali usati per poi realizzare magneti particolarmente potenti e resistenti al calore, impiegati nelle auto elettriche, nelle turbine eoliche e nei dispositivi elettronici.
Già negli scorsi anni Pechino ha utilizzato la leva delle terre rare per bloccare le forniture durante periodi di tensione con i Paesi acquirenti. La prima volta risale al 2010, quando Pechino aveva limitato le spedizioni verso il Giappone a seguito di un caso internazionale legato all’arresto del capitano cinese di un peschereccio.
Nel 2023 la Cina ha formalizzato il blocco all’export di tecnologie per l’estrazione e la separazione delle terre rare, oltre che delle tecnologie per la produzione dei relativi magneti, dopo aver per anni scoraggiato questo tipo di esportazioni. Un provvedimento giustificato con la tutela della sicurezza nazionale e dell’interesse pubblico, che mirava a difendere il vantaggio acquisito dall’industria cinese in un momento di tensione con l’Occidente.
L’intervento più significativo della Repubblica popolare cinese risale però allo scorso aprile quando ha imposto restrizioni all’esportazione di materiali relativi a sette terre rare (samario, gadolinio, terbio, disprosio, lutezio, scandio e ittrio), a cui ne ha aggiunti altri cinque a ottobre (olmio, erbio, tulio, europio e itterbio), e diversi magneti permanenti a esse associati.
Come parte delle misure adottate in risposta ai dazi del “Liberation Day” di Donald Trump, Pechino ha introdotto una nuova procedura , chiedendo ai clienti stranieri di dotarsi di licenze per l’esportazione. Un meccanismo che ha portato a procedure notevolmente rallentate per l’acquisto di terre rare, causando disagi in settori strategici come quello automobilistico, della difesa e della tecnologia, con un calo del 75 per cento delle esportazioni di magneti permanenti.
Nonostante gli appelli trasversali a rimpatriare la produzione di terre rare, alcuni commentatori rimangono scettici sulla reale centralità di questi elementi. La questione, in base a questo punto di vista, non dovrebbe essere tanto quello dell’importanza delle terre rare e dei cosiddetti “minerali critici”, quanto quella della dipendenza dei produttori occidentali da forniture a basso costo.
Questione di prezzo
In termini strettamente monetari la rilevanza di questi materiali non è evidente. Nel 2024 gli Stati Uniti hanno importato solamente 170 milioni di dollari di terre rare, un ventesimo di quanto ha speso nello stesso anno per l’importazione di avocado (3,4 miliardi), mentre nello stesso anno il valore per l’Unione Europea era di 101 milioni di euro. A citare questo esempio è Javier Blas, commentatore di Bloomberg che si occupa di energia e materie prime, secondo il quale è sbagliato considerare questi materiali “critici”, tali cioè che la loro scarsità possa produrre effetti disastrosi su un’intera economia. Questo perché, in caso di una nuova sospensione delle forniture di terre rare, i disagi sarebbero sempre limitati ad alcuni settori dell’economia, che si troverebbero ad affrontare prezzi più alti. Sarebbe quindi il caso di parlare di materiali che provocano solo qualche «grattacapo». Il problema reale delle terre rare, secondo Blas, è che «costano troppo poco» offrendo un mercato poco redditizio per chi deve competere con la Cina. La soluzione è nell’innovazione, per trovare soluzioni tecnologiche alternative come già avvenuto in passato: «lasciate che i prezzi aumentino e l’offerta arriverà». Anche Andy Home, che scrive del mercato dei metalli per Reuters, propone la «distruzione della domanda» come soluzione al problema. I produttori di automobili dovrebbero, secondo Home, tornare a valutare alternative alle terre rare nella progettazione dei loro motori, privando le aziende cinesi della domanda per i materiali realizzati con terre rare. Una strada percorsa già in passato dopo il boom dei prezzi seguito alle prime restrizioni imposte dalla Cina nel 2010.
All’epoca diversi produttori di veicoli elettrici e ibridi avevano ridotto l’utilizzo di terre rare nei propri mezzi. Tra questi Renault, che era arrivata a sviluppare un motore privo di magneti permanenti per il suo modello ZOE. La tendenza era confermata dai numeri: secondo le stime di Adamas Intelligence, la quota di veicoli elettrici con motori privi di terre rare era aumentata da meno dell’1 per cento nel 2010 al 12 per cento nel 2017. Poi, con il calo dei prezzi, le terre rare sono tornate in voga, tanto che circa il 97 per cento di tutti i veicoli elettrici venduti ogni anno dal 2017 usano motori con terre rare.
Filiere strategiche
In attesa di innovazioni future, o di scelte diverse a livello politico, il tema continua ad avere un’importanza primaria sul piano geopolitico ed è stato al centro di intense trattative tra la Cina e i Paesi occidentali. Dopo l’incontro a fine ottobre tra Trump e Xi Jinping, Pechino si è impegnata a sospendere le ultime restrizioni introdotte a ottobre. Non è la prima intesa raggiunta negli ultimi mesi, in cui Pechino aveva già acconsentito a riprendere le esportazioni in cambio di alcune concessioni sugli scambi commerciali, senza che gli ostacoli alle esportazioni fossero mai del tutto eliminati. In particolare questo ultimo via libera non si è esteso ai produttori di armamenti occidentali a cui Pechino sta continuando a limitare le forniture di terre rare. Una disputa che, osserva il Wall Street Journal, mette in evidenza come le filiere militari statunitensi dipendano anche dalla Cina. Finora le aziende occidentali hanno faticato a replicare tecnologie avanzate, come quelle che rendono le aziende cinesi altamente competitive nell’estrazione con solventi, a causa di preoccupazioni ambientali ma anche della minore efficacia dell’intervento pubblico.
Il braccio di ferro sta quindi spingendo i Paesi occidentali a prendere in considerazione nuovi approcci. Uno dei vincitori di questa corsa al “reshoring” è indubbiamente MP Materials, un’azienda di Las Vegas che a luglio si è aggiunta al ristretto novero delle aziende private che hanno ricevuto un investimento diretto dal governo statunitense.
Il caso MP
Con una somma di 400 milioni di dollari il Pentagono è infatti diventato il principale azionista dell’azienda che gestisce l’unica miniera di terre rare degli Stati Uniti. Si tratta del sito di Mountain Pass, in California, sede negli anni ’70 e ’80 della più grande miniera di terre rare al mondo, che la forte concorrenza cinese, e il conseguente crollo dei prezzi, hanno portato alla chiusura nel 2002. Uno dei creditori dell’azienda a cui apparteneva la miniera, nel frattempo fallita, ha deciso di puntare sul rilancio del sito, arrivando poi a fondare MP Materials nel 2017. La speranza di James Litinsky era di cavalcare l’ascesa di Tesla e la crescente domanda di materiali per realizzare veicoli elettrici. Ma la concorrenza cinese, e il crollo dei prezzi delle materie prime, hanno ancora una volta complicato tutto, trascinando al ribasso le azioni della società, che hanno perso il 70 per cento del proprio valore tra il 2021 e il 2024. Con le tensioni degli ultimi mesi c’è stata però una svolta, tanto che da inizio anno il titolo ha guadagnato più del 200 per cento, con un balzo del 48 per cento dopo la notizia dell’accordo con il Pentagono.
Con l’investimento annunciato il 10 luglio il dipartimento della Difesa statunitense ha rilevato una quota del 15 per cento nella società, diventandone il principale azionista. Un tipo di interventismo a cui negli ultimi decenni a cui si è assistito solamente quando si è trattato di salvare di aziende di importanza sistemica, come durante la crisi del 2008, o, come in questo caso, per sostenere lo sviluppo di tecnologie ritenute cruciali per gli interessi nazionali.
Lo sfruttamento di Mountain Pass non sembra di per sé in grado di risolvere il problema delle terre rare negli Stati Uniti, dato che nella miniera sono presenti principalmente terre rare leggere e solo in misura minore terre rare pesanti, fondamentali per la produzione di magneti permanenti. L’aspetto più significativo dell’accordo sembra essere piuttosto nelle garanzie offerte dal governo statunitense, che promettono di cambiare il volto al settore. L’elemento centrale è la fissazione di un prezzo minimo per 10 anni dell’ossido di neodimio e praseodimio, usato nella produzione di magneti permanenti a loro volta impiegati nella produzione di motori elettrici e di turbine eoliche. Il prezzo di 110 dollari al chilo, è quasi il doppio di quello di mercato di circa 60 dollari, garantendo che l’azienda non subirà perdite in caso di un’improvvisa impennata dell’offerta di minerali.
La società cesserà inoltre di vendere a Shenghe, una società partecipata dallo stato cinese da cui MP lo scorso anno ha generato la maggior parte dei suoi ricavi, che detiene anche una quota minoritaria della stessa MP. Infine il dipartimento della Difesa garantirà per 10 anni l’acquisto di tutti i magneti prodotti in un nuovo impianto, chiamato 10X, che dovrà entrare in funzione a partire dal 2028, con un finanziamento di un 1 miliardo di dollari da JPMorgan e Goldman Sachs e l’obiettivo di portare la capacità di produzione di magneti della società a 10.000 tonnellate all’anno. Pochi giorni dopo l’annuncio, anche un colosso come Apple ha dichiarato che pagherà in anticipo 200 milioni di dollari per acquistare i magneti di MP Materials, che saranno utilizzati negli iPhone e nei suoi computer, con consegna a partire dal 2027.
La concorrenza di chi?
Questo livello di interventismo ha provocato più di qualche malumore tra i concorrenti all’interno del settore, da cui sono trapelate accuse al governo statunitense di voler distorcere il mercato e di inseguire il modello cinese. Un timore è che, grazie alle garanzie straordinarie offerte a MP, l’azienda avrà maggiore margine per fare proposte a ribasso, sbaragliando la concorrenza. Ma rimane la consapevolezza della necessità dell’intervento pubblico, anche se richiama l’approccio del principale partito comunista al mondo. «Sosteniamo costi maggiori e abbiamo un costo del capitale maggiore», ha dichiarato Neal Froneman, amministratore delegato del colosso minerario Sibanye-Stillwater, che prima dell’accordo aveva invocato in un’intervista al Financial Times l’adozione di un prezzo minimo, per sostenere investimenti che altrimenti non sarebbe possibile affrontare. «C’è bisogno di una qualche forma di sostegno per renderci competitivi, perché il modello è quello di un sistema capitalista occidentale. Gli azionisti pretendono rendimenti».
I partiti di maggioranza hanno deciso di creare un comitato unico per la campagna referendaria. Per la presidenza si pensa all’ex direttore del Giornale, ma anche a Cassese e Zanon. Nel Pd invece regna il terrore: nessun comitato per il No. I dem vanno al traino dell’Anm

(Ermes Antonucci – ilfoglio.it) – Impensieriti da alcuni sondaggi che riducono la forbice tra favorevoli e contrari, i partiti della maggioranza (su input di Fratelli d’Italia) hanno deciso di promuovere la creazione di un comitato unico del centrodestra per il Sì al referendum sulla giustizia. La caccia al testimonial è iniziata. Il sogno è Sabino Cassese, ma l’ex giudice della Corte costituzionale non sarebbe intenzionato a scendere in campo in prima persona. Un altro profilo quotato è quello di Nicolò Zanon, anche lui ex giudice della Consulta. Ma si fa spazio anche il nome di Alessandro Sallusti, fino al mese scorso alla guida del Giornale. A sinistra il Pd vive nel terrore: i dirigenti non se la sentono di istituire un comitato per il No per la paura della sconfitta. I dem vanno al traino dell’Anm. La rappresentazione plastica della subordinazione dell’opposizione alle toghe.
La decisione di istituire un comitato unico per il Sì al referendum è stata presa dai vertici dei partiti di maggioranza nel corso di una riunione tenutasi martedì nella sede romana di Fratelli d’Italia. Presenti Arianna Meloni (responsabile della segreteria politica e del tesseramento di FdI), Giovanni Donzelli (responsabile organizzazione di FdI), Galeazzo Bignami (capogruppo alla Camera di FdI), Enrico Costa e Pierantonio Zanettin (responsabili dei comitati per il Sì di Forza Italia, che lavoreranno insieme a Giorgio Mulè, nominato coordinatore della campagna referendaria), la deputata Simonetta Matone (Lega) e Gaetano Scalise (responsabile giustizia di Noi moderati). La creazione del comitato non rappresenta una retromarcia di Palazzo Chigi rispetto al proposito di non politicizzare l’appuntamento referendario: il comitato per il Sì, pur promosso dalle segreterie dei partiti di centrodestra, coordinerà la sua azione con quella degli altri comitati nati nel frattempo (il “Comitato per il sì” dell’Unione camere penali; “SìSepara”, istituito dalla Fondazione Einaudi; “Cittadini per il sì”, presieduto dalla senatrice Francesca Scopelliti, ex compagna di Enzo Tortora; il comitato “Giuliano Vassalli”, promosso da Stefania Craxi), e soprattutto non avrà alla sua guida un esponente di partito o politico.
Il sogno proibito, come detto, è Sabino Cassese, capace di unire autorevolezza ed efficacia comunicativa, ma avrebbe già fatto sapere di non voler fare campagna referendaria in prima persona, ancor di più se sotto l’ombrello partitico. Un altro nome di rilievo avanzato nel corso del vertice è quello di Nicolò Zanon, giudice costituzionale fino al novembre 2023. I magistrati in servizio favorevoli alla riforma non mancano, ma sono pochissimi quelli disponibili a esporsi (anche a causa del peso ancora esercitato dalle correnti, vere vittime dell’eventuale vittoria del Sì). A quanto risulta al Foglio, nella discussione è spuntato a sorpresa anche il nome di Alessandro Sallusti, che ha lasciato la guida del Giornale a fine novembre. Nei prossimi mesi Sallusti si dedicherà alla preparazione di uno spettacolo teatrale che debutterà a fine gennaio, ma anche – altra sorpresa – alla scrittura di un terzo libro con Luca Palamara incentrato sulle degenerazioni della magistratura e delle sue correnti, dopo il successo avuto con “Il sistema”.
A sinistra invece regna il terrore. Nel Partito democratico, Elly Schlein e gli altri alti dirigenti non sarebbero convinti dell’idea di istituire un comitato per il No, scelta che poi sarebbe coerente con il voto contrario alla riforma costituzionale espresso in Parlamento, per gli effetti che questo comporterebbe in caso di sconfitta al referendum. L’ennesima manifestazione di tanatosi: fingersi morti, come gli opossum, di fronte a una “minaccia” (se così può essere concepita l’idea stessa del fare politica, cioè portare avanti le proprie convinzioni pur con l’eventualità che queste poi si rivelino non maggioritarie).
D’altra parte, tra i dem è palpabile un certo imbarazzo, dal momento che la riforma della separazione delle carriere è stata proposta in passato da autorevoli esponenti proprio del centrosinistra: da Giuliano Vassalli ai parlamentari del Pds nella Bicamerale D’Alema, fino ad arrivare alla mozione Martina del 2019. Insomma, nel caso in cui il Pd istituisse un comitato per il No sarebbe difficile pensare di affidarne la gestione alla responsabile del partito, Debora Serracchiani, che nel 2019 fu tra i firmatari della mozione Martina che prevedeva espressamente la separazione delle carriere tra pm e giudici. In questo contesto, paradossalmente nel centrosinistra i più attivi sono quelli favorevoli alla riforma: il 12 gennaio a Firenze si terrà un evento dal titolo “La sinistra per il Sì”, che vedrà la partecipazione di volti storici del Pd, come Enrico Morando, Marco Boato, Giovanni Pellegrino, Cesare Salvi, Stefano Ceccanti, Anna Paola Concia.
Il principale partito di opposizione rischia così di presentarsi al referendum al traino dell’Associazione nazionale magistrati, che invece sta investendo moltissime risorse per finanziare le iniziative del suo comitato per il No. Uno scenario che decreterebbe la definitiva, surreale soggezione del Pd alla magistratura associata.
I COMMISSARI DI ARERA IN USCITA SI ALZANO LO STIPENDIO

(ANSA) – Aumento della retribuzione al nuovo tetto dei dipendenti pubblici è stato deciso anche dai commissari Arera in uscita, a 10 giorni dalla nomina dei nuovi vertici che, deciso in settimana dal Cdm, è ora in attesa delle ultime formalità.
I commissari si sono adeguati, retroattivamente, lo stipendio dopo la sentenza della Consulta che ha fatto saltare il tetto alle retribuzioni dei dirigenti pubblici. Con una delibera approvata lo scorso 25 novembre hanno deciso di cancellare il vecchio limite, con un incremento di salario annuo pari a 70mila euro, appostando però “in attesa di chiarimenti” le somme per i cinque mesi di attività dalla decisione della Corte Costituzionale.
A rivelare la decisione, che segue quella adottata dal presidente del Cnel Renato Brunetta che ha poi rinunciato dopo le polemiche, è un articolo pubblicato oggi su Il Messaggero e Il Mattino. “Un bonus all’ultimo miglio. Settantamila euro. Con venti giorni di anticipo sul Natale – riporta il quotidiano – e a dieci giorni dalla nomina in Cdm dei nuovi componenti il collegio uscente di Arera, l’autorità indipendente che regola le reti di pubblica utilità, ha deciso di aumentarsi lo stipendio”.
La delibera, che attualmente non è tra quelle pubblicate sul sito dell’Autorità che invece riporta le altre decisione del 25 novembre, ha nel titolo “Abrogazione del limite retributivo dei dipendenti pubblici”.
Dal momento che la Corte Costituzionale ha dichiarato incostituzionale il tetto ai dipendenti pubblici e “in attesa di ulteriori approfondimenti normativi”, i cinque commissari di Arera guidati dal presidente Stefano Besseghini hanno votato la delibera: “Si ritiene opportuno – è scritto nel testo riportato dai due quotidiani – rideterminare e accantonare gli emolumenti spettanti ai componenti del Collegio secondo quanto stabilito dalla normativa previgente alla sentenza stessa della Corte Costituzionale”.
“La variazione a copertura dei maggiori oneri per le indennità al Presidente e ai Componenti del Collegio dell’Autorità viene, pertanto, stimata in aumento per un importo pari a 70.000,00 euro”, indica la delibera. L’aumento delle indennità sarà spalmato sugli ultimi cinque mesi dell’anno, da agosto a dicembre 2025, perché la sentenza della Consulta che ha annullato il tetto retributivo dei manager pubblici risale a luglio scorso.
Conti alla mano – è calcolato nell’articolo – si tratta di circa 2.800 euro in più al mese per ognuno dei commissari dell’Authority che regola le reti pubbliche. Secondo il quotidiano, i cinque commissari in uscita – oltre a Besseghini, Gianni Castelli, Andrea Guerrini, Stefano Saglia e Clara Poletti – hanno incassato già oggi il massimo stipendio possibile per legge: 255mila euro lordi annui come indicato sul sito ufficiale.
ARERA: FREGOLENT, SU AUMENTO STIPENDI SCANDALOSO BLITZ DI NATALE
(ANSA) – “Mentre famiglie e imprese fanno i conti con aumenti e rincari, c’è chi pensa bene di farsi un regalo di Natale con soldi pubblici. Il blitz dell’ultimo minuto dei commissari uscenti dell’Arera è scandaloso: un aumento di 70 mila euro approvato a fine mandato, peraltro nemmeno meritato visto i numerosi ricorsi al Tar persi e l’incapacità dimostrata nel vigilare davvero sulle bollette, è uno schiaffo in faccia a pensionati, giovani e alle famiglie che non arrivano a fine mese e per le quali non si sono trovate risorse adeguate in questa inutile manovra”.
Così la senatrice di Italia Viva Silvia Fregolent, che aggiunge: “Un film già visto, purtroppo, dopo il caso Brunetta al Cnel. Ci dicono che non ci sono risorse per scuola, sanità, sicurezza, ma quando si tratta di alzarsi lo stipendio all’ultimo secondo, improvvisamente i soldi saltano fuori. Si chiedono sacrifici agli italiani e si concedono privilegi ai vertici”, conclude.
Il nostro è l’unico Paese europeo che mantiene assoluta riservatezza sugli aiuti militari: Repubblica ha ricostruito una serie di equipaggiamenti e mezzi concessi gratuitamente per aiutare Kiev a difendersi dai russi. Un lavoro realizzato sulla base delle informazioni e delle immagini trapelate dai campi di battaglia, oltre che da fonti militari ucraine

(di Gianluca Di Feo – repubblica.it) – Il dibattito sul nuovo “decreto armi” per sostenere la resistenza di Kiev divide i partiti e l’opinione pubblica in maniera trasversale. Una discussione di principio, perché nessuno conosce quanti e quali equipaggiamenti bellici siano stati consegnati all’Ucraina: l’Italia è l’unico Paese europeo che mantiene il segreto assoluto sugli aiuti militari. Una linea introdotta dal governo Draghi, che nella primavera 2022 è stata condivisa da Francia e Germania. Poco alla volta tutte le altri capitali hanno scelto la trasparenza: donazioni, contratti e corsi di addestramento per le truppe ucraine vengono pubblicizzati o addirittura propagandati. Solo nel nostro Paese è rimasta la consegna del silenzio, che impedisce di sapere quale sia il contributo nazionale alla lotta contro l’invasione.
Repubblica ha ricostruito una serie di armamenti e mezzi concessi gratuitamente dall’Italia. Un lavoro realizzato sulla base delle informazioni e delle immagini trapelate dai campi di battaglia, oltre che da fonti militari ucraine. Questo metodo offre una certezza sui modelli mentre sui numeri circolano stime diverse. Allo stesso tempo, è difficile quantificare il valore economico perché si tratta sempre di materiali di seconda mano: come riferimento è stato indicato il prezzo d’acquisto.Una piccola quantità è stata prelevata dai reparti in servizio, quasi esclusivamente durante l’esecutivo Draghi: il principale contributo dell’esecutivo Meloni sono le batterie contraeree Samp-T, le più costose in assoluto.
La maggioranza dei materiali invece proviene dai depositi delle dismissioni e in molti casi attendeva la demolizione. L’ammodernamento dei mezzi è stato quasi sempre sovvenzionato da altre nazioni, con la supervisione del coordinamento internazionale di Ramstein, in particolare dagli Stati Uniti durante l’amministrazione Biden. Non risulta invece che Roma – contrariamente ad altre capitali europee – abbia elargito finanziamenti all’Ucraina per l’acquisto o la produzione di armi.
Non ha partecipato al consorzio internazionale gestito da Praga per comprare munizioni d’artiglieria. Anche l’adesione al programma Purl varato da Donald Trump, che prevede la costruzione negli Usa di sistemi bellici per Kiev pagati da governi della Nato, non è stata ratificata. Non ci sono infine informazioni attendibili sui soldati ucraini addestrati nel nostro Paese: si tratterebbe però di minuscole unità specializzate. Questa lista è sicuramente riduttiva. Va sottolineato che il sostegno bellico appare di gran lunga inferiore a quello di altre nazioni europee: non solo di Germania, Gran Bretagna, Francia, Polonia ma anche di Spagna, Olanda, Belgio, Danimarca e Repubblica Ceca.
Sono batterie contraeree mobili di produzione italo-francesi, tra le più moderne al mondo. Ognuna è composta da un radar, una centrale di tiro e quattro lanciatori di missili. Il costo è di circa mezzo miliardo. L’Italia ne ha fornita una interamente nazionale e una insieme alla Francia: di quest’ultima abbiamo consegnato la centrale di tiro mentre i francesi hanno dato radar e lanciatori. Secondo fonti ucraine, dall’inizio dell’estate le batterie hanno esaurito i missili. Macron ha promesso di fornirne altri; il nostro governo ritiene che le riserve al minimo non permettano altre cessioni.

Sono i missili a lungo raggio di produzione europea per il Samp-T. Intercettano aerei e cruise ma hanno limitate capacità contro gli ordigni balistici e ipersonici. Ogni missile costava più di 1,5 milioni. Si ipotizza che l’Italia ne abbia consegnati una ventina, ma non ci sono conferme.

Sono missili terra-aria portatili di fabbricazione americana in dotazione al nostro Esercito. Costano circa 400 mila euro. L’Italia nel 2022 ne avrebbe ceduti una decina.

Sono i più moderni semoventi cingolati con un cannone da 155 millimetri. Possono sparare fino a otto colpi in un minuto, a una distanza di 30-40 chilometri. Sono di progettazione tedesca e vengono circa 18 milioni a esemplare. Ne sarebbero stati consegnati cinque: l’Italia ne aveva 68.

I più avanzati semoventi cingolati americani, in grado di lanciare dodici razzi pesanti. Possono venire convertiti all’uso dei missili Himars. Costano oltre cinque milioni. Ne avremmo donati due, in tutto ne avevamo 18.

Cannoni da 155 millimetri prodotti negli anni Settanta e ancora in servizio con l’artiglieria. L’età rende difficile stimarne il valore commerciale. Fonti ucraine sostengono ne siano stati consegnati venti-trenta, parte dei quali completi di camion per il traino, a partire dall’estate 2022. I reparti di Kiev li hanno apprezzati, anche se la maggioranza è già andata distrutta o ha logorato le canne.

Sono le munizioni calibro Nato per l’artiglieria pesante. L’Italia ne ha prelevato una piccola parte dalle riserve, mentre altri proiettili “scaduti” vengono “rivitalizzati” per la consegna all’Ucraina. Non ci sono stime affidabili sui numeri: vanno da un minimo di 60 mila colpi a oltre il doppio.

Fuoristrada a prova di mina di progettazione italiana, venduti anche alla Russia prima del 2014. Gli ucraini ne hanno catturati diversi agli invasori e ne hanno ricevuti altri da Londra, Oslo e Madrid. Roma ne avrebbe donati una ventina: almeno un paio sono stati distrutti a Bakhmut.

Nella primavera 2022 sono state trasferite mitragliatrici M2 e MG42/59, costruite negli anni Sessanta e ancora in servizio. Si ipotizza fossero in tutto un centinaio.
Lanciarazzi controcarro di produzione tedesca, forniti nella primavera 2022. Costano circa 8 mila euro. Ne sarebbero state date alcune decine.

Batterie missilistiche terra-aria dismesse dall’Esercito. Ne sarebbero state consegnate due, con una cinquantina di missili: l’aggiornamento è stato in parte finanziato da altri Paesi. I russi hanno distrutto uno dei radar Skyguard e almeno uno dei veicoli speciali per la ricarica dei missili.

Semoventi cingolati con cannone da 155 millimetri. Costruiti in Italia su licenza americana negli anni Settanta, fuori servizio da trent’anni, erano destinati alla rottamazione. I mezzi per l’Ucraina sono stati restaurati con fondi americani, in Italia e all’estero. Le stime sui semoventi consegnati vanno da 40 a 80; alcuni troppo malmessi e utilizzati per prelevare pezzi di ricambio. Gli artiglieri di Kiev li hanno apprezzati per la facilità di riparazione: la maggioranza sarebbe stata distrutta nei combattimenti.

Cingolati blindati per il trasporto truppe, accantonati da un quarto di secolo e in attesa di demolizione. Negli ultimi mesi è stata fornita anche la versione nazionale VCC1 detta “Camillino”. Nonostante l’età, gli ucraini li ritengono fondamentali per dare una protezione contro i droni alle unità che portano rifornimenti in prima linea. Sui numeri le stime vanno da 100 a 200, con restauri condotti soprattutto all’estero.

Autoblindo pesanti con cannone da 105 millimetri e otto ruote motrici: il nostro Esercito le sta sostituendo con una nuova versione. Sono le ultime apparse nei reparti dei parà ucraini schierati a Pokrovsk, che le hanno dotate di protezioni antidrone e le considerano ottime. Le ipotesi sui numeri vanno da 20 a 40.

Autoblindo leggere a quattro ruote motrici. Sono state ritirate da quindici anni e adesso stanno venendo consegnate a Kiev. Si parla di venti-trenta esemplari.

Cingolati da montagna degli alpini, che li stanno rimpiazzando con un altro mezzo. Gli ucraini li usano per trainare rifornimenti e cannoni: ne sarebbero stati donati una dozzina.

Missili antitank filoguidati francesi prodotti negli anni Settanta e fuori servizio dagli anni Novanta. Si ipotizza siano stati trasferiti una cinquantina di lanciatori e alcune centinaia di missili.

Armi da 120 millimetri a canna liscia, dismesse dagli anni Novanta. Ne sono state consegnate alcune decine, con scorte di munizioni, nella primavera 2022: una parte è stata catturata dai russi a Mariupol.

L’America applica la dottrina Vance. Ora l’Ue, se esiste, è chiamata alla definizione rapida di un suo spazio politico e strategico

(Giuliano Ferrara – ilfoglio.it) – Il documento National Security Strategy adottato dalla Casa Bianca è una sorpresa solo per chi non ha voluto vedere che cosa succedeva con la seconda presidenza Trump. Toni e argomenti risentono del lavoro di scavo ideologico e propagandistico di J. D. Vance contenuto nel suo discorso alla Conferenza di Monaco sulla sicurezza, e la proclamazione della fine della civiltà europea, data per imminente, anzi già in corso, ha in effetti quello stigma. Demografia, immigrazione, diritti umani e correttezza politica a sfondo censorio sono i tratti che indicano nell’Unione europea un punto debole dell’occidente, un’area di decadenza politica, culturale e spirituale. Una congerie di classi dirigenti in rotta, deboli e isolate dai popoli, sempre più inaffidabili come interlocutori della politica estera e di potenza di quest’America che cerca la stabilità strategica con la Russia, con la Cina e con il resto del mondo, ma ormai proietta la sua identità e la sua azione al di fuori dell’alleanza atlantica, e della Nato.
Un’alleanza militare destinata a essere superata come asse bilaterale di riferimento nella difesa e nella strategia di presenza americana a tutela del suo primato e della sua stessa sicurezza. In modo molto esplicito il documento spiega che la fine della guerra in Ucraina deve essere perseguita non come una pace giusta e duratura, fornita delle indispensabili garanzie contro l’espansionismo neoimperiale di Putin, ma come il castigo dell’oltranzismo europeo nel sostegno, in funzione antirussa e di stabilizzazione difensiva, a quattro anni dall’aggressione del 2022, della resistenza di quel paese. E sempre in modo esplicito è teorizzata la necessità di aiutare le forze disponibili a mutare il regime politico prevalente nell’Unione, quali che siano i costi del cambiamento. E’ dunque un documento molto duro e severo, non privo di una sua logica, ed è il rovesciamento integrale del documento dei neoconservatori e dell’Amministrazione Bush-Cheney, che puntava, con l’obiettivo di un New American Century e non di un’età dell’oro grassa, ricca e isolazionista, su un unilateralismo della potenza neoimperiale degli Stati Uniti ma suffragato dall’Alleanza euroatlantica e dal quadro di obiettivi strategici comuni uscito dall’ultima guerra mondiale. In termini strategici e diplomatici, questo documento è una sfida e una dichiarazione politica di guerra all’Unione europea, fondato sul lavorio per il suo indebolimento e sul tradimento palese dell’ambizione di chiudere il conflitto aperto da Putin in Ucraina con un compromesso accettabile e garantito.
A questo punto dovrebbe essere chiaro che lo spazio per la chiacchiera, per la dilazione, per l’apparenza, per la vanità, per le buone intenzioni è finito. Gli europei, si intende i regimi liberaldemocratici ancora al governo nella maggioranza dei paesi della Ue (dunque Ungheria e Slovacchia escluse), forse ancora poteri europei autonomi e potenzialmente coesi, non hanno più lo spazio residuale loro concesso finora dall’esitazione nel considerare l’omogeneità politica e personale della convergenza Trump-Putin come un fattore strategico decisivo, e di svolta, della costellazione politica dominante. Alla luce del documento, l’Amministrazione Trump è strategicamente un avversario politico, e l’alleanza, compresa la sua componente di alleanza militare, è un residuo storico al quale rivolgere il sommesso omaggio del ricordo, come peraltro fa il paper di 33 pagine che rivolge un delicato pensiero all’Europa in estremo declino, dicendo che non è ancora interesse americano isolarla e metterla del tutto fuori combattimento. Invece di vedersi ogni settimana nel circolo ristretto dei volenterosi, invece di confermare verbalmente un sostegno eterno all’Ucraina le cui basi si stanno sgretolando nonostante la rappresentazione della solidarietà e dell’interesse comune, invece di rivendicare un ruolo di per sé marginale e ozioso nella falsa trattativa che da mesi sta strangolando l’Ucraina, l’unica che abbiamo, quella di Zelensky e dei suoi combattenti; invece dell’inazione, l’Unione, se esiste, è chiamata all’azione politica e alla definizione rapida di un suo spazio strategico, muovendosi con spirito di indipendenza e intraprendenza nel mondo com’è, con le armi della diplomazia, del commercio, della difesa strategica e dell’intelligence. Ogni altra scelta, cioè la stasi mascherata da volitiva disponibilità a difendersi al fianco di un alleato che non ne vuole più sapere, sarebbe semplicemente la conferma del National Security Strategy, cioè che l’Europa come entità politica autonoma è largamente fottuta.
La giovanile del Movimento 5 Stelle: “Finalmente un modello politico credibile, vicino ai territori e alle esigenze delle nuove generazioni”

Il Network Giovani Campania, la struttura giovanile del Movimento 5 Stelle, esprime pieno sostegno alla prospettiva di un ruolo centrale di Roberto Fico nel futuro politico della regione. Per decine di attivisti e partecipanti agli incontri territoriali, l’ex Presidente della Camera rappresenta infatti la persona giusta per inaugurare una nuova fase politica e sociale in Campania. Molti giovani lo considerano un modello credibile, capace di coniugare coerenza istituzionale e vicinanza al territorio, qualità che ne fanno una figura di riferimento non soltanto a livello regionale ma anche nazionale. In particolare, viene riconosciuta a Fico la volontà di affrontare con decisione una delle emergenze più sentite dalle nuove generazioni: la costante emigrazione giovanile dal Sud.
Secondo gli attivisti, l’interesse crescente verso figure istituzionali solide deriva dal desiderio di un modo diverso di fare politica, costruito dal basso e fondato su partecipazione, trasparenza e coinvolgimento reale delle energie studentesche, universitarie e associative. I giovani non vogliono più essere semplici spettatori, ma desiderano assumere un ruolo attivo nelle scelte che riguardano lavoro, ambiente, mobilità, formazione e diritti. In questo percorso, molti individuano in Fico una guida capace di favorire un cambiamento autentico.
Negli ultimi mesi, gli incontri regionali dedicati all’Agenda Giovani — un documento che raccoglie le proposte emerse dal confronto tra centinaia di ragazzi — hanno mostrato una partecipazione crescente e un forte desiderio di incidere sul futuro della Campania. Durante questi appuntamenti, Fico ha espresso apprezzamento per il contributo delle nuove generazioni, riconoscendone la centralità nella definizione delle priorità politiche. Per molti partecipanti è stato significativo percepire che il loro contributo non veniva trattato come accessorio, ma come elemento determinante di un progetto più ampio. Dopo anni in cui la sensazione dominante era quella di parlare nel vuoto, oggi si registra un clima diverso, più aperto all’ascolto e alla condivisione.
Il Network Giovani Campania ribadisce che il vero rinnovamento non può ridursi a uno slogan, ma deve tradursi in un percorso concreto fatto di investimenti sulla formazione, sulle opportunità lavorative, sugli spazi culturali e sociali e sulla possibilità per i giovani di restare nella propria terra costruendo qui il proprio futuro. È proprio per questo che tanti guardano a chi ha dimostrato di voler porre questi temi al centro dell’agenda politica.
L’obiettivo condiviso è la definizione di un’agenda comune che possa incidere anche sulle politiche nazionali, con uno sguardo proiettato verso il 2027. Le discussioni emerse durante gli incontri territoriali mostrano chiaramente come il dibattito sul rinnovamento non si esaurisca nel nome di un candidato, ma riguardi una trasformazione più ampia e strutturale, capace di mobilitare una generazione desiderosa di assumersi responsabilità concrete. In questo contesto, il sostegno a Roberto Fico rappresenta una scelta coerente con la volontà di costruire una Campania più equa, partecipata e orientata al futuro.

(ANSA) – WASHINGTON, 05 DIC – Il Dipartimento di Stato americano ha approvato la possibile vendita all’Italia di missili aria-terra con gittata estesa e relative attrezzature per un costo stimato di 301 milioni di dollari. L’Agenzia per la cooperazione alla sicurezza della Difesa americana ha notificato il via libera al Congresso. I missili sono prodotti dalla Lockheed Martin.
La possibile vendita, si legge in una nota del Dipartimento di Stato americano, “sosterrà gli obiettivi di politica estera e di sicurezza nazionale degli Stati Uniti, migliorando la sicurezza di un alleato della Nato che rappresenta una forza per la stabilità politica e il progresso economico in Europa”. Inoltre, si sottolinea “migliorerà la capacità dell’Italia di affrontare le minacce attuali e future, fornendo sistemi d’attacco avanzati a lungo raggio da impiegare sui caccia italiani, inclusi, a titolo esemplificativo ma non esaustivo, gli F-35”.

(Giuseppe Gagliano – lafionda.org) – La nuova Strategia di sicurezza nazionale degli Stati Uniti, pubblicata nel novembre 2025, è un testo che pretende di essere una bussola per i prossimi anni, ma finisce per somigliare più a una dichiarazione d’intenti ideologica che a un vero manuale di sopravvivenza in un mondo complesso e frammentato. Dietro il linguaggio solenne, le celebrazioni dell’“America forte” e i toni autocelebrativi, si intravede una potenza che fatica a riconoscere i propri limiti e a convivere con la fine della propria supremazia indiscussa.
Il documento parte da un atto d’accusa contro le élite del dopo guerra fredda: avrebbero inseguito il miraggio di un dominio planetario permanente, sacrificando industria nazionale, classe media e credibilità internazionale. Per rimediare, la nuova linea propone un ritorno alla “priorità degli interessi nazionali” e al rifiuto di istituzioni e vincoli sovranazionali. Ma, invece di produrre una vera ricalibratura, questa svolta rischia di diventare solo una versione più dura e più chiusa dello stesso universalismo americano: la convinzione che la sicurezza degli Stati Uniti coincida con l’ordinamento del mondo secondo criteri stabiliti a Washington.
Sovranità come parola magica
La parola chiave della nuova dottrina è “sovranità”. Sovranità dei confini, del mercato interno, del sistema energetico, delle filiere industriali, perfino del discorso pubblico, visto come minacciato da potenze straniere, piattaforme digitali e organizzazioni internazionali. Non è solo una preoccupazione legittima, dopo decenni di delocalizzazioni e dipendenze strategiche: è una vera ossessione.
Ogni fenomeno viene ricondotto alla stessa matrice: migrazioni di massa, accordi commerciali, organismi multilaterali, intese sulla tutela del clima, tutto sarebbe un modo per indebolire l’identità e la sicurezza statunitensi. Da qui discende la volontà di rompere con la stagione del “libero commercio” e del multilateralismo e di tornare a una gestione bilaterale, transazionale e contingente dei rapporti esterni.
Il problema è che questo ritorno alla sovranità assoluta è pensato solo per gli Stati Uniti. Il documento proclama di difendere la piena legittimità di ogni Stato a perseguire i propri interessi, ma di fatto nega lo stesso diritto quando quegli interessi non coincidono con quelli di Washington. La libertà degli altri si ferma dove cominciano i corridoi energetici, le filiere di approvvigionamento e gli spazi di manovra militare voluti dagli Stati Uniti.
L’emisfero occidentale come cortile di casa
Il capitolo sul continente americano è il più esplicito: si annuncia una sorta di “corollario” alla dottrina Monroe, con cui gli Stati Uniti si arrogano il diritto di impedire a potenze esterne di possedere infrastrutture strategiche, basi, porti, reti di comunicazione o risorse chiave in tutto l’emisfero.
L’obiettivo dichiarato è la stabilità: bloccare i flussi di droga, gestire la migrazione, garantire catene di approvvigionamento sicure. Ma lo strumento scelto è un misto di pressione militare, economica e diplomatica che lascia ben poco spazio alla sovranità degli altri. Si parla di “arruolare” Paesi della regione per stabilizzare aree di crisi, ospitare forze statunitensi, adattare la propria politica industriale alle priorità di Washington.
Non è una novità: la storia dell’America latina è piena di colpi di Stato, interventi mascherati, pressioni economiche. La differenza è che, oggi, sullo stesso terreno agiscono anche Cina, Russia, Turchia, monarchie del Golfo. Pensare di poterli cacciare tutti con qualche tariffa, qualche base navale e qualche prestito agevolato significa non capire che, per molti governi latinoamericani, la competizione tra potenze è diventata un’opportunità, non una minaccia.
Asia: contenere la Cina senza dirlo
Il capitolo asiatico è in apparenza improntato alla moderazione. Si afferma di non voler la guerra con la Cina, ma di voler “riequilibrare” i rapporti economici, proteggere le filiere critiche, coordinarsi con alleati e partner per impedire qualsiasi forma di dominio regionale. Dietro la prudenza lessicale, però, c’è un obiettivo chiarissimo: contenere l’ascesa cinese in ogni settore.
Economia, tecnologia, finanza, spazio, mari: la regione del Pacifico viene descritta come il teatro decisivo del secolo. Il testo insiste sulla necessità di un sistema di alleanze che vada dal Giappone all’India, dall’Australia alla Corea, passando per i Paesi dell’Associazione del sud-est asiatico, legati tra loro da accordi militari, cooperazione industriale, progetti infrastrutturali e regole comuni sulle esportazioni sensibili.
Ma è proprio qui che la strategia mostra il fianco. Molti di questi Paesi hanno rapporti vitali con la Cina, sia commerciali sia finanziari. Accettare fino in fondo la logica americana del “disaccoppiamento” significherebbe mettere a rischio intere economie, catene logistiche, stabilità politiche già fragili. Washington chiede loro di aumentare la spesa militare, di offrire basi e porti, di esporsi nella confrontazione con Pechino. In cambio promette accesso al mercato statunitense, trasferimenti tecnologici, garanzie di sicurezza.
Ma non è affatto scontato che l’Asia voglia farsi trascinare in una nuova guerra fredda. Molti governi, dall’India all’Indonesia, puntano a un gioco multipolare: cooperare con gli Stati Uniti su difesa e tecnologia, senza rompere con la Cina sul piano commerciale. Pretendere un allineamento totale rischia di spingerli proprio tra le braccia di Pechino, o di rafforzare la loro tentazione di restare neutrali in caso di crisi su Taiwan.
Europa tra paternalismo e diffidenza
La parte dedicata all’Europa è impietosa. Si descrive un continente in declino demografico, schiacciato da apparati burocratici sovranazionali, paralizzato da politiche migratorie giudicate suicidarie, prigioniero di dirigenti che censurano il dissenso e soffocano la libertà di espressione. La critica al “modello europeo” è così radicale da sfiorare il disprezzo.
Eppure, al tempo stesso, si sottolinea che l’Europa resta “vitale”: mercato centrale per le esportazioni statunitensi, culla di industrie avanzate, infrastrutture, ricerca scientifica. In altre parole: un alleato indispensabile, ma considerato inaffidabile sul piano politico e culturale.
La guerra in Ucraina è il banco di prova. La strategia riconosce che il conflitto ha reso l’Europa più dipendente dall’esterno per energia e sicurezza e che ha aggravato le divergenze interne. Per questo indica come priorità la chiusura relativamente rapida delle ostilità, il ripristino di una stabilità strategica con la Russia e la ricostruzione di un’Ucraina “viabile”. L’interesse centrale, detto senza troppi giri di parole, non è tanto il destino di Kiev quanto la necessità di evitare che l’Europa rimanga intrappolata in una paralisi economica e politica che indebolirebbe l’intero blocco occidentale.
Qui emerge una contraddizione di fondo: da un lato si pretende che gli alleati europei aumentino la spesa militare fino a livelli molto superiori a quelli finora ritenuti accettabili; dall’altro lato si guarda con sospetto a leadership e governi ritenuti incapaci o poco legittimati. Si chiede all’Europa di essere forte, ma non autonoma; responsabilizzata, ma sotto tutela; “grande” solo nella misura in cui resta allineata alla linea statunitense sulla Russia, sulla Cina, sull’energia, sul commercio.
Medio Oriente: dalla guerra alla gestione del rischio
Per mezzo secolo il Medio Oriente è stato il centro della politica estera americana. Il nuovo documento proclama che questa epoca è finita: grazie alla produzione energetica interna e agli accordi con Israele e monarchie del Golfo, la regione sarebbe ormai meno decisiva. In realtà, la strategia non si traduce in un vero disimpegno, ma in una diversa gestione del rischio.
Iran viene descritto come potenza indebolita dalle ultime operazioni israeliane e dalle azioni statunitensi contro il suo programma nucleare. La questione palestinese è presentata come in fase di “normalizzazione” grazie all’intesa per il cessate il fuoco e alla prospettiva di nuove intese tra Israele e Paesi arabi. La Siria è vista come potenziale candidato a una stabilizzazione guidata dagli attori regionali con il sostegno di Washington.
Dietro le formule ottimistiche restano però aperte tutte le fratture storiche: rivalità tra potenze regionali, fratture confessionali, milizie armate, sistemi politici autoritari. Gli Stati Uniti dichiarano di voler trattare i partner del Medio Oriente “così come sono”, senza più pretendere di esportare modelli democratici. In pratica, accettano regimi poco trasparenti purché garantiscano corridoi energetici, basi, cooperazione contro il terrorismo e, soprattutto, allineamento nel confronto con Iran, Russia e Cina.
La promessa è quella di ridurre le “guerre senza fine” e di sostituirle con accordi diplomatici mirati. Ma l’esperienza degli ultimi decenni insegna che, quando la regione entra in una fase di crisi, le stesse potenze che oggi puntano alla “gestione del rischio” finiscono per essere risucchiate in spirali di intervento sempre più profonde.
Africa: risorse prima delle persone
Il capitolo sull’Africa è breve ma rivelatore. Gli Stati Uniti annunciano di voler passare da una logica di aiuto allo sviluppo a una logica di investimenti e scambi, privilegiando i Paesi giudicati “affidabili” e pronti ad aprire i propri mercati a imprese e tecnologie statunitensi.
Si insiste sulle potenzialità del continente in termini di minerali critici, energia, crescita demografica. Si parla di accordi nel settore nucleare civile, del gas, delle infrastrutture. Tutto giusto, in teoria. Ma il documento dedica pochissimo spazio alla questione della governance, delle disuguaglianze interne, dei conflitti locali. L’Africa appare come un grande magazzino da cui estrarre materie prime e consenso diplomatico, non come un insieme di società complesse, con interessi propri, memorie di colonizzazione, nuove classi dirigenti che non intendono più essere solo destinatarie di progetti decisi altrove.
Il rischio è evidente: se l’unico parametro di scelta sarà la fedeltà alla linea statunitense, la competizione con Cina, Russia, India, Turchia e monarchie del Golfo non farà che accentuare la frammentazione interna al continente, alimentando nuovi “clientelismi” geopolitici anziché sostenere una crescita autonoma.
Il mito dell’“economia come arma totale”
In tutto il documento si respira l’idea che l’economia possa e debba essere usata come strumento integrale di potere. Tariffe, controlli sulle esportazioni, sanzioni finanziarie, incentivi fiscali, controllo delle filiere: tutto viene concepito come parte di un’unica macchina di pressione, da attivare verso avversari, ma anche verso alleati recalcitranti.
Si promette una grande “reindustrializzazione” interna: riportare in patria produzioni strategiche, rilanciare l’industria degli armamenti, garantire energia abbondante e a basso costo grazie a idrocarburi e nucleare, respingere le politiche di riduzione delle emissioni considerate un regalo ai rivali. È un programma ambizioso, che però si scontra con due ostacoli.
Il primo è sociale: riportare fabbriche e catene produttive negli Stati Uniti richiede non solo investimenti pubblici e privati, ma anche manodopera qualificata, infrastrutture, sistemi educativi, alloggi, servizi. Non basta alzare i dazi per far ricomparire miracolosamente l’industria primaria e quella pesante. Il secondo ostacolo è internazionale: un uso sempre più esteso di sanzioni, blocchi e condizionamenti può spingere gli altri attori a costruire sistemi alternativi di pagamento, nuove valute di riferimento, accordi commerciali sganciati dal dollaro. La supremazia finanziaria statunitense, che il documento dà quasi per scontata, è proprio ciò che viene messo in discussione da questa strategia aggressiva.
Potere morbido in crisi
Curiosamente, in mezzo a tante parole d’ordine muscolari, il testo riconosce anche l’importanza del potere morbido: la capacità degli Stati Uniti di attrarre con cultura, scienza, innovazione, modelli di vita. Ma la soluzione proposta per “rafforzare” questo potere è quasi esclusivamente morale: recuperare l’orgoglio nazionale, esaltare il passato, respingere la critica interna, schiacciare quelli che vengono percepiti come movimenti “antiamericani” dentro il Paese stesso.
È una contraddizione evidente. Il potere morbido statunitense è nato, storicamente, proprio dalla capacità di presentarsi come società aperta, autocritica, capace di mettere in discussione le proprie ingiustizie. Chiudere gli spazi di dissenso in nome della sicurezza nazionale significa indebolire quella forza di attrazione, trasformando la democrazia americana in una fortezza assediata che non ammette dubbi.
Una strategia di transizione, non di visione
In conclusione, la Strategia di sicurezza nazionale del 2025 è un documento che fotografa perfettamente il momento storico degli Stati Uniti: una grande potenza che non si rassegna a essere “una” delle potenze, che vuole difendere il proprio primato con tutti gli strumenti possibili, ma che al tempo stesso non offre una visione condivisibile del futuro.
Il testo denuncia gli eccessi del globalismo, ma propone solo una sua versione ristretta e gerarchica, dove il mondo continua a essere diviso tra chi comanda e chi deve allinearsi. Invoca la fine delle guerre infinite, ma non rinuncia all’idea di poter gestire dall’alto i conflitti altrui, scegliendo di volta in volta quali meritino un cessate il fuoco e quali una pressione ulteriore.
Soprattutto, resta prigioniero di una certezza: che l’ordine mondiale sia legittimo solo quando coincide con l’interesse nazionale americano. È una posizione comprensibile per una potenza abituata a decenni di supremazia, ma difficilmente sostenibile in un sistema internazionale che, piaccia o no, è già entrato in una fase multipolare.
L’America potrà ancora pesare moltissimo, forse più di chiunque altro. Ma non potrà più decidere da sola le regole del gioco. Una vera strategia dovrebbe partire da qui. Questa, al contrario, è ancora un tentativo di tenere vivo un mondo che non esiste più.
Gli studenti tedeschi protestano contro il ritorno della leva. Nelle piazze, una generazione sta mostrando di aver capito prima degli adulti.

(di Giulio Cavalli – lanotiziagiornale.it) – È nelle ore in cui gli studenti tedeschi marciano in più di sessanta città contro la riforma della leva che si misura la profondità della frattura europea. «Non vogliamo diventare carne da cannone!» è il coro che attraversa Berlino mentre il Bundestag approva una legge che obbliga tutti i maschi nati nel 2008 a rispondere ai formulari militari dal 2026 e a presentarsi alla visita di leva dal 2027. L’obiettivo è portare la Bundeswehr fino a circa 260mila soldati entro il 2035, con altri 200mila riservisti pronti all’attivazione. Non è amministrazione: è un destino immaginato per una generazione.
Intanto, a Torino, l’industria della difesa festeggia la sua edizione “dei record”: oltre tremila partecipanti, più di ottocento aziende, trecento buyer. Tra caccia in scala reale, droni per l’addestramento e componenti per missili, i rappresentanti del settore spiegano che la domanda “cresce rapidamente” e che i conflitti aperti stanno accelerando gli affari. Fuori, gli attivisti incatenati ai cancelli ricordano che la filiera militare prospera sempre quando il mondo brucia.
In Italia, il ministro della Difesa Guido Crosetto ripete che vanno aumentate le forze armate e che serve una parte kombat sempre più ampia. Nello stesso discorso evoca la necessità di nuove missioni all’estero, di riserve civili integrate, di meccanismi di reclutamento più flessibili. La prospettiva è chiara: costruire un Paese che considera il ricorso alla forza una normalità operativa, un requisito strutturale.
È questo l’orizzonte in cui l’Europa continua a muoversi: dichiara di volere la pace mentre rialza la leva, ingrassa l’industria militare, organizza la gioventù come un database da cui attingere in tempi di crisi. Non c’è discussione pubblica, solo la retorica dell’“inevitabile”, che trasforma ogni passo verso la militarizzazione in un obbligo morale.
Eppure, nelle piazze tedesche, una generazione sta mostrando di aver capito prima degli adulti. Rifiuta la logica del sacrificio come condizione d’ingresso nella cittadinanza. Si sottrae al ruolo di combustibile. E indica l’unica verità che l’Europa si ostina a non vedere: giocare con il fuoco resta il modo più sicuro per bruciarsi.
Pesa la deindustrializzazione mentre una fascia crescente della popolazione si impoverisce

(Chiara Saraceno – lastampa.it) – Quest’anno il Censis ha dedicato la consueta metafora con cui sintetizza l’immagine di una società e un’epoca non all’Italia, ma al mondo: una «età selvaggia», «del ferro e del fuoco», preda di «pulsioni antropologiche profonde» che poco o nulla hanno di razionale.
Una lettura di sicuro effetto comunicativo, ma che temo segua troppo la strada facile dell’imputazione di irrazionalità a processi che indubbiamente stanno squassando equilibri, rapporti di potere, procedure, istituzioni che sembravano consolidati. Ne deriva un’immagine di “barbari alle porte” e di imminente Apocalisse di cui gli italiani, non è chiaro se perché inguaribilmente sventati o testardamente resilienti, tuttavia sembrano non essere particolarmente spaventati secondo la lettura del Censis. E sì che, oltre alle guerre non più solo in Paesi lontani, ma anche vicinissimi, l’Italia ha problemi suoi non piccoli: una de-industrializzazione strisciante, un invecchiamento demografico inarrestabile, un impoverimento di una fascia crescente della popolazione, un debito pubblico di proporzioni mostruose che riduce lo spazio per gli investimenti per la crescita e il welfare.
In realtà, a leggere i dati, più che non spaventati gli italiani sembrerebbero sfiduciati nella capacità delle istituzioni di risolvere i loro problemi e rassegnati a dover contare solo sulle proprie risorse.
Se il 53% ritiene che l’Ue ormai abbia un ruolo marginale nello scacchiere mondiale, oltre il 70% condivide la sfiducia nei confronti dei partiti e dei loro leader, cosa che può spiegare i tassi di assenteismo elettorale ed anche la diffusione dell’idea che la democrazia abbia fatto il suo corso: non (solo) per voglia di autoritarismo, credo, ma per sconforto rispetto a chi dovrebbe concretamente farla vivere e funzionare con un’idea del bene comune e azioni coerenti. Un bene comune che invece si sperimenta sempre più evanescente quando riguarda bisogni primari.
Il 78,5% esprime sfiducia nei confronti di servizi sanitari e assistenziali, ritenendo che, se si trovasse in condizione di non autosufficienza, non potrebbe contare su adeguati sostegni. Una sfiducia drammatica, ancorché purtroppo fondata, in una società in cui gli anziani e i grandi anziani, i più vulnerabili al rischio di non autosufficienza, sono un numero sempre più consistente. Lo stesso vale per i rischi ambientali: il 72,3% crede che, in caso di eventi atmosferici estremi o catastrofi naturali, gli aiuti finanziari dello Stato sarebbero insufficienti. Anche in questo caso, le esperienze anche recenti di disastri ambientali, il ritardo degli aiuti il rimpallo delle responsabilità ha contribuito a minare la fiducia in uno Stato sempre pronto ai condoni, ma troppo spesso inadempiente rispetto ai diritti e ai bisogni.
È a motivo di questa sfiducia che oltre la metà del campione intervistato ritiene che sarebbe necessario assicurarsi privatamente contro queste evenienze, anche se la maggior parte non lo fa, per scarsità di risorse o per fatalismo. Ma intanto si erode anche la fiducia nel welfare, indebolendo ulteriormente la legittimità del prelievo fiscale. Un rischio che dovrebbe preoccupare i governanti, che invece troppo spesso, tra un condono e una regalia a questo o a quel particolare gruppo sociale si dedicano loro stessi a delegittimarlo, anche se non ne diminuiscono il peso.
Gli italiani avranno anche una vita sessuale attiva e soddisfacente, come segnala il Rapporto, quasi fosse un segno della loro non volontà di prendere sul serio i molti segnali negativi da cui sono circondati. Ma ciò non toglie la fatica del vivere e la difficoltà a programmare il futuro, specie per i giovani. La sfiducia nelle istituzioni e la percezione di marginalità dell’Italia e dell’Unione Europea non sembra offrire alternative al limitarsi a vivere giorno per giorno.

(Tommaso Merlo) – Per essere sicuri non dobbiamo armarci, ma sbarazzarci di quei politicanti che ci stanno trascinando verso la terza guerra mondiale. È questa la priorità, fermarli prima della catastrofe. A quel punto vanno immediatamente ripristinati rapporti di amicizia con la Russia. Vicina con la quale condividiamo secoli di storia e con cui abbiamo reciproco interesse a condividerne altrettanti in futuro. Siamo sicuri collaborando con Russia, non sfidandola e ci conviene pure economicamente. Altro che deliri bellici, la disfatta occidentale in Ucraina va sfruttata per lanciare una ribellione democratica che porti ad un cambiamento radicale. Milioni di cittadini non aspettano altro, ma per non ripetere gli stessi errori, dobbiamo capire le cause del baratro in cui siamo precipitati. Al momento la nostra più grande minaccia è la Nato, una organizzazione storicamente superata che invece di difenderci è diventata la banda della lobby della guerra che da decenni ci trascina in conflitti che giovano solo ai produttori e venditori di armi. Ma la Nato come la Commissione Europea, sono solo due esempi di furti di sovranità popolare. Stiamo subendo un tradimento democratico epocale. Tra cittadini e lobby, la politica oggi serve le lobby, non i cittadini. Un po’ per incapacità, un po’ per tornaconto e un po’ perché costretti dal sistema. Prima incassano voti e poltrone, e poi si accodano vigliaccamente a cordate sovranazionali, a deliri ideologici e pensieri unici neoliberisti e bellicisti. La folle guerra in Ucraina è un caso scuola. Una guerra facilmente evitabile e che non voleva nessuno, eppure l’hanno fatta lo stesso mentendo perfino sulle sue vere cause. Manipolando la realtà e buttando nel cesso miliardi di soldi pubblici di cittadini già sulla soglia della povertà. E se nessuno li ferma, ci trascineranno dritti verso la terza guerra mondiale. È questa la priorità. Se le lobby hanno più potere dei cittadini, non è democrazia, è mafia lobbistica. In una vera democratica, la sovranità appartiene esclusivamente al popolo, senza interferenze e senza ambiguità. Altro che deliri bellici, la politica deve tornare ad essere una cosa seria, fatta da cittadini comuni, per i cittadini comuni. Il carrierismo partitocratico è uno dei mali peggiori del nostro tempo perché crea insulse caste privilegiate che non avendo nemmeno il senso della vergogna, diventano irremovibili e permettono alle incrostazioni lobbistiche di dilagare. Quanto all’altra parte dell’oceano, bisogna ringraziare Trump per l’impegno con cui sta distruggendo l’Impero statunitense e l’alleanza atlantica. Dopo decenni di fallimentare leadership americana che ha reso il mondo più ingiusto ed insicuro che mai, tocca al dragone giallo e per noi vecchi europei si apre una grande opportunità per riprenderci le redini del nostro destino. Basta col delirante turbocapitalismo a stelle e strisce che produce demenziali oligarchie e giungle commerciali. Torniamo ai capisaldi costituzionali delle nostre repubbliche, alla sapienza dei nostri avi e al buonsenso economico e sociale. Oltre che delle lobby, ci dobbiamo liberare dal casinò finanziario globale che ci ricatta e dalle illusioni consumistiche. Fine della politica è garantire la migliore qualità della vita possibile ai cittadini, ma quella vera non quella dei grafici finanziari, e favorire una società sempre più giusta e sana. Serve una visione anche filosofica più profonda di quello che questo sistema superficiale e moralmente marcio riesce a concepire. La disfatta in Ucraina è una opportunità storica per lanciare una ribellione pacifica e democratica che porti ad un cambiamento politico radicale. I milioni di cittadini che non votano nemmeno più, non aspettano altro che nuove proposte all’altezza e chiunque abbia mezzi e capacità non deve perdere tempo. I partiti esistenti sono facce della stessa medaglia di tolla. Sono anni che si alternano coalizioni e poi non cambia mai nulla, e questo perché in tempi di pensiero unico il banco vince sempre. Serve una forza politica esterna che dal basso abbia l’ambizione rivoluzionaria di ristabilire la normalità democratica e cioè il dominio della politica sull’economia, del bene pubblico su quello privato e che esalti la sovranità e la partecipazione popolare invece di sedarle. Una politica che investa nella pace invece che nella guerra, rilanciando l’amicizia con la Russia e riprendendo la strada virtuosa che parte dalla fine della seconda guerra mondiale ma anche dentro di noi.

(Giancarlo Selmi) – La 7. Televisione che cerca di captare ciò che resta del pensiero di sinistra. Una manovra più furba che sentita, capitanata da un uomo di Berlusconi che, detto per onorare il vero, è editore del giornale principe del mainstreem italiano. Il Corriere della Sera, foglio di rappresentanza del riarmo e degli interessi che gravitano intorno alle industrie delle armi.
Quando si parla de La7 e del Corriere, non si tratta della legittimità di pareri o di quanto sia legittimo esporre un opinione, si tratta di come si tenti di influenzare la pubblica opinione, con l’obiettivo di fare diventare predominante e unica la loro opinione. Molti spettatori de La7, quelli dichiaratamente di sinistra, sono contenti perché quella televisione parla male della Meloni, finendo per dimenticare le evidenti operazioni di manipolazione.
Vi faccio un esempio: oggi il tema principale è stato quanto Giuseppe Conte, con riferimento al possibile dibattito in Atreju, abbia sabotato il tentativo della Schlein di accreditarsi come unica oppositrice della Meloni. Tiziana ridens Panella ha definito l’iniziativa di Conte “fuoco amico” e ha cercato in tutti i modi di coinvolgere, senza successo peraltro, il povero De Angelis in un commento negativo sul leader politico dei cinque stelle. Come se il primato spettasse per diritto divino alla Schlein e a Conte spettasse solo il dovere dell’inchino.
La cosa è proseguita nel più tragico programma satirico della storia. Un programma che possiede una sola genialità, il nome: Propaganda. Dove la satira è utilizzata in un unico senso. E diventa più una leccatina del culo degli amici e puntuali stoccate ai nemici. E fra i nemici, oltre al facile e scontato lavoro su Salvini, rientra il solito Giuseppe Conte. Nulla di nuovo, peraltro. Floris fa anticipare un’intervista a Conte da una squallida esibizione di due tipi che hanno deciso di essere comici senza riuscirci. Una roba da barzellette stupide da terza elementare, con Floris che rideva in perfetta solitudine.
Il problema, bisogna rendersene conto, è il riarmo. Questo è il tema principe. Conte è un nemico perché a quel riarmo si oppone e perché in un panorama che include tutto meno che la sinistra, quella vera, quella amica della pace e della qualità di vita, Conte è l’unico che, pur definendosi “progressista”, cosa che mi trova d’accordo, è l’unico a dire “cose di sinistra”. La7 la sinistra la scimmiotta e ama la guerra che di sinistra certamente non è.
La proposta avanzata da una parte dei dem sono una minaccia per la democrazia e la libertà d’opinione

(ANNA FOA – lastampa.it) – L’antisemitismo esiste, anche se chi, come il governo israeliano, ne denuncia dappertutto l’apparizione non fa certo un buon servizio a chi lo vuole combattere, annegandolo in una palude in cui tutte le vacche sono nere. Se tutto è antisemitismo, nulla lo è più.
L’antisemitismo è esistito, non solo nel progetto hitleriano di totale sterminio degli ebrei, ma più banalmente in giornali, libri, partiti politici apertamente “antisemiti”, in quella prima metà del XX secolo in cui, tanto per non citare che un caso, un sindaco antisemita, Karl Lueger, ha governato Vienna.
Oggi l’antisemitismo riaffiora alla luce, cresce, si espande, aiutato dall’indignazione per le immani stragi compiute da Israele a Gaza, dalle drammatiche vicende della Cisgiordania, dalla follia messianica dei coloni.
Ma proprio perché l’antisemitismo è una realtà, e combatterlo è una necessità, bisogna smettere di usarlo per mascherare obiettivi inconfessabili, come la difesa della politica di Netanyahu. Smettere di identificare come antisemite le critiche, anche durissime, alla politica israeliana, le denunce delle violenze commesse. Non sono quelle critiche, quelle denunce a far crescere l’antisemitismo, sono le bombe, la fame, le violenze, e il silenzio di troppa parte del mondo.
Per questo le proposte di legge contro l’antisemitismo attualmente in discussione, una della Lega ed un’altra recentissima presentata, sembra, a titolo personale da un senatore PD, sono non solo inefficaci, ma pericolose. Entrambe si riallacciano ad una definizione dell’antisemitismo elaborata a livello internazionale nel 2016, e adottata da 43 Stati, Italia compresa, dall’Ihra (International Holocaust Remembrance Alliance), una definizione che consentiva di tracciare una stretta connessione fra antisionismo e antisemitismo. Ma la definizione, volta a favorire una più rigorosa ricognizione dei fenomeni di antisemitismo, non è “giuridicamente vincolante”. Con queste proposte si rischia di renderla tale, e si potrebbe definire come antisemita e perseguirla come tale ogni manifestazione di dissenso verso la politica del governo israeliano. Potrebbe ad esempio, diventare punibile come antisemitismo perfino il confronto fra la Shoah ed altri genocidi. È un tema spesso affrontato dagli storici, soggetto a dibattito e critiche. Ma farlo diventare oggetto di accuse penali rasenterebbe il ridicolo se non fosse tragico. Tragico per la democrazia, per la libertà di opinione, di critica, di manifestazione. Sotto il velo della lotta all’antisemitismo negheremmo libertà fondamentali sancite dalla nostra Costituzione. La politica di Israele, e solo quella, sarebbe protetta perché attaccarla significherebbe macchiarsi del crimine di antisemitismo. In base a questa logica, Putin ha richiamato la lotta all’antisemitismo per giustificare la sua aggressione all’Ucraina, Trump la usa a scopi interni, per combattere le Università e le manifestazioni degli studenti a favore della Palestina, e anche in Gran Bretagna è aperto il dibattito sull’adozione della definizione dell’Ihra. Insomma, sembra che i prossimi attacchi contro le libertà democratiche si svolgeranno in nome della lotta all’antisemitismo. Col risultato, immagino, di alimentarlo e farlo crescere.
Mi auguro davvero che faccia marcia indietro almeno quella parte della sinistra italiana che sembra tanto accecata dalla parola “antisemitismo” da prendere le armi senza curarsi nemmeno di guardare attentamente il suo bersaglio, senza preoccuparsi dei danni collaterali che leggi di tal fatta implicherebbero. A meno che il desiderio di appiattirsi sulle politiche di Netanyahu e di seguirne passo passo le orme non impedisca loro ogni critica. Ma l’antisemitismo è cosa troppo seria per essere agitata a casaccio, e gli ebrei meritano di meglio che essere usati da tutti e in ogni circostanza.
Tra picchetti d’onore, pranzi di gala e accordi economici in India, lo Zar si inchina di fronte alla tomba del profeta della non-violenza. Così il dittatore arruola il Mahatma nel suo nuovo blocco antioccidentale

(Domenico Quirico – lastampa.it) – L’atto scenico può sembrare scabroso, al limite dello sberleffo profano. Ma è tutt’altro che equivoco. L’autocrate i cui metodi stanno tra Politburo e Kgb, tessitore di deprecabili terapie sanguinose, indossa una figura mite, suadente, pensosa. Gli occhi quasi socchiusi sono quelli dei tête-à-tête con i suoi “amici” Trump, Xi e ora Modi. E che, meglio ricordarlo per non farsi troppe illusioni su noi stessi, prima della Grande Paura, prima del 2014 e anche oltre, ispiravano tenerezze interessate anche nella assai duttile coscienza dei mediocri “decideur” d’Occidente.
Sono agli archivi gli anni dopo il 2022 in cui Putin sfanalava gli occhi globosi per far festa al massimo a piccoli tiranni-clienti, bielorussi azeri turcomanni siriani ayatollah un po’ sbilenchi. Questo gli restava in anticamera. Il signore della guerra appigionato da 25 anni al Cremlino ora va a far visita al tempio del sacerdote, del protomartire della non violenza, della mitezza e della pace, l’omino seminudo che sfidava a mani nude l’Impero britannico: Ghandi. E lo arruola il mahatma, allegramente, spudoratamente, al modico prezzo di una manciata di petali rossi e gialli, nell’arsenale ideologico del nuovo blocco antioccidentale, nel multilateralismo dove contano le bombe, atomiche e non, e l’impiego della forza alla maniera assirobabilonese.
Un attimo. Tutto questo rito si svolge davvero in India, nella fabbrica degli asceti, nella casa madre dell’assoluto, un deposito di sogni dove vivono ancora gli dei? Come osa questo profanatore? Poi si rammenta che l’India ha anch’essa la Bomba, i suoi forsennati jihadisti hindu, che ha appena sfiorato l’Apocalisse con i vicini pachistani… e tutto il fatto di ieri si fa più ambiguo e relativo.
Ghandi lo hanno abusato molti, a proposito e a sproposito, la citazione ghandiana, implacabile, la trovi in grossolane retoriche che meriterebbero arcigne diffide. Insomma: perfino Mussolini pensò di utilizzarlo contro la perfida Albione… Da ieri l’Incolpevole è diventato apostolo, con Tolstoj anche lui impossibilitato a resistere, del nuovo mondo «in cui tutti sono eguali e liberi da diktat ed egemonie, fondato su principi di eguaglianza rispetto reciproco e cooperazione tra le nazioni…». Così parlò Putin ieri intendendo che sarebbe la descrizione di quello che, a cannonate, ha disegnato lui .
“He ram!”, Oh dio! sta scritto sulla lastra deposta dove il padre dell’India (e del pacifismo occidentale) fu cremato dopo l’assassinio. Non ci potrebbe esser miglior e più stringato commento all’asserto temerario. Nella vita di uomini grandissimi e “buoni” l’avvenimento caratteristico non è la nascita, è la morte. Perché, ahimè! non possono più difendersi.
Per percorrere il sentiero di pietra che porta alla grande piattaforma di marmo nero dietro cui brucia una fiamma perenne Putin ha dismesso le punte torve, il ghigno con cui solo l’altro ieri aveva azzannato gli ucraini, e gli europei ultimi affiochiti alleati di Kiev: il Donbass lo voglio e lo prendo, tutto. Rassegnatevi, è meglio per voi!
Tutto sembra marciare a puntino per lo zaretto. I satelliti gli segnalano che le truppe avanzano nella loro metodica e millimetrica marcia sgretolatrice. Lui non ha fretta. L’amico americano dà segni evidenti di squagliamento tra appetiti e furori parolai da week end a Mar-a-Lago e soprattutto compromissioni affaristiche.
Ieri a Rajghat il cabalista dei violenti- invadenti del nuovo ordine del mondo e delle faide neo imperialistiche è venuto a cantare la vittoria del suo cinismo pragmatico e spietato. Ricordate quando giuristi un po’ grossolani, nella patria del diritto romano, garantivano, pandette in mano, che il criminale internazionale non sarebbe sopravvissuto penalmente neppure a un viaggetto fuoriporta, tra le jurte mongole? Il diritto internazionale non perdona…! Credemmo loro sulla parola. Lui colleziona placidamente un altro miliardo di uomini a cui non importa nulla dei rinvii a giudizio di una Corte impotente all’Aja. Dove è l’Aja? Putin va a zonzo nella più grande democrazia del mondo… Tra picchetti d’onore pranzi di gala accordi economici per lustrar gli occhi ai suoi oligarco-capitalisti. E fa la foto ricordo gandhiana. A gridare alla profanazione penalistica delle sue tournée son rimasti solo gli europei, e neppur tutti. Per onor di firma.

L’inchino alla tomba del profeta disarmato merita però un posto a parte. Modi, il molto teorico erede che con Ghandi ha più o meno le stesse discendenze di Putin, non emette nemmeno un lieve squittio deprecativo e isterico allo spettacolo. Anzi. Liscia approva firma applaude. Ma non doveva essere il premier indiano una sponda fondamentale dell’implacabile isolamento che doveva togliere i sentimenti al grande carnivoro russo? Una visita a Dheli di Von der leyen non era stata presentata come l’epifania della nuova frizzante diplomazia “tout azimout’’ europea?
L’India di Putin non è certo quella di coloro che hanno letto Siddartha di Hesse (lo avrà in biblioteca il tiranno del Nord ? Domanda intrigante) ovvero il viaggio ipnotico struggente nostalgico naufragante. Dicono che Dioniso avesse casa e baccanti da queste parti. Putin non fa una visita al mite rivoluzionario che sconfisse l’impero britannico, (non quello sovietico!) per avere levitazioni, visioni inciampi nei mandala, incontri con una sàkti, per inoltrarsi nel grande flusso dell’esistenza. A lui basta inoltrarsi nel Donbass. È lì per dire: guardate ho vinto!