Selezione Quotidiana di Articoli Vari

Salvini boccia la legge sul consenso


(Da La Zanzara) – Matteo Salvini a La Zanzara: la legge sul consenso? C’era davvero bisogno di un’altra legge sullo stupro? La considera una follia?: “In onestà, ne sono stato fatto partecipe due giorni fa, mi sembra evidente che questa cosa complica le vite, peraltro già complicate, delle famiglie italiane e delle coppie.

E poi ci dicono che c’è un problema di denatalità. Il consenso sessuale è sempre e comunque importante e nessuno deve permettersi di compiere atti di violenza, questa cosa è già disciplinata dalla legge, se serve farne una ulteriore allora l’importante è che non diventi un’arma di chi non si vuole vendicare per un litigio o altro”.

E ancora: “Quante denunce di molestie in sede di separazione conflittuale ci sono che poi finiscono come infondate ma intanto ti rovinano la vita e traumatizzano i bambini? Se una vita condivisa comporta una corsa ad ostacoli, come fa un ragazzo di 16 anni durante la pausa tra la terza e la quarta ora a chiedere alla ragazza della seconda B di andare al cinema? Compila una scheda?”

CAIAZZA, INACCETTABILE INVERSIONE ONERE DELLA PROVA 

(ANSA) – ROMA, 26 NOV – “La legge porta alle estreme conseguenze, non tollerabili dal sistema, una giusta esigenza di protezione della donna, a livelli talmente estremi da essere inaccettabili”.

L’avvocato Giandomenico Caiazza, già presidente dell’Unione delle camere penali, boccia senza appello la legge sul consenso. Quello che proprio non può essere accettato è “l’inversione dell’onere della prova” nei processi per violenza sessuale, cioè il fatto, spiega, che dovrà essere l’uomo denunciato a dimostrare che il consenso al rapporto sessuale c’era.

E la prova rischia di essere impossibile. “Se una donna dice ho avuto quel rapporto sessuale ma non c’era il mio consenso pieno, come fa il denunciato a dimostrare il contrario? Non c’è solo l’inversione dell’onere della prova, non c’è lo strumento per provarlo”.

“Qualunque denuncia nel penale deve essere supportata da elementi di prova. In questo caso invece poichè la norma non chiede più un elemento fattuale di riscontro, ma semplicemente la valutazione sulla sussistenza o meno del consenso, la conseguenza è che nel momento in cui una donna denuncia si presume che non ci sia stato il consenso.

Si porta agli estremi un’idea che nelle premesse è giusta: che la donna debba essere supportata in un percorso giudiziario che la vede potenziale parte offesa. Ma non si può arrivare al punto che si elimini qualunque elemento di prova che vada oltre la dichiarazione della donna. E per come è concepita la norma si può arrivare alla conclusione che nel caso della violenza sessuale si è sollevati da questo onere probatorio”.   

Che fare allora? “Nei processi di violenza sessuale la protezione della donna che denuncia è già molto alta. Non c’è bisogno di rafforzarla”. Meglio far cadere la legge? “Assolutamente sì. Su questo punto non vedo margini per fare passi avanti nè il bisogno di farli. I processi per violenza sessuale dalla parte dell’imputato sono già ora difficilissimi”. 


L’ultima eurofollia


L’ultima eurofollia

(di Antonio Pitoni – lanotiziagiornale.it) – Con questa Europa non c’è mai fine al peggio. Non erano passate neppure ventiquattr’ore dal via libera del Parlamento Ue al Programma per l’industria della difesa europea (Edip) – un altro miliardo e mezzo buttato – che la folle corsa al riarmo dell’Unione europea ha tagliato ieri un altro invidiabile (si fa per dire) traguardo.

Il solito asse tra il Partito popolare e le destre ha messo la firma sull’ultima vergogna denunciata dalla delegazione degli eurodeputati M5S che, “sostituendo il criterio di esclusione delle ‘armi controverse’ dai benchmark di finanza sostenibile con il termine più ristretto ‘armi proibite’…”, di fatto allarga la lista delle armi considerate ammissibili (leggi pezzo a pagina 2). Una sorta di galleria degli orrori nella quale c’è di tutto di più: “Nucleari, uranio impoverito, armi laser accecanti, frammenti non rilevabili, armi incendiarie al fosforo bianco, sistemi d’arma autonomi letali, robot killer”.

E ciò nonostante queste armi, ricordano gli europarlamentari pentastellati, siano “incompatibili con il diritto internazionale umanitario e con gli obiettivi dell’Accordo di Parigi”. Insomma, l’ultima (?) tappa di una deriva iniziata con l’invasione dell’Ucraina e giustificata con il rischio di una fantomatica invasione dell’Europa da parte della Russia che ha già visto sottrarre dai bilanci Ue e degli Stati membri miliardi a scuole, ospedali, edilizia pubblica, trasporti e lotta alla povertà per destinarli alla spesa militare. Accelerando di fatto la trasformazione dell’Unione europea in una economia di guerra.

Segno evidente che si è ormai superato il limite in un’Europa nata, secondo lo spirito dei padri fondatori, per evitare nuove tragedie come quella del secondo conflitto mondiale, ma che sembra ormai aver perso irrimediabilmente la bussola della sua missione fondativa. Il confine della discrezionalità politica, alla base delle scelte dei vertici europei, è stato ampiamente oltrepassato. E con l’allentamento dei vincoli perfino sulle armi più micidiali e controverse, pure quello dell’etica.


Ahi, Tropical Maduro Caudillo petrolifero nel mirino di Trump


Venezuela blues. Il dittatore succeduto a Chávez regna dal 2013, pur privo del suo carisma. Divenuto vice scalando il sindacato, ribatte colpo su colpo alle provocazioni americane, tra orgoglio patrio e propaganda

(di Pino Corrias – ilfattoquotidiano.it) – Tropical tempesta a stelle e strisce s’attende sulle coste del disgraziato Venezuela di Nicolas Maduro, il caudillo, che a Caracas cavalca malamente il potere da una dozzina d’anni, moltiplicando l’inflazione, la corruzione e i debiti con Russia e Cina, svendendo il petrolio, riempiendo le carceri di dissidenti e di stranieri, come il nostro Alberto Trentini, da usare come moneta di scambio per futuri ricatti, svuotando i banchi dei supermercati e delle farmacie, arricchendo i ricchi, mandando in malora il ceto medio, affamando e facendo fuggire la sua popolazione che un tempo gli aveva persino creduto.

Maduro, 63 anni appena compiuti, detto “il gallo combattente”, ama il potere, le fanfare e la forza. Con l’esercito, la repressione, le leggi e i giudici ad personam si è fatto padre-padrone del Venezuela. Lo ha demolito un po’ alla volta, fino alle macerie di oggi. Viene da una famiglia cattolica di Caracas. Studia quasi nulla. Diventa autista d’autobus. Ma la sua vocazione è il sindacato. Lo scala. Entra in politica nel Movimento Rivoluzionario Bolivariano. Diventa parlamentare. Lo scopre la stella nascente del socialismo Hugo Chávez, l’ex colonnello dei paracadutisti, che dopo un tentato golpe e il carcere, nell’anno 1998, diventa presidente. Maduro sarà il suo delfino e dal 2013, il suo erede.

Trump se lo è scelto come nemico perfetto: claudicante, con le spalle al muro nell’angolo più a Nord del cortile di casa, il Sudamerica, il continente che respira, controllato a vista dalla fraterna giurisdizione di Washington che fa e disfa regimi dai tempi della Dottrina Monroe, anno 1823. Tra i nuovi arredi barocchi dello Studio Ovale, Trump ha annunciato “azioni segrete della Cia già in corso” per rovesciarlo. E ha promesso: “Maduro ha i giorni contati”. Lo accusa di essere alla guida di un narco-Stato che attenta alla sicurezza nazionale dell’America spedendo il micidiale Fentanyl, la droga sintetica che ogni anno trasforma 80 mila americani in zombie. E anche se non è vero quasi niente – il Fentanyl viene prodotto in Cina, e i grandi trafficanti stanno in Colombia, Ecuador, Messico – ha spedito la più grande portaerei della Marina, la Gerald Ford, davanti alle sue coste, con i motori che ronfano al minimo. Mentre 10 mila marines sono sbarcati a ottobre sulle sabbie di Porto Rico a mimare una esercitazione militare e sono ancora lì, in attesa. Anche loro si godono lo spettacolo dei motoscafi venezuelani che gli F-35 americani ogni tanto intercettano e affondano, nelle acque internazionali. “Sono narcos”, recita l’accusa sulle immagini gentilmente concesse dal Pentagono alle tv del mondo, ogni missile un centro, come un videogioco, niente audio, niente sangue, solo uno sbuffo di fumo e un monito: ecco come trattiamo i nemici dell’America. Anche se nessuna legge lo consente, tranne quella della forza.

Maduro fa più o meno lo stesso sulla terraferma, in patria. L’ultimo World Report sui diritti umani è impietoso: niente libertà di parola, niente indipendenza della magistratura. I media sono controllati dal regime. La polizia abusa dei suoi poteri, arresta senza mandato e senza spiegazioni.

Le carceri sono un buco nero.
L’economia è al collasso: non c’è lavoro, non c’è cibo, non c’è futuro. Tre milioni di venezuelani sono in fuga verso la Colombia e il Perù. L’iperinflazione ha trasformato il Boliver in coriandoli. La disperazione ha moltiplicato i conflitti e la repressione.

E pensare che nel 1971 il Venezuela, 25 milioni di abitanti ai tempi, in gran parte meticci, classe dirigente bianca, per lo più spagnola e italiana, era lo Stato più ricco del Sud America. Galleggiava su 330 miliardi di barili del petrolio più pregiato al mondo. Lo avvantaggiava la dolcezza del clima, la fertilità della terra, le altre ricchezze minerarie. Il benessere faceva contenti tutti. Nessuno pensava a investimenti e riforme. Così che quando negli anni 80 il petrolio precipita da 106 a 32 dollari, il cambio di stagione diventa una voragine, il Pil si dimezza, la povertà raddoppia, i ricchi si prendono quel che resta.

Saltano le casse dello Stato.
Interviene il Fondo monetario internazionale che offre prestiti e chiede tagli sociali. Monta la protesta, fino alla strage del febbraio 1989, quando per arginare le manifestazioni di Caracas, esce dalle caserme l’esercito, spara, 380 morti.

Entra in gioco Hugo Rafael Chávez che predica socialismo, giustizia sociale per la popolazione meticcia. Stravince le elezioni. Investe in fabbriche, scuola, sanità. In 15 anni di potere raddoppia l’occupazione e il reddito pro capite. Poi arriva la malattia che in un anno si porta via Chávez e la quasi primavera del Venezuela. Maduro vince le elezioni del 2013 per un soffio e una ammissione che diventerà una minaccia: “Sono figlio di Chávez, ma non sono Chávez”. In una manciata di anni – dalla reggia presidenziale di Palazzo Miraflores – reprime ogni dissenso “con le buone o con le cattive” come dichiara nei suoi lunghissimi sermoni che la televisione nazionale ritrasmette. Esautora il Parlamento nel 2017. Nomina i giudici della Corte Suprema che lavorano al suo servizio. Sopravvive a un tentativo di omicidio. Minacciato dagli Usa, si lega sempre di più alla Russia con accordi militari e ai generosi prestiti della Cina. Apre alla Turchia e all’Iran. Oltre all’esercito, gli protegge le spalle la moglie Cilia Flores, avvocato penalista, parlamentare, sospettata a suo tempo di narcotraffico, titolare di molto potere, dura di carattere: “Cilia ti ama o ti odia, non fa negoziati”.

Per tre elezioni di seguito, la coppia presidenziale resiste a forza di brogli. Al suo primo mandato, Trump prova a buttare Maduro giù dalla torre, appoggiando il giovano deputato liberal Juan Guaidó che il 23 gennaio 2019 si autoproclama presidente. Tranne l’Italia che nicchia, lo sostengono apertamente l’Europa, gran parte dell’Occidente e del Sud America. Maduro reagisce: “Non torneremo al Ventesimo secolo dei gringos e dei colpi di Stato. Io sono il solo presidente legittimo”. È sempre più vero il contrario, visto che all’ultimo giro elettorale, luglio 2024, ha oscurato i risultati, limitandosi a dichiarare di aver vinto.

Sparito Guaidó, Trump ci ha appena riprovato con Maria Corina Machado, esponente dell’ultra-destra, che vive clandestina, minacciata da Maduro, protetta dalla Cia. Anche lei si prepara alla guerra, questa volta innalzando il premio Nobel per la Pace che ha appena incassato, grazie a uno di quei giochi di prestigio di cui si nutre la geopolitica. E promette: “La transizione è già iniziata”. Armi, finzioni e propaganda stanno apparecchiando la tavola dell’ultima cena. Il destino del Venezuela è di nuovo in gioco e non sarà Maduro a giocare.


Sicurezza e fisco: il M5S in viaggio verso nord


Le tappe. In aprile cantiere del programma. Vertici, nomine e nuove parole d’ordine per recuperare voti sopra Roma e tra i “moderati”

(di Luca De Carolis – ilfattoquotidiano.it) – L’avvocato va di corsa. Perché lo sfidante di Giorgia Meloni vuole essere lui. Giuseppe Conte pensa già alle primarie del centrosinistra da vincere, per tornare dove si sente a casa, cioè a Palazzo Chigi. Per questo ha già lanciato il cantiere del programma sul modello di Nova, la costituente di un anno fa, sull’onda del Roberto Fico che ha stravinto in Campania. Voleva bruciare sul tempo gli altri del campo largo, e soprattutto Elly Schlein, che “già ragionava di tavoli di coalizione, per guidarli” sussurra un big del M5S. Invece ieri su Repubblica l’ex premier il tavolo l’ha rinviato “a dopo l’estate”. Prima vuole coinvolgere gli iscritti del Movimento – che nelle chat sembrano contenti dell’idea –, ma anche quelli che stanno di fuori, simpatizzanti e anche cittadini neutrali. E ovviamente vuole e deve recuperare voti, e da qui arriva tutto quel battere su sicurezza, imprese e tasse.

Parole d’ordine per (ri)trovare consensi al centro, inteso come spazio politico: mai così affollato. Ma anche al Nord, area geografica dove il Movimento in molte zone praticamente non esiste, e il fatalismo con cui i parlamentari hanno accolto il 2 per cento e qualcosa in Veneto racconta la gravità del problema. Mescolare il tutto, ed ecco il Conte iperattivo degli ultimi giorni. Il suo cantiere per il programma dovrebbe andare in scena in aprile. Ma è ancora tutto da pensare e definire, “anche perché questa volta dovremo dare grande spazio agli esterni” raccontano. Unica, parziale certezza, a organizzarlo dovrebbe essere di nuovo Avventura Urbana, società già ingaggiata dal M5S per Nova e altre iniziative. L’importante era l’annuncio, ossia giocare d’anticipo sugli altri partiti. Rilanciare, con l’obiettivo di non schiacciarsi a sinistra, per non sembrare sovrapponibile come slogan e postura al Pd rosso fuoco di Schlein. Raccontano che poche settimane fa l’ex premier abbia incontrato una società di comunicazione per fare un punto sulla strategia.

E una delle principali raccomandazioni ricevute è stata quella di “investire di più sul Nord”, innanzitutto sul piano dei temi, e innanzitutto insistendo sulla sicurezza, fianco scoperto del governo di centrodestra, abbinando l’argomento a messaggi di sostegno a famiglie in difficoltà e piccole e medie imprese. Nel M5S si augurano che questi argomenti spicchino tra le proposte di base e società civile nel cantiere di programma. Nell’attesa, Conte ha già ricalibrato la sua comunicazione, per esempio smarcandosi da Schlein sul tema patrimoniale (suscitando peraltro diversi mal di pancia nel M5S). E battendo molto sulle tasse e sulla pressione fiscale che sale. Il Movimento si distanzia dal suo tradizionale bacino sociale di riferimento? Il vicepresidente Michele Gubitosa, imprenditore, al Fatto la racconta diversamente: “Il M5S è e resterà sempre vicino ai più deboli. Oggi tanti del ceto medio sono caduti in povertà e molte piccole e medie imprese sono in grandissima difficoltà. Quando andiamo a sostenere gli operai in cassintegrazione o che rischiano di perdere il lavoro perché i proprietari vogliono delocalizzare, gli imprenditori ce li ritroviamo accanto e li sentiamo chiederci aiuto”. C’è anche quel filo da tirare, per riaccreditarsi come forza di governo. “Ma per riprendere voti al Nord bisogna farsi vedere sui territori, e cambiare la narrazione di partito assistenzialista” sussurrano vari 5Stelle.

Conte lo sa, e medita di farsi vedere di più sopra Roma. Pensa a incontri mirati. “Sono convinta che al Nord si possa cambiare rotta” dice al Fatto Chiara Appendino, dimessasi 40 giorni fa da vicepresidente. Secondo l’ex sindaca di Torino “il Movimento può e deve farsi sentire di più, perché i problemi da risolvere ci sono. Ho presentato una proposta di legge sulla sicurezza per garantire più prevenzione e presenza dello Stato nei territori, e faccio tanti incontri davanti alle fabbriche per ascoltare i lavoratori. E poi ci sono le imprese tradite dal ministro Urso, strozzate da difficoltà di accesso al credito, bollette e costi di gestione”. Il margine per recuperare terreno ci sarebbe, è il concetto. Ma il punto è sempre il come, assieme alla difficoltà di penetrare certi mondi.

Anche per questo Conte potrebbe tornare ad affidarsi a veterani che sanno come muoversi, come il lombardo Stefano Buffagni, già sottosegretario, in forte odore di ricandidatura alle Politiche. E sempre il tema Nord può essere una delle ragioni per nominare vicepresidente l’attuale capogruppo in Senato, il triestino Stefano Patuanelli, già ministro per due anni allo Sviluppo economico nel primo governo dell’avvocato, quindi “uno che con le imprese ha imparato a parlare”, ricordano dal Movimento. Tutto può servire, nella campagna elettorale permanente di Conte. Pronto a costruire il programma di governo dal basso, come fece quasi vent’anni fa con le “primarie dei cittadini” un altro leader del Movimento. Si chiamava Beppe Grillo e quel documento lo portò all’allora premier Romano Prodi, che si appisolò. Conte il suo programma lo porterà (anche) a Schlein. Ma lei la troverà sveglia.


Giungla sanità, migliori e peggiori: ecco le classifiche di esami e cure


Il rapporto Agenas su Asl e ospedali: a fare la differenza nelle cure è la cattiva o buona organizzazione. Fondi e medici pesano meno

Giungla sanità, migliori e peggiori: ecco le classifiche di esami e cure

(PAOLO RUSSO – lastampa.it) – Si ha un bel dire che a fare la differenza tra buona e cattiva sanità sia tutta una questione di soldi e di personale, perché quando si scopre che l’ospedale Papardo di Messina, come dovrebbe, opera un tumore al colon entro 30 giorni solo nel 7,7% dei casi, mentre gli “Ospedali Civili di Brescia” rispettano i tempi per il 95% degli interventi, allora si capisce che a fare la differenza non possono essere solo finanziamenti e dotazioni organiche. Ma anche, se non soprattutto, la buona o cattiva organizzazione.

Tanto più quando si scopre che le differenze abissali del tumore al colon si registrano anche per altri tipi di interventi chirurgici. O per gli screening, che i tumori servono a prevenirli, per l’assistenza domiciliare di cui sempre più necessitano i nostri grandi vecchi o per le permanenze in pronto soccorso, che per un paziente su quattro richiedono più di 8 ore di attesa al Policlinico Tor Vergata di Roma, mentre al San Carlo di Potenza solo l’1% dei pazienti aspetta così tanto.

E che non si possa ridurre tutto a una mancanza di risorse e uomini lo confermano altri grafici, dove a volte a buone prestazioni offerte corrisponde una dotazione organica di personale al limite del necessario, mentre in altri casi, con persino più medici e infermieri di quanto servirebbe, il livello dell’assistenza cala. Per esempio, l’azienda ospedaliera universitaria di Padova è quella che in tempi più rapidi di tutti impianta le protesi d’anca con una dotazione di personale appena in linea con il fabbisogno di sanitari, mentre il Policlinico di Cagliari fa le peggiori performance pur avendo più personale di quello che sarebbe il suo fabbisogno. Dati preziosi anche per l’applicazione del piano di assunzioni voluto dal ministro della Salute, Orazio Schillaci, perché quel po’ di medici e infermieri che si riuscirà ad arruolare è bene vadano dove effettivamente servono.

È una sanità che non va a due ma a 163 velocità quella a cui fa le pulci il “Modello di valutazione delle performance” di altrettante Asl e ospedali, messo a punto da Agenas e presentato ieri ad Arezzo al “Forum sul risk management”. â€œDati che non servono a stilare classifiche ma a intervenire dove necessario e a stimolare un miglioramento delle performance che stiamo comunque registrando”, ci tiene a precisare il commissario straordinario di Agenas, Americo Cicchetti. Che a supporto mostra il +27,3% in un anno di performance nella prevenzione della Asl di Novara o il roboante +80% dell’assistenza ospedaliera offerta dalla Asl 1 Imperiese.

Ma su molte prestazioni fondamentali per la tutela della salute le differenze da una Asl o da un ospedale all’altro restano inaccettabili. “Non è ammissibile che il diritto alle cure dipenda dal codice postale degli assistiti”, ha detto Schillaci. Che dire allora quando, navigando sulla piattaforma Agenas, si scopre che lo screening al colon, un accertamento che salva le vite, nella Asl di Bari si fa solo allo 0,2% della popolazione in età a rischio oncologico, mentre ad Aosta la percentuale sale a un pur non ottimale 58,9%. Eppure un grafico elaborato da Agenas mostra che dove si fa più prevenzione c’è anche meno mortalità evitabile, come nelle Asl di Trento o in quella della Marca Trevigiana, mentre dove gli screening latitano i decessi prevenibili salgono, come nel caso della Asl di Crotone oltre che di Napoli Centro e Nord.

Con 4,6 milioni di over 80, l’assistenza domiciliare diventa indispensabile per molti non autosufficienti. Ma anche qui Asl che vai, offerta che trovi: a Catanzaro non si va oltre 2,6 assistiti ogni mille abitanti, mentre l’azienda sanitaria polesana copre 19,94 non autosufficienti.

Stesso discorso per l’assistenza psichiatrica, di cui pure c’è sempre più bisogn. Ma la presa in carico dipende da dove si vive, perché si va dagli 0,52 pazienti assistiti ogni mille abitanti in Molise ai 28,28 di Piacenza. A leggere i numeri molto c’è ancora da efficientare anche nel caso delle sale operatorie, che in molti ospedali lavorano molto poco, sia per giustificare i costi sia per garantire una sufficiente sicurezza ai pazienti, visto che la buona riuscita di un intervento chirurgico dipende anche dall’esperienza che si matura sul campo.

E poi c’è il tema della produttività del personale, che non sembra essere aumentata rispetto ai livelli del 2019, nonostante durante la pandemia siano stati arruolati in vario modo 40mila operatori sanitari. Ora l’Agenas annuncia audit nelle Asl e negli ospedali più in difficoltà. Magari per provare a esportare i modelli di chi invece performa già bene, a volte spendendo anche meno.


Nessun grado di separazione


(di Michele Serra – repubblica.it) – Nella speranza di emanciparmi dalla mia ignoranza finanziaria, leggo la newsletter di Walter Galbiati su Repubblica online, nella quale, tra le altre cose, si spiegano con chiarezza le oscure dinamiche di bitcoin, stablecoin, criptovalute e altre diavolerie dell’evo digitale. Capisco circa la metà di quanto leggo, e sia chiaro che la metà che capisco è merito di Galbiati, la metà che non capisco è mio demerito.

Due cose mi sbalordiscono — ed è lo sbalordimento tipico dell’uomo del Novecento di fronte al mutare dei tempi. La prima è che è sempre più difficile trovare il nesso tra l’economia reale (il lavoro umano, la produzione e il consumo di beni, la ricaduta della fatica e dell’ingegno sul benessere privato e pubblico) e quella finanziaria. Un nesso residuo ci sarà pure: ma i gradi di separazione sono molteplici.

La seconda, per me ancora più sbalorditiva, è che tra potere politico e potere economico non esiste quasi più distanza. Nessun grado di separazione.

Donald Trump, presidente degli Stati Uniti, e Steve Witkoff, plenipotenziario della Casa Bianca per i negoziati in Medio Oriente e Ucraina, sono tra gli attori principali della scena finanziaria, in specie della valuta digitale (avrò detto giusto?) stablecoin. Che ogni loro atto pubblico sia sospettabile di interessi privati non è nemmeno un sospetto: è una certezza.

In America i ricchi, forse perché non si fidavano più dei politici, hanno preso direttamente in mano le redini del Paese. Moltitudini di poveri applaudono. Con le pezze al culo e le bende sugli occhi: è il populismo, baby.


L’infantilismo dell’Ue disfa i piani per Kiev


Se il teatrino europeo riesce a far fallire ancora i negoziati, Putin potrà dimostrare agli alleati dei Brics che non è colpa suaE passare così all’opzione militare, la sola cosa che conta nelle trattative

(di Fabio Mini – ilfattoquotidiano.it) – I piani sono cose serie, sono l’articolazione delle strategie e della politica. Il presunto piano per l’Ucraina di 28 punti di Trump e quello di 18 degli europei non sono piani.

Sebbene siano attribuiti alla mente maligna di Putin, a quella rapace di Trump e ai geni europei sono solo i prodotti maldestri, ingenui e raffazzonati che qualche burocrate statunitense o europeo ha tratto da una cosa seria: l’elenco delle quattro o cinque priorità e condizioni che Trump e Putin concordarono in Alaska, a voce ma opportunamente registrate, stenografate e verbalizzato. Una lista di ciò che Putin aveva sempre e pubblicamente dichiarato e che Trump sembrava aver capito. I punti che lo stesso Putin aveva illustrato ai leader dei Paesi amici della Russia che nel frattempo, durante la guerra, sono aumentati. La Russia non ha mai fatto mistero dei propri interessi e principi fondamentali riguardanti l’Ucraina: neutralità, denazificazione e demilitarizzazione e cessione dei suoi territori acquisiti con le operazioni militari e con i referendum popolari. Tutto il resto apparso nei 28+18 punti era fuffa, che però eccitava in particolare gli europei votati a sostenere il martirio ucraino come altrettanti politici americani ed europei.

L’ex generale Kellogg e il repubblicano Lindsay Graham sobillano ancora gli ucraini e gli europei blaterando di vittoria ucraina e questi ultimi fingono di crederci arrivando al paradossale impegno a proseguire l’aiuto all’Ucraina anche sapendo che ha già perduto la guerra e che lo stesso aiuto non sarà sufficiente a ribaltare le sorti. In pratica questi “maschi” europei che incitano alla guerra si comportano nei riguardi dell’Ucraina come il mitico Achille che continuò a stuprare l’amazzone Pentesilea anche dopo morta. D’altra parte le vergini (si fa per dire) amazzoni europee, inclusa l’Ucraina, la Germania, la Francia, la Gran Bretagna e tutta la serie di bellicisti che si aggirano per i corridoi dell’Unione europea, della Nato e dei vari governi nazionali tra cui l’Italia brandiscono la spada contro l’Achille russo bramando proprio di essere stuprate anche da morte.

Oggi ci troviamo nello stesso schema già visto in precedenza: i russi e gli americani si parlano per concordare, gli europei e l’Ucraina si parlano per discordare dagli uni e dagli altri. Trump propone e gli europei fanno controproposte che annullando le proposte stesse diventano inaccettabili per la controparte. Il tutto solo per poter affermare che la Russia non vuole la pace e scaricare su di essa la responsabilità del fallimento.

Gioco terribilmente infantile che però funziona perché Trump ogni volta ritorna sui suoi passi e abbraccia la macabra linea degli europei e dell’Ucraina. In Alaska fu proprio Trump a proporre a Putin una soluzione. Putin si disse d’accordo sul considerarla un base per un futuro piano di pace e sollecitò la formalizzazione della proposta. Trump promise di darla, ma non è mai arrivata. Anzi di fronte alle rimostranze degli europei e della stessa Ucraina venivano introdotte nuove misure contro la Russia, sanzioni secondarie sugli importatori di petrolio russo e si avanzò l’idea di dare all’Ucraina i missili a lunga gittata Tomahawk. Una telefonata di Putin fece riflettere su questo e allora Kirill Dmitriev per conto russo e Steve Witkoff per conto Usa, s’incaricarono di fornire ulteriori dettagli. Ad esempio: per la Russia non è necessario e nemmeno opportuno cessare le operazioni militari prima di un accordo, la priorità è la normalizzazione delle relazioni fra Russia e Usa nella consapevolezza che solo tale presupposto può favorire la costruzione della sicurezza internazionale.

L’ancora di salvezza in extremis dell’Ucraina è la sopravvivenza dello Stato in una forma che garantisca la pace in Europa. Un altro dettaglio è la fretta di Trump di concludere o far saltare un accordo prima che la russofobia e l’eurofobia americane non lo scalzino dal potere. D’altronde i russi non hanno fretta di perdere a tavolino ciò che hanno guadagnato sul terreno. Gli americani non hanno bisogno dei pizzini russi per capire come sia la situazione in Ucraina. Da 11 anni la controllano accertandosi che i governanti facciano ciò che loro dicono e pagano; da 10 gestiscono la guerra per procura contro Mosca e da 3 anni dirigono anche le operazioni sul terreno. La sconfitta ucraina è in sostanza la loro sconfitta che Trump sta cercando disperatamente di scaricare sull’amministrazione Biden, pur sapendo che è di tutta l’America rappresentata da quanti hanno puntato solo sull’uso della forza per mantenere l’egemonia globale. È la politica americana degli ultimi trent’anni a esser sconfitta. E ciò né i Democratici né i Repubblicani son disposti a riconoscere qualunque cosa dica o faccia Trump.

L’Ucraina sta perdendo ogni giorno di più territori, risorse e motivazione, e non da ieri gli americani hanno iniziato la revisione dei conti e delle relative corruzioni: due anni fa la Cia presentò a Zelensky una lista di 33 politici e funzionari statali da rimuovere perché corrotti. Lui ne rimosse solo 11, lasciando che gli altri facessero anche peggio perché incoraggiati dalla copertura e perché conoscevano anche il coinvolgimento dello stesso presidente nei loro affari. Oggi sono sempre gli stessi americani e l’Fbi a sostenere il lavoro del Nabu (il Bureau anti-corruzione) e il Sapo (la Procura anti-corruzione) che lo stesso Zelensky ha cercato più volte di chiudere. Con le ultime inchieste si sono dileguati altri oligarchi e ministri, ma il cerchio si stringe proprio attorno al presidente e lo stesso Yermak, suo stretto collaboratore, non vive notti serene. Eppure è lui che ancora rappresenta l’Ucraina ai colloqui con gli europei e detta loro le sue condizioni.

Da parte sua la Russia non si preoccupa molto delle posizioni altalenanti di Trump e nemmeno delle minacce e degli insulti europei. Qualche giorno fa al Consiglio di sicurezza russo che sollecitava una soluzione militare, Putin rispose che per quanto lo riguardava era d’accordo e avrebbe preferito la soluzione militare, ma aveva illustrato agli “alleati” dei Brics e altri il piano proposto da Trump in Alaska e aveva chiesto il loro parere. Essi avevano approvato l’approccio diplomatico sulla base di quella proposta. Ora, se il giochetto europeo riesce ancora una volta a far fallire i negoziati la Russia potrà dimostrare ai propri alleati che non è colpa sua. E avrà il loro consenso per passare all’opzione militare. Ma c’è di più: in pratica con tale consultazione Putin ha voluto dimostrare che la visione russa del futuro non è né unipolare né bipolare. È multilaterale ed è questa idea che tiene insieme i Brics e che alletta altri paesi a volerne far parte. Se la diplomazia fallisce, e le probabilità che ciò accada sono sempre più alte, la Russia si concentrerà sui risultati militari che, come in tutte le guerre, sono quelli che contano ai tavoli della pace prevalendo perfino sui tavoli del diritto internazionale. È una questione di giorni o al massimo qualche mese e l’Europa dovrà decidere se e come entrare in guerra contro la Russia. In tv giornalisti, politici e generali sostengono cose rassicuranti: la Russia è un nano economico e un bluff militare, rimane da spiegare perché sia una minaccia per l’intero continente. L’Europa oggi ha capacità militari in grado di far fuori per sempre la Russia, ma rimane da spiegare perché ci dobbiamo riarmare. L’Ucraina deve vincere, anche se per farlo dovrà perdere sovranità, persone e risorse. L’Europa deve aiutare l’Ucraina a difendersi, anche se si esclude che possa farcela mentre aumentano i dubbi che gli europei, dopo essersi dissanguati con i ricatti americani, abbiano ancora qualcosa da dare. Però bisogna fare in fretta perché il “nemico è alle porte”. Non avremo tempo per costruire i robot da mandare allo sfascio e allora dovranno partire le cartoline di mobilitazione per mandare uomini e donne al macello. Sperando che questa volta l’onore di morire in guerra non tocchi solo agli ignari ma anche ai figli e nipoti di quelli che la guerra l’hanno voluta e costruita con tanto impegno e chiacchiere.


Ah già, Gaza


(di Marco Travaglio – il Fatto Quotidiano) – Sparita dai radar dei media dopo l’accordo di Sharm el Sheikh, da un mese e mezzo la Striscia di Gaza è precipitata nel limbo. Tra la fase 1 del piano Usa-Paesi arabi (la tregua) e la fase 2 (l’improbabile disarmo di Hamas e l’arduo ritiro di Israele, da sostituire con una forza di stabilizzazione per avviare la ricostruzione), c’è l’inverno. Che i 2 milioni di palestinesi affrontano senza un tetto, al freddo, nel fango, tra liquami, detriti e rifiuti. I più fortunati hanno una tenda, quasi sempre […]


Che fine hanno fatto le inchieste milanesi sulla Santanchè, il figlio di La Russa…


(dagospia.com) – Da mesi siamo in trepida attesa della chiusura delle indagini dei Pm della Procura di Milano, diretta da Marcello Viola, sulla vendita del 15% di Mps da parte del Mef finita – guarda che coincidenza! – nelle mani di Caltariccone e compagni.

Ancora. Per la Santanché un rinvio tira l’altro. A circa dieci mesi dal rinvio a giudizio per i falsi in bilancio per cui l’ex amministratrice Daniela Santanchè (ministra del Turismo del governo Meloni e senatrice di Fratelli d’Italia), il processo a Milano (con altre 16 persone) rischia seriamente di finire in prescrizione.

Un rischio sollevato la scorsa estate non da Dagospia ma dai i pubblici ministeri Marina Gravina e Luigi Luzi. Sul processo per truffa aggravata all’INPS la prescrizione è sospesa: il giudice ha infatti congelato il decorso del termine almeno fino a febbraio 2026, in attesa della decisione della Consulta sul conflitto tra Senato e Procura relativo all’utilizzo di alcuni atti. In condizioni ordinarie, la prescrizione per il reato di truffa aggravata scatterebbe a metà 2027, ma la sospensione giudiziale ha fermato il decorso.

Invece, per altri procedimenti correlati, come il falso in bilancio e il crac Visibilia, esiste il rischio che si avvicini la scadenza della prescrizione a causa dei ripetuti rinvii delle udienze.

Per il falso in bilancio, invece, la richiesta di rinvio a giudizio è stata formalizzata nel luglio 2024 e la prescrizione potrebbe scattare dopo 5 anni, quindi nel 2029, con alcune annualità già prescritte per il periodo 2016-2018.

I rinvii stanno però accelerando il rischio prescrizione e i PM hanno segnalato come, con questo ritmo, la tagliola potrebbe avvicinarsi già nei prossimi due anni se non si accelera il dibattimento.

Riguardo alla bancarotta delle società collegate, la prescrizione dipende dalla data del presunto fallimento: in assenza di atti interruttivi rilevanti, la scadenza per questi reati è di solito tra 6 e 8 anni dal fallimento, quindi per Ki Group e Bioera il rischio prescrizione potrebbe concretizzarsi tra la fine del 2026 e il 2028, tenendo conto dei rinvii e del calendario fitto delle udienze fissate fino a maggio 2026.

Intanto, del confronto Santanchè-Meloni, annunciato mesi fa dalla premier dopo il rinvio a giudizio della ministra, non si è più avuta notizia.

La “Santa del Turismo”, sostenuta com’è da Ignazio La Russa, se ne fotte e si attovaglia con l’ex della premier, Andrea Giambruno, “Al Moro”, ristorante bene in vista nel pieno centro di Roma, a due passi da Palazzo Chigi.

Come chiesto dalla Procura di Milano, guidata dalla ”prudenza” politica di Viola, lontana anni luce dall’era di chi l’ha preceduto (sotto la lente dei pm milanesi sono finiti in oltre tre decenni Mani Pulite, Parmalat, i furbetti del quartierino, le scalate bancarie, la grande evasione fiscale, le big tech, ecc.), l’indagine per violenza sessuale nei confronti di Leonardo Apache La Russa, figlio del presidente del Senato Ignazio, e del suo amico dj Tommaso Gilardoni è finita archiviata.

I due amici di bisbocce erano stati accusati da una 22enne che, dopo una notte in discoteca, si era risvegliata nel letto di Leonardo Apache.

La presunta vittima, dopo aver incontrato l’ex compagno di liceo che le avrebbe offerto un paio di cocktail, ha riferito di un “black out” fino alla mattina dopo quando, verso mezzogiorno, si sarebbe risvegliata “confusa”, disorientata e svestita nel letto di lui, senza ricordare nulla delle ore precedenti.

Benché siano stata riscontrate tracce di Ghb, nota anche come “droga dello stupro”, in un capello della ragazza, che potrebbero essere compatibili proprio con il periodo in cui sarebbero avvenute le violenze, secondo una consulenza difensiva effettuata da un esperto nominato dal legale della ragazza, l’avvocato Stefano Benvenuto, è arrivata l’archiviazione.

Secondo il gip di Milano Rossana Mongiardo, “non ci sono né elementi specifici né prove che i due giovani “si fossero avveduti (o comunque avessero percepito)” che lo stato di alterazione della giovane, “dovuto all’assunzione di alcool e stupefacenti” fosse “tale da incidere sul conseguente vizio del consenso alle prestazioni sessuali compiute”.

In piedi è rimasta solo l’accusa di revenge porn: il vispo erede di Ignazio avrebbe mandato su whatsapp un video intimo della ragazza a Tommaso Gilardoni, che l’ha inoltrato ad altre persone.

L’offerta di 25mila euro come risarcimento per il video registrato la notte tra il 18 e il 19 maggio 2023 a Milano, non basta alla pm Rosaria Stagnario e all’aggiunta Letizia Mannella per ritenersi soddisfatte senza un percorso riparativo.

Ancora più dura la reazione della presunta vittima: l’avvocato Stefano Benvenuto ha letto in aula una mail della ventiquattrenne che ha rifiutato il risarcimento perché “non soddisfacente”. Sarà la giudice Maria Beatrice Parati a decidere, nella prossima udienza fissata per il 17 dicembre, se ritenere la cifra in denaro congrua, se affiancare al denaro un percorso di giustizia riparativa che interromperebbe l’iter processuale oppure decidere se procedere lasciando ai difensori la possibilità di optare per eventuali riti alternativi.

Il 17 dicembre è attesa la sentenza per Gilardoni che ha chiesto il rito abbreviato. Per il deejay la pubblica accusa ha chiesto una condanna a due anni per la diffusione del video senza il consenso della vittima, e riguarda due distinti episodi di revenge porn.

E il chiacchieratissimo scandalo della “Gintoneria”, che coinvolgeva mezza Milano potentona, una volta nelle manine della Procura di Milano, che fine ha fatto? Per aver messo insieme “prostituzione, detenzione e spaccio di stupefacenti e autoriciclaggio”, il tenero Davide Lacerenza ha patteggiato 4 anni e 8 mesi di reclusione; con l’accordo è stata prevista anche la confisca di beni per risarcire lo Stato, tra cui bottiglie di champagne e arredamenti dei locali per un valore superiore a 900mila euro.

Massì, non fate i Savonarola, ci sta pure un ridicolo ma frizzante risarcimento a base di Dom Perignon quando c’è di mezzo un coattone cocato che si può permettere, ospite de “La Zanzara” di Radio24, di gonfiarsi come una rana e di spedire “pizzini” ai naviganti: “Da me venivano tutti: politici, imprenditori, magistrati. sul mio telefono ho tutti i nomi coi messaggi…”.

Alle tali esplosive indagini in mano alla Procura di Milano, le cui sentenze di condanna avrebbero avuto un immediato e devastante rimbalzo nei palazzi del potere romano, ora si aggiunge il caso di Francesco De Tommasi, il pm dell’inchiesta sui dossieraggi dell’agenzia Equalize di Enrico Pazzali.

“Delicatissima”, scrive il temerario Luigi Ferrarella sul “Corrierone” diretto da Luciano Fontana (che evita di rilanciarlo dalla carta al sito e lo relega in un colonnina con titolo sfollalettori), “anche per gli emersi rapporti di Pazzali con vertici Gdf, dirigenti del palazzo di giustizia milanese e 007 di Roma”.

Infatti, De Tommasi lo troviamo protagonista anche di un nuovo capitolo dell’inchiesta della procura di Milano sugli spioni di Equalize connessi allo scandalo urbanistico milanese.

Grazie a un articolo di “Repubblica” dello scorso 13 settembre, a firma Rosario Di Raimondo, si informa: “Il pm Francesco De Tommasi ha aperto un fascicolo parallelo sul presunto furto e la manipolazione di alcune chat intercorse fra l’archistar e presidente della Triennale, Stefano Boeri, e la direttrice generale dell’istituzione culturale milanese, Carla Morogallo.

Secondo la denuncia di Boeri, quei messaggi estrapolati abusivamente potrebbero anche essere stati “manipolati e modificati”.

Come risulta anche dalla testimonianza resa, come persona offesa, dall’archistar davanti al pm Francesco De Tommasi, lo scorso gennaio”.

Per la vicenda, come anticipato da LaPresse, è indagato l’informatico vicentino Gabriele Edmondo Pegoraro, esperto di bitcoin e cybersecurity, già dipendente di società che forniscono intercettazioni per diverse Procure d’Italia, con le ipotesi di accesso abusivo a sistema informatico e cognizione, interruzione o impedimento illeciti di comunicazioni o conversazioni telegrafiche o telefoniche”.


Meno lavoro rende liberi e produttivi


Il 10 per cento delle aziende italiane sperimenta nuovi modelli organizzativi: orari ridotti e meno rigidi. Tanti i casi di successo, ma in Parlamento è tutto congelato

(Natascia Ronchetti – lespresso.it) – La differenza si è palesata in poco tempo. «Prima avevamo difficoltà a reperire personale qualificato, dopo ci arrivavano migliaia di curriculum», dice Andrea Zomer. «Abbiamo incrociato un tema pratico e un tema etico e valoriale. E il mercato ci ha dato ragione. Quando siamo partiti eravamo in quindici adesso siamo una sessantina. E continuiamo a crescere». Zomer è l’amministratore delegato di Zupit, azienda informatica di Trento che sviluppa software. Ben prima della pandemia, era il 2018, ha ridotto l’orario di lavoro. Da 40 a 30 ore settimanali, dal lunedì al venerdì. Alla Zupit si entra alle 8 e si esce alle 14. Il pomeriggio è sempre libero. «Il tempo è la risorsa più preziosa e democratica che abbiamo», prosegue Zomer, «e noi abbiamo deciso di usarlo meglio, per non vivere come polli in batteria». I risultati? L’efficienza per singola unità produttiva è aumentata, sono stati eliminati i tempi morti, assenteismo e turn over sono stati quasi azzerati. E di fare marcia indietro non se ne parla proprio.

Alla Zupit dicono che forse è solo l’abitudine, la paura di uscire dalla rassicurante comfort zone delle quaranta ore a fermare il cambiamento. Ma anche che c’è un linguaggio che tutti gli imprenditori possono capire: cercare personale, formarlo e trattenerlo è un costo, spesso molto più alto di quanto non richieda la pur difficile compressione dell’orario di lavoro. Poi loro sono la dimostrazione che anche le piccole aziende possono farcela. Non solo gruppi bancari come Intesa Sanpaolo o grandi imprese come EssilorLuxottica, ognuno con la propria formula: meno ore o compresse in quattro giorni anziché cinque. «Oggi il 10 per cento delle aziende italiane sta sperimentando nuovi modelli organizzativi: perché il tema vero è quello di non subordinare la produttività all’orario, concezione novecentesca del lavoro», dice Mariano Corso, responsabile scientifico dell’Osservatorio smart working del Politecnico di Milano. L’ateneo lombardo ha fatto un’indagine sentendo 1.500 lavoratori. Cosa chiedono? Prima di tutto orari meno rigidi, poi la settimana corta. «Ma persiste il vincolo di una cultura manageriale, ancora largamente radicata, che è sovente carente di capacità di programmazione», spiega Corso. «E chi non sa programmare e valutare i risultati dei propri collaboratori si rifugia nella presenza e nello schema fisso dell’orario. Invece la vera scommessa non è più legata al tempo di presenza ma all’impegno».

Eppure, mentre tante aziende, anche se ancora in ordine sparso, ci provano, in Parlamento tutto è congelato. La Camera ha rinviato alla Commissione lavoro la proposta di legge delle opposizioni (Pd, Avs, M5S) che punta alle 32 ore settimanali, a parità di retribuzione. Anche nella forma di turni distribuiti su quattro giorni, con tre anni di sperimentazione, l’istituzione di un osservatorio per monitorarla e soprattutto incentivi sotto forma di sgravi contributivi a seconda delle dimensioni dell’azienda (dal 30 al 60 per cento). «Siamo finiti su un binario morto», conferma Arturo Scotto, parlamentare del Pd tra i firmatari della proposta di legge. «La maggioranza di governo contesta che si riduca l’orario con una normativa, nonostante la gradualità prevista dal nostro impianto: alla fine del triennio la riduzione avviene, settore per settore, sulla base dei dati dell’Osservatorio. Di fatto la maggioranza si trincera dietro la logica che blocca l’introduzione del salario minimo: comprime l’autonomia della contrattazione».

Se la paura è quella di ridurre la produttività già bassa che affligge l’Italia allora, commentano i giuslavoristi, è bene rammentare il progetto che nel Regno Unito, nel 2022, ha coinvolto 61 aziende: produttività mantenuta o incrementata nel 35 per cento dei casi, assenteismo in picchiata (65 per cento in meno), aumento della capacità delle imprese di attirare o trattenere personale. «Detto questo, non esiste un modello unico buono per tutti», avverte il giuslavorista Aldo Bottini. Insomma, meglio evitare gli schemi troppo rigidi e uguali per tutti, calati dall’alto, sulla scia delle 35 ore della Francia. «Ben vengano invece gli incentivi, soprattutto a favore delle piccole e medie imprese», dice Bottini, «il mondo del lavoro è in profonda trasformazione. Non dobbiamo dimenticare che è sempre più difficile reperire personale e i lavoratori hanno aspettative completamente diverse rispetto al passato».

E il punto è che tutto sta lentamente cambiando anche in Italia. Solo che è un cambiamento che parte dal basso. Alla Tria SpA, azienda di Cologno Monzese che opera nel campo della plastica (100 dipendenti) hanno per esempio rivisto completamente l’organizzazione, con la riduzione a 36 ore (a parità di salario e senza toccare le ferie). «Abbiamo scelto la massima flessibilità: adesso si entra dalle 7 alle 9 e il venerdì tutti a casa alle 11», spiega l’amministratore delegato Luciano Anceschi. Regola che vale per tutti, operai e impiegati, in questa media azienda che fattura 40 milioni all’anno. «Dopo la pandemia siamo stati investiti da un’ondata di dimissioni, la gente voleva cambiare lavoro, fare altro», ricorda Anceschi. «In questo modo non solo siamo riusciti a fermare l’esodo e a invertire la rotta. La produttività è aumentata dell’8 per cento e i lavoratori non ci chiedono quasi più permessi per visite mediche o incombenze varie. Ma non è un miracolo, se hai una buona organizzazione ce la fai».

Che non sia un miracolo lo conferma anche il caso di Lamborghini. La casa automobilistica di Sant’Agata Bolognese, che conta 1550 lavoratori, voleva cambiare il sistema dei turni e così da un anno a questa parte ha iniziato a sperimentare una piccola rivoluzione. «Adesso alterniamo settimane da cinque giorni lavorativi a settimane da quattro», dice Matteo Della Rocca, responsabile delle relazioni sindacali. «Il tema», aggiunge, «è lavorare meglio oltre che lavorare meno. Abbiamo applicato il modello a tutta la fabbrica, facendo anche investimenti nell’automazione collaborativa. La produttività è rimasta invariata o è aumentata, nelle linee della catena di montaggio è cresciuta: dal 5 al 10 per cento in più. I lavoratori si sono espressi con un voto plebiscitario: oltre il 95 per cento a favore». Alla Lamborghini osservano che tutto sta funzionando ma dicono anche che i vari modelli non sono fotocopiabili. «Ognuno deve trovare la propria organizzazione in relazione alle proprie esigenze produttive», aggiunge Della Rocca.

Nonostante i tanti casi di successo, nonostante non solo le grandi aziende stiano ripensando l’organizzazione del lavoro, il governo (e tante imprese) alzano un muro. «Nella contrattazione cerchiamo sempre di inserire anche la riduzione dell’orario ma al massimo otteniamo qualche giornata di permesso in più», dice Francesca Re David, responsabile della contrattazione della Cgil. «L’idea è sempre quella di lasciare le aziende completamente libere da ogni vincolo, la logica sottesa è ancora quella del maggior sfruttamento possibile del lavoro. Una logica che vediamo soprattutto nel terziario. Serve una legge che definisca un orario pieno. Poi è necessaria la contrattazione di primo e secondo livello, adattandola ai vari settori produttivi». Per ora tutto è fermo.


L’Italia destinerà il 41% dei fondi per l’industria alla produzioni di armi


(Giorgia Audiello – lindipendente.online) – Il governo italiano ha deciso di sacrificare la crescita e lo sviluppo industriale della Penisola sull’altare del settore della Difesa. In base ai documenti di contabilità pubblica e come riportato dal Sole 24 Ore, infatti, emerge che nel triennio 2026-2028 la difesa assorbirà il 40,9% dei fondi previsti per il ministero delle Imprese e del made in Italy, vale a dire 10,29 miliardi di euro su 25,16 miliardi totali. Si tratta di dati che si ottengono incrociando gli allegati al disegno di legge di bilancio, in esame al Parlamento, con quelli dell’ultimo Documento programmatico di finanza pubblica (Dpfp). Il ministero delle Imprese e del Made in Italy, dunque, è stato scelto come canale per finanziare il riarmo, secondo una linea politica che si sta affermando in buona parte degli Stati europei e fortemente caldeggiata da Bruxelles e dall’Alleanza Atlantica. Il tutto avviene proprio in un lungo periodo di declino per l’industria italiana e in generale europea.

«Per contribuire al rafforzamento della capacità di difesa europea e al consolidamento del pilastro europeo della Nato, l’Italia sta assumendo un ruolo attivo nell’aumento degli investimenti nel settore della difesa, nella maggiore integrazione industriale e nel sostegno a programmi congiunti di ricerca e sviluppo», si legge nel Dpfp. La rilevanza conferita al settore bellico è una conseguenza delle conclusioni del Vertice della NATO tenutosi nel giugno 2025, da cui è emerso l’impegno ad aumentare le spese per la difesa, prevedendo di raggiungere entro il 2035 l’obiettivo del 5% in rapporto al Pil. Secondo il Sole 24 Ore, la tendenza a fare del ministero per l’Industria un canale privilegiato per finanziare il settore del riarmo non è una novità del governo Meloni né dell’ultima manovra. Tuttavia, «solo da quest’anno il documento “Nota illustrativa sulle leggi pluriennali di spesa in conto capitale” allegato al Dpfp (che ha sostituito la vecchia Nadef) consente di fare una proporzione sul budget totale».

Il programma “Interventi in materia di difesa nazionale” da solo vale poco meno di 9,2 miliardi nel triennio, quasi quanto il programma “Incentivazione del sistema produttivo” che, tra gli altri, contiene i contratti di sviluppo (2 miliardi nel triennio), i crediti d’imposta del piano 4.0 (1,4 miliardi), la Nuova Sabatini (1,3 miliardi), gli Ipcei (i progetti di ricerca di comune interesse europeo, 850 milioni), gli Accordi per l’innovazione (300 milioni). Alla difesa sono destinati anche 1,1 miliardi, sempre nel triennio, per progetti di ricerca e sviluppo nel settore dell’industria aeronautica, parte del programma “Politiche industriali, per la competitività, il made in Italy e gestione delle crisi di impresa”. Le singole tabelle del programma offrono anche i dettagli delle risorse triennali: con oltre 7,3 miliardi si finanzieranno, ad esempio, lo sviluppo e l’acquisizione dei caccia Eurofighter Typhoon e quello delle unità navali della classe Fremm; lo sviluppo del missile Aster 30 Block 1 NT e del sistema missilistico di difesa antimissile e antiaereo FSAF PAAMS. La legge di stabilità del 2013, inoltre, concede l’autorizzazione pluriennale (555 milioni per l’ultimo triennio) per l’acquisizione di unità da trasporto e sbarco (LHD), di sei pattugliatori polivalenti d’altura, di un’unità di supporto logistico e due unità ad altissima velocità, oltre a unità operative nell’ambito del Programma navale per la tutela della capacità marittima della Difesa e a unità per il progetto Near Future Submarine.

Mentre i fondi destinati allo sviluppo industriale vengono dirottati al settore della Difesa, il quadro dell’industria italiana continua a rimanere cupo: sebbene a settembre 2025, la produzione abbia registrato segnali di ripresa con un aumento del 2,8% rispetto al mese precedente e dell’1,5% su base annua, i problemi che affliggono l’economia italiana e europea sono lontani dall’essere superati. Dal febbraio 2023 la produzione industriale è calata per 26 mesi consecutivi, prendendo in considerazione la sua variazione tendenziale, ossia in relazione allo stesso mese dell’anno precedente, mentre l’indice PMI del settore manifatturiero è sotto la soglia dei 50 punti da tre anni, tranne qualche piccola variazione in positivo, l’ultima ad agosto, quando è stato a 50,4 per tornare poi di nuovo sotto i 50 punti a settembre. Tra le cause di questa stagnazione economica ci sono gli alti costi energetici, il difficile contesto internazionale, le politiche “green” dell’Ue e i recenti dazi introdotti da Donald Trump. Ma anche la recessione dell’economia tedesca che si riversa su quella italiana. Uno dei problemi più urgenti però è quello del costo dell’energia, mediamente più cara rispetto agli altri Paesi europei: secondo uno studio di Confindustria nel 2024 le imprese italiane hanno pagato l’elettricità l’87 per cento in più rispetto alla Francia, il 72 per cento in più della Spagna e quasi il 40 per cento in più della Germania.

A fronte di questo contesto, il governo italiano ha fatto ben poco per diminuire i prezzi dell’energia e risollevare il settore industriale, mentre sembra aver puntato tutto sul settore della Difesa, rispondendo a esigenze e logiche sovranazionali più che alle necessità del Paese reale e della sua economia.


“I femminicidi non stanno aumentando ma diminuendo”: Vittorio Feltri contro la narrazione femminista…


(Dalla rubrica delle lettere de il Giornale) – Gentile Direttore Feltri, non si può più negare che i femminicidi siano una vera e propria emergenza in Italia. Ogni giorno ne avviene uno. Ora, io non so se sia colpa del patriarcato, come dicono a sinistra, ma da qualcosa dipende questo aumento. Lei cosa ne pensa? Forse davvero ai ragazzi farebbe bene un po’ di educazione sentimentale e sessuale. Giampiero Villa 

Risposta di Vittorio Feltri 

Caro Giampiero, 

noto che anche tu sei rimasto intrappolato nella favola nera secondo cui in Italia ci sarebbe una “strage quotidiana” di donne, come se vivessimo in un Paese infestato da maschi indemoniati pronti a sgozzare qualunque femmina respiri. 

Consentimi di essere schietto: questa narrazione è falsa, e lo dimostrano i numeri, non le emozioni, non gli slogan, non le campagne ideologiche. I dati, peraltro forniti proprio dall’osservatorio di «Non una di meno», dicono una cosa chiarissima: i femminicidi non stanno aumentando, stanno diminuendo. Nel 2022 furono 120. Nel 2023 scesero sotto quella soglia. 

Nel 2024, sempre secondo i collettivi femministi, furono 99. Nel 2025, a oggi, i casi sono 77. Mancano poche settimane alla fine dell’anno, e servirebbero oltre venti nuovi omicidi per raggiungere la cifra dello scorso anno. Non accadrà. E ovviamente ce lo auguriamo, perché siamo tutti turbati da certe cronache. 

Dunque, se vogliamo parlare seriamente, bisogna ammettere che il trend Ã¨ in calo, non in crescita. Allora domandiamoci: dov’è questa esplosione dei casi? E soprattutto, come può essere colpa del “patriarcato” che non esiste? Tale banalizzazione del fenomeno mi lascia perplesso. E qui arriviamo alla seconda fandonia: l’idea che la violenza maschile sia figlia del governo, per giunta di un governo “fascista” solo nella fantasia dei militanti. 

Scusami, ma c’è un limite al ridicolo: davvero qualcuno pensa che il fatto che abbiamo un esecutivo di centrodestra autorizzi gli uomini a massacrare le donne? O che una premier donna, Giorgia Meloni, sia la regista occulta della violenza di genere, tanto che le femministe studiano slogan indecenti quali “meno femminicidi e più melonicidi”? Cosa diavolo c’entra Meloni con il femminicidio? Siamo alla comicità involontaria. 

Il governo, al contrario, ha inasprito pene, accelerato le misure di protezione, approvato norme che altri, che pur si definiscono femministi, per decenni, non hanno varato. Ma si sa: quando la sinistra perde le elezioni, invece di fare autocritica cerca un mostro immaginario da accusare. Poi mi parli di “educazione sentimentale”. Guarda, io a scuola non ho imparato nulla né di sentimentale né di sessuale, e non mi pare di essere diventato un pericolo pubblico, uno stupratore, un molestatore, un femminicida. La scuola formi sulle materie, per cortesia. 

Alla crescita emotiva provvedano le famiglie, le esperienze, la vita. L’idea che la violenza si combatta con una lezione di “gestione delle emozioni” è una trovata da pedagogisti annoia-ti. Vogliamo parlare seriamente di emergenze? Allora guardiamo dove i numeri esplodono davvero: stupri, violenze sessuali, aggressioni nelle strade e nei parchi, spesso, quasi la metà, commesse da immigrati maschi, che rappresentano il 4,5% della popolazione ma sono responsabili di ben oltre il 40% dei reati sessuali. Questo è un dato. Questo è un problema reale. 

Solo che non fa comodo dirlo, perché fa saltare la narrazione del buonismo obbligatorio e del maschio nostrano criminale e pericoloso. Quindi le femministe restano mute. Guai ad accendere un faro sui delitti realizzati dagli stranieri. 

E se un patriarcato ancora vige in Italia, esso è di certo islamico, è quello dove le bambine vengono sposate, infibulate, segregate, ritirate da scuola e controllate dai fratelli come bestiame. Ma anche di quello nessuno parla, perché è più facile dare la colpa ai maschi italiani, che nel frattempo lavorano, pagano le tasse e crescono le famiglie.  

In conclusione, caro Giampiero, la violenza non ha genere e attribuirla a un sesso, a una cultura inesistente o, peggio, a un governo o ad una maggioranza politica, è un insulto all’intelligenza. Ogni assassino risponde del proprio crimine e sul banco degli imputati non deve finirci l’intero genere maschile.  

La responsabilità penale è individuale, non collettiva. Il resto è propaganda, adoperata alla stregua di una clava da una opposizione ormai alla canna del gas, poiché priva di identità, contenuti e credibilità, una opposizione che ha vinto in Puglia e in Campania solo perché non avrebbe potuto non vincere in territori che sono feudi rossi. Al di là di quelle frontiere regionali, la sinistra in Italia risulta “non pervenuta”. Si vede che urlare all’allarme patriarcato bianco non è utile. 


Tajani sostiene che il Ponte sullo Stretto servirebbe a evacuare i siciliani in caso di attacco dal fronte sud. La Sicilia si allarma…


Tajani sostiene che il Ponte sullo Stretto servirebbe a evacuare i siciliani in caso di attacco dal fronte sud. La Sicilia si allarma, Trump si agita per Sigonella, e perfino i “nemici” del sud si chiedono se invaderci sia fin troppo facile. Resta un dubbio: Tajani sa qualcosa che noi ignoriamo? Intanto, mandateci aiuti e scecchi

(di Ottavio Cappellani – mowmag.com) – Antonio Tajani ha detto che il Ponte sullo Stretto è necessario in caso di attacco militare dal fronte sud per evacuare i siciliani. Al che, noi siciliani, siamo un po’ preoccupati: mica lo sapevamo che potevano attaccarci da un momento all’altro in maniera così ferocissima da costringerci all’evacuazione. La dichiarazione di Tajani, però, venendo da un Ministro degli Esteri (che avrà anche contatti con l’intelligence), non ha preoccupato soltanto noi del bar della stazione di servizio.
    1. Donald Trump è preoccupatissimo. Ha chiesto ai propri consiglieri militari che storia è questa, che da sud possono conquistare la Sicilia. Perché in Sicilia, Trump, c’ha Sigonella, con tutti gli aerei, i droni, forse qualche missile, immaginiamo, e se ci conquistano da sud costringendoci all’evacuazione poi gli invasori se ne vanno a Sigonella a prendersi i segreti militari degli U.S., e non è una cosa bella.
    2. I nemiconi cattivoni del fronte sud sono eccitatissimi. E mica lo sapevano che la Sicilia era così sguarnita che, in caso di attacco da sud, TUTTA la Sicilia ha bisogno di essere evacuata. È tutto un telefonarsi su linee protette: “Ma hai sentito Tajani? A questo punto, che aspettiamo a invadere la Sicilia?”, “Ma quindi a Sigonella gli aerei sono finti?”, “Certo, sono di cartone, come quel trucco usato durante la Seconda guerra mondiale. Anche i militari sono finti: sono le comparse del Teatro Massimo Bellini che vanno in scena durante le opere liriche vestiti come a Carnevale”.

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    3. Noi siciliani siamo molto allarmati. Perché se ci invadono dal fronte sud, quindi da Agrigento e provincia, come minchia ci dovremmo arrivare al ponte se non ci sono le strade? Avete presente le critiche al ponte, no? A che serve il ponte se non ci sono le strade e abbiamo ancora tratti ferroviari monorotaia risalenti ai Borboni? Ecco, il problema non è solo che, se non si fanno infrastrutture decenti in Sicilia, il ponte non serve a una beneamata minchia. Il problema si pone anche al contrario: come ci arriviamo, noi del sud Sicilia, al ponte per essere evacuati? Siamo davvero molto preoccupati: se ci invadono i marocchini, si sa, quelli fanno le marocchinate, e non vorremmo andarcene in giro camminando a gambe larghe come John Wayne. Almeno mandateci gli aiuti: paracadutateci le casse di Preparazione H contro le marocchinate, grazie. E mandateci subito anche gli scecchi, che sono l’unico mezzo di locomozione ecologico e con guida assistita da dopo Modica in poi, dove le strade sono al buio, con i tornanti, e senza colonnine per la ricarica elettrica.
Perché è IMPOSSIBILE che un Ministro degli Esteri, nonché vicepresidente del Consiglio della Repubblica Italiana, dica che da un momento all’altro possono invadere la Sicilia e costringere l’Ita(g)lia all’evacuazione di TUTTA LA SICILIA soltanto per cercare di far passare il ponte come struttura militare e quindi soggetta alla procedura “IROP”, che sveltirebbe le pratiche di approvazione. Perché Tajani lo sa che non siamo stupidi, noi siciliani; non è stupida la Corte dei Conti; non è stupido Donald Trump; e non sono stupidi i marocchini. Evidentemente, Tajani sa qualcosa che noi non sappiamo. Intanto, per favore, mandateci gli aiuti come in zona di guerra: Preparazione H e scecchi, tanti scecchi. Se arrivano i marocchini, quelli mica usano la vaselina come voi politici.


A che serve cambiare ora la legge elettorale? Meloni e i suoi all’assalto di Costituzione e Mattarella


Di fronte alle difficoltà, la corte italiana di Trump tenta di imitare il capo e di cambiare legge elettorale e collegi prima del voto. Il loro cammino seguirà una mappa precisa

(Beppe Giulietti – ilfattoquotidiano.it) – Se la destra ha vinto le Regionali, come dicono loro, perché mai la presidente Meloni vuole cambiare subito la legge elettorale? In realtà hanno capito – più di alcuni esponenti del centro sinistra – che il “campo largo” può essere competitivo: nel Veneto, devono ringraziare Zaia che ha letteralmente regalato la vittoria ad una destra che in affanno persino a Venezia, dove si voterà per il nuovo sindaco.

Di fronte alle difficoltà, la corte italiana di Trump tenta di imitare il capo e di cambiare legge elettorale e collegi prima del voto. Il loro cammino seguirà una mappa precisa: referendum contro la giustizia, in caso di vittoria legge elettorale e assalto finale alla Costituzione antifascista. Nel mirino ci sarà sempre il presidente Mattarella con l’intenzione di sbarrare la strada a qualsiasi intervento istituzionale.
Il supremo arbitro va minacciato e azzoppato, ovviamente in senso figurato.

Questo ci deve indurre a fermare l’assalto alla prima occasione utile.

Le elezioni hanno lanciato un primo segnale. Ora bisognerà prepararsi, da subito, al referendum. Se quei 13 milioni che hanno già votato il quesito sull’articolo 18 dovessero decidere di tornare alle urne, tutto potrebbe accadere, anche una possibile vittoria. I sondaggi più seri, non quelli a tariffa, danno in vantaggio, sia pure lievemente, il No. Bisogna rafforzare questo dato e sapere che, se dovessero rimediare un’altra sconfitta, sarebbe la fine della controriforma della giustizia, dell’assalto alla Costituzione, delle leggi bavaglio, dell’autonomia differenziata, delle minacce contro il presidente Mattarella.

Noi di Articolo 21 saremo in tutti i comitati referendari, sempre e comunque dalla parte della Costituzione antifascista.


“I dialoghi della Vagina” a teatro. E il sindaco censura lo spettacolo


Proteste contro il primo cittadino di Ventimiglia Di Muro

Gaia Contrafatto e Virignia Risso in scena durante la commedia

(Giulio Gavino – lastampa.it) – “Daspo Di Muro” per lo spettacolo teatrale “I dialoghi della Vagina”. È di ieri, Giornata mondiale contro la violenza nei confronti delle donne, la notizia che il sindaco a fine ottobre abbia censurato senza appello una commedia, peraltro portata in scena dalla compagnia “Teatro al Femminile”, che attraverso la comicità e il paradosso si propone come momento di riflessione per abbattere tabù e luoghi comuni legati all’universo donna. Uno spettacolo in tournée in Italia dal 2022, con riscontri positivi di critica e pubblico. La compagnia aveva chiesto la disponibilità del Teatro Comunale di Ventimiglia per il mese di ottobre, ma successivamente con il coordinamento della struttura pubblica si era concordato per andare in scena il 29 novembre, considerando l’appeal dell’argomento in piena sintonia con la ricorrenza del 25 novembre.

Lo spettacolo non va in scena

Ma il divieto? È arrivato qualche settimana fa quando gli attori hanno chiesto il patrocinio al Comune. Dal municipio, senza troppe spiegazioni, e soprattutto senza la possibilità di un contraddittorio con il primo cittadino, hanno risposto che non solo non sarebbe stato dato il patrocinio ma che lo spettacolo non sarebbe proprio andato in scena. Insomma, negata la disponibilità del teatro. Â«Siamo di fronte ad una censura sessista – commenta Virginia Risso, che de “I dialoghi della Vagina” è autrice, regista e interprete insieme a Gaia Contrafatto – Mi fa molta rabbia imbattermi in questo “ostruzionismo politico”, perchè ritengo che la parità di genere debba essere apartitica e non il “capriccio di alcune donne assertive”, come mi sono sentita dire in passato».

Nessun confronto

E aggiunge: Â«Sono settimane che cerco un confronto con il sindaco di Ventimiglia per capire la motivazioni di questa decisione, purtroppo senza ottenere alcun riscontro». L’improvviso attacco di “vaginofobia” del primo cittadino di Ventimiglia è sorprendente, a partire dal fatto che negare una struttura pubblica per un evento culturale non è mai una bella cosa e che la libertà di espressione è un diritto costituzionalmente sancito e che i rappresentanti delle istituzioni hanno il dovere di tutelare.

Daspo Di Muro

Il “daspo Di Muro”, interprete abile sul teatro della politica evidentemente inciampato su una decisione che appare essere frutto di una visione personale dell’opportunità e della cultura, rischia di diventare un boomerang, di incasellare Ventimiglia in un contesto culturale che storicamente non le appartiene. JFK diceva che “le biblioteche dovrebbero essere aperte a tutti, tranne che ai censori”, per estensione anche i teatri. Negare alla città di poter scegliere se andare a non andare a teatro appartiene ai doveri di un sindaco? Di Muro pensa di sì, ma di certo non l’ha chiesto ai ventimigliesi che alla fine della fiera sono i proprietari del loro teatro.