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Water e bidet d’oro, mucchi di banconote da 200 euro nella credenza: chi è Timur Mindich, il re delle tangenti che ora imbarazza Zelensky


Latitante da lunedì grazie a una soffiata, Mindich produceva gli show dell’ex comico. Avrebbe orchestrato l’intero schema di tangenti: 86 milioni di euro in totale, il 10-15% su ogni contratto energetico

Water e bidet d'oro, mucchi di banconote da 200 euro nella credenza: chi è Timur Mindich, il re delle tangenti che ora imbarazza Zelensky

(di Irene Soave – corriere.it) – Un water d’oro massiccio, un bidet d’oro massiccio, credenze di cucina straripanti di sacchetti di banconote da 200 euro (e non di grivne ucraine), in una casa dove indagini avrebbero intercettato la presenza recente del presidente Zelensky, che nel 2021 ci avrebbe anche festeggiato un compleanno. Sono i simboli più sfacciati del potere e della ricchezza accumulati da Timur Mindich, uomo chiave dell’inchiesta anticorruzione in Ucraina, ora alla macchia grazie a una fuga di notizie. 

Timur Mindich l’affarista protetto a lungo dal re degli oligarchi ucraini Ihor Kolomoyskyi (in carcere dal 2023 per riciclaggio); Timur Mindich imprenditore che ciò che tocca diventa oro — di qui il nome dell’indagine, Â«operazione Mida» â€” dai fertilizzanti ai diamanti, dalla finanza all’immobiliare, dall’energia ai media. Timur Mindich, ora, anche tangentiere che Zelensky deve sbrigarsi a scaricare, e infatti chiede «pulizia» e annuncia sanzioni personali per gli imputati. 

Un epiteto accompagna infatti il nome Mindich in ogni ricostruzione dell’accaduto sui giornali di tutto il mondo, ed è proprio Â«stretto alleato di Zelensky»: suo amico, comproprietario tuttora della casa di produzione Kvartal 95 che fino al 2019, quando l’allora comico Zelensky vinse le elezioni, ne produceva gli show. 

Tangenti per 86 milioni

Soprattutto, sarebbe stato proprio Mindich a presentare al futuro presidente il miliardario Kolomoyskyi, tra i finanziatori della sua campagna elettorale nel 2019. Per le indagini della Nabu, l’agenzia ucraina anticorruzione, Mindich avrebbe orchestrato l’intero schema di tangenti, del valore di 86 milioni di euro, il 10-15% su ogni contratto energetico in un Paese che i bombardamenti russi lasciano sempre più spesso senza luce e al freddo. 

La procura anticorruzione (Sapo, per i media internazionali) sintetizza il suo ruolo così: «Controllava l’accumulo, la distribuzione e il riciclaggio di soldi ottenuti illecitamente nel settore energetico». Usando, naturalmente, le «relazioni amichevoli» con il suo amico più potente: l’ex comico che prima gli doveva la fama e che ora gli sarebbe stato utile anche solo menzionare. 

I ministri di Mindich

A Mindich si riconducono diverse nomine politiche degli ultimi governi, come l’ex ministro della Giustizia German Galushchenko, ma anche l’ex vicepremier Oleksiy Chernyshov, fatto fuori a giugno per corruzione. Ma l’influenza di Mindich sulla politica sarebbe stata tale, secondo fonti riportate dal Kyiv Independent, da aver addirittura «ispirato» il tentativo del governo, a luglio, di azzerare le prerogative della Nabu, che già da agosto 2024 indagava attivamente proprio su di lui. 

E a giugno aveva disposto l’arresto di un suo parente, Leonid Mindich, che stava fuggendo all’estero con 14 milioni di euro intascati dalla compagna energetica di Kharkiv.

La soffiata e la fuga

Mindich non si difende, per ora: il 10 novembre, meno di ventiquattr’ore prima della notifica delle indagini, Ã¨ fuggito grazie a una soffiata; si dice sia in Israele, dove va spesso, nonostante la sua età — nato a Dnipro, ha 46 anni — lo renda inabile all’espatrio, perché passibile come tutti gli uomini del Paese di essere richiamato al fronte. 

E si indaga anche sulla soffiata, il cui «uccellino», secondo la Ukrainska Pravda, sarebbe il vicedirettore della procura speciale anticorruzione, Andriy Synyuk, filmato mentre si incontra con un avvocato che avrebbe poi visitato il condominio di Mindich; e anche scontento per aver perso nel 2021 la nomina, tutta politica, a direttore della procura speciale. Timur Mindich ha sempre potuto contare su molti amici.


Non la separazione delle carriere: il vero cavallo di Troia di Nordio è l’Alta Corte disciplinare


Concentrare la campagna referendaria sulla “separazione delle carriere sì/no” è fuorviante: il quesito dirimente è se accettiamo un giudice disciplinare senza garanzie d’indipendenza

(Daniela Mainenti Professore Straordinario in Diritto Processuale Penale Comparato – ilfattoquotidiano.it) – L’asse del referendum confermativo non è, malgrado la retorica da comizio, la separazione delle carriere tra giudici e pubblici ministeri: quella è una scelta politicamente divisiva ma concettualmente chiara, da anni oggetto di confronto dottrinale e comparato, con argomenti seri su entrambi i fronti; il vero punto critico, quello che può alterare in profondità la fisionomia costituzionale della giurisdizione, è l’istituzione dell’Alta Corte disciplinare, perché lì si decide chi, come e con quali garanzie potrà giudicare i magistrati, e dunque quanto fragile o resistente sarà l’indipendenza effettiva dei giudici rispetto al potere politico.

Spostare la giurisdizione disciplinare fuori dal CSM e affidarla a un organo ad hoc non è di per sé un’eresia: in astratto può persino apparire un progresso, se immaginato come giudice terzo, tecnicamente attrezzato, con composizione mista bilanciata, standard motivazionali elevati, pubblicità delle decisioni, parametri chiari di proporzionalità delle sanzioni, controllo di legittimità pieno e mandati non rinnovabili sganciati dai cicli della maggioranza di governo. In questa versione ideale, l’Alta Corte ridurrebbe il sospetto di corporativismo, garantirebbe una giurisprudenza disciplinare coerente, rafforzerebbe la fiducia dei cittadini mostrando che chi sbaglia paga, senza colpire chi decide in scienza e coscienza su terreni sensibili.

Ma il progetto reale si gioca sui dettagli che il dibattito pubblico sta colpevolmente schiacciando sotto la parola d’ordine “separazione”: chi nomina i componenti dell’Alta Corte, con quali maggioranze, con quali filtri, con quali incompatibilità effettive rispetto a partiti, governi, strutture di influenza organizzata; quali sono i meccanismi di astensione e ricusazione, come si evita che la scelta cada su profili organici alle stesse filiere di potere che la giurisdizione deve poter controllare; che rapporto c’è tra Alta Corte e CSM in tema di valutazioni di professionalità, trasferimenti, conferimenti di incarichi direttivi? Perché se le leve organizzative restano condizionate mentre la leva disciplinare viene accentrata in un organo potenzialmente esposto alla maggioranza politica, il combinato disposto può produrre un effetto di pressione sistemica ben più incisivo di qualsiasi slogan sulla â€œfine delle correnti”.

La domanda che il referendum pone, al di là degli slogan, e che andrebbe chiarita in maniera solare al cittadino votante, è se l’Alta Corte sarà strutturata secondo tre test minimi: indipendenza, efficienza garantita, proporzionalità controllabile.

Indipendenza significa modalità di scelta non monopolizzate dalla maggioranza, partecipazione di più soggetti istituzionali, criteri di merito verificabili, divieti rigorosi di incarichi politici e consulenze sensibili, mandati lunghi ma non rinnovabili, non coincidenti con la legislatura; efficienza garantita significa tempi certi senza sacrificare il contraddittorio, istruttorie tracciabili, udienze tendenzialmente pubbliche, pubblicazione integrale delle decisioni, filtri seri per le denunce temerarie; proporzionalità controllabile significa tipizzazione chiara degli illeciti disciplinari, griglie sanzionatorie trasparenti, possibilità effettiva di sindacare in sede di legittimità l’equilibrio tra fatti accertati e sanzione irrogata, in modo che nessun giudice venga colpito per la sostanza delle sue decisioni e nessun comportamento gravemente lesivo resti coperto da opacità o indulgenza selettiva.

Se questi tre test non sono soddisfatti nella concreta architettura dell’Alta Corte, il rischio non è teorico: la funzione disciplinare diventa un luogo di torsione istituzionale dove la politica può premiare e punire, dove i casi simbolici vengono usati come messaggi al corpo giudiziario, dove l’indipendenza si logora non con un editto, ma con la minaccia sottile di un procedimento che può colpire chi tocca nervi scoperti del sistema.

È per questo che concentrare la campagna referendaria sulla formula â€œseparazione delle carriere sì/no” Ã¨ una semplificazione comoda e fuorviante: si può essere favorevoli o contrari alla separazione per ragioni serie, ma il quesito davvero dirimente, per chi ha a cuore lo Stato di diritto, Ã¨ se accettiamo di introdurre un giudice disciplinare di vertice senza blindare fino in fondo le sue condizioni di indipendenza. Nel voto referendario non si misurerà solo l’assetto organizzativo della magistratura, si misurerà la capacità dei cittadini di riconoscere che il vero snodo non è dove il dibattito urla, ma dove il silenzio agisce e in silenzio si decide a chi si consegnerà la chiave che può aprire o chiudere lo spazio di libertà della giurisdizione.

Ad oggi il legislatore ha lasciato questo spazio assai opaco e fumoso. Occorrerà, al contrario, averlo spiegato ben chiaro prima di votare.


Migranti, Meloni: “Protocollo Albania funzionerà con nuovo patto asilo”


Le parole della premier, dopo il termine del vertice intergovernativo a Villa Pamphilj: “Tanti hanno cercato di frenarlo, ma andiamo avanti”. Il premier albanese: “Lo rifarei 100 volte con Italia, con altri Paesi mai”

Migranti, Meloni:

(adnkronos.com) – Quella di oggi è “una giornata che per le nostre relazioni bilaterali, per i nostri rapporti si può definire storica, non solamente perché è la prima volta che i nostri governi si incontrano in un formato di questo tipo, ma anche per quantità e la qualità delle intese bilaterali tecniche e governative che sono state sottoscritte”. Così la premier Giorgia Meloni, al termine del vertice intergovernativo Italia-Albania a Villa Pamphilj.

Meloni ricorda che il protocollo sui migranti siglato nel 2023 con l’Albania “metteva in campo un meccanismo innovativo che oggi trova interesse e riconoscimento da parte di molti altri Stati dell’Unione europea” e “in molti hanno lavorato per frenarlo o per bloccarlo, ma noi siamo determinati ad andare avanti perché questo meccanismo dal nostro punto di vista ha il potenziale di modificare l’intero paradigma nella gestione dei flussi migratori”. “Abbiamo fatto discutere in questi ultimi due anni con il primo ministro Rama per il nostro protocollo per il quale ancora una volta voglio ringraziare il primo ministro, il suo governo e l’intero popolo albanese, perché quello che è stato dimostrato all’atto della firma di quel protocollo è che l’Albania si comporta già come una nazione membro dell’Unione europea”, ha detto la premier.

“Quando entrerà in vigore il patto di migrazione e asilo, i centri” per i migranti in Albania “funzioneranno esattamente come avrebbero dovuto funzionare dall’inizio”, ha poi risposto Meloni alla stampa al termine del vertice. E sui ritardi aggiunge: “La responsabilità non è la mia. Sono passati 2 anni e noi arriveremo 2 anni dopo a fare esattamente quello che avremmo potuto fare 2 anni prima e penso che ciascuno si assumerà le proprie responsabilità”.

Per quanto riguarda l’adesione dei Balcani all’Ue “siamo stati tra le nazioni capofila per quella che noi continuiamo a non considerare un allargamento dell’Ue ma una riunificazione dell’Europa. Non siamo noi a decidere chi sia europeo e chi non lo sia e l’Albania è certamente una nazione europea: sta a noi chiaramente favorire questo percorso di riunificazione nel modo più serio ma anche più veloce possibile”.

Rama: “Rifarei protocollo 100 volte con Italia, con altri Paesi mai”

“Per noi oggi è una giornata assolutamente storica, perché per la prima volta il governo albanese si siede con quello italiano per parlare di progetti e un futuro comune”, le parole del premier albanese Edi Rama che, rispondendo alle domande dei giornalisti sul protocollo migratorio siglato due anni prima con Roma, ammette: “Lo rifarei cento volte con l’Italia. Con altri Paesi mai, e gliel’ho detto: ‘non siete l’Italia, è un problema’.” Gli altri Paesi “sono rispettati, ammirati e tutto. Ma se non sono l’Italia, non possono chiedere all’Albania tutto quello che gli viene in mente. Solo l’Italia può, e noi siamo sempre disposti a rispondere ‘sì’, perché ci sentiamo partner integrale di questo Paese”, ha aggiunto.

“Negli anni in cui ho guidato l’Albania, non ho mai avuto dubbi sulle buone intenzioni, l’amore e il voler fare di tutti i governi italiani. Ma questo governo ha anche il fare, e siamo molto grati per la “grande sorella d’Italia” (Meloni, ndr), ma anche i suoi ministri sono disponibilissimi a darci una mano. Grazie all’impegno fraterno del ministro della Difesa italiana Guido Crosetto, siamo in grado di progettare in diverse direzioni concretamente per rafforzare le nostre capacità di difesa e di difesa comune – ha proseguito, ringraziando anche il ministro degli Esteri Antonio Tajani – che da grande europeo di lunga data è sempre stato un amico dell’Albania che ci sta sostenendo in tutte le sedi, non solo diplomaticamente ma anche sull’aspetto economico e dei progetti comuni”.

A proposito del procedimento d’ingresso nell’Unione Europea, Rama afferma che “quando Giorgia sarà nella doppia veste di presidente del Consiglio italiano e di quello europeo, nel 2028 partiremo con i negoziati politici” per completare l’adesione all’Unione Europea, definita “la ciliegina sulla torta”. “Se saremo nelle mani di Giorgia, saremo nelle migliori possibili per poter aprire quella porta che ci è chiusa da centinaia di anni. Siamo pronti a fare un accordo con l’Unione Europea di non utilizzare né il veto né il voto. Siamo seguaci fanatici dei valori europei e quindi non abbiamo intenzione di mettere veti – ha continuato – Siamo pronti a sottoscrivere di essere rappresentati dal Commissario Europeo italiano. Sarebbe troppo avere due commissari europei per lo stesso Paese, perché siamo lo stesso Paese”.

Venendo in Italia trovammo le porte spalancate. Allora se il popolo italiano elegge un governo democraticamente, e quel governo ci chiede una mano su un suo programma, noi lo facciamo volentieri non semplicemente per il governo, ma per il popolo che rappresenta” dice il premier albanese. “Siamo più che felici di dare una mano, perché non succede spesso che l’Italia chieda una mano, ma è successo spessissimo l’opposto – ha proseguito il premier -. Non dimenticherò mai nella mia vita quello che hanno fatto i vigili del fuoco italiani quando c’è stato il terremoto (nel 2019, ndr.). Io li ho incontrati: ragazzi e ragazze venuti in Albania per la prima volta, di notte. Hanno lavorato sotto le macerie, rischiando la loro vita per salvare quella di persone che neanche conoscevano. Grazie a loro il numero di vittime è stato molto più basso. Queste cose rimangono per sempre e fanno dell’Italia non solo un partner, ma l’anima sorella dell’Albania”.

Quali sono le intese siglate tra Italia e Albania

Gli accordi coprono un ampio spettro di settori chiave: difesa, sicurezza, energia, protezione civile, salute, cultura e sviluppo economico. Tra i principali, figurano l’Accordo intergovernativo ‘G2G’, il Memorandum sulla cooperazione nel settore della sicurezza cibernetica, e diversi protocolli d’intesa per il potenziamento delle capacità della Protezione Civile albanese, sostenuti anche attraverso crediti e donazioni della Cooperazione italiana allo sviluppo. Nel campo della difesa e della sicurezza, sono stati siglati un Accordo di cooperazione tra i Ministeri della Difesa, un Memorandum tra i Ministeri dell’Interno per il contrasto al traffico di droga, e un’intesa tecnica per la consegna di due pattugliatori alla Guardia Costiera albanese da parte dell’Italia.

Particolare rilievo assumono anche gli accordi in ambito economico e infrastrutturale, tra cui la Convenzione finanziaria per il miglioramento della rete elettrica nell’Albania settentrionale e i protocolli di collaborazione tra Cdp, Simest e l’Agenzia albanese per lo sviluppo degli investimenti (Aida) a sostegno delle piccole e medie imprese. Sul piano culturale, è stato firmato un Memorandum d’intesa tra la Fondazione Maxxi e la Galleria Nazionale d’Arte dell’Albania, volto a promuovere la cooperazione nella progettazione e formazione museale.


Giustizia a rischio paralisi: il governo non vuole confermare i 12mila precari assunti nei tribunali grazie al Pnrr


Il contratto per i 12mila precari della Giustizia scadrà il 30 giugno. Il governo vuole stabilizzarne solo 6mila. Mettendo a rischio la funzionalità dei tribunali

Giustizia a rischio paralisi: il governo non vuole confermare i 12mila precari assunti nei tribunali grazie al Pnrr

(di Andrea Sparaciari – lanotiziagiornale.it) – Che le necessità della macchina della giustizia siano tra le ultime priorità del governo di Giorgia Meloni, lo si sapeva da tempo. Ma ieri è arrivata l’ennesima riprova. Il capo di gabinetto del ministro Carlo Nordio – la magistrata Giusi Bartolozzi, assurta all’onore delle cronache soprattutto per il suo coinvolgimento nel caso Almasri –  ha infatti convocato ieri i sindacati per discutere delle prove selettive alle quali dovranno sottoporsi i circa 12mila precari assunti il 1° febbraio 2022 grazie ai fondi del Pnrr e in scadenza il 30 giugno 2026.

Il governo vuole stabilizzare solo 6mila precari su 12mila

Prove che nell’ottica del governo, mireranno a decidere chi confermare. Nell’ottica della Funzione Pubblica Cgil dovranno invece “decidere chi lasciare a casa”, come si legge in una nota a firma del segretario nazionale Fp CGIL Florindo Oliverio, nella quale si annunciava il boicottaggio dell’incontro.

Sul tavolo infatti c’è il destino di quel piccolo esercito di operatori – data entry, funzionari tecnici e addetti all’ufficio per il processo – , cooptati per raggiungere gli obiettivi di riduzione dell’arretrato civile e penale previsti dal PNRR. E che ora, finiti i soldi dell’Europa, dovrà essere in gran parte smobilitato.

Un paradosso, perché è vero che questi precari hanno smaltito molto dell’arretrato presente nei tribunali, ma proprio a causa del Pnrr, il lavoro per i giudici è aumentato… L’estate scorsa, l’esecutivo aveva anche annunciato una procedura comparativa, in pratica un  concorso entro ottobre 2025, ma poi della prova se ne sono perse le tracce.

Mesi di promesse mai mantenute

Da mesi il governo promette stabilizzazioni, ma senza dare numeri. Oppure fornisce cifre – si parla di circa 6mila stabilizzazioni su 12mila precari â€“ ma senza assicurare le coperture finanziarie. E anche gli stessi ministri appaiono in disaccordo, così se per il Ministro per gli Affari Europei Tommaso Foti il governo starebbe già procedendo all’assunzione dei precari e mira ad assorbirne fino a 17mila (come ha comunicato alla Camera dei Deputati dello scorso 1 ottobre), per il collega Carlo Nordio non ci sarebbero problemi alla trasformazione di tutti i 12mila contratti in tempi determinati ma serve tempo (lo ha detto, ricorda la Cgil, rispondendo a una recente interrogazione parlamentare).

Un’indeterminatezza che si ritrova anche nel Documento programmatico di finanza pubblica (DPFP), approvato dal Governo il 2 ottobre scorso, il quale ribadisce la necessità di stabilizzare i precari Pnrr della giustizia, ma senza fornire alcun dettaglio su numeri e risorse. Un’ambiguità che il 16 settembre scorso aveva portato allo sciopero dei lavoratori. Il dato di fatto è che a oggi, la Legge di Bilancio attualmente in discussione non prevede risorse per la stabilizzazione di questi lavoratori.

La Cgil: “Siamo sgomenti”

Comprensibile quindi il rifiuto di ieri della Cgil di prendere parte al tavolo per decidere le prove per le future selezioni. “Siamo sgomenti”, ha commentato Oliverio, circa la convocazione. “Accettare di discutere oggi di criteri selettivi per ridurre gli attuali organici di almeno 6 mila unità, significa accompagnare la giustizia al suo funerale”, commenta, “Noi preferiamo lavorare perché in questi giorni si possano convincere i parlamentari di tutte le forze politiche che nella prossima legge di bilancio ci siano le risorse che il Governo e il ministro Nordio non hanno voluto mettere per stabilizzare tutti i 12 mila precari alla scadenza dei loro contratti il 30 giugno prossimo”.

Per la Cgil, i sindacati devono inchiodare “il ministro alle sue responsabilità. La Funzione Pubblica CGIL non ha dubbi sul da che parte stare. Stiamo dalla parte delle lavoratrici e dei lavoratori che dopo quattro anni da precari per lo Stato chiedono di poterci rimanere. Stiamo dalla parte dei cittadini che vogliono una GIUSTIZIA che funzioni davvero perché sia uguale per tutti e non più uguale per qualcuno”, conclude il segretario.

Pericolo paralisi dopo il 30 giugno

Del pericolo di paralisi dopo il 30 giugno 2026 ha parlato spesso il Procuratore di Napoli, Nicola Gratteri, il quale ha più volte sottolineato la carenza cronica di personale negli uffici giudiziari – sia in termini di magistrati che di personale amministrativo -, sottolineando la necessità di un numero adeguato di risorse per gestire l’aumentato carico di lavoro legato anche agli investimenti del PNRR.


La Rai sotto il governo Meloni: informazione ai margini e un flop dietro l’altro. Report è uno dei pochissimi programmi che funziona


L’emittente pubblica oggi è un colosso che arranca e non riesce più a mantenere il passo con i competitor, in particolare Mediaset e La7

(Marco Antonellis – lespresso.it) – In un panorama televisivo italiano sempre più polarizzato, l’emittente pubblica è costretta a fronteggiare una crisi di contenuti, di ascolti e, soprattutto, di leadership. La Rai, che negli anni ha segnato la storia dell’ informazione italiana, oggi naviga a vista, tra il declino delle sue produzioni e un’assenza di una vera e propria visione editoriale. Se non fosse per alcuni programmi come Report, che continua a rappresentare una delle rare eccezioni di successo, la situazione sarebbe drammatica. Tuttavia, anche il programma di Sigfrido Ranucci sembra essere un’eccezione che conferma una regola di fondo: la Rai di oggi è un colosso che arranca e non riesce più a mantenere il passo con i competitor, in particolare Mediaset e La7.


La crisi della Rai: fra bassi ascolti e programmi a rischio

Il panorama dell’informazione in prima serata, di fatto, è diventato un campo di battaglia vuoto. Rai1, che dovrebbe rappresentare la punta di diamante della televisione pubblica, è costantemente superata nelle classifiche di ascolto da Canale 5, con una differenza che a settembre si è tradotta in ben 69 mila telespettatori in più durante l’intera giornata e 153 mila nel prime time. Non è solo una questione di numeri, ma di un’intera struttura che non riesce a competere in un mercato televisivo che è diventato sempre più rapido, reattivo e capace di adattarsi ai gusti di un pubblico in continua evoluzione.

A peggiorare la situazione è l’incoerenza della programmazione. Dai programmi di access prime time come FarWest a Ore 14 Sera, fino ai fallimenti colossali come Freeze e BellaMa’ di Sera, Rai1 sembra non riuscire a centrare il pubblico. L’imperituro Porta a Porta, nonostante la sua longevitá, è ormai lontano dai suoi fasti. Ma è l’ulteriore calo di In Mezz’ora condotto da Monica Maggioni â€” che ha fatto registrare meno telespettatori rispetto alla precedente edizione di Lucia Annunziata — a segnare la debacle della fascia informativa.

Anche su Rai2 e Rai3, la situazione non migliora, basti vedere i bassissimi ascolti del Tg2 Post. La televisione pubblica sta cercando di mantenere la sua posizione di leadership nel panorama mediatico, ma la concorrenza è spietata. Il vero problema, come suggerisce chi lavora dietro le quinte, è che la Rai sembra ormai ridotta a un “grande contenitore” che si limita a ripetere sé stessa.

C’è però un’altra lettura, della situazione: quella di chi sostiene che la Rai vada bene così com’è. Per una maggioranza che ha mostrato di essere piuttosto allergica alle inchieste giornalistiche e alle domande difficili, la Rai è solamente una sorta di megafono. I telegiornali nazionali, da sempre orientati verso una certa visione politica, non sembrano ormai una forzatura, ma piuttosto un allineamento ideale con le posizioni del governo. L’informazione pubblica, da sempre accusata di non essere mai completamente libera da influenze politiche, in questa fase è più che mai controllata, e questo risponde perfettamente agli interessi della maggioranza meloniana.

Anche i tg radiofonici sembrano rispecchiare questa “quieta omologazione”. Per molti esponenti della destra, la Rai sta funzionando proprio come uno strumento di consenso, con programmi che si adattano perfettamente ai messaggi propagandistici del governo, senza turbare troppo l’equilibrio politico. In questo contesto, la domanda che sorge spontanea è: quale necessità c’è di cambiare qualcosa, se il servizio pubblico sta già facendo il suo lavoro al meglio per la maggioranza?

Nonostante questa “rassegnazione”, resta un piccolo, brillante punto di luce: Report. Questo programma di inchiesta continua a godere di un successo che è ormai l’eccezione in un contesto di declino. Nonostante il contesto di una Rai in affanno, Report di Sigfrido Ranucci rimane uno dei pochi programmi di attualità che riesce a fare numeri importanti e, soprattutto, a non cedere alla tentazione di assecondare la politica dominante. Il programma di Ranucci rappresenta, oggi, l’ultimo baluardo di un’informazione pubblica ancora in grado di toccare temi scomodi e farli arrivare al pubblico, senza filtri.

In definitiva, il futuro della Rai sembra segnato dalla difficoltà di cambiare davvero rotta. E se la leadership politica di Giorgia Meloni non riuscirà a mettere mano con decisione al destino del servizio pubblico, la Rai rischia di restare un gigante addormentato, incapace di rispondere alle sfide del nuovo panorama mediatico. E, come sempre accade in questi casi, a fare le spese di tutto ciò sarà l’informazione.


Mafie, truffe, debiti: il calcio è fuori controllo


Il caso Juve Stabia è soltanto l’ultimo: criminalità e pallone vanno assieme e, spesso, si nascondono dietro strani investitori stranieri. Nel frattempo sta per finire la sbornia dei crediti fiscali (40 milioni di euro solo nel ’24/’25) per pagare le tasse. Dalla legge Lotito alle partite truccate: tutto ciò che c’è da sapere su un movimento in grave crisi

(Carlo Tecce Gianfrancesco Turano – lespresso.it) – Di record in record. Il calcio italiano ha mandato ufficialmente la camorra in serie B con il club di Castellammare di Stabia, chiuso per infiltrazioni. Poco prima era toccato al Foggia, in terza serie. I tifosi attendono con trepidazione che la «linea della palma» evocata da Leonardo Sciascia salga ufficialmente fino alla serie A. La possibilità che sia già successo è schermata da una serie di barriere finanziarie con base oltre Oceano dove, va detto, non sono messi meglio. La lega professionistica di basket (Nba) è stata appena investita dallo scandalo delle scommesse con la supervisione di quattro delle cinque famiglie di Cosa Nostra a New York, alla faccia della presunta esemplarità dello sport Usa invocata dai dirigenti nostrani. Che riformano, trasformano, rinnovano. Il risultato è un groviglio di norme contraddittorie sul triplice piano delle leggi ordinarie, delle normative fiscali e dell’universo parallelo, sacralmente autonomo, dell’ordinamento sportivo. Sono sistemi che dialogano poco, spesso si ignorano o fingono di non conoscersi a beneficio di una zona grigia composta dai tecnici di laboratorio dell’illegalità che, invece, analizzano con diligenza le debolezze del modello per usarle a loro vantaggio. Sono passati pochi mesi dallo scandalo dei crediti fiscali che hanno condannato il Brescia di Massimo Cellino. Sono trascorsi un paio di anni dalla riduzione in quasi nulla dei debiti della Reggina, che è stata sommersa, e della Sampdoria, che è stata salvata proprio lo scorso anno dal caso Cellino e dai tifosi vip del club blucerchiato. I nostalgici possono rimpiangere i tempi in cui una squadra di alto livello si identificava con la faccia di un presidente, più ancora che con i giocatori-simbolo. Si può aggiungere che fino a vent’anni fa le mafie si interessavano soprattutto al calcio dilettantistico, quello che procurava consenso al capobastone del paese. La valanga di soldi portata dalle televisioni e dai progetti immobiliari collegati al rinnovamento degli stadi ha cambiato la situazione in modo radicale. I piccoli affari da stadio nell’ordine di qualche milione di euro (parcheggi, droga, merchandising) sono da tempo in mano alla manovalanza di mafia e ultras che ha coinvolto Milan, Inter, Juventus, Palermo, Lazio, la Roma dei primi anni Novanta. Ma per le grandezze economiche di un mondo che pesa miliardi sono effetti collaterali. Non è con il San Luca in serie D o in Eccellenza che la ’ndrangheta può risolvere il problema del riciclaggio. Il laboratorio illegale del calcio ha bisogno di dinamismo, efficienza e numeri accompagnati da molti zeri.

I casi di studio nel calcio sono molteplici, a volte comici, a volte tragici, altri assurdi. Quello della Juve Stabia li riassume tutti. A inizio campionato il club campano era pronto a una seconda stagione in B con l’obiettivo di puntare alla promozione nel giro di qualche anno. In estate la squadra ha accolto il socio straniero, la Brera Holding con sede in Irlanda, che ha preso il 52 per cento del club. Brera è un fondo che immette denaro nel calcio sfidando la geografia, dalla Macedonia alla Mongolia sino a Castellammare. Alla guida c’è l’italoamericano Daniel Joseph McClory, definito con la solita generosità dai media «investitore, banchiere, filantropo». McClory pareva pronto a rilevare il restante 48 per cento dal presidente Andrea Langella. Oggi la Juve Stabia, infestata dalla camorra a ogni livello, dai biglietti alle bevande, dalle pulizie ai bagni pubblici, dal settore giovanile ai viaggi in trasferta, è in amministrazione giudiziaria su ordine del tribunale che ha recepito la richiesta congiunta del procuratore nazionale antimafia, del procuratore della Repubblica, del questore di Napoli per un accertato «sistema di condizionamento mafioso dell’attività economica della società calcistica da parte del clan camorristico D’Alessandro egemone nel territorio stabiese». Secondo gli inquirenti, l’attuale proprietà, estranea ai fatti contestati, «è subentrata in relazioni economiche di antica data che sin dall’origine si sono rivelate sottoposte al condizionamento mafioso e rispetto alle quali non si è dotata di adeguati meccanismi di controllo e prevenzione». Quando la famiglia Langella ha acquisito la società nell’estate 2022, la Juve Stabia in serie C era prossima al fallimento con una esposizione debitoria di circa 9 milioni di euro nei confronti dello Stato: 6 con l’Agenzia delle Entrate (Ade) e 3 con l’Inps. I Langella erano disposti a pagare non più di 500 mila euro su oltre 6 milioni e Ade non aveva aderito alla ristrutturazione del debito. Senza l’Agenzia, che rappresentava il 67 per cento dei creditori con una quota minima da raggiungere del 60 per cento, era impossibile procedere. Ma il commercialista Vincenzo Sica dello studio Sica&Partners ha ottenuto il decreto di omologa dal tribunale di Torre Annunziata utilizzando il «cram down» fiscale, cioè con l’adesione coatta dell’Ade: «Fu una sentenza che, applicando le norme esistenti, dimostrò una formula per la salvezza per diverse società di calcio», dice Sica. «Oggi il quadro normativo è più stringente». Con circa 750 mila euro la famiglia Langella ha saldato il debito da 9 milioni di euro con lo Stato e il club, ripulito, è passato da un fallimento ormai certo alle prime posizioni in Serie B. Anche per la gioia della camorra. Adesso il problema Juve Stabia è di nuovo dello Stato. 

In tre anni sono otto i club che hanno sfruttato le recenti riforme del Codice della crisi e la transazione fiscale per scaricare cattive gestioni e milioni di debiti. Oltre a Reggina e Juve Stabia, ci sono Perugia e Fermana e soprattutto le due genovesi. Nel 2023 Sampdoria e Genoa si sono liberate del 65 per cento dei debiti fiscali che, in totale, arrivavano a circa 100 milioni. Il residuo lo hanno spalmato in dieci e vent’anni. Il piano di ristrutturazione della Samp, che al momento del nullaosta dal tribunale era appena retrocessa in serie B, prevedeva la risalita in A in due anni e un consistente aumento dei ricavi. Fantasia. La Samp lo scorso anno era sprofondata in C, prima che l’esclusione del Brescia la mandasse allo spareggio-salvezza. Quest’anno è in zona retrocessione e i suoi conti peggiorano. L’esercizio 2024 è stato chiuso con una perdita di 40,6 milioni di euro in aumento di 10,7 milioni sul 2023. Anche il Genoa, che continua a cambiare organigramma e proprietà, è in zona retrocessione in serie A con una perdita di 33,3 milioni nel bilancio chiuso al 30 giugno 2025 con un debito che, grazie agli sconti dello Stato, è calato da 160 a 129 milioni.

Nonostante le rottamazioni, le falcidie e i regali, il calcio italiano agonizza sotto il peso di 5,5 miliardi di euro di debiti di cui 3,7 riguardano la prima serie. Scendendo di categoria, le cifre sono altrettanto soffocanti perché le scorciatoie sono meno percorribili. In questi anni, numerosi club di B e C hanno approfittato dei crediti fiscali generati dai bonus edili per saldare le tasse. In situazione estreme, il Brescia fallito e il Trapani penalizzato sono ricorsi, a loro insaputa, a crediti fiscali rivelatisi fasulli, senza insospettirsi per il fatto di pagarli al 23-25 per cento del valore dichiarato e per di più a rate. Nei bilanci dei club dei campionati professionistici, secondo quanto appreso da L’Espresso, ci sono circa 40 milioni di crediti fiscali di quattro tipologie diverse: crediti fiscali acquistati da terzi per 5 milioni di euro; crediti fiscali acquistati direttamente o tramite circuiti interbancari per 30 milioni di euro; crediti fiscali per spese deducibili per circa un milione di euro; crediti fiscali derivanti da detrazioni e imposta sul valore aggiunto da decine a centinaia di migliaia di euro. La neonata Commissione indipendente per la verifica dell’equilibrio economico e finanziario dei club professionistici – creata dal governo Meloni e presieduta dal magistrato contabile Massimiliano Atelli in sostituzione della Covisoc della Federcalcio – sarà presto impegnata a verificare la bontà di queste dichiarazioni e il pagamento delle rate fiscali sfruttando la compresenza nella stessa del presidente dell’Inps e del dg dell’Ade. Come farà il calcio a rimettere i suoi debiti ora che i crediti fiscali stanno per scomparire? Da un paio di anni numerosi club hanno tentato la strada della ristrutturazione del debito, ma si sono scontrati con una norma voluta dal ministro dell’Economia Giancarlo Giorgetti e tradotta in un provvedimento dell’Ade dal direttore dell’epoca Ernesto Maria Ruffini. Da quasi due anni la competenza sulle transazioni fiscali superiori al 70 per cento dei debiti o ai 30 milioni di euro spetta al direttore dell’Ade e non più ai distretti provinciali. Questo ha scoraggiato molti tentativi. E avrebbe reso molto più complicato l’omologa al piano di Genoa e Samp. Quando i soldi non mancano e arrivano dall’estero stipati in misteriosi fondi, però, emergono altri quesiti. Il senatore forzista Claudio Lotito è uno dei patron italiani superstiti e con la Lazio da vent’anni cerca di rivaleggiare con i grandi club. Lotito ha depositato in Senato una legge per imporre trasparenza ai fondi che sbarcano a frotte nel calcio italiano a partire dal cinque per cento di capitale. «Non è possibile che eludano qualsiasi regola di trasparenza», spiega a L’Espresso. «Devono dichiarare se ci sono proprietà multiple, rivelare la provenienza del denaro, fare i nomi dei soci all’Anticorruzione e alla Federcalcio. Su questa legge ho ricevuto solo consensi, da maggioranza e opposizione».

Il betting, soprattutto online, resta un altro aspetto criminogeno. Poco prima dell’operazione Penalty la procura di Milano ha comunicato la conclusione delle indagini al nazionale Sandro Tonali e agli ex azzurri Nicolò Zaniolo e Nicolò Fagioli. È un filone dell’inchiesta che ha già portato a squalifiche sportive e riguarda la pubblicizzazione di piattaforme illegali fra calciatori. L’eventuale condanna può essere estinta con una contravvenzione da 250 euro.

Lontano dai riflettori del calcio di prima fascia, le risonanze mediatiche si fanno impercettibili. Per qualche ora a fine ottobre si è parlato dell’operazione Penalty della procura di Reggio Calabria. Il reato di associazione a delinquere finalizzata alla frode sportiva ha portato agli arresti cinque persone. L’arbitro coinvolto contattava i colleghi, fra i quali quello che lo ha denunciato, e prometteva migliaia di euro in cambio di risultati indirizzati verso le scommesse over. I flussi anomali di puntate segnalati dall’Agenzia dei Monopoli riguardavano i campionati Primavera giocati dalle giovanili dei club professionistici, ma la fascia a rischio maggiore è il calcio dilettantistico che, secondo il Report 2025 della Figc, è un’industria da 3 miliardi di euro con 50 mila lavoratori. Nella fascia dei dilettanti sono inclusi i campionati dalla serie D alla terza categoria, il calcio femminile, il calcio a 5 e il beach soccer. La Lega nazionale dilettanti (Lnd) è guidata da Giancarlo Abete, imprenditore romano di 75 anni e dirigente calcistico da una vita. Ha presieduto la Figc, è stato commissario della Lega di A e, durante la Prima Repubblica, deputato democristiano. La Lnd è decisiva nell’elezione del numero uno della Federcalcio. Tanto basta a tenere in piedi questo calderone che include paesini e piazze sportive con decine di migliaia di tifosi. Anche il calcio dilettantistico è diventato un obiettivo interessante per i capitali stranieri. L’Acr Messina, che gioca in serie D con una penalizzazione di 14 punti per mancati pagamenti l’anno scorso in Lega Pro, ha presentato i suoi nuovi padroni italo-australiani: Justin Davis e l’ex calciatore Maurizio Antonio Pagniello detto Morris. Dopo che la coppia Davis-Pagniello ha tentato di comprare la Lucchese all’inizio del 2025, l’operazione Messina è stata condotta attraverso il fondo Global capital di Dubai e il Racing city group di Pagniello, che a fine agosto ha fondato a Montecarlo il Monaco United Fc. Nel 2015 Pagniello è stato coinvolto nell’operazione «Dirty Soccer» della procura di Catanzaro che si occupava di partite truccate in Lega Pro e Dilettanti. La giustizia sportiva dell’allora procuratore Federcalcio Stefano Palazzi sanzionò Pagniello con otto mesi di inibizione e 35 mila euro di ammenda. Dieci anni dopo l’avventura continua, anche grazie all’abbassamento dei controlli. Sotto e sopra la linea della palma.


La scuola che cambia nome per non cambiare direzione


(Antonia Esposito – lafionda.org) – L’esame di Stato torna a chiamarsi esame di maturità. Lo dice il DL 127/2025, convertito in legge il 25 ottobre scorso, con tanto clamore mediatico sul ritorno ai vecchi valori e a una scuola fatta di studenti educati, che svolgeranno placidamente la prova orale dell’esame non perché sono curiosi di mettersi in gioco in questo bellissimo passaggio della loro vita, ma perché rifiutarsi è ora vietato dalla Legge. Sì sì, quella con la L maiuscola, quella che con la sua autorità, scambiata ancora una volta per autorevolezza, dimostra oggi più che mai quella “malattia dell’assoluto” di cui magistralmente parlava Hannah Arendt in Sulla rivoluzione, riguardo alla difficoltà di maturare una vera comprensione delle nostre libertà e diritti, e dunque la capacità di rivendicarli.

Il ministro Valditara deve amare molto le parole che iniziano con la lettera M: merito, maturità… ma, come per magia, quando questi termini diventano attuativi perdono tutta la forza e la profondità della loro gamma semantica.

Il merito, per il MIM come per il governo, viene premiato con gli aumenti presenti nel nuovo CCNL, pari a meno di un terzo dell’inflazione del triennio di riferimento (2022-24); viene incentivato con corsi di formazione con premi in denaro come nei quiz televisivi, corsi il cui contenuto è stabilito dal MIM in linea con le scelte politiche del governo (cioè quelle stabilite dal vincolo europeo), per esempio quelli che fanno muovere il PNRR intorno alla digitalizzazione forzata e non quelli che promuovono pace e dialogo invece che riarmo e militarizzazione dell’istruzione. Ancora, viene riconosciuto con la Carta del docente, che da quest’anno sarà erogata, dice il DL 127, da gennaio invece che a fine settembre, così che i docenti precari, che tanto hanno insistito (cattivi!) per averla, almeno per dispetto non potranno pagarsi i corsi di aggiornamento, formazione, che iniziano tutti tra ottobre e dicembre per concludersi in tempo per l’aggiornamento GPS: ma si sa, il precariato è una gallina dalle uova d’oro, perché mai disincentivarlo? Infatti, in una società dove tutto è o diventa merce, il mondo della scuola e dell’università, che invece di produrre merci forma persone e cittadini, è un ostacolo per sua stessa natura, e ministero e governo lo stanno combattendo con accanimento, appunto per s-naturarlo e farne un luogo di rifornimento di molto corpo (i corpi che vogliono pronti a una nuova guerra sempre pronta a scoppiare) e poco spirito (sicuramente non critico). Testimonianza di questa ottica mercificante è anche l’approvazione definitiva della cosiddetta filiera tecnologico-professionale “4+2” che, in uno con l’ennesimo rinnovarsi dell’ex alternanza scuola-lavoro da PCTO a “formazione scuola-lavoro”, dà un nuovo colpo mortale al vero, autentico significato dello studium, che è quello di “tempo libero”: la libertà che un mondo guidato dalla finanza internazionale e dalla continua privatizzazione ci sta rubando mentre ci cattura nell’illusione di uno spazio di potere senza confini (quella “forza senza autorità” che è di fatto uno “stato di guerra”, come leggiamo nelle parole di John Locke nel Secondo trattato sul governo).

La maturità, secondo il ministro Valditara, si dimostra con un esame che, invece di saggiare la competenza dei maturandi nell’organizzare un sapere in linea diacronica e sincronica, li valuterà su sole quattro discipline, di cui due dovranno obbligatoriamente essere quelle delle prove scritte, visto che i commissari saranno solo quattro. Anche in questo caso si nota come l’interesse della riforma sia quello economico: dopo anni e anni di iper-valutazione delle competenze invece che delle conoscenze, si torna a un esame più centrato su queste ultime non perché magari ci siamo accorti che i ragazzi hanno sempre meno strumenti per comprendere ed affrontare la complessità del proprio tempo, ma perché così si può risparmiare sulle commissioni d’esame (cinque membri, compreso il presidente, invece di sette, sono un bel risparmio infatti), e i soldi risparmiati potranno essere investiti… state pensando, forse, nella valorizzazione della professionalità del personale scuola? Ma no, figuriamoci: con la tipica abilità del gioco delle tre carte i soldi finiscono nella quota da destinare alla Carta del docente (ah, il cui importo sarà più basso per tutti, anche per i docenti di ruolo), perché un solo euro in più non si può spendere per la stabilizzazione e i diritti dei docenti, per carità, e tanto gli aumenti del personale ATA sono ricavati da quelli già previsti per il finanziamento dei nuovi ordinamenti del personale amministrativo.

Con questa riforma perderanno quindi valore le “materie orali”, che saranno oggetto di valutazione all’esame, dunque, solo a rotazione di anno in anno, e questo non è un caso: materie come la filosofia e la storia, che insegnano a pensare e a orientarsi nel presente, sono volutamente marginalizzate perché non in linea con questa oscura forma di istruzione in senso di addestramento che il ministero sta perseguendo. Un’ideologia della cultura come dominio pervade, infatti, anche le nuove indicazioni nazionali per la scuola dell’infanzia e di primo grado, che a breve saranno seguite da quelle per la scuola di secondo grado, in cui, nell’ormai famigerato paragrafo che inizia con l’affermazione lapidaria “solo l’Occidente conosce la storia”, si scopre che per il MIM conoscenza (e merito…) si identificano con un’ottica di chiaro stampo coloniale, che ha reso appunto l’Occidente, secondo le parole delle indicazioni nazionali, l’unico capace di produrre storia, appunto dominando gli altri popoli.

Pensando a tutto questo, non c’è purtroppo da stupirsi per il silenzio complice del nostro governo, e di tanti altri, sul genocidio a Gaza, e ricordare un film di capitale importanza come Soldato blu – in cui si vede come nel 1864, in pieno sviluppo dell’imperialismo europeo, gli Stati Uniti completassero la loro corsa al West con il genocidio dell’ennesimo gruppo di popolazione indiana – fa capire limpidamente come essere amici (dipendenti) degli Stati Uniti sia ancora oggi uno dei più gravi pesi sulla nostra politica, che, insieme al vincolo europeo, sta portando sempre più di giorno in giorno, di decreto in decreto, la politica italiana a s-naturarsi (sì, proprio come la nostra scuola), prendendo a pugni e calci la nostra Costituzione e il suo spirito di pace, solidarietà, libertà.


La storia lo insegna: non è mai una buona notizia quando la Germania si riarma


GERMANIA, ACCORDO NELLA MAGGIORANZA SU RIFORMA SERVIZIO MILITARE

(ANSA) – BERLINO, 13 NOV – La stampa tedesca riferisce di un accordo nella coalizione di governo sulla riforma del servizio militare: oggi saranno informati dell’accordo i gruppi parlamentari, dato che il provvedimento è al momento in discussione al Bundestag.

Resta il principio della volontarietà della leva mentre torna obbligatoria la visita di leva per gli uomini: sembra così imporsi il principio fortemente voluto dal ministro della Difesa Boris Pistorius. L’obbligatorietà della visita di leva partirà dal 2027, dal prossimo anno tutti gli uomini saranno obbligati a rispondere ad un questionario sulla loro condizione fisica e sulla volontà di prestare o meno il servizio militare.

Inoltre, questo è il punto in cui si è imposta la Cdu, sarà fissato un intervallo di tempo fino al 2035: se i numeri, che si basano sugli impegni assunti nei confronti della Nato, non saranno raggiunti, verrà riattivato il servizio militare obbligatorio, ma servirà un’altra legge.

Il Bundestag dovrebbe quindi definire nella legge attualmente in discussione un limite al di sotto del quale si procederà a convocare persone estratte a sorte tra quelle che hanno compilato il questionario. Alcuni dettagli restano ancora da verificare ed è possibile che saranno noti solo con la pubblicazione del testo definitivo della riforma.

Sembra così chiudersi un fronte polemico che ha diviso la maggioranza di governo da diverso tempo, con un conflitto ai massimi livelli tra il ministro della Difesa Boris Pistorius e gli esponenti della Cdu.

L”accordo è stato illustrato in una conferenza stampa alla quale hanno preso parte i capigruppo al Bundestag di Cdu, Csu e Spd e anche il ministro della Difesa Boris Pistorius. Resta dunque il principio della volontarietà, caro alla socialdemocrazia, ma arricchito da alcuni elementi significativi per Cdu e Csu: in particolare dal prossimo anno sarà inviato un questionario obbligatorio per gli uomini (le donne e le persone non binarie potranno, se vorranno, rispondere).

La prima generazione che dovrà sottostare all’obbligo della visita di leva obbligatoria sarà quella costituita dai nati nel 2008. Pistorius è convinto comunque che rendendo il servizio militare più interessante per i giovani sarà possibile raggiungere il numero di effettivi necessari.

Il capogruppo della Cdu Jens Spahn ha precisato che il ministero della Difesa avrà “l’obbligo di presentare una relazione semestrale al Bundestag, in modo che sia chiaro a che punto siamo nella crescita delle nostre forze armate”.

Questa relazione semestrale costituirà la base per intervenire nuovamente e attivare un processo di selezione casuale, una sorta di sorteggio, o addirittura approvare una nuova legge per ripristinare la leva obbligatoria. L’obiettivo è far crescere gli effettivi a 260.000, con una riserva di ulteriori 200.000.

LA BUNDESWEHR FA 70 ANNI, ‘MINACCIA RUSSA È REALE’

(Rosanna Pugliese – ANSA) – Sarà dovuto al clima pesante che avvolge da tempo la Germania, ma è chiaro che a Bellevue i toni si fanno più franchi, in questi giorni. E Frank-Walter Steinmeier, per la cerimonia dei 70 anni della Bundeswehr, è entrato nel merito della riforma sulla leva bloccata da tante polemiche interne: “La mia convinzione è che un periodo obbligatorio per tutti sarebbe la via più giusta, per gli uni nell’esercito per gli altri nei servizi sociali”.

Nel suo discorso davanti a 280 nuove reclute per celebrare questo importante compleanno – il 12 novembre 1955 è ritenuto la data di nascita dell’esercito tedesco della Germania democratica del dopoguerra – il presidente socialdemocratico ha sottolineato la necessità della deterrenza e additato a sua volta la portata della minaccia russa. “I nostri Paesi sono già oggi bersaglio della guerra ibrida di Putin. La Russia sta mettendo alla prova la Nato su molti fronti”, ha scandito.

“Noi tedeschi dobbiamo accettare questa nuova sfida e fare tutto il possibile per sviluppare rapidamente la nostra forza militare: non per fare la guerra, ma per non doverla fare”. “La forza militare non come sostituto della diplomazia e della politica estera, ma per essere presi sul serio e dissuadere altri dall’attaccarci. Il nostro contributo a un deterrente efficace è ora necessario”.

Anche il ministro tedesco della Difesa, Boris Pistorius, è tornato a spiegare che “la minaccia russa è reale, non va ridimensionata né per paura né per ragioni politiche”. Per soddisfare le necessità della Nato, la Bundeswehr dovrà diventare molto più grande: a fronte dei 183 mila militari e i 100 mila riservisti disponibili oggi, entro il 2035 la Germania punta ad avere 460 mila soldati, di cui 200.000 riservisti.

E mentre il dibattito sulla leva si è arenato nella coalizione, proprio sui meccanismi di reclutamento – anche se l’intesa dovrebbe arrivare entro fine settimana come ha assicurato nuovamente Pistorius, e l’idea del sorteggio (in mancanza di un numero sufficiente di volontari) sarebbe fuori dal tavolo – le critiche sono feroci. Un editoriale in prima pagina sulla Frankfurter Allgemeine Zeitung ha sollevato ancora una volta il problema titolando senza sconti:

“L’esercito è piccolo e debole”. E il giornale conservatore ha incalzato la politica: “La Germania e i suoi vicini non sono in grado di difendere lo spazio aereo da incursioni che presto potrebbero diventare attacchi”, ha scritto. E mentre proprio per aiutare Kiev la Bundeswehr “conta oggi su meno armi e munizioni di quattro anni fa”, il Parlamento “sta a guardare” da tre anni e mezzo.

Critiche respinte dal ministro Pistorius: “Nessun Paese parla male delle proprie forze amate come fa la Germania”, ha affermato piccato alla Zdf. “Noi siamo quelli che volano in Danimarca e in Belgio e combattere i droni, perché siamo in grado di farlo e di spostarci velocemente”. Per il numero uno della Difesa, le truppe tedesche sono molto meglio della loro reputazione.


Qualcuno svegli Salvini


(Manuela Pelati – corriere.it) – A Roma la stazione Termini è nel caos per ritardi dei treni fino a 6 ore giovedì 13 novembre.  Alle partenze il Frecciarossa AV 8418 per Venezia delle 11,35 porta 360 minuti di ritardo, l’AV 9584 per Torino Porta Nuova delle 13,10 ne porta 270, AV 8134 sempre per Torino 260.

Andando al sud, il Frecciarossa AV 8902 per Napoli centrale delle 14,15 porta 50 minuti di ritardo e AV 9623 delle 14,25 per Reggio Calabria ne porta 60.  Alla stazione i viaggiatori sono disorientati e infuriati: i ritardi fino a sei ore riguardano l’alta velocità in partenza e in arrivo, sia Frecciarossa, sia Italo. E alla richiesta di informazioni nessuno sa rispondere.


Sanità, l’Italia e gli altri: pochi infermieri e letti in ospedale, spendiamo meno ma viviamo di più


Solo il 44% degli italiani è soddisfatto della qualità dell’assistenza sanitaria ricevuta contro una media degli altri Paesi del 64 per cento.

Krankenhaus mit Flur Bett Arzt und Krankenschwester mit Bewegungsunschärfe

(di Marzio Bartoloni – ilsole24ore.com) – Gli indicatori sulla salute restano buoni con gli italiani che hanno una aspettativa di vita di 83,5 anni, 2,4 anni in più rispetto alla media dei Paesi più sviluppati al mondo che fanno parte dell’Ocse anche se la crescita è rallentata e infatti siamo stati superati dalla Spagna. Anche l’indicatore sulla mortalità evitabile ci vede in una posizione invidiabile con soli 93 decessi per 100mila abitanti contro i 145 della media Ocse grazie questo soprattutto ai nostri stili di vita che infatti vedono una incidenza di obesi del 12% rispetto al 19% della media. Ma le notizie positive nel confronto tra i 38 Paesi più sviluppati al mondo contenuti nell’ultimo rapporto “Health at glance 2025” appena pubblicato finiscono qui visto che il confronto su diversi indicatori della Sanità ci vedono ancora molto indietro e non fanno ben sperare per il futuro, soprattutto sul lato della spesa

In Italia infatti secondo l’ultimo rapporto Ocse si spendono 5164 dollari a testa per le cure contro una media di 5967 dollari (a parità di potere d’acquisto) e in rapporto al Pil – tra gli indicatori al centro delle polemiche in Italia – siamo complessivamente all’8,4% contro la media Ocse del 9,3% e con la spesa pubblica sanitaria che vale il 6,3% del Pil lontanissimi dal 9,7% della Francia e dal 10,6% della Germania e superati anche dalla Spagna che si attesta al 6,7 per cento. Abbiamo infine pochi infermieri – 6,9 per mille abitanti contro la media di 9,2v (con alcuni Paesi che ne hanno fino a 19 infermieri per mille abitanti) – e pochi posti letto: ne contiamo soltanto 3 per mille italiani contro i 4,2 dell’Ocse. Nonostante si parli spesso di carenza di medici in Italia nel confronto con gli altri Paesi non siamo messi così male, anzi: abbiamo 5,4 camici bianchi a fronte dei 3,9 medici di media nei Paesi Ocse (anche se molti medici italiani sono già over 55). Possiamo contare anche su un discreto numero di farmacisti: ne abbiamo 140 per 100mila abitanti, mentre la media è di 86 farmacisti. Un altro neo che contraddistingue l’Italia è lo scarso ricorso ai farmaci generici che sono meno costosi – sia per il Servizio sanitario nazionale che per i cittadini – e infatti nel nostro Paese rappresentano solo il 28% del mercato a fonte del 56% della media Ocse. Secondo il report infine solo il 44% degli italiani è soddisfatto della qualità dell’assistenza sanitaria ricevuta contro una media degli altri Paesi del 64 per cento.


Eccolo il paese delle meraviglie raccontato dalla Meloni!


(ANSA) – In Italia si osservano condizioni di benessere economico peggiori rispetto alla media Ue: nel 2024 il rischio di povertà è al 18,9%, contro il 16,2% dell’Ue27. La disuguaglianza del reddito netto è anche più alta (5,5% Italia contro 4,7% Ue27). E’ quanto emerge dal Rapporto sul Benessere equo e sostenibile (Bes) 2024 diffuso dall’Istat.

Tuttavia, il sovraccarico del costo dell’abitazione colloca l’Italia in vantaggio, 3,1 punti percentuali al di sotto della media europea (8,2%); ciò avviene anche per gli indicatori relativi alla deprivazione materiale e sociale e alla difficoltà ad arrivare a fine mese.

Inoltre, per Salute e Sicurezza, l’Italia mostra risultati positivi rispetto alla media Ue27 per la mortalità evitabile (17,6 rispetto a 25,8 per 10mila abitanti della media europea). La speranza di vita è di 84,1 anni, superiore alla media Ue27 di 81,7 anni, e il tasso di omicidi è tra i più bassi d’Europa (0,6 rispetto a 0,9 per 100mila abitanti in Ue27).

Il confronto con l’Europa (media Ue27), possibile per 39 indicatori, 22 dei quali disponibili anche distinti per genere, mostra una situazione peggiore per l’Italia per 18 indicatori, migliore per 11 indicatori, evidenzia il rapporto.  

 In generale, poco più di un terzo (34,3%, 47 indicatori) dei 137 indicatori Bes per i quali è possibile il confronto con l’anno precedente migliora in modo significativo; il 26,3% degli indicatori è su livelli peggiori (36) e il 39,4%, la quota più consistente, risulta stabile (54 indicatori).

Migliorano 7 indicatori su 13 del dominio Lavoro e conciliazione dei tempi di vita, ma allo stesso tempo 5 peggiorano; il dominio Qualità dei servizi si divide tra 6 indicatori in miglioramento e 6 in peggioramento sui 16 totali; migliorano circa la metà degli indicatori di Istruzione e formazione. In Sicurezza e Politica e istituzioni si osserva la maggiore quota di indicatori in peggioramento nell’ultimo anno.   

Nel lungo periodo il quadro è più positivo: oltre la metà degli indicatori migliora (70 su 128), solo 16 peggiorano, mentre per un terzo di essi non è possibile individuare una tendenza univoca. Tutti gli indicatori di Sicurezza migliorano, come anche oltre i tre quarti degli indicatori di Innovazione, ricerca e creatività, Politica e istituzioni e Benessere soggettivo. Nel dominio Relazioni sociali si rileva la maggiore quota di indicatori in peggioramento (4 su 9).   

Per tutte le regioni del Nord e del Centro, escluso il Lazio, nell’ultimo anno disponibile, il 60% o più dei 134 indicatori regionali analizzati mostra livelli di benessere migliori della media Italia, con punte del 70% e oltre per le due Province autonome di Trento e Bolzano/Bozen, il Veneto e il Friuli-Venezia Giulia.

Al contrario, in tutte le regioni del Mezzogiorno, a eccezione dell’Abruzzo, la maggioranza degli indicatori registra valori peggiori di quelli nazionali; in Campania e in Puglia ciò accade per più di sette indicatori su 10.


Lavrov, “Corriere della sera censura mia intervista”


(ANSA) – ROMA, 13 NOV – Il Corriere della Sera “si è rifiutato” di pubblicare un’intervista con il ministro degli Esteri russo Serghei Lavrov: lo afferma il ministero in una nota citata dalla Tass.   

“Negli ultimi mesi – si legge – abbiamo assistito a un numero crescente di fake news sulla Russia. Per porre fine in qualche modo a questo flusso di bugie, abbiamo offerto a uno dei principali quotidiani italiani, il Corriere della Sera, un’intervista esclusiva con il ministro”. La redazione, prosegue la nota, “ha accettato con entusiasmo” e ha inviato numerose domande. “Il testo è stato preparato molto rapidamente ed era pronto per la pubblicazione. Tuttavia, il quotidiano ha rifiutato di pubblicare le risposte di Lavrov alle proprie domande”, sottolinea il ministero.

Il Corriere della Sera “ha spiegato che le parole di Lavrov contengono troppe affermazioni discutibili che devono essere verificate o chiarite e che la loro pubblicazione andrebbe oltre i limiti del ragionevole”, sottolinea il ministero: “Consideriamo questa una manifestazione di palese censura. I cittadini italiani hanno il diritto di accesso all’informazione, garantito dall’articolo 19 della Dichiarazione Universale dei Diritti Umani”.  

Il ministero, si spiega, ha pubblicato due testi: la versione integrale dell’intervista e quella curata dal Corriere della Sera. In quest’ultima, secondo il ministero degli Esteri russo, “tutti i passaggi che la Roma ufficiale non vuole vedere sono stati deliberatamente esclusi”. “Questo caso è un vivido esempio di come informazioni oggettive sulla situazione in Ucraina vengano nascoste ai cittadini italiani, che vengono deliberatamente fuorviati”, conclude la nota.

CORRIERE REPLICA A LAVROV, ‘TESTO PIENO DI ACCUSE E PROPAGANDA’

‘Rifiutata la nostra richiesta di una vera intervista’

(ANSA) – ROMA, 13 NOV – “Il ministero degli Esteri russo ha risposto alle domande inviate preliminarmente dal Corriere della Sera con un testo sterminato pieno di accuse e tesi propagandistiche. Alla nostra richiesta di poter svolgere una vera intervista con un contraddittorio e con la contestazione dei punti che ritenevano andassero approfonditi il ministero ha opposto un rifiuto categorico”: lo afferma la direzione del Corriere della Sera replicando alle accuse di censura da parte del ministero degli esteri russo.

    “Evidentemente pensava di applicare ad un giornale italiano gli stessi criteri di un Paese come la Russia dove la libertà d’informazione è stata cancellata”, conclude la direzione del quotidiano: “Quando il ministro Lavrov vorrà fare un’intervista secondo i canoni di un giornalismo libero e indipendente saremo sempre disponibili”.


Quel pederasta di Trump ed il buonsenso


(Tommaso Merlo) – Era questo l’hobby del rampollo newyorkese Donald Trump per decenni, davanti alle telecamere si pavoneggiava da businessman di successo e padre di famiglia, poi saliva di soppiatto sulla limousine e raggiungeva la casa del suo amico Jeffrey Epstein e abusava ragazzine minorenni raccattate da famiglie disagiate dalla compagna del suo socio, Ghislaine Maxwell, in carcere con una condanna ventennale per traffico di minori. Le ultime email sono l’ennesima conferma. Quello di Jeffrey Epstein è il più grande scandalo di pedofilia della storia per la sua caratura internazionale e per il calibro dei pederasti coinvolti. Da Trump a Bill Clinton fino all’ex premier israeliano Barak e una selva di miliardari impanicati ancora dietro le quinte. Epstein era poi un asset dei servizi segreti israeliani e le lingue più maligne ritengono che il suo giro di pedofilia avesse fini ricattatori. Sfruttare cioè i vizietti segreti dei ricchi e dei potenti, per strappare soldi e appoggi politici per la lobby sionista impegnata in un disastroso progetto coloniale in Palestina. Probabilmente nemmeno Trump immaginava che gli americani fossero così idioti da eleggerlo presidente e quindi si era lasciato andare. Ed invece lo hanno fatto per ben due volte con la chicca che nel corso dell’ultima campagna elettorale, Trump ha giurato fino alle lacrime che avrebbe reso pubblici tutti i documenti dello scandalo Epstein. Ed invece si è candidato proprio per fare l’opposto. Incassati milioni di voti e rimesso piede alla Casa Bianca, ha insabbiato tutto dicendo che non è vero niente. Trump passerà alla storia come una delle maggiori truffe democratiche mai compiute. E siamo solo all’inizio perché nel frattempo sia l’autore delle email Epstein che la vittima sessuale di Trump citata, Virginia Giuffre, si sono suicidati almeno secondo le gazzette ufficiali. Le orde complottiste ritengono invece che qualcuno li avrebbe aiutati a tornare da un Padreterno già imbestialito. Questo perché moltitudini di cristiani a stelle e strisce hanno visto in Trump nientepopodimeno che un messia, e lo hanno idolatrato in massa per fermare la perversione che sta imbrattando usi e costumi del loro amato paese. Hanno pregato assorti nello Studio Ovale con Lui ed oggi scoprono che invece di un messia, non è altro che un vecchio pederasta perseguitato dai suoi fantasmi che sta letteralmente distruggendo pezzo a pezzo gli Stati Uniti. I sondaggi registrano ogni record ma negativo, il peggiore presidente di sempre che non solo ha tradito le promesse, ma non ne azzecca una neanche per sbaglio. Ha rastrellato milioni di voti promettendo di abbassare i prezzi della spesa che invece con lui continuano a salire. E lui, che da ricco di famiglia non ha mai fatto la spesa in vita sua e che ha cronicizzato il tutto con le sue assurde tariffe, nega. Ormai si è rifugiato in un mondo tutto suo. Circondato da ruffiani impenitenti e pacchiane dorature. Un presidente pacifista sponsor del genocidio del secolo nonché della guerra in Ucraina che doveva fermare con una telefonata. In meno di un anno ha bombardato Yemen, Iran e Somalia mentre nelle ultime settimane ha inviato una portaerei nucleare lungo le coste del Venezuela e minacciato la Nigeria. Ma per sua stessa ammissione, il vero nemico è interno e infatti le strade americane sono piene di squadracce militarizzate che malmenano e deportano poveri cristi. Stesso schema del pederasta bigotto. Spargere il mondo di odio e sangue e pretendere il Nobel per la Pace. Davvero spaventoso. L’uomo più potente del pianeta vive rinchiuso in una narcisistica realtà parallela. Ma non vi è nulla di casuale. Trump rappresenta plasticamente la pandemia egoistica della nostra epoca, il capitalismo estremo che si è mangiato tutto, anche la nostra testa e quindi la nostra vita privata e collettiva. Spacciandoci falsi sogni di benessere materiale per poi ridurci a lavoratori e consumatori sempre più miseri oltre che rabbiosi follower di leadership inette che ci stanno trascinando verso l’autodistruzione. Quel pederasta di Trump sta dando il colpo di grazia all’Impero Americano, ma incarca una deriva che colpisce anche noi colonie europee e che parte da dentro di noi. In attesa che il karma presidenziale faccia il suo corso, gli occidentali dovrebbero sfruttare questi tempi tragicomici per capire i veri mali che li affliggono e ritrovare perlomeno la via del buonsenso.


Pure mangiare ormai è un lusso


Pure mangiare ormai è un lusso

(di Antonio Pitoni – lanotiziagiornale.it) – Vista l’ultima Manovra, che toglie ai poveri per dare ai ricchi, c’è da crederle sulla parola. Ma quando la premier Giorgia Meloni promette che con la destra al governo la patrimoniale non vedrà mai la luce, l’affermazione è vera “fino a un certo punto”, un po’ come il diritto internazionale quando c’è di mezzo Israele (copyright del ministro Tajani). Non è solo il lungo elenco di tasse (le ripercorriamo a pagina 2) che l’esecutivo ha rimaneggiato, per lo più aumentandole, nei suoi primi tre anni di vita a lasciare più di qualche dubbio. Ad esse vanno aggiunte pure quelle occulte, spesso generate dall’inerzia del governo. Un esempio? L’impennata dei prezzi dei prodotti alimentari – alla faccia del carrello tricolore! – che secondo l’Istat ha prodotto rincari di quasi il 25%, otto punti in più rispetto all’inflazione, dal 2021 ad oggi. Una non tassa che però si sente eccome nelle tasche degli italiani. Con l’aggravante della totale assenza di progressività: i prezzi dei generi alimentari sono gli stessi per i poveri e per i ricchi, ma i rincari impattano decisamente di più su un pensionato al minimo rispetto al top manager d’impresa. Un po’ come le accise sulla benzina che Meloni prometteva di abolire, finendo per abolire invece solo lo sconto introdotto dal governo Draghi per poi aumentare quelle sul diesel per equipararlo alla benzina. Risultato: il pieno dell’utilitaria dell’operaio costa come quello della fuoriserie del milionario. Ma la tassa occulta più odiosa grava sulla Sanità. Che sarebbe pubblica, cioè pagata con i soldi delle imposte pagate dagli italiani (almeno di quelli che le pagano), ma che sta diventando sempre più privata. Se è vero come è vero l’allarme lanciato dall’Istat, la spesa delle famiglie è salita quest’anno a 41,3 miliardi. Chi può paga, chi non ce la fa rinuncia alle cure: nel 2024 un italiano su dieci (5,8 milioni) non ha fatto esami o visite per le liste di attesa, per le difficoltà economiche o per quelle logistiche. Quando Meloni giurava “mai la patrimoniale!” forse si riferiva a quella che colpirebbe i grandi patrimoni. Del resto, per chi un patrimonio non ce l’ha i problemi sono altri. Tipo mettere insieme il pranzo con la cena. Un’impresa, visti i prezzi.


Separazione carriere, la destra all’attacco di Gratteri: “Pericoloso per il referendum”


(di Marco Franchi – ilfattoquotidiano.it) – Eccoli, finalmente pronti alla pugna! E con il coltello tra i denti perché l’occasione ghiotta è doppia. Dopo un inizio un po’ così visti i sondaggi non proprio promettenti, hanno ripreso fiato i sostenitori del Sì al referendum sulla separazione delle carriere e si fa presto a capire che l’obiettivo ora è cogliere due piccioni con una fava: ortopedizzare il procuratore di Napoli Nicola Gratteri da sempre inviso ai garantisti (ad personam) di Forza Italia divenuto vieppiù bestia nera perché particolarmente performante in tv sul No che serve per bloccare il progetto di mettere sotto il tacco del governo i pm. Ma nella giornata che segna il fischio di inizio ufficiale della campagna referendaria con la presentazione del Comitato per il Sì, a muoversi è soprattutto il partito di Giorgia Meloni fino all’altro giorno intenzionato a tenersi alla larga dall’agone. Ma – si è detto – l’occasione è troppo ghiotta per l’ulteriore bersaglio: mettere alla gogna il Fatto Quotidiano, colpevole di aver raccontato come in più occasioni pubbliche e private Paolo Borsellino (da sempre nel pantheon di Fratelli d’Italia) si era detto contrario alla separazione delle carriere che ora viene realizzata.

Ma per raccontare
la giornata dal doppio risvolto bisogna partire dal principio, ossia dalla Camera dove in mattinata viene presentato il Comitato del Sì al referendum: e qui fa impressione il palco dove siedono fianco a fianco l’alfa e l’omega ossia il falco di Forza Italia Enrico Costa e quello che nell’immaginario collettivo per 30 anni è stato l’arcinemico di B. ossia l’ex pm di Mani Pulite, Antonio Di Pietro. Tra di loro il principe del foro Gian Domenico Caiazza che punta dritto al bersaglio. “Basta con i monologhi di Gratteri. Lo invito a confrontarsi con me quando vuole” dice accusandolo di propalare “callide menzogne”. Caiazza tenta pure di inchiodare il procuratore di Napoli con la prova tv: è un attimo e Montecitorio diventa il set di Forum. In conferenza stampa tra chi si fa beffe dei magistrati (a un certo punto il presidente della Fondazione Einaudi Benedetto indossa provocatoriamente la toga ed esibisce la Costituzione come avevano fatto all’inaugurazione dell’anno giudiziario) e chi accusa di eversione l’Anm, vengono pure mostrate “le prove” al moviolone: scorrono le immagini del procuratore colpevole di aver evocato le parole di Giovanni Falcone in un’intervista fake. Ma ecco qua: il Falcone “vero” è quello dell’audio fatto ascoltare in apertura di conferenza stampa dagli apostoli del Sì che mai furono tifosi di Falcone, anzi. Ma son dettagli. Anzi è solo l’antipasto.

LEGGI â€“ “Falcone mai stato a favore: lui stesso passò da giudice a pm”

Perché intanto si scatena Fratelli d’Italia e qui l’altro obiettivo sono i giornali o meglio Il Fatto da solo o in compagnia di un altro “cattivo maestro” ossia Corrado Formigli conduttore del Programma Piazzapulita. Attacca il ministro della Giustizia Carlo Nordio che gigioneggia in radio: “Ai video o agli scoop fake mi sono abituato”. Ma poi inizia la batteria social: in tre ore vengono caricati sui canali di FdI cinque post in cui viene chiamata in causa la nostra testata. L’ultimo è un video del sottosegretario alla Giustizia, il meloniano Andrea Del Mastro: parla dei “falsari seriali” che “ignobilmente hanno arruolato post mortem Borsellino facendogli dire frasi che non ha mai detto”. Poi ci sono i comunicati stampa dei parlamentari: è arrivata la consueta nota informativa dell’ufficio studi del partito di via della Scrofa quella che serve a dare la linea sulla giornata. Quattro pagine che possono essere riassunte così: strumentalizzare Borsellino e Falcone è un’offesa al loro sacrificio.