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L’ultima verità su Bologna


La Cassazione ha confermato l’ergastolo per Paolo Bellini in quanto esecutore materiale in concorso della strage alla stazione di Bologna del 2 agosto 1980, in cui morirono 85 persone e oltre 200 rimasero ferite. Le sentenze di primo e secondo grado risalgono al 6 aprile 2022 e all’8 luglio 2024. Chi è Paolo Bellini, dall’estrema destra alla latitanza fino ai rapporti con Cosa Nostra. Nato a Reggio Emilia nel 1953, legato ad Avanguardia Nazionale: storia dell’uomo che ha attraversato tanti misteri italiani

Chi è Paolo Bellini, dall’estrema destra alla latitanza fino ai rapporti con Cosa Nostra

(di Lirio Abbate – repubblica.it) – Si muove nel buio, Paolo Bellini. Sempre l’ombra prima del boato. Sempre un passo indietro, mai fuori campo. Un mimetismo di mestiere e destino. La sua vita è un itinerario di menzogne raffinate, doppie fedeltà, alleanze sporche. L’uomo dai mille travestimenti: neofascista, informatore, latitante, infiltrato, killer. La sua parabola è una linea spezzata che attraversa mezzo secolo di misteri italiani, dalla stazione di Bologna alle stragi di mafia del 1993.

Bellini, nato a Reggio Emilia nel 1953, 72 anni, ex Avanguardia Nazionale, è stato condannato all’ergastolo in primo e secondo grado per la strage del 2 agosto 1980, ora la conferma in Cassazione. L’accusa: partecipazione all’eccidio più sanguinoso della storia repubblicana. Il suo nome affiora tardi, in un’indagine riaperta dalla procura generale di Bologna. Un vecchio filmino amatoriale lo inquadra, baffi e giacca chiara, tra le macerie ancora fumanti. Per gli esperti di antropometria è lui. Per l’ex moglie, Maurizia Bonini, è senza dubbio lui. Un riconoscimento che pesa, perché lei fino ad allora aveva taciuto. E perché nel dire la verità ha spezzato un legame e ha rischiato la vita.

Dalle intercettazioni recenti emerge un Bellini ancora velenoso. Un uomo che progetta vendette. La donna che ha testimoniato contro di lui va eliminata. E non basta. Va punito anche il giudice Francesco Caruso, colpevole d’averlo condannato. Così si muove, nella notte delle sue ossessioni, e punta al figlio del magistrato, in un disegno trasversale che sa di mafia. Il vecchio eversore con i capelli brizzolati non si è mai fermato davvero. Neanche ora.

Ma chi è davvero Paolo Bellini? Un cane sciolto della destra eversiva, ma al guinzaglio di molti padroni. Criminale spregiudicato, ha attraversato indenne l’universo torbido di terrorismo, mafia e servizi. C’era quando serviva un killer. C’era quando si trattava di depistare. C’era quando serviva un infiltrato in Cosa nostra. Negli anni Novanta, raccontano le carte della procura di Firenze, si insinuò nella strategia stragista della mafia corleonese. Fu lui, secondo Giovanni Brusca, a suggerire l’idea delle bombe contro il patrimonio artistico. Gli Uffizi, via dei Georgofili, Milano, Roma. Bellini ha sempre raccontato un’altra storia. Dice d’aver agito per sdegno, dopo la strage di Capaci. Dice d’essersi infiltrato per patriottismo, per ordine di una fantomatica struttura segreta chiamata “gli amici di Piccoli”, dove sedevano – sostiene lui – Cossiga, Scalfaro, Ugo Sisti. Ma le Procure non gli credono. Lo definiscono “inverosimile”. Tutto quel che dice è sfocato, manipolato. Forse è il suo mestiere: confondere, mischiare, sabotare la verità.

L’uomo che ha servito Avanguardia Nazionale negli anni Settanta, che ha confessato decine di omicidi, fra cui quello di Alceste Campanile â€œper creare tensione”, che ha trafficato in armi e quadri, che ha vissuto sotto copertura tra le curve più pericolose della prima Repubblica. Attorno a lui aleggia ancora una protezione opaca, un vuoto di responsabilità. I giudici di Firenze hanno archiviato la sua posizione per le stragi del 1993 scrivendo che non vi sarebbero prove del suo legame con la destra eversiva, nonostante nei verbali di Bellini – da collaboratore di giustizia – lui ammette di essere stato in Avanguardia nazionale fin dagli anni Settanta.

I contatti con i Servizi segreti militari, però, ci sono stati davvero. Nomi, telefonate, incontri. Il più noto con Giovanni Ciliberti, Sismi di Bologna. Rapporti mai chiariti, a tratti inquietanti. Come il biglietto con i nomi dei mafiosi da liberare, ricevuto da Antonino Gioè e consegnato ai carabinieri. Un pizzino che passa da Bellini e finisce nelle mani del generale Mario Mori. Nessuno lo sequestra. Nessuno lo denuncia. Nessuno indaga.

Il “pizzino”, come confermerà lo stesso Mori ai magistrati, lo ha distrutto senza nemmeno avvisare i pm del suo contenuto. Eppure, lì dentro c’era il cuore di un mercanteggiamento: opere d’arte in cambio di scarcerazioni. Una moneta di scambio tra Stato e Cosa nostra. C’era il modo, come sostengono i magistrati, di poter evitare alcune stragi del 1993, e per questo Mori oggi è indagato nell’ambito dell’inchiesta fiorentina sulle bombe mafiose.

C’è sempre Bellini, insomma, dove la Repubblica mostra le sue crepe. Quando i Nar colpiscono, quando la P2 finanzia, quando le bombe strappano il tessuto democratico. E poi scompare. Latita, cambia nome, vive con documenti falsi, diventa Roberto da Silva. Racconta di aver aiutato lo Stato. Ma ha sempre aiutato solo sé stesso.

È tornato a Bologna da imputato, trent’anni dopo i suoi camerati. I giudici l’hanno riconosciuto colpevole, per i suoi spostamenti, per l’alibi fasullo, per quel frame sgranato che lo inchioda tra i binari insanguinati. È tornato anche a Firenze e a Caltanissetta, nei fascicoli sulle stragi mafiose. Il suo nome torna, persistente, a incrostare gli angoli bui della nostra storia.

Eppure resta un enigma. Un uomo che dice tutto e niente, che tradisce e si fa tradire, che collabora ma depista. L’ultimo dei manipolatori, il criminale che si fa intellettuale di sangue, l’attore protagonista di una tragedia che ha ucciso 85 persone e ne ha ferite 200 in un giorno d’agosto di 45 anni fa.

Paolo Bellini è stato, ed è ancora, una scheggia impazzita di un paese mai completamente guarito dai suoi fantasmi. È il volto invecchiato di un’Italia che ha barattato giustizia con potere, segreti con sangue, verità con silenzi. E che oggi, con le intercettazioni e i processi, prova almeno a non dimenticare.


L’Europa ha deciso di arrendersi a Trump


Dazi: Bloomberg, Ue verso ok 10% Usa con riduzioni settoriali

(AGI) – L’Unione europea sarebbe pronta ad accettare dazi universali del 10% da parte degli Stati Uniti, ma vuole ottenere da Washington la riduzione delle tariffe in alcuni settori chiave.

Lo riporta Bloomberg, citando fonti informate sulla questione. Secondo Bloomberg, nel mirino dei negoziatori Ue ci sono settori come la farmaceutica, gli alcolici, i semiconduttori e gli aeromobili commerciali. I negoziatori europei starebbero inoltre spingendo per ottenere quote ed esenzioni per ridurre di fatto la tariffa del 25% di Washington su automobili e componenti auto, nonche’ la tariffa del 50% su acciaio e alluminio.

Secondo le fonti, un accordo cosi’ strutturato sarebbe leggermente favorevole agli Stati Uniti, ma comunque accettabile per la Commissione europea.

I funzionari hanno inoltre delineato quattro scenari possibili prima della scadenza della prossima settimana: un accordo con un livello di asimmetria accettabile; un’offerta squilibrata dagli Usa che l’Ue non potrebbe accettare; la proroga della scadenza per continuare i negoziati; infine, l’abbandono dei colloqui da parte di Trump e l’aumento dei dazi, che porterebbe l’Ue a rispondere con tutte le opzioni a propria disposizione.


La complicità politica nel genocidio


(Tommaso Merlo) – Alcuni politicanti occidentali sono complici del genocidio perché sono sionisti, pensano cioè che i palestinesi siano una razza inferiore e vadano sterminati o cacciati in quanto la Palestina è stata assegnata da Dio all’eletto popolo ebraico. Ma tali poveracci sono una minoranza, la maggioranza dei politicanti sa benissimo che son tutte scempiaggini religiose sfruttate a fini coloniali e che Netanyahu e il suo governo di fanatici stanno compiendo un vomitevole sterminio. In cuor loro ne sono consapevoli eppure non fanno nulla o addirittura sono complici. Un peso che si porteranno sulla coscienza per sempre, ma peggio per loro. Noi spettatori inermi ed esasperati, dobbiamo capire però il perché di tale spaventosa deriva in modo da evitare che accada di nuovo. Una ragione è l’opportunismo carrierista, molti politicanti non fanno quello gli suggerisce la coscienza ma quello che gli conviene per la loro poltrona. E anche davanti ad una immane strage di donne e bambini, se ne sono lavati le mani per evitare di finire nell’occhio del ciclone. Oggi in politica paga la fedeltà ad un barone o partito, non la verità e la coerenza. Devi garantire al sistema affidabilità e quindi continuità a prescindere. E se ai piani alti la linea è quella sionista, ti devi adeguare altrimenti alle prossime elezioni ti scordi un posto in lista. E paradossalmente più sei spregiudicato e disposto a voltarti dall’altra parte anche davanti a porcherie come il genocidio, più sei utile al potere e quindi fai carriera. Oggi come oggi i partiti politici selezionano personaggi che convengono a loro, non al paese. Personaggi privi delle qualità e dei valori universali che dovrebbe avere chi fa politica. Una deriva sotto gli occhi di tutti aggravata dalla pandemia conformistica, con politicanti che faticano perfino a comprendere la realtà e che si accodano a seconda del proprio misero tornaconto. Ma c’è di più. Da mesi i cittadini riempiono le piazze in tutto l’Occidente chiedendo ai politicanti di fermare il genocidio e la politica ha risposto se va bene ignorando i cittadini e se va male addirittura prendendosela con chi ha osato alzare la testa svergognando la loro disgustosa inerzia. Vergognoso ma comprensibile. Oggi come oggi tra la volontà dei cittadini e quella delle lobby, i politicanti servono la seconda e a maggior ragione per la potentissima lobby sionista che da decenni lavora dietro le quinte della politica e dell’informazione occidentale. I politicanti vengono eletti per rappresentare il popolo, ma poi una volta nei palazzi rappresentano gli interessi di potentati economici di vario genere. Anche il riarmo a vanvera è dovuto alla lobby della guerra che prevale sulla volontà di pace dei cittadini europei. Negli Stati Uniti la mafia lobbistica ha raggiunto livelli tragicomici. Girano col mitra anche i ragazzini e sono in guerra da sempre, mentre la lobby sionista decide a piacimento la politica americana in Medioriente dato che oltre a comprare a peso d’oro il presidente, corrompono parlamentari di ogni schieramento fin dai primi passi che compiono in politica, gli pagano perfino un viaggio in Israele e poi li seguono per tutta la carriera suggerendogli il copione da recitare. Lo hanno raccontato i pochissimi parlamentari ribelli finiti ovviamente in disgrazia, mentre tutti gli altri sono quelli che si sono spellati le mani per applaudire quel terrorista di Netanyahu a genocidio in corso ed ancora oggi inviano armi e soldi e proteggono politicamente quel regime criminale. Più che politici, sono rappresentati lobbistici. Tu li paghi e loro portano avanti i tuoi interessi nelle istituzioni mentre i cittadini che li hanno votati possono andare a farsi fottere. Un sistema mafioso che ha preso piede anche in Europa, con Bruselles sempre più verminaio lobbistico continentale con cordate di ogni genere e specie che assaltano risorse pubbliche e si fanno scrivere le leggi su misura. E se va di moda la terza guerra mondiale ed ignorare il genocidio a Gaza, basta un giro di WhatsApp per serrare i ranghi. Nelle colonie europee c’è poi l’aggravante del servilismo. Siamo servi degli Stati Uniti che sono servi della lobby sionista e quindi siamo servi di quei deliri pure noi. Ma noi spettatori inermi ed esasperati dal genocidio e dall’insulso riarmo, dobbiamo capire e poi reagire. E non c’è nulla da inventarsi. Si tratta solo di ristabilire una vera e sana democrazia in cui il potere appartiene al popolo. Dobbiamo riprenderci la sovranità che ci hanno sottratto. La vecchia politica si è venduta alle lobby e al carrierismo conformista. Servono nuovi partiti e nuove classi dirigenti anche culturalmente all’altezza dei tempi che riprendano la strada del bene comune e quindi anche del rispetto dei diritti umani per tutti e della pace.


Il Mastella wedding è da Prime. Ceppaloni batte Bezos


Rose gialle e ventilatori a Benevento. Solo per Sandra e Clemente si muovono Diego Della Valle, Pier Ferdinando Casini e Iva Zanicchi: così un paese dove alle tre di pomeriggio si beve Peroni ghiacciata si trasforma in una mega Venezia. Pastelle da un matrimonio

(Carmelo Caruso – ilfoglio.it) – Ceppaloni. Jeff Bezos, ma vattènne! I Mastella sono Prime, il resto è solo un pacco. Ceppaloni straccia Venezia, l’amore dei Mastella, Clemente e Sandra Lonardo, è universale, aperto a tutti, incontestabile. Premessa, il racconto intero dell’anniversario, cinquant’anni di nozze, di Sandra e Clemente, ve lo faremo domani ma assaggiate oggi pastelle da un matrimonio, l’entrée. Collassano cavi Generali a Milano, trema la terra flegrea, ma qui a Benevento arriva puntuale l’Italo Alta Velocità e la signora Giulia, se “necessitate, signore”, vi accompagna fino in hotel perché “Benevento vuole bene assai ai Mastella”. Iva Zanicchi, invitata speciale, da due giorni, mangia scarparielli ed è amata più di Taylor Swift. La trasmissione, Rai, “Filorosso” fa la “scarpetta” alla Cnn. Scriviamo sotto lo sguardo dello Spirito Santo, dalla chiesa di San Giovanni in Ceppaloni, 670 abitanti. Clemente è commosso, Sandra è oltre la moda, oltre Vogue. Dio sorride a Ceppaloni. 

Rose gialle e ranuncoli, ortensie e ventilatore a pale, celebra il vescovo Felice Accrocca ma concelebra don Lorenzo, che è bello più di Orlando Bloom, e che ci dice: “Clemente e Sandra sono nati qui. Questa mattina sono venuti a pregare. Sono un esempio di famiglia nazionale”. Quanto è triste Venezia, come canta Aznavour, e quanto è tenerissima San Giovanni di Ceppaloni, frazione del mondo, particella di Dio, della Dc, Itaca dei Mastella. Facile portare in jet Leonardo DiCaprio in laguna, facile con tutti i pacchi di Amazon invitare Bill Gates, Kim Kardashian, ma solo per Clemente e Sandra si muove l’aquila di Ligonchio, Zanicchi, solo per loro viene Matteo Piantedosi (le donne se lo mangiano con gli occhi, è abbronzato e ha occhiali hollywoodiani alla Daniel Craig, quello di Luca Guadagnino che cammina sulle note dei Nirvana). Solo per Sandra e Clemente si muovono Diego Della Valle, e Andrea, Pier Ferdinando Casini, Katia Ricciarelli e il Dante della fotografia aerea, Massimo Sestini, lo spericolato. 370 invitati, a Villa Mastella, la pre benedizione di Papa Prevost, che chiama personalmente Clemente e gli fa: “E non mi dici nulla che è il tuo anniversario?”. Ci sono trentaquattro gradi ma in chiesa si trovano i ventagli “Sandra-Clemente 50”.

Sandra è vestita di verde, pantalone e giacca, Clemente ha un abito da elezione a presidente della Repubblica. 11 panche, in chiesa, catering con la granita al limone, l’aperitivo Ace, la menta fresca dei fratelli Collarile di Benevento. Prende le parola Sandra prima della preghiera e rivolgendosi agli invitati dice: “Un anniversario non è un avvenimento nostalgico”. Il vescovo, pieno d’affetto, aggiusta le Sacre scritture perché si deve leggere “fortunata la donna che ha un buon marito”. Solo i parvenu cambiano 27 abiti, come la signora Bezos, e si regalano gioiellazzi. A Sandra basta sussurrare: “Clemente ricevi questo anello e questa rosa”. Racconta l’operatore Rai: â€œStiamo preparando la diretta per Tg3 e Tg1 e c’è pure il Tgr” e lo dice mentre Sandra e Clemente si scambiano un segno di pace, un bacio sulla guancia. Il piccolo coro di Ceppaloni canta, e per fede, e non per denaro, e canta meglio delle popstar con la panza. Ah, una lezione alla signora Sánchez-Bezos: le vere dive come Sandra Lonardo chiedono “niente foto” e non hanno bisogno di aggiungere il cognome del marito. Sandra è Sandra e Mastella diventa d’oro solo se c’è lei. Il prete rivela: â€œSono stato io a dire a Clemente di venire a festeggiare in questo piccolo paese. Ebbene, loro mi hanno detto sì. Ecco io misuro da questo la grandezza del cuore. Cari Clemente e Sandra siete grandi nel poco”.

Casini ci vede e ci schiaccia l’occhio. Vogliono tutti la foto con Casini. Caro Bezos, i tuoi soldi non valgono l’affetto di Andrea Della Valle verso Sandra e Clemente, tanto che si serve la granita da solo perché qui Della Valle si sente a casa. In chiesa, Clemente dedica la preghiera del buonumore: “Donami Signore una vita che non conosce la noia, i brontolamenti, fai in modo che non mi crucci per l’Io. Concedimi la grazia di comprendere lo scherzo e donarlo a tutti gli altri”. Un paese dove alle tre di pomeriggio si beve Peroni ghiacciata si trasforma in una mega Venezia, un paese dove ci presenta così: “Io sono paesano di Mastella” è felice senza destra e sinistra. E perdonateci qualche errore, ma battiamo parole su un telefono, da Ceppaloni Prime, perché â€œClemente vuole che ora si festeggi con Gigi D’Alessio” che per Ceppaloni vale “due Sinatra, un Elton John”. Pensa Casini: “Ho conosciuto tanti politici ma posso dire che Clemente umanamente è uno dei migliori. Alle europee, ai tempi del Ccd, con i suoi voti riuscì, a Benevento, a farmi superare Berlusconi quando Berlusconi era Berlusconi. Per la ferita, il Cav. non rivolse la parola a Mastella per ben tre mesi”.  Qui il matrimonio si chiama “sposalizio” e non wedding. Caro Bezos, ne riparliamo fra 49 anni. Nessuno ricorderà Venezia ma tutta Ceppaloni ricorderà il 30 giugno 2025 e dirà ai nipoti: “Io c’ero. Ah, che sposalizio…”. 


Sotto i nostri 007 la Mafia campa


La specificità dei servizi segreti italiani è di aver servito gli interessi dello Stato ma anche degli Usa, di cui l’Italia era vassalla in funzione anti-Urss. Anche per questo la criminalità prosperava

(di Isaia Sales – ilfattoquotidiano.it) – Gli studiosi delle mafie sono concordi nel ritenere che, se la polizia e i servizi segreti italiani di allora avessero indagato seriamente sul famoso vertice all’Hotel delle Palme di Palermo nel 1957, si sarebbe bloccato in tempo il ruolo che la mafia siciliana ebbe poi nel rifornire di droga i confratelli americani e anticipato di 20 anni quello che Boris Giuliano, capo della Squadra mobile di Palermo, riuscì a scoprire nel 1978 perdendo la vita.

La verità storica è che lo Stato italiano nel contrastare la più lunga, originale e resistente forma criminale della sua storia, cioè la mafia, non ha potuto contare sull’apporto dei suoi servizi segreti. Anzi. Se il ruolo dell’Intelligence è stato fondamentale nel ridimensionare negli Stati Uniti la mafia siculo-americana (e attualmente quelle latino-americane) e in Francia quella corso-marsigliese, nel paese per antonomasia delle mafie, l’Italia, non c’è stato nessun apporto significativo dei servizi segreti nel contrastarle, come se non venissero ritenute un pericolo per la sicurezza nazionale, almeno fino alla caduta del muro di Berlino. Si tratta di un dato inoppugnabile. Nel corso di questa lunghissima guerra, lo Stato ha combattuto menomato, perché per varie ragioni alcuni suoi apparati erano schierati a sostegno dei suoi avversari o li lasciavano fare immaginando che la loro azione criminale potesse essere utile alla causa comune: impedire, cioè che i comunisti, legati alla nemica Unione Sovietica, potessero conquistare con il voto la guida di un paese occidentale schierato con gli Usa.

Se non vogliamo prendere in considerazione l’ipotesi di una forza delle mafie italiane superiore a quella dello Stato, allora vanno valutate altre interpretazioni sul loro successo. La solidità economica di oggi, dovuta in gran parte agli altissimi profitti procurati dal controllo del traffico delle droghe, non può da sola spiegare la sopravvivenza e l’ulteriore espansione nell’epoca moderna di una forma feudale di crimine. Perché hanno resistito tanto tempo? Semplicemente perché sono riuscite a essere funzionali al potere interno e a quello internazionale, in quanto l’Italia dopo la Seconda guerra mondiale è stata una nazione a “potestà limitata” con la funzione di baluardo geografico, militare e politico verso il pericolo che veniva dall’Est dell’Europa. I servizi segreti hanno approfittato di questa situazione per consolidare un margine di autonomia che in nessun altro paese occidentale è stato consentito agli apparati di sicurezza. Si è codificata nei fatti una “doppia fedeltà” di alcuni uomini degli apparati più delicati dello Stato: una ai governi italiani e una agli Usa. Ciò consentiva a essi di non sentirsi sleali verso la loro nazione quando compartecipavano o organizzavano in proprio azioni violente soprattutto quando le scelte governative venivano ritenute in contrasto con un filoatlantismo che assumeva il ruolo di una adesione insieme ideologica e viscerale. Altrimenti come spiegarsi che solo in Italia, prima dell’entrata in scena del terrorismo islamico, siano avvenuti i più gravi attentati di massa in un paese dell’Occidente? Come spiegarsi che questi attentati, in cui sono morte centinaia di persone, erano organizzati con la collaborazione di uomini degli apparati dello Stato? Come spiegarsi che solo in Italia, escludendo l’omicidio del premier svedese Olof Palme, è stato ammazzato l’esponente politico più autorevole della nazione, Aldo Moro, e che più perseguiva una linea contraria agli orientamenti dell’allora establishment nord-americano, cioè l’alleanza con gli odiati comunisti? Come spiegarsi che la maggior parte dei vertici dell’esercito, e delle forze di sicurezza e dei capi dei servizi segreti erano membri di una loggia massonica, la P2, e che si ripromettevano di cambiare l’ordine democratico dello Stato?

Ancora nel 1961 l’addetto militare dell’ambasciata americana a Roma, Vernon Walters, minacciava un intervento armato degli Usa nel caso di una partecipazione dei socialisti al governo. In quel periodo storico cominciano a prendere consistenza alcune strutture clandestine sostenute dalla Cia e dai nostri servizi segreti, tra cui Gladio (nata in Italia nel 1956) pronte a intervenire militarmente in caso di presa del potere del partito comunista. È il periodo del tentato colpo di Stato del generale Giovanni De Lorenzo (1964) per anni a capo del Sifar, l’allora servizio segreto italiano forgiato dalla Cia, di Junio Valerio Borghese (1970) e della nascita della P2 e dei tanti attentati in quel ventennio a stazioni, treni, banche e piazze. Fino al novembre 1962, la sezione romana della Cia (i servizi segreti statunitensi) era guidata da Tom Karamessines, che svolgerà poi un ruolo di primo piano nel golpe dei colonnelli in Grecia nel 1967 e in quello di Pinochet in Cile nel 1973. E prima delle elezioni anticipate del 1972, l’ambasciatore statunitense in Italia di allora, Graham Martin, finanziò il generale Vito Miceli, allora capo del Sid (il servizio segreto che aveva sostituito il Sifar del golpista De Lorenzo) le cui simpatie per la destra estremista e antidemocratica erano ampiamente note.

Insomma, i servizi segreti italiani, forgiati dall’ideologia atlantista, erano impegnati a fare attentati, o a depistarli, piuttosto che a sventarli. Ed è proprio in questo periodo storico che Giovanni Falcone colloca la definitiva legittimazione della mafia. Non ci furono contatti diretti in quel periodo storico tra servizi segreti e mafia, se si escludono i rapporti con il boss Pippo Calò e con Raffaele Cutolo per la liberazione di Ciro Cirillo, ma una mafia filodemocristiana e anticomunista aveva nei fatti via libera dagli apparati di Intelligence. Italiani e stranieri. Ha scritto Luigi Zoja nello splendido libro Narrare l’Italia: “Gli anglo-americani volevano un’Italia anti-comunista, si chiuse un occhio sul fatto che fosse anche criminale”.

Tantissime volte nella storia recente dell’Italia il confine tra paese alleato e paese satellite degli Usa è stato ampiamente superato. Non a caso il capo della Cia, William Colby, ha potuto affermare alla fine degli anni Settanta del Novecento che l’Italia è stato il loro “più grande laboratorio di manipolazione politica clandestina”.

Certo, spiegarsi il successo delle mafie solo in questo quadro sarebbe una assurda semplificazione storica, perché le mafie avevano un loro ruolo centrale già molto prima della Seconda guerra mondiale, in particolare in Sicilia. Ma trascurare questo aspetto sarebbe altrettanto superficiale.

Sicuramente i servizi segreti non hanno minimamente aiutato lo Stato italiano a combattere le mafie, almeno fino alla fine dell’Urss. In Sicilia si è assistito al massacro di una intera classe dirigente antimafiosa senza che gli apparati dello Stato riuscissero a fare qualcosa di serio per impedirlo. Come si può immaginare che si organizzassero attentati di quelle proporzioni contro Giovanni Falcone e Paolo Borsellino, o contro Il presidente della regione, Piersanti Mattarella, o contro il capo dell’opposizione, Pio La Torre, o contro il prefetto Carlo Alberto dalla Chiesa, senza che i servizi segreti ne fossero a conoscenza o riuscissero a sventarne almeno uno di questi? No, non è possibile ragionevolmente pensarlo.


Gli azzeccagarbugli e il comico sprint per svendere San Siro


Dismissione pubblica. Stadio terminato il 10 novembre 1955 o a fine ’54? Cambia tutto: ma è mai possibile che una questione centrale sia ridotta a queste minuzie?

(di Tomaso Montanari – ilfattoquotidiano.it) – È ormai lunga la triste storia della svendita del patrimonio immobiliare degli italiani, questa ricchezza collettiva accumulata nei secoli, e crescentemente rimessa in mani private negli ultimi decenni. La creazione della Agenzia del Demanio (1999) inaugura una stagione di saldi che nel 2008 era arrivata a cedere immobili pubblici per un controvalore di circa 25 miliardi di euro. Dopo una serie di tappe, tutte dovute a governi di centro-sinistra, l’apice della privatizzazione del patrimonio pubblico si era toccata, è noto, grazie a Giulio Tremonti, con “la costituzione, nel 2002, della Patrimonio dello Stato spa, una società per azioni che, almeno teoricamente, avrebbe potuto gestire e alienare qualunque bene della proprietà pubblica. In un colpo solo, lo Stato intero, il complesso della proprietà pubblica, si sarebbe potuta dematerializzare nella forma di azioni” (Ugo Mattei, Edoardo Reviglio, Stefano Rodotà). L’ultimo rapporto della Ragioneria dello Stato (2024) ci informa che un’altra parte di ciò che rimane (un patrimonio stimato in circa 65 miliardi di euro: Musk o Bezos lo potrebbero comprare tutto) è pronta per essere alienata (per il controvalore di circa due miliardi): facile fare i conti su quanto ci siamo impoveriti rispetto ai nostri nonni e padri, perché tutto il ricavato è stato gettato nella spesa corrente, mentre l’indebitamento sale. Insomma, in questa infinita decadenza italiana stiamo campando vendendoci a pezzi il patrimonio di famiglia.

Ultimo, clamoroso, caso: San Siro. Lo stadio milanese è un vero e proprio monumento, sia per le caratteristiche architettoniche, sia per ciò che rappresenta nella storia culturale e del costume, sia per la tribuna ovest, “‘archivio esposto” per l’affollarsi di memorie epigrafiche che ne fanno una sorta di museo a cielo aperto della storia del calcio italiano. Un monumento di fatto, ma – secondo l’amministrazione comunale milanese – non ancora un monumento di diritto: da qui la corsa contro il tempo per alienarlo prima che scatti il vincolo, che imporrebbe una autorizzazione ministeriale alla vendita e, appunto, vincolerebbe gli acquirenti, che non potrebbero a quel punto raderlo al suolo per darsi a briglia sciolta alla più ghiotta delle speculazioni edilizie disponibili a Milano.

Come è noto, è stato Dario Franceschini a regalare al mercato vent’anni di patrimonio culturale italiano, innalzando da 50 a 70 anni la soglia di tutela. E ora, in un precipizio tragicomico, ci si accapiglia sui mesi, sui giorni, e tra poco sulle ore, per capire quando scatti appunto l’odiosa tutela: come se il compito delle pubbliche autorità fosse di eluderla a ogni costo, e non semmai di assicurarla (eppure l’articolo 9 recita: “La Repubblica tutela…”; tutta la Repubblica, e dunque anche i sindaci). Il Comune di Milano, confortato da un primo parere della Soprintendenza, è convinto che la data fatidica sia quella del collaudo provvisorio, avvenuto il 10 novembre 1955: una data ripetuta a pappagallo dal ministro Giuli in Parlamento, giovedì scorso. Ma il documentatissimo ricorso al Tar presentato dalle avvocate Veronica Dini e Roberta Bertolani nell’interesse di Luigi Corbani (e di molti altri cittadini, tra cui il Comitato referendum Milano), presidente del Comitato “Sì Meazza”, sciorina fior di prove documentali che fissano l’esecuzione del 76,85 % delle opere in cemento armato all’8 giugno 1955: e del resto sappiamo che già alla fine del 1954 la struttura dello stadio era integralmente costruita, e ben riconoscibile dall’esterno. E visto che il Codice dei beni culturali chiede, come unico requisito per far scattare la tutela, che l’«esecuzione risalga ad oltre settant’anni» non c’è alcun dubbio sul fatto che, ad oggi 30 giugno 2025, lo stadio di San Siro “Giuseppe Meazza” è un bene culturale: cosa peraltro ovvia nel senso comune, visto il suo ruolo nella storia milanese e nazionale, non solo dello sport. La vicenda del Salva Milano dovrebbe aver insegnato che le regole non sono un intralcio alla crescita, ma anzi sono la garanzia che questa crescita non sia una giungla di interessi privati che sommerge diritti e spazio pubblico. Pensiamo ancora che la città sia fatta anche di storia e memoria comuni? Di spazi in cui non essere consumatori e clienti? Di edifici capaci di allacciare il legame, anche sentimentale, tra generazioni? Oppure pensiamo che l’unico valore riconoscibile sia il prezzo di ogni cosa, e che la rendita privata sia dunque l’unica bussola per una crescita senza limiti, e senza umani rispetti?

Dal nostro passato emerge un’altra visione dei rapporti sociali e generazionali: “credono infatti che la vergogna più infamante consista nell’annotare nei pubblici registri che la città, allettata da una somma di denaro, e per di più da una somma modesta, ha venduto e trasferito legalmente su altri la proprietà di oggetti ricevuti dagli antenati”. Così, secondo Cicerone, la pensavano i greci di Sicilia: con un senso del bene comune che oggi davvero ci sogniamo.


Massimo Cacciari: “Ucraina, la pace all’Ue non interessa: restiamo appesi a Trump-Putin”


Poi c’è l’industria degli armamenti che per alcuni, come i tedeschi, è diventata vitale dopo la pandemia

(di Giampiero Calapà – ilfattoquotidiano.it) – Professor Massimo Cacciari, sembra che non sia più in agenda la pace in Ucraina o è solo una sensazione?

Se non si giunge a un serio dialogo tra Stati Uniti e Russia è difficile arrivare al tavolo di pace con trattative vere. Perché l’Europa non è legittimata a portare avanti questo discorso agli occhi di Mosca, per cui l’unico interlocutore possibile è Washington, considerando anche impossibile una mediazione diretta tra il Cremlino e Kiev.

E perché l’Unione europea è tagliata fuori?

Perché è una componente dell’Ucraina, non ha nessuna terzietà, avendo rinunciato del tutto a questo ruolo.

Quindi siamo appesi a Putin e Trump: prevarrà una componente razionale o siamo in balia degli umori di giornata dei due?

Componente razionale… dipenda da equilibri generali che vogliono entrambi determinare. Trump, ad esempio, ha tutto l’interesse che Putin non si intrometta nella questione palestinese e sull’Iran. Adesso che gli Stati Uniti hanno bombardato Teheran è necessario per la Casa Bianca non avere problemi su questo con Mosca. E se Putin continua a rimanere in questa posizione, diciamo di benevola attesa, sul Medio Oriente, è possibile che Trump acceleri sul tentativo di pace in Ucraina. Ma teniamo anche presente che la situazione sul campo non può essere ignorata e che per Trump è molto difficile riconoscere la sconfitta di Kiev e, quindi, dell’Occidente.

Una variabile in tutte queste crisi è l’industria delle armi: ha rimesso in moto le economie occidentali dopo la sberla del covid, difficile quindi mandarla all’aria adesso, no?

È un problema colossale. Dopo la pandemia, soprattutto in Germania, è stato il modo di evitare decine e decine di migliaia di disoccupati mentre crollava l’industria delle automobili, invece. Le politiche di riarmo hanno anche questo significato: negli anni Trenta del Novecento gli Stati Uniti sono usciti dalla recessione con la guerra… le misure keynesiane sono state realizzate anche grazie al riarmo. È una possibilità, il riarmo, che quando l’industria nazionale va in crisi può rappresentare sempre una grande tentazione.

Però ha delle controindicazioni…

Certo, non c’è Hitler alle porte. E una politica di riarmo rappresenta sempre un pericolo, perché con le armi che fai? Difficile darle al popolo per i loro fine settimana, no? I tank sono scomodi. Hanno un altro scopo. Per mettere in piedi politiche di questo genere e farlo accettare a democrazie pur malandate come le nostre, devi avere un nemico.

E il nemico è Putin, giusto?

Putin ha invaso l’Ucraina; per Kiev, quindi, è un nemico realissimo e possono temerlo a ragione anche gli altri paesi ex sovietici. Ma soltanto una persona in malafede può ritenerlo una minaccia per gli Stati dell’Unione europea.

Quindi?

Quindi è un pasticcio colossale, bisogna cercare di uscirne senza una disfatta dell’Ucraina sul campo. Ma l’accordo sarà possibile soltanto quando Putin e Trump decideranno che i tempi sono abbastanza maturi, come dicevo la variabile Medio Oriente credo che conti molto in questa vicenda.


Trump, la pornografia al potere. Lo spettacolo osceno dell’arroganza


Il tycoon ha un modo pornografico di governare: tutto è organizzato per “arrivare al punto”, la psicologia va a farsi friggere, gli elementi di contesto esplicano una funzione semplicemente ritardante. Questo fa in fondo il presidente quando si trova nei consessi internazionali: vuole riunioni brevi, i riti della diplomazia gli sembrano lungaggini inutili, le obiezioni gli danno fastidio. E noi ogni giorno subiamo i suoi capricci, dai dazi alle bombe

(Walter Siti – editorialedomani.it) – È diventata quasi un’abitudine igienica, svegliarsi la mattina e andare a vedere sui giornali o in tivù che cosa si è inventato quella notte: Donald Trump è il nostro padrone e insieme il nostro passatempo, a nostro eterno disonore.

Un dazio minacciato o ritirato, una guerra dichiarata o conclusa, uno scontro interno scoppiato o rientrato, un territorio rivendicato con l’ostinazione demente del Padre Ubu di Jarry, l’insider trading come prova di astuzia per sé e per i suoi.

Narcisismo psichico molto al di sopra dei livelli di guardia, aggressività machista talmente radicata da apparire un dato di natura, felice ignoranza di storia e geografia, incapacità di ammettere che qualcuno possa contraddirlo, progetto solo parzialmente consapevole di ribaltare la democrazia americana coi suoi pesi e contrappesi, e la sua separazione dei poteri.

Le destre dicono «Trump fa Trump», come se la tautologia fosse una spiegazione, ma la giustificazione vera è che finora sta vincendo.

Come il fool shakespeariano che sotto un’apparenza buffa rivela la verità, Trump ci dice con la sua maschera grottesca e il cappellino rosso che le uniche ragioni sono quelle della forza: gli organismi internazionali sono ormai gusci vuoti, l’Europa ha perso da tempo la propria centralità, se per dominare e far soldi bisogna dare un’altra botta al mutamento climatico tanto peggio per il clima (i ricchi saranno gli ultimi a risentirne).

Però parla come la gente, non come i politicanti di mestiere che non si fanno capire; è miliardario ma culturalmente ci tiene a differenziarsi da qualunque élite accademica o giornalistica, anche con le università la sola cosa che riesce a fare è ingaggiare un braccio di ferro.

Franco turpiloquio

Il cosiddetto linguaggio trumpiano da bar, o piuttosto da taverna e da suq, si sostanzia di un franco turpiloquio: «fucking» o «kiss my ass» rientrano senza problemi nel lessico di pubbliche dichiarazioni e conferenze stampa; ma la caratteristica più marcata è la intollerabile semplificazione della materia.

Putin e Zelensky non fanno la pace perché «si odiano troppo», Iran e Israele sono come due bambini quando litigano, che conviene farli sfogare, lasciargli lanciare qualche sasso o missile, così dopo è più facile farli smettere.

Decenni di stragi e reciproci rancori, secoli di colonialismi e di erranze, decisioni Onu prese a maggioranza e accuse di deicidio, shoah e nakba, attentati e crimini di guerra, tutto svanisce in una vampata di stupidità.

È stato a questo punto che mi è venuta in mente una strana analogia, con una delle scene ricorrenti nel cinema porno: siamo in un appartamento, la moglie sta facendo sesso con l’amante o con uno sconosciuto incontrato per strada, quando inopinatamente rientra il marito che si credeva lontano per affari; piccolo accenno di risentimento, poi basta un paio di occhiate e il marito si unisce alla festa: secoli di romanzo occidentale svaporano in un threesome.

Trump ha un modo pornografico di governare: d’altronde la voglia di comandare e la voglia di fottere (come ricorda un proverbio siciliano) hanno molto in comune e possono figurare nella medesima gerarchia di valori.

Tratta gli Stati e i capi di governo come le escort di cui ha larga pratica: vedi l’irridente apprezzamento su quanto Zelensky si fosse «vestito bene» per l’incontro alla Casa Bianca. Mark Rutte lo chiama «daddy», e al di là della quota adulatoria si sa quanto sia una parola-chiave nell’ambito della prostituzione e del porno.

Rispetto alle altre forme di narrazione, la pornografia ha la caratteristica di essere dominata da un’esigenza pratica, l’orgasmo: tutto è organizzato per “arrivare al punto”, le digressioni extravaganti sono poche, la psicologia va a farsi friggere, gli elementi narrativi di contesto esplicano una funzione semplicemente ritardante.

Questo fa in fondo Trump quando si trova nei consessi internazionali: dà segno di insofferenza, ordina che le riunioni siano brevi, i riti della diplomazia gli sembrano lungaggini inutili, le obiezioni gli danno fastidio, appena ha ottenuto quel che voleva non vede l’ora di partire; quando è “venuto” (termine tecnico) se ne va.

Predominio social

Non è un caso che il suo predominio comunicativo si affermi attraverso i social; i social hanno provocato una “pornificazione” del mondo. Osceno, etimologicamente, significa quel che deve stare fuori dalla scena; fuori dalla scena, per eccellenza, erano appunto le manovre della diplomazia.

Adesso tutto è spiattellato alla vista di tutti: ci si offende e ci si umilia in diretta televisiva, i messaggi privati vengono immediatamente divulgati, si mostrano sui social esternazioni di cui ci si pente un’ora dopo ma è già troppo tardi.

Nell’ormai classico La civiltà delle buone maniere, Norbert Elias ci aveva spiegato che le formule di galateo civile (quelle che fino a qualche anno fa ci sembravano, come dire, il minimo sindacale) avevano un’origine storica con la nascita delle “società di corte”: per evitare i duelli e per mantenere la propria buona fama in un contesto sempre più stretto.

La borghesia occidentale aveva mantenuto almeno la forma di questo galateo, di cui si sentiva erede. Ora il contesto si è allargato in modo selvaggio: i social hanno un pubblico informe e potenzialmente infinito, quasi sempre anonimo.

La “galassia Zuckerberg”, partita con le migliori intenzioni, ha portato a un imbarbarimento delle comunicazioni sociali: a forza di essere spogliata dalle convenzioni inutili, la “nuda verità” è diventata un ordigno che ci si scambia con ostilità e desiderio di averla vinta; il galateo è sparito anche dalla forma.

Come nei porno si possono vedere star famose denudate (e impegnate in atti sessuali) dall’intelligenza artificiale, così la verità denudata si rivela il regno della menzogna. Il social di cui Trump è proprietario si chiama “Truth”, che in russo si traduce “Pravda”, verità, come l’organo ufficiale del regime sovietico. Il presidente della nazione considerata baluardo della democrazia e la guida suprema di un regime teocratico fanno a gara a chi diffonde più fake.

Scarnificare la politica

La politica trumpiana ha sulla vita della pòlis globale lo stesso effetto che la pornografia ha sulla vita sentimentale. La pornografia scarnifica il sesso: con la pretesa di smitizzarlo liberando dalle inibizioni chi lo vedeva come qualcosa di troppo impegnativo, e magari aiutando chi per varie ragioni il sesso non può farlo, affabulando di fantasie che metterebbero un po’ di pepe nella routine coniugale, di fatto la pornografia ha reso il sesso poco interessante.

I ragazzi oggi entrano in contatto con la pornografia quando hanno meno di dieci anni (basta uno smartphone); arrivati all’adolescenza, delle tecnicalità del sesso sanno tutto, ma in concreto ne fanno sempre meno. L’amore diventa un concetto sempre più vago e velleitario, sempre più riferito a pulsioni emotive d’ogni genere tranne quella sessuale.

La politica ridotta ad arroganza, alla nudità dei rapporti di forza, diventa un gioco ripetitivo in mano a pochissimi, a coloro che appaiono gonfi di soldi e di potere. La democrazia, che dovrebbe essere la forma più matura delle “buone maniere”, si svuota dall’interno e salta via come una vecchia crosta.

I giovani a votare ci vanno sempre meno, le passioni che non possono evitare di avere preferiscono sfogarle in mondi virtuali, immaginari. Chi ancora fa l’amore con la politica viene preso in giro come un romantico o denunciato come un pericoloso antagonista.

Uno dei filoni del porno è la parodia di situazioni storiche, o delle fiabe, o di film famosi: gli eccessi di Poppea e Messalina, la Biancaneve perversa, l’educazione dei giovani spartani (per il porno omosessuale), il Quarto Potere del sesso e così via.

Trump vuole chiaramente gareggiare con autocrati come Putin o Xi Jinping, ma loro sono a vita, mentre lui può restare in carica solo per altri tre anni e mezzo (forse azzoppato tra uno e mezzo); per questo, come in tutti i porno, lui fa finta, accelera le posizioni, trascura i passaggi intermedi.

È troppo primadonna per non apparire la parodia di un autocrate. Se quel che ci sta recitando è il bisogno di un orgasmo veloce, forse per accontentarlo basta un profilattico stimolante.


Violenza e sale in zucca


(di Michele Serra – repubblica.it) – Il problema dei violenti è che spesso sono anche sciocchi. O meglio: non essendo abbastanza intelligenti, si illudono che la violenza possa risolvere ciò che la loro ragione non arriva a capire.

.Prendete questa dichiarazione del signor Ben Gvir, ministro della Sicurezza Nazionale di Israele e falco del governo Netanyahu: “L’obiettivo finale della guerra (ovvero dell’ecatombe di Gaza, ndr) è la completa sconfitta di Hamas, in modo che nessuno possa mai più massacrare i nostri cittadini e rapirne centinaia”. Detto che l’aspirazione alla sicurezza degli israeliani, specie dopo il 7 ottobre 2023, è del tutto comprensibile e legittima, è mai possibile che nessuno riesca a spiegargli che ciò che lui chiama “distruzione di Hamas” ha assunto le forme e i modi della cancellazione di un popolo; e dunque, anche ammesso che la detestabile egemonia di Hamas a Gaza possa avere fine, l’odio dei superstiti sarà inestinguibile, e dopo Hamas nascerà qualcosa di peggiore e di ancora più esiziale per Israele?

Ammesso e concesso che al signor Ben Gvir delle persone palestinesi, bambini e donne compresi, non importi nulla, come può non capire che quello che sta accadendo a Gaza non solo non giova alla sicurezza degli israeliani, ma la rende più precaria che mai? Le macerie e le stragi chiamano altro sangue, e alla lotteria della Storia non è detto che sia il sangue altrui. Ma i Ben Gvir di tutto il mondo non hanno abbastanza sale in zucca per capirlo, e come tutti i fanatici gettano le basi della loro rovina. Trascinando, nella loro rovina, anche gli innocenti.


Giustizia, la trappola perfetta


Il governo Meloni s’accinge a incassare il suo bottino. Regolando i conti con la magistratura, e mettendo all’angolo il Pd, insieme ai suoi alleati

Giorgia Meloni

(Michele Ainis – repubblica.it) – Nella beata incoscienza del pubblico pagante, sta per scattare la trappola perfetta. Come funziona? Con un gioco illusionistico. Tu mostri per mesi una riforma — il premierato — che capovolge l’universo mondo, o almeno il mondo disegnato dai costituenti. S’accende un dibattito infinito, con tonnellate d’interviste, editoriali, audizioni parlamentari, bla bla bla. Strada facendo (ma forse lo sapevi già da subito) t’accorgi che quella riforma può diventare un harakiri per il tuo esecutivo, come accadde a Renzi, e in precedenza pure a Berlusconi, castigati entrambi da un referendum popolare. E allora, mentre le pupille degli astanti sono ancora illuminate dalla madre di tutte le riforme, tu concepisci il figlio: una giustizia tutta nuova. Battezzandola proprio quando il decreto sicurezza innalza un monumento all’ingiustizia, quando le carceri trasformano ogni pena giusta in una tortura ingiusta, come ha ricordato ieri il presidente Mattarella.

A suo tempo (un anno fa) la creatura nasce al riparo da sguardi indiscreti, durante una riunione di 40 minuti fra 8 persone. Ma da allora in poi sgambetta veloce fra i banchi delle assemblee parlamentari. Pestando qualche piede, sicché s’alza il lamento dei contusi. Il Consiglio superiore della magistratura vota un parere di dissenso a larga maggioranza (24 consiglieri). L’Associazione nazionale magistrati proclama uno sciopero, con manifestazioni e assemblee pubbliche in 29 città. Gli avvocati invece applaudono, mentre il Consiglio nazionale forense protesta contro la protesta del corpo giudiziario. L’opposizione s’oppone, d’altronde è il suo mestiere. Ma senza troppa convinzione, anche perché gli animi sono tutti concentrati sulle guerre, sui dazi di Trump, sulla crisi della legalità internazionale.

Nel frattempo la riforma corre come un treno. Il disegno di legge costituzionale era stato presentato il 13 giugno 2024. Il 16 gennaio 2025 la Camera lo approva — senza correggerne una virgola — in prima lettura. E oggi in Senato andrà in scena il rush finale, dopo aver sterilizzato i 1300 emendamenti scritti dalle minoranze attraverso la tecnica del «canguro», altra creatura fantasmatica. Servirà poi la seconda lettura di ambedue le Camere, ma anche questo è un esito scontato.

Da qui la nuova pelle del testo costituzionale, con 7 articoli che cambiano registro. Ma da qui, anche e soprattutto, un bel trappolone per gli avversari dell’esecutivo. Perché questi ultimi, ostacolando la riforma, si trovano a vestire l’abito dei conservatori, sono costretti — loro malgrado — a difendere il sistema giudiziario così come funziona adesso, o meglio non funziona. Perché il restyling della giustizia distoglie l’attenzione dal naufragio sul quale è incappato il premierato, trasformando l’insuccesso in un successo. E perché, alla fine della giostra, ci attende un referendum. Lo vincerà il governo, un risultato diverso sarebbe una sorpresa. Intanto, nel referendum costituzionale non c’è il quorum, sicché l’opposizione non può restituire la pariglia rispetto ai referendum sulla cittadinanza e sul lavoro dei primi di giugno, cavalcando l’astensione. E in secondo luogo l’oggetto di quel referendum non saranno i poteri del Premier, non sarà il faccione di Giorgia Meloni, che oggi piace e magari domani non piace. No, sarà il consenso verso il potere giudiziario, che da tempo vola rasoterra: ne ha fiducia soltanto il 39% degli italiani, attesta un sondaggio Tecnè diffuso a febbraio. E il 68% degli intervistati voterebbe a favore di questa riforma, dichiara il medesimo sondaggio.

Conclusione: il governo Meloni s’accinge a incassare il suo bottino. Regolando i conti con la magistratura, e mettendo all’angolo il Pd, insieme ai suoi alleati. Ma in questo scenario c’è una responsabilità delle stesse opposizioni. Avrebbero dovuto scegliere una strategia diversa dal muro contro muro. Dopotutto, la separazione delle carriere è già in circolo nel nostro ordinamento: con la riforma Cartabia del 2022 il passaggio dalla funzione requirente a quella giudicante può avvenire una sola volta in tutta la carriera, e con l’obbligo di cambiare sede; tanto che l’1% appena dei magistrati trasmigra da una funzione all’altra. Dunque si tratta d’una riforma manifesto, sostanzialmente innocua nelle sue concrete conseguenze. Nonché appoggiata da varie personalità della sinistra, in nome d’un garantismo spesso declamato ma assai poco praticato. Non è il caso, insomma, di farne una crociata.

A sua volta, l’uso del sorteggio per formare gli organi d’autogoverno è forse l’unico sistema per arginare le correnti giudiziarie, dopo tanti tentativi andati a vuoto. La deriva correntizia, la spartizione dei ruoli di vertice in virtù del peso che assumono le diverse associazioni dei magistrati, nuoce al prestigio stesso del corpo giudiziario. Mentre il sorteggio rappresenta la più antica procedura democratica, già in uso nell’Atene del V secolo a.C. Magari la ricetta Nordio è troppo radicale, magari sarebbe stato meglio conservare una quota di membri elettivi, senza infliggere un’umiliazione al potere giudiziario. E magari le opposizioni avrebbero potuto suggerirlo con qualche emendamento costruttivo, anziché puramente distruttivo. Chissà, forse Togliatti avrebbe scelto questa posizione. Lui le trappole le fiutava, invece di caderci dentro mani e piedi.


Lacrime di Kimmodrillo


(di Massimo Gramellini – corriere.it) – L’arte di conquistare gli amici e il dominio sugli altri di Dale Carnegie (è la bibbia di ogni bravo venditore, Berlusconi ne sapeva citare a memoria interi passi) parte dall’assunto fondamentale che anche i cattivi pensano di essere buoni. Mi è tornato alla mente guardando un affranto Kim Jong-un inginocchiarsi davanti alla bara di un soldato nordcoreano morto nella lontana Ucraina e partecipare con occhio umido a una fastosa cerimonia commemorativa, dove tutti applaudivano freneticamente e piangevano a comando, compreso Kim, che se lo sarà comandato da solo. 

Tutti tranne sua sorella Kim Yo-jong, l’algida numero 2 del regime. Lei è certamente una cattiva, ma almeno è consapevole di esserlo, mentre il libro di Carnegie era scritto da un maschio e parla di maschi che hanno sempre bisogno di autoassolversi e quindi di autorappresentarsi migliori di quanto non siano. 

Certo, la scena del Kim commosso viaggiatore Ã¨ abbastanza agghiacciante. Stiamo parlando di un uomo che ha fatto sbranare suo zio da un branco di cani e che si compiace di essere circondato dal terrore e da un livello di servilismo di cui in Occidente non avevamo memoria, prima che Rutte perdesse la testa per Trump. Ecco, lo statista di Mar-a-lago Ã¨ un altro sicuramente convinto di essere una personcina a modo. E anche Netanyahu. E Khamenei. Per non dire di Putin e di Xi. Siamo talmente circondati da leader buoni che non ci dormo la notte.


I nazisti, Netanyahu, gli Usa e la giustizia che assolve chi vince


Stessi metodi. L’israeliano contro i palestinesi e l’Iran: chi mai lo giudicherà? La lezione della II Guerra mondiale non è edificante

(di Massimo Fini – ilfattoquotidiano.it) – Adolf Hitler è sempre stato bollato come il “Male Assoluto” e quindi utilizzato come alibi universale, nel senso che tutto ciò che sarebbe avvenuto dopo non poteva essere peggio. Questo è discutibile.

Le ambizioni di Hitler, almeno all’inizio, si limitavano a mettere le mani sull’Europa di lingua e di cultura tedesca. Il nazismo, a differenza della Gran Bretagna, della Francia, del Belgio, dell’Olanda e persino dell’Italia fascista, non ha mai avuto mire colonialiste. Ha messo solo le mani sulla Namibia, all’estremo sud dell’Africa, che non a caso è oggi uno dei Paesi meglio organizzati e più pacifici del Continente nero.

Si dirà che le modalità delle sue conquiste furono peculiari: razzismo e xenofobia. Ma che sta facendo oggi il “democratico” Benjamin Netanyahu? Non è xenofoba la sua guerra ai palestinesi che vuole cacciar via dalla faccia della Terra? Con l’aggravante che il nazismo, anche in piena Seconda guerra mondiale, rispettò sempre le grandi Organizzazioni internazionali, a cominciare dalla Croce Rossa. In Palestina assistiamo invece, da parte delle Idf, al disconoscimento di fatto di queste Organizzazioni, si chiamino Croce Rossa o Mezzaluna Rossa o della neutralità dei giornalisti. C’è sempre una buona scusa per attaccare gli ospedali, 36 allo stato attuale, e le organizzazioni pacifiste che cercano di portare cibo ai palestinesi. Per cui la mattanza non sta tanto nei 55 mila civili palestinesi uccisi (dato sicuramente in difetto: secondo altri calcoli sarebbero almeno 100 mila o forse di più), ma nel fatto che costoro sono ridotti alla fame e hanno un’estrema difficoltà, per non dire impossibilità, a curarsi.

Israele si dice, è un Paese democratico, ma ammesso che ciò sia vero, non gli dà il diritto di attaccare i Paesi che democratici non sono o non sono considerati. Un esempio molto attuale è quello dell’Iran. L’Iran ha mai attaccato nessuno? È una Potenza atomica? No, perché aderendo al Trattato di non proliferazione nucleare (Tnp) ha sempre accettato le ispezioni dell’Aiea cioè l’Agenzia internazionale per l’energia atomica, che nelle sue ispezioni, a sentire il suo direttore, l’argentino Rafael Grossi, ha sempre accertato che in Iran l’arricchimento dell’uranio non è mai andato oltre il 60 per cento, cioè per usi civili e medici. Per fare la Bomba l’arricchimento deve arrivare al 90 per cento.

Ma qui il discorso si fa più ampio e risale ai Processi di Norimberga e di Tokyo dove i vincitori, per la prima volta nella Storia, non si accontentarono solo di essere più forti dei vinti, ma pretesero anche di esserne moralmente superiori. Dubbi su questi Processi furono espressi, all’epoca, proprio da intellettuali liberali. Scrisse Rusztem Vámbéry: “Che i capi nazisti e fascisti debbano essere impiccati e fucilati dal potere politico e militare, non c’è bisogno di dirlo. Ma questo non ha niente a che vedere con la legge… Giudici guidati da ‘sano sentimento popolare’, introduzione del principio di retroattività, presunzione di reato futuro, responsabilità collettiva di gruppi politici e razziali, rifiuto di proteggere l’individuo dall’arbitrio dello Stato, ripristino della vendetta tribale… Chiunque conosca la storia del diritto penale sa quanti secoli, quanti millenni, ci sono voluti perché esattamente il contrario di questa storia e di questa prassi… Fosse universalmente riconosciuto come parte integrante del diritto e della giustizia…” e Benedetto Croce in un coraggioso discorso all’Assemblea costituente dichiarava: “Segno inquietante di turbamento spirituale sono ai giorni nostri (bisogna pure avere il coraggio di confessarlo) i tribunali senza alcun fondamento di legge, che il vincitore ha istituito per giudicare, condannare e impiccare, sotto nome di criminali di guerra, uomini politici e generali dei popoli vinti, abbandonando la diversa pratica, esente da ipocrisia, onde un tempo non si dava quartiere ai vinti o ad alcuni di loro e se ne richiedeva la consegna per metterli a morte, proseguendo e concludendo con ciò la guerra”.

Più possibilista fu il Guardian, storico quotidiano britannico di ispirazione liberale: “Il processo di Norimberga apparirà giusto o sbagliato nella storia a seconda del futuro comportamento delle nazioni che ne sono responsabili”. “Tale comportamento delle due superpotenze, Usa e Urss, abbiamo avuto modo di verificarlo nella guerra del Vietnam dove furono usati napalm e armi chimiche, in Medio Oriente dove sono state combattute guerre per interposta persona e sulla pelle altrui, ‘suicidato’ Masaryk e Allende, schiacciato nel sangue la rivolta ungherese, invaso la Cecoslovacchia e l’Afghanistan, umiliato la libertà della Polonia, insidiato con le armi e i servizi segreti la sovranità del Nicaragua e del Salvador, difeso e sostenuto i più feroci, sanguinari e criminali dittatori salvo poi dismetterli, quando non più presentabili, a suon di ‘golpe’, organizzato decine di colpi di Stato, fomentato e guidato una buona fetta di terrorismo internazionale (che oggi potremmo chiamare Isis) e, infine, messo il tallone occidentale e accampato le nostre pretese egemoniche su ogni angolo, anche il più recondito, del mondo” (L’Europeo, “La legge dei vincitori”, 1986).

Questo articolo è del 1986, ma poi è accaduto anche di peggio. Gli occidentali, a guida americana, violando tutte le norme del diritto internazionale, hanno aggredito la Serbia (1999), l’Afghanistan (2001), l’Iraq (2003, 650 mila morti), Libia (2011) e ora l’Iran che non ha mai aggredito nessuno.

Ma adesso Israele, poiché è un Paese democratico, si ritiene in diritto di fare una macelleria di palestinesi in forme e in modi che nemmeno il nazismo aveva tentato. Perché il nazismo cercava di occultare in qualche modo i suoi misfatti, il binomio Netanyahu-Trump, democratici, li fa a cielo aperto sotto gli occhi di tutti noi. Impotenti.

Caro Massimo, capisco la tua provocazione: però, così come gli orrori del nazismo non possono giustificare quelli attuali di Netanyahu&C., non può essere neppure l’inverso.


Bei “sovranisti”. Roma non ha nemici, ma compra le armi per le guerre altrui


Giorgia Meloni spenderà il 5% del Pil nella difesa come richiesto da Trump. Per capire ciò che sta accadendo, occorre sapere che l’Italia è uno Stato satellite. Uno Stato satellite è […]

(di Alessandro Orsini – ilfattoquotidiano.it) – Giorgia Meloni spenderà il 5% del Pil nella difesa come richiesto da Trump. Per capire ciò che sta accadendo, occorre sapere che l’Italia è uno Stato satellite. Uno Stato satellite è uno Stato la cui politica estera e la cui politica di sicurezza sono controllate da una potenza straniera. Il fatto di essere uno Stato satellite comporta due conseguenze.

La prima è politico-militare: l’Italia, non avendo nemici, comprerà tante armi dagli Stati Uniti per utilizzarle nelle guerre decise dalla Casa Bianca. La Casa Bianca si prepara alla guerra con la Cina, con l’Iran e magari pure con la Russia, se la situazione andasse fuori controllo. E ha bisogno di alleati ben armati per migliorare la propria deterrenza e scaricare parte dei costi delle proprie guerre su di loro. L’Italia è entrata nei teatri di guerra in Afghanistan e in Iraq per alleggerire i costi degli Stati Uniti. I soldati italiani, che tutti amiamo e rispettiamo, non si trovano in Libano per difendere gli interessi nazionali dell’Italia, ma per aiutare la Casa Bianca a risparmiare soldi e soldati. La Casa Bianca ha creato molti disastri in Libano. L’Italia mantiene i soldati in Libano per porre qualche piccolo rimedio a quei disastri smisurati. Analogo discorso vale per la missione italiana nel Mar Rosso contro gli Houthi. Gli Stati Uniti hanno creato un disastro in Palestina. Gli Houthi hanno reagito e l’Italia ha mandato le navi da guerra. Un caso eclatante che dimostra che l’Italia compra le armi americane per metterle al servizio degli americani è il bombardamento italiano della Libia del 2011. Il 30 agosto 2008, Berlusconi e Gheddafi avevano firmato il Trattato di amicizia, partenariato e cooperazione, noto come Trattato di Bengasi. Quando Berlusconi seppe che la Libia sarebbe stata attaccata, minacciò di dimettersi, consapevole che il bombardamento avrebbe danneggiato l’Italia. Il 15 aprile 2011, Silvio Berlusconi e Ignazio La Russa assicurarono che l’Italia non avrebbe bombardato la Libia. Il 28 aprile, la bombardarono. L’Italia si era piegata alla Casa Bianca in pochi giorni. La guerra della Nato per il rovesciamento di Gheddafi, a differenza di ciò che ha dichiarato La Russa il 19 febbraio 2015 a La7, fu illegale. La risoluzione 1973 dell’Onu del 17 marzo 2011 non autorizzava la Nato a bombardare la Libia in combutta con i ribelli libici per trucidare Gheddafi e sostituirlo con un presidente filo-occidentale. Non è vero che la Nato bombardò la Libia in quel modo perché lo chiese l’Onu. L’Onu non chiese mai il rovesciamento del regime libico.

La seconda conseguenza è psicologico-sociale: l’Italia, come si conviene a uno Stato satellite, accetta lo stigma di Trump senza ribellarsi. Secondo Trump, se l’Italia non spende il 5% del Pil, allora gli italiani “scroccano” le armi americane. È ciò che Trump ha dichiarato davanti al no di Sánchez: “La Spagna scrocca!”. In realtà, la Casa Bianca “scrocca” le armi e i soldati dell’Italia, costringendola ad assumersi parte dei costi delle sue guerre fallimentari. I soldati italiani sono andati in Afghanistan e in Iraq (dove sono pure morti a Nassiria) per aiutare la Casa Bianca a controllare il territorio iracheno. Non avendo nemici né guerre proprie da combattere, l’Italia spenderà il 5% del Pil per prepararsi alle guerre future degli Stati Uniti. L’Ucraina lo conferma. Biden ha incancrenito la guerra rendendo impossibile una soluzione diplomatica. E adesso Trump scarica sull’Italia i costi della guerra per procura degli Stati Uniti contro la Russia chiedendole di comprare armi americane da dare all’Ucraina (il piano di riarmo serve anche ad armare Zelensky).


I russi russano


(Marco Travaglio – Il Fatto Quotidiano) – Siccome siamo il popolo più ostile al riarmo, la propaganda guerrafondaia è in piena azione per convincerci che non c’è alternativa. I russi avanzano in Ucraina salvo brevi parentesi da 40 mesi, ma ogni attacco è il più terribile di sempre (strano: due mesi fa i russi, tutti homeless ubriachi, avanzavano a dorso di muli e motorini). Anche la frase più banale in russo, tipo il “non ci sconfiggerete” di Lavrov, diventa […] 


Berlusconi docet. Ancora


Berlusconi docet. Ancora

(di Antonio Pitoni – lanotiziagiornale.it) – È un po’ come il gioco dell’oca. Ogni volta che arriva un giudice – italiano, europeo o internazionale che sia – a smontare leggi (e propaganda) del governo Meloni, si riparte dal via. Dal copione di berlusconiana memoria che le destre ripropongono ininterrottamente, alla bisogna, riportando le lancette del tempo al 1994. Con la ritrita tiritera delle toghe comuniste e della magistratura politicizzata che se dalle nostre parti continuano ad avere un minimo di appeal, grazie ai soliti media pronti a fare da grancassa all’esecutivo, all’estero suscitano la reazione che meritano. Grasse risate.

Dopo l’antipasto (e il disastro) dell’operazione Albania, solo negli ultimi giorni, si è perso il conto delle repliche del reiterato spettacolo. L’ennesima figuraccia (internazionale), va in scena a L’Aja. A firma del procuratore della Corte penale internazionale, Nazhat Shameem Khan, che ha accusato il governo italiano di “non aver ottemperato ai suoi obblighi” sul caso Almasri e di aver “impedito alla Corte di esercitare le sue funzioni”. Il caso è quello del presunto torturatore libico, ricercato dalla Cpi, fermato in Italia ma rispedito a Tripoli con un volo di stato anziché essere consegnato alle autorità internazionali. La reprimenda vergata da Khan e riportata nei giorni scorsi da La Stampa, fa riferimento ad una richiesta di estradizione della Libia (emessa lo scorso 20 gennaio, solo due giorni dopo il fermo del ricercato a Torino) ma resa nota “oltre tre mesi dopo il rilascio di Almasri”. Ciononostante, constata la Cpi, il presunto torturatore “non è stato né consegnato alla Corte né è stato estradato (o arrestato) in Libia al suo ritorno ma trasferito in piena libertà a Tripoli, dove è stato accolto da una folla festante”. Conclusione: “L’Italia sembra aver ritenuto di poter esercitare discrezionalità nel determinare se potesse dare priorità alla richiesta di estradizione della Libia rispetto alla richiesta di consegna della Corte”, mentre “aveva l’obbligo di consultare la Corte e la sua mancata consultazione costituisce di per sé una grave inadempienza”.

Stesso giorno, altra figuraccia. Stavolta è il Massimario della Cassazione, in una relazione non vincolante a demolire il decreto Sicurezza elencandone, uno dietro l’altro, tutti i possibili profili di incostituzionalità. Peraltro già ampiamente noti e da più parti evidenziati durante l’iter del provvedimento. Il ministro della Giustizia Nordio non perde tempo a dichiararsi “incredulo”, annunciando di aver dato agli uffici di Via Arenula di “acquisire la relazione” e soprattutto “conoscerne l’ordinario regime di divulgazione”. Tocca così all’Anm ricordare al Guardasigilli “che uno dei compiti specifici dell’Ufficio del Massimario, le cui attribuzioni ex art. 68 ordinamento giudiziario sono definite dal Primo Presidente della Corte di Cassazione, è proprio quello di redigere le relazioni sulle novità normative, evidenziandone anche le eventuali criticità dal punto di vista della tenuta costituzionale”. In soccorso arriva poi il collega Piantedosi, che sempre in un’intervista alla Stampa, definisce quello della Cassazione “un esercizio connotato da una forte impostazione ideologica”. Un incipit promettente, peccato per la successiva ammissione del ministro dell’Interno: “Non ho avuto tempo di leggere la relazione, ma…”.

Intanto, mentre il vice premier Tajani disserta su temi decisivi per il destino del pianeta, come le origini giudaico-cristiane (a dir poco controverse) della bandiera europea, apprendiamo dall’Istat che l’inflazione, specie sui prodotti alimentari, è tornata a correre e la pressione fiscale, malgrado la crociata delle destre contro l’eccessiva tassazione, continua a salire. In barba alla propaganda.