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Bernini contestata dagli studenti di Medicina: “Siete sempre dei poveri comunisti”


“Non ce la facciamo più, con il semestre filtro rischiamo di perdere un anno”, hanno detto. E la ministra: “Questa degli studenti è la strategia del caos: parlano ma non ascoltano”

Atreju, Bernini contestata dagli studenti di Medicina: “Siete sempre dei poveri comunisti”

(repubblica.it) – Un gruppetto di studenti ha contestato la ministra dell’Università e della Ricerca, Anna Maria Bernini, cercando di impedire il suo intervento conclusivo del panel Alleanza per il sapere. “Non ce la facciamo più, con il semestre filtro rischiamo di perdere un anno“, hanno urlato i giovani in mobilitazione contro la riforma di medicina. “Sapete come diceva il presidente Berlusconi? Siete sempre dei poveri comunisti. Prima di contestare fatemi parlare. Questo dimostra la vostra inutilità”, ha replicato la ministra che è poi scesa dal palco per parlare con gli studenti dell’Udu (Unione degli Universitari).

“Stavate meglio pagando 30mila euro?”, ha aggiunto la ministra rivolgendosi agli studenti. “Ho investito 9,4 miliardi sull’università e oltre 800 milioni sulle borse di studio. Questa degli studenti è la strategia del caos: parlano ma non ascoltano. Comincio a preoccuparmi quando qualche partito politico fa loro eco”.

“Io sono convinta che quando si fa il ministro si sia responsabili di ciò che si mette in campo e io mi assumo la responsibilità di tutto”, ha detto anche Bernini. “E vi dico che a febbraio la graduatoria di Medicina sarà completata e quelli che, fino a un anno fa, sono stati vittime delle lobby e degli speculatori saranno studenti universitari, non candidati a test basati su domande inutili”.

“Noi”, ha rivendicato Bernini, “abbiamo fatto entrare 55mila studenti universitari. A febbraio 24mila studenti universitari saranno in graduatoria a Medicina, gli altri potranno scivolare sulle materie affini. Questo è l’impegno che io mi assumo qui davanti a voi. Le chiacchiere, amici dell’Udu”, ha concluso”, stanno a zero”.

“Siete sempre dei poveri comunisti”, la ministra Bernini contro gli studenti di Medicina che la contestavano

I democratici parlano di comportamento “grave e sconcertante” per chi ricopre un ruolo istituzionale, mentre i Cinque Stelle denunciano “l’uso di slogan d’altri tempi per eludere le criticità” e accusano il governo di smantellare l’università pubblica

(ilfattoquotidiano.it) – Mentre cresce la polemica per il pasticcio del test filtro per Medicina e si cercano soluzioni all’italiana, a riscaldare gli animi arriva anche la risposta piccatissima della ministra dell’Università e della Ricerca, Anna Maria Bernini, a un gruppo di studenti che la contestavano, all’inizio del suo intervento ad Atreju. “Sapete come diceva il presidente Berlusconi? Siete sempre dei poveri comunisti. Prima di contestare fatemi parlare. Questo dimostra la vostra inutilità”.

La contestazione

“Non ce la facciamo più, con il semestre filtro rischiamo di perdere un anno”, hanno urlato i giovani, mobilitati contro la riforma del corso di laurea in Medicina voluta proprio da Bernini. La ministra ha replicato citando l’ex presidente Silvio Berlusconi e ricevendo lo scontato applauso della platea. Dopo lo scambio di battute, Bernini è scesa dal palco per dialogare direttamente con gli studenti. Rivolgendosi nuovamente ai giovani, la ministra ha aggiunto: “Stavate meglio pagando 30mila euro? Ho investito 9,4 miliardi sull’università e oltre 800 milioni sulle borse di studio. Questa degli studenti è la strategia del caos: parlano ma non ascoltano. Comincio a preoccuparmi quando qualche partito politico fa loro eco”.

Le ammissioni della ministra

Bernini ha poi ammesso che nei test della prova di Fisica – descritta come difficile – “c’erano due errori e nel caso della seconda domanda sbagliata, verrà riconosciuto un punto” per tutti “quindi nel compito di fisica si partirà da un punto”. La ministra ha poi annunciato che “saranno riempiti tutti i posti della graduatoria di medicina: 24mila posti saranno coperti sulla base delle valutazioni di merito perché le domande sono serie. Quella di oggi non è una sanatoria, è la naturale evoluzione di una riforma che deve aspettare di arrivare a tutte le fasi di attuazione – ha spiegato – nel momento in cui noi avremo tutti i voti prima di Natale di tutti gli studenti che hanno partecipato al primo e al secondo appello, faremo la graduatoria e sulla base della graduatoria vedremo chi entra subito, chi entro il 28″ febbraio “sconterà i suoi debiti d’esame e chi potrà scivolare sulle materie affini che sono già state indicate perché hanno potuto gratuitamente già iscriversi a delle materie affini”.

“Per quanto riguarda le preoccupazioni degli studenti, io vorrei dire che è semplicemente l’evoluzione della riforma – ha poi continuato – Abbiamo fatto il primo appello, il secondo appello, compileremo la graduatoria che scorrerà e chi non ha la sufficienza nelle proprie sedi di destinazione, ciascuno ne ha indicate 10, avrà i suoi crediti formativi”. Per Bernini “il cambio di paradigma è che prima c’erano dei candidati ai test che venivano ghigliottinati fuori dai cancelli dell’università. Qui dal primo settembre abbiamo 55mila studenti che stanno studiando, formandosi e accumulando crediti formativi”.

Le critiche di M5S e Pd

L’uscita della ministra è stata criticata da Pd e M5s. “Le parole pronunciate oggi dalla ministra Bernini contro un gruppo di studenti che l’ha contestata ad Atreju sono inaccettabili. Davanti a ragazze e ragazzi che protestano legittimamente contro una riforma rivelatasi un colossale flop, la ministra ha pensato bene di rispondere non nel merito, ma insultandoli: ‘poveri comunisti’, ‘inutili’. È un comportamento grave e sconcertante per chi ricopre un ruolo istituzionale e dovrebbe invece ascoltare, dialogare e assumersi le proprie responsabilità.” dichiara Irene Manzi, capogruppo Pd in commissione istruzione e cultura alla camera.

“Nella galleria dei ministri del governo Meloni più inadeguati e incapaci di rivestire il loro ruolo, sale prepotentemente Anna Maria Bernini. Di fronte alle legittime preoccupazioni degli studenti sul semestre filtro, una vera e propria truffa frutto della incapacità del governo, la ministra risponde con slogan d’altri tempi, definendo i presenti ‘poveri comunisti’ e ‘inutili’. Il solito modo per eludere le criticità poste. D’altronde – scrivono in una nota gli esponenti M5S in commissione Cultura – è la cifra di questo Governo insultare chi protesta. Non sembra che ci si trovi davanti ministri in grado di stare al di sopra dei personalismi: preferiscono presentarsi come vittime, come se ogni contestazione fosse una questione personale. Chi guida il sistema universitario dovrebbe garantire confronto e rispetto, non ricorrere a battutine insulse per screditare il dissenso. La verità è che Bernini cita Berlusconi perché è da quando c’era lui che la destra ha un solo obiettivo: smantellare l’università pubblica. Dopo aver reintrodotto forme di contratti precari nella ricerca. Dopo l’abolizione dell’abilitazione nazionale che non farà altro che potenziare il baronato a discapito della meritocrazia. Le contestazioni sono il minimo”.


L’auto-santificazione di Brunello


(dagospia.com) – L’auto-santificazione di Brunello Cucinelli è costata cara, non solo al “sarto cesareo” del cashemire, ma anche alle casse dello Stato.

Il ciclopico docu-film “Il visionario garbato”, diretto dal premio Oscar Giuseppe Tornatore, musicato da un altro oscarizzato, Nicola Piovani, e battezzato con tanto di party ultracafonal in uno studio di Cinecittà alla presenza di Giorgia Meloni e Mario Draghi, è costato la sommetta di 9.987.725 milioni di euro.

Di questi, i contributi ricevuti dal Ministero della Cultura con il meccanismo del tax credit raggiungono la cifra di 3.955.090 milioni.

In attesa di sfornare un “Nuovo cinema Paradiso”, l’ultimo film di finzione è datato 2016, “La corrispondenza”, con protagonisti Jeremy Irons e Olga Kurylenko, Peppuccio Tornatore si diletta con i documentari, l’ottimo “Ennio” del 2021 su Morricone, ed ora l’imbarazzante “Il visionario garbato” su Cucinelli, per il quale avrebbe intascato 2 milioni per la regia e 500 mila per soggetto e sceneggiatura.

Il suddetto mischione di biopic fiction + documentario con interviste + megaspot è stato prodotto dallo stesso Cucinelli e dalla “Masi Film Productions”, con la distribuzione della 01 di Rai Cinema. ‘’Masi Film” è una casa di produzione, fondata e guidata da Massimiliano Di Lorenzo, che ha fatto felici i cultori del cine-trash grazie a due perle come “Tapirulan” di Claudia Gerini e “Gianluca Vacchi – Mucho Mas”. Cui ha fatto seguito “Anna”, il film su Anna Magnani, con Monica Guerritore protagonista e regista e come produttore esecutivo la scelta è caduta su Marco Perotti.  

(Sì, proprio quel Perotti salito alle cronache per il caso Francis Kaufmann, l’americano incriminato per aver ucciso la 28enne russa Anastasia Trofimova e la bambina di un anno Andromeda, a Villa Pamphili a Roma. Un fattaccio che passò dalla cronaca nera alle pagine politiche quando venne allo scoperto che Kaufmann, sotto la falsa identità di tale Rexal Ford, era registrato al Ministero della Cultura come regista di ‘’Stelle della notte”, un film mai realizzato che ottenne nel 2021 il tax credit di circa 836 mila euro.

Una storiaccia che fece saltare il sistema cinema e costò il posto di direttore generale Cinema e Audiovisivo a Nicola Borrelli che in un’intervista al “Corriere della Sera” raccontò di non aver mai avuto a che fare direttamente con il fantomatico Rexal Ford:

“Nel marzo del 2020 un produttore esecutivo italiano, Marco Perotti di Coevolutions, presenta una domanda preventiva di credito di imposta per la cosiddetta linea di attrazione di investimenti in Italia, specifica per far girare nel nostro Paese opere internazionali”).

A ben pensarci, l’auto-santificazione del Brunello, illuminata da battute filosofiche da paraguru in ogni scena o quasi, quando non punta al poetico (“Il cielo stellato sopra di me e la legge morale dentro di me”), che trova il commento sullo schermo di una serie di volti celebri, da Patrick Dempsey a Oprah Winfrey, da Gianluca Vacchi a Mario Draghi (“Cucinelli ha messo l’essere umano al centro del discorso”), è arrivata al momento giusto per scacciare certe presunte accuse. Come si evince dall’articolo a seguire…

CUCINELLI, LE ACCUSE NEL REPORT DI MORPHEUS RESEARCH: IN RUSSIA VIOLA LE SANZIONI UE

(Articolo da ilsole24ore.com del 25 settembre 2025) – Attività ancora aperte al pubblico, negozi (sia monomarca, sia multimarca) che vendono merce ben sopra i limiti stabiliti dall’Unione europea quando ha varato il pacchetto di sanzioni contro la Russia in seguito all’invasione dell’Ucraina del 24 settembre 2022. E poi: vendite di prodotti a prezzi ribassati per smaltire scorte di prodotti.

Sono queste le principali accuse rivolte da Morpheus Research, società americana fondata solo pochi mesi fa, a Brunello Cucinelli, azienda di moda umbra, specializzata nel cashmere e nell’abbigliamento e accessori di altissima gamma made in Italy, che nel 2024 ha realizzato un fatturato di 1,27 miliardi di euro e dal 2012 è quotata in borsa a Milano (dal 2023 è nel Ftse Mib 30).

Dopo l’uscita del report – che segue di qualche giorno accuse simili da parte di Pertento Partners, hedge fund azionista di Cucinelli, riportate dal Financial Times – il titolo è crollato di oltre il 5% e Borsa Italiana ha sospeso temporaneamente le contrattazioni. Una volta riaperte, il valore delle azioni è sceso fino al 17,28 per cento, attestandosi poco sopra gli 85 euro.

Ma ecco nel dettaglio i contenuti del report di Morpheus che si basa su un’indagine portata avanti per «oltre tre mesi e che ha coinvolto interviste con ex dipendenti e partner di Cucinelli, un’analisi approfondita dei dati commerciali e visite ai negozi russi di Cucinelli». Il report «mette in dubbio le affermazioni di Cucinelli e rivela che Cucinelli ha ingannato gli azionisti: continua a gestire diversi negozi a Mosca con un’ampia offerta di articoli a prezzi che superano le migliaia di euro».

Prezzi che violerebbero dunque le sanzioni Ue (le aziende europee possono vendere in loco merci del valore massimo di 300 euro al sell in, ndr). Secondo la società americana Cucinelli avrebbe giustificato il fatto che i negozi fossero ancora aperti con la volontà di mantenere servizi di assistenza alla clientela in loco, ma in questo caso si tratterebbe di vera e propria vendita.

Cucinelli nella nota di risposta alle accuse fa presente che «all’inizio del conflitto abbiamo scelto di mantenere inalterata la nostra struttura locale continuando a garantire salari pieni ai dipendenti e ai venditori e a onorare i contratti di affitto, come sempre fatto in ogni parte del mondo anche in situazioni straordinarie».

Morpheus contesta i numeri relativi all’export verso Mosca comunicati da Cucinelli qualche giorno fa, quando il Financial Times aveva riferito delle accuse simili avanzate però dall’hedge fund Pertento Partners, secondo le quali Cucinelli continua a operare in Russia violando le sanzioni Ue sui beni di lusso, come confermato da Morpheus nel suo documento: «I nostri clienti hanno effettuato più acquisti, con scontrini emessi dalla filiale russa di Cucinelli», si legge.

La società americana ha ottenuto i bilanci della filiale russa di Cucinelli che rivelano che «l’entità ha generato circa 15 milioni di euro di vendite sia nel 2023 che nel 2024, nonostante i principali negozi che gestisce siano presumibilmente chiusi. I bilanci della filiale rivelano anche una strategia per “ridurre l’impatto negativo delle sanzioni” continuando a vendere tramite “commercio a distanza” e “consegna a domicilio”».

Eppure, recita sempre il report, « i dati commerciali indicano che Cucinelli ha aumentato le sue esportazioni dopo l’imposizione delle sanzioni. Dal 2021 al 2023, le esportazioni di Cucinelli verso la sua filiale russa sono aumentate vertiginosamente di circa il 715% in termini di peso.

Sebbene parte di questo aumento possa essere dovuto a un maggiore volume di articoli a basso prezzo, un aumento così significativo risulta insolito nel contesto delle apparenti chiusure dei negozi Cucinelli in Russia. Sebbene parte di questo aumento possa essere dovuto a un volume maggiore di articoli a basso prezzo, un aumento così significativo risulta insolito nel contesto delle apparenti chiusure dei negozi Cucinelli in Russia», si legge.

Non è tutto: il report evidenzia che «oltre a vendere attraverso i propri negozi russi, Cucinelli vende anche attraverso negozi di fascia alta come Tsum, controllato dal conglomerato russo del lusso Mercury Group, che sembra sostenere la crescita del brand nella regione nonostante le sanzioni dell’Ue».

La società di analisi rivela: «Nostri acquirenti segreti hanno visitato il flagship store di Tsum, che aveva un’area dedicata a Cucinelli, e hanno documentato numerosi prodotti Cucinelli in vendita, inclusi articoli fabbricati nel 2024 e nel 2025 venduti per l’equivalente di 5.000 euro». Il documento parla di «circa 5.000 articoli Cucinelli, in vendita sul sito di Tsum. Tra le offerte online di Tsum, abbiamo trovato capi Cucinelli in vendita fino a 30.000 euro».

E, ancora: secondo quanto rilevato da Morpheus Cucinelli ha fatto ricorso a sconti aggressivi per gestire un inventario gonfio che surclassa di gran lunga i concorrenti diretti, con articoli che finiscono in negozi come TJ Maxx, rischiando di diluire il posizionamento esclusivo del marchio»

Il passaggio finale sull’etica

La conclusione tocca nel vivo una delle caratteristiche chiave dell’azienda fondata nel 1978 dall’imprenditore umbro. Quella di essere una forma di capitalismo illuminato: «Il presidente Cucinelli discute spesso dell’idea di sostenibilità morale, concentrandosi anche su come “si dovrebbe vivere con onestà”. Nello spirito di questa etica, crediamo che gli azionisti meritino maggiore onestà per quanto riguarda le operazioni russe di Cucinelli e la gestione dell’inventario».


Schlein: le informazioni che circolano sulla vendita del gruppo Gedi sono allarmanti


GEDI: SCHLEIN, ‘SI RISCHIA DI SMANTELLARE UN PRESIDIO DI DEMOCRAZIA’

(ANSA) – ROMA, 11 DIC – “Le informazioni che circolano sulla vendita del gruppo Gedi sono allarmanti.

Dopo anni di scelte finanziarie che hanno progressivamente indebolito l’azienda, si arriva oggi alla cessione a un soggetto straniero che non offre garanzie su occupazione, prospettive future, qualità e pluralismo dell’informazione.

Siamo estremamente preoccupati dai rischi di indebolimento o addirittura di smantellamento di un presidio fondamentale della democrazia”. Così la segretaria del Pd Elly Schlein. “Per questo siamo al fianco dei giornalisti e sosterremo ogni iniziativa volta a mantenere alta l’attenzione e ottenere chiarimenti”, aggiunge.

BONELLI, CON LA VENDITA DI REPUBBLICA E LA STAMPA A RISCHIO IL PLURALISMO

(ANSA) – ROMA, 11 DIC – “La vendita de La Repubblica, La Stampa, Huffington, delle radio e dei siti web connessi all’armatore greco Kyriakou è un fatto che desta profonda preoccupazione anche per la qualità della nostra democrazia. L’operazione riguarda una trattativa tra l’erede del gruppo Gedi, John Elkann, e la società ellenica “Antenna Group”, controllata da Theodore Kyriakou, azionista principale e presidente del gruppo. Chi è Theodore Kyriakou?

Laureato negli Stati Uniti, amico del presidente Trump, con una sua foto sulla scrivania. Kyriakou può contare inoltre su un solido partner in affari: il principe saudita Mohammed bin Salman Al Saud, che tre anni fa ha investito 225 milioni di euro per acquistare il 30% di “Antenna Group”.

La presidente del Consiglio Giorgia Meloni, all’inizio di quest’anno, ha guidato una visita di Stato in Arabia Saudita, conclusa con una dichiarazione che auspicava una nuova fase di cooperazione e sviluppo dei rapporti tra Italia e il regno del principe ereditario. Perché scrivo questo? Perché se la vendita dovesse avere questo esito, si aprirebbe un problema serio che riguarda i livelli occupazionali e, allo stesso tempo, la qualità della nostra democrazia.

La concentrazione dell’informazione radiotelevisiva, della stampa e del web sarebbe infatti praticamente schierata sulle posizioni del governo e della sua presidente. Demolire uno strumento d’informazione che, fin dalla sua nascita, ha rappresentato un punto di riferimento culturale per i cittadini che si riconoscono nei valori progressisti sarebbe un fatto gravissimo, che dovrebbe destare un allarme immediato e che rischia di confermare una normalizzazione a destra degli spazi dell’informazione nel nostro Paese.

Penso che chi ha a cuore la qualità della nostra democrazia non possa assistere passivamente a quanto sta accadendo”. Così in una nota Angelo Bonelli, parlamentare AVS e co-portavoce di Europa Verde.

M5S, VICINI A LAVORATORI GEDI, SERVONO GARANZIE CONCRETE

(ANSA) – ROMA, 11 DIC – “La preoccupazione principale nella vendita degli asset editoriali del gruppo Gedi riguarda chi ogni giorno lavora nelle redazioni, nelle radio e nei servizi digitali. Sono loro ad aver mantenuto vivi giornali e progetti editoriali, e oggi rischiano di subire le conseguenze di operazioni finanziarie decise dall’alto.

Servono garanzie concrete e immediate e il governo non può chiamarsi fuori, anche alla luce dei retroscena che chiamano in causa Giorgia Meloni e i suoi “abboccamenti” con l’editore Kyriakou. La nostra vicinanza va a tutti coloro che, con ruoli diversi, permettono ogni giorno la produzione di notizie e contenuti culturali. Al Paese serve un sistema editoriale solido, autonomo e capace di guardare al futuro, non un terreno di scambio tra investitori e gruppi economici”.    Così gli esponenti M5S in commissione cultura.

IL SOTTOSEGRETARIO ALL’EDITORIA ALBERTO BARACHINI CONVOCA I VERTICI DI GEDI E I CDR

(ANSA) – ROMA, 11 DIC – ‘Il sottosegretario alla Presidenza del Consiglio con delega all’informazione e all’editoria Alberto Barachini convoca i vertici di Gedi e i Cdr de La Stampa e de la Repubblica in relazione alla vicenda della ventilata cessione delle due testate del gruppo’. Lo annuncia in una nota.


Benevento, una vacca sotto l’Arco di Traiano: il video shock che annuncia l’apertura di Gustagricolo


Non è un miraggio. E no, non è scappata da una stalla.

La vacca che ieri ha sfilato sotto l’Arco di Traiano è la protagonista del video shock con cui Gustagricolo annuncia la sua imminente apertura.

Un’idea audace? Certo. Geniale? Anche. Realistica? Beh… grazie all’intelligenza artificiale, fin troppo.

Nel cuore di Benevento, tra storia romana e traffico cittadino, una vacca sotto uno dei monumenti più iconici della città manda un messaggio chiarissimo: l’agricoltura arriva in città. Sul serio.

Perché ciò che Gustagricolo promette è proprio questo: una bottega e cucina a chilometro zero, dove ogni ingrediente nasce e cresce vicino, anzi vicinissimo.

Il video, che sta già facendo parlare di sé, gioca sul contrasto tra urbano e rurale. Un’operazione volutamente irriverente per ricordare che, quando si parla di filiera corta, non si fanno metafore: si fanno fatti.

Gustagricolo, nato da un’idea di Davide Minicozzi, presidente dell’Associazione Allevatori Campania e Molise, in collaborazione con Francesco Rubino, apre ufficialmente le porte domenica 14 dicembre, dalle ore 12:00, in Via M. Vetrone – Benevento.

Un nuovo inizio che unisce tradizione e innovazione, territorio e creatività, genuinità e un pizzico di ironia digitale.

Dalla stalla al piatto. Senza scorciatoie, senza slogan vuoti.

Se una vacca sotto l’Arco di Traiano ti ha fatto alzare gli occhi dal telefono, immagina cosa succede quando ti siedi a tavola.

Gustagricolo apre le porte e porta l’agricoltura dove non l’hai mai vista: nel cuore della città.

Link al video: 


Il sogno di Trump


(di Gianvito Pipitone  – gianvitopipitone.substack.com) – Paolo Mieli, in uno dei suoi imperdibili interventi mattutini a Radio 24, ha colto un punto che sembra sfuggire a molti: ci stiamo lasciando narcotizzare da una riproposizione muscolare della Dottrina Monroe, su larga scala. Gli Stati Uniti hanno cioè ripreso a considerare l’America Latina come il proprio cortile di casa, una zona di influenza privilegiata da gestire a proprio uso e consumo, dove non è ammessa alcuna ingerenza esterna, né europea né di altre potenze mondiali. Lo spunto è stato il sequestro di una petroliera venezuelana da parte delle autorità militari americane, episodio che fa scalpore non tanto per il gesto in sé, quanto per il silenzio assordante che lo accompagna. “Abbiamo appena sequestrato una petroliera sulla costa del Venezuela, molto grande, in realtà la più grande mai sequestrata,” ha dichiarato Trump con il suo consueto tono trionfante. “E stanno succedendo altre cose, vedrete più tardi.” Ebbene, nessun governo europeo ha protestato, nessun comunicato ufficiale è stato diffuso. Un vuoto che, seguendo il ragionamento di Mieli, sembra confermare l’abbrivio di questi ultimi tempi: la tacita spartizione del mondo in precise sfere d’influenza.

Non è una novità, certo, ma le evidenze degli ultimi mesi ci dicono che la direzione è proprio questa. L’America, in tutte le sue declinazioni – settentrionale, centrale, caraibica e meridionale – agli Stati Uniti. La Cina e l’India impegnate a spartirsi il Sud-Est asiatico. Con Taiwan, la nuova vittima sacrificale designata. E la Russia, ahinoi, a fare il bello e il cattivo tempo nel quadrante nord-est, quello che ci riguarda da vicino. Una prospettiva che non è solo realista, ma corroborata dai fatti e dalla narrazione geopolitica di questi ultimi disgraziati tempi. E va da sé che non si tratta soltanto di sfere economiche, ma anche politiche e inevitabilmente militari.

Eppure, a ben guardare, appare davvero incredibile pensare che gli Stati Uniti possano davvero abbandonare l’Europa al proprio destino. Per quanto l’Indo-Pacifico sia la nuova priorità assoluta di Washington, sono troppi gli interessi economici e strategici in gioco per sganciarsi da una politica di sostegno militare e politico con il vecchio continente. Sua prima colonia. È vero, Trump ha detto con brutalità che l’Europa è destinata a scomparire fra due decenni. Una provocazione, forse un bluff, ma che stavolta non può essere liquidata con leggerezza.

L’impressione è che il presidente americano stia premendo sull’acceleratore in questo primo biennio, alzando l’asticella su dazi, guerre e posture muscolari, per testare fino a che punto può spingersi. Sa che a novembre 2026 lo attende la prova del fuoco delle elezioni di mid-term, e che lì si misurerà la tenuta della sua base. Una base Maga che oggi appare sgretolata, delusa da un’America First tradita da politiche interventiste e da un malessere sociale crescente, aggravato da limitazioni delle libertà che hanno fatto vacillare persino i conservatori più convinti. A questo si aggiunge l’ombra dell’affaire Epstein, che il tycoon non è ancora riuscito a dissipare. Non a caso, Trump ha inaugurato qualche giorno fa dalla Pennsylvania un tour elettorale che lo porterà in giro per gli Stati Uniti fino alle mid-term, con l’obiettivo di convincere gli americani che il loro problema più sentito – l’affordability, ossia il costo della vita fuori controllo – sia solo una bufala agitata dai democratici, nonostante l’inflazione crescente alimenti il malcontento.

La seconda parte della sua presidenza, quando il rinculo delle politiche impopolari si farà sentire, quando cioè potrebbe perdere la maggioranza dei parlamentari al Congresso, potrebbe invece essere dedicata a recuperare il consenso interno. Non è un caso che dopo l’elezione nel 2024, l’unica occasione in cui si è mescolato a folle oceaniche sia stato il funerale di Charles Kirk, lo scorso settembre. Da allora, niente più bagni di folla. Ma è facile immaginare che torneranno, insieme al folklore del Make America Great Again: cappellini, bandiere, gagliardetti e la sagoma del ciuffo più famoso del mondo. Così come, torneranno utili anche le connessioni con l’ultra-destra, i movimenti sovranisti che Trump non ha mai smesso di coccolare, in patria così come in Europa.

Non per niente, il sovranismo è un’altra delle colonne portanti del trumpismo. Il ponte con i movimenti neo-nazisti europei è già assodato. Una delegazione di quaranta membri di Alternative für Deutschland per la Germania (AfD) è attesa a Washington in questi giorni su invito di alcuni deputati repubblicani della Camera, tra cui Anna Paulina Luna. L’incontro segna un ulteriore passo nell’intreccio tra le destre radicali europee e l’universo trumpiano. Lo ricordiamo tutti: Elon Musk, intervenendo a gennaio a un congresso dell’AfD, ha definito il partito neo-nazista tedesco “la migliore speranza per la Germania”, ricevendo il plauso dello stesso Trump, che non ha mai nascosto la sua simpatia per questi partiti di ultra-destra. Non a caso, anche in queste settimane il presidente ha usato parole mirate a titillare la base sovranista europea. D’altra parte, il sovranismo, nato e cresciuto a casa Trump, affonda le sue radici nell’esperienza del capostipite Steve Bannon – che, pur mantenendo oggi un ruolo più defilato, continua a far parte del cerchio magico trumpiano – e si è diffuso in Europa attraverso il progetto di “internazionale populista” The Movement, con sede a Bruxelles.

Tutti questi fili sembrano convergere verso un solo obiettivo: cancellare la Comunità europea, fare fuori i leader nazionali invisi a Trump – il galletto Macron, l’abbronzato Merz, e tutti gli europeisti convinti definiti “deboli e disuniti” – e, allo stesso tempo, solleticare governi più in linea con la sua presidenza, come quello di Giorgia Meloni e dell’ungherese Viktor Orban, per consolidare un asse autoritario e illiberale che gli consenta di realizzare il suo sogno.

Già, il  sogno di Trump. Un sogno che si articola lungo direttrici precise, intrecciando economia, politica, società e cultura, e dando vita a una visione coerente e muscolare del ruolo dello Stato nazionale. Sul piano economico, la sua postura è segnata da un forte protezionismo: dazi indiscriminati, difesa delle industrie interne, critica feroce alla globalizzazione e rifiuto dei vincoli imposti da istituzioni sovranazionali come UE, FMI o WTO, percepite come minacce alla sovranità americana. Politicamente, si traduce in un antieuropeismo dichiarato e nella diffidenza verso il multilateralismo, con la preferenza per accordi bilaterali che rafforzino la centralità dello Stato come unico garante della volontà popolare. Socialmente, il sovranismo trumpiano si manifesta nel contrasto all’immigrazione e nella difesa dei confini, con politiche identitarie che privilegiano la cittadinanza nazionale, bianca, e rifiutano modelli multiculturali, in nome di una coesione interna da preservare. Infine, sul piano culturale, si esprime nella valorizzazione delle tradizioni e della memoria storica “identitaria”, accompagnata da una critica feroce al pensiero woke, alle élite cosmopolite e alle istituzioni globaliste, con una narrativa che oppone sistematicamente il “popolo” alle “élite”.

In questo intreccio di interessi, Trump non mette in campo soltanto una strategia politica, ma una narrazione simbolica che punta a mobilitare consenso attorno all’idea di un’America chiusa, forte e autosufficiente. Un sogno che, per noi europei, rischia di trasformarsi nel peggior incubo. Non perché ci interessino particolarmente le sorti dei cittadini americani – non solo, per lo meno – ma perché quel modello pretende di imporsi in quel che rimane dell’Occidente, senza possibilità di critica e non ammette alcuna differenziazione rispetto all’originale. Speriamo di no, ma le tessere del mosaico sembrano già tutte al loro posto.


Ponte sullo Stretto, la storia infinita: il governo riscriverà il progetto


(Stefano Baudino – lindipendente.online) – Dopo critiche, annunci e polemiche, il governo ha ceduto il passo alla bocciatura delle carte relative al Ponte sullo Stretto da parte della Corte dei Conti, decidendo di riscriverle. La retromarcia dell’esecutivo era nell’aria da tempo, ma è stata ufficializzata martedì da Pietro Ciucci, Amministratore Delegato della società Stretto di Messina, la società a capo del progetto. Il ministero delle infrastrutture e quello dell’economia, ha spiegato Ciucci, apriranno un dialogo con le istituzioni europee per evitare di incappare nei medesimi errori in cui sono caduti con le prime carte; la delibera del Comitato interministeriale per la programmazione economica e lo sviluppo sostenibile, inoltre, verrà riscritta. La Corte dei Conti aveva bocciato il progetto del Ponte rilevando violazioni sostanziali delle normative nazionali e comunitarie in tema di appalti, tutela dell’ambiente e degli habitat naturali, e sollevando criticità sui costi complessivi dell’opera.

Dopo il no della Corte dei conti alla registrazione della delibera Cipess, la partita del Ponte sullo Stretto si è spostata sul terreno europeo. Ieri, mercoledì 10 dicembre, una delegazione tecnica del Mit, del Mef e della società Stretto di Messina si è recata a un primo incontro operativo con i funzionari della Commissione, con partenza dalla direttiva Habitat; la questione appalti sarà affrontata in un secondo momento. L’obiettivo dichiarato resta riportare la delibera in regola e riaprire la strada ai cantieri. La scelta del governo è stata netta: non forzare procedure e non procedere con una registrazione «con riserva», ma tornare indietro per riscrivere la delibera e affrontare le osservazioni emerse. Secondo la ricostruzione ufficiale, il vicepremier leghista Matteo Salvini «ha appreso con grande soddisfazione che l’orientamento di Bruxelles non è cambiato e c’è totale interesse e determinazione affinché l’opera possa partire quanto prima». Salvini ha quindi ribadito «l’impegno del governo ad andare avanti fornendo tutte le risposte richieste dalla Corte dei Conti».

Nel dialogo con l’Unione Europea l’Italia proverà a dimostrare che le criticità sollevate sono superabili. I rilievi principali toccano tre nodi: la compatibilità ambientale rispetto alla direttiva Habitat, la normativa sugli appalti — in particolare la regola che obbliga a una nuova gara se i costi aumentano oltre il 50% — e il cambio di modello finanziario, dal project financing a un finanziamento interamente pubblico. Altri rilievi più tecnici riguardano la consultazione sulle tariffe, con l’esclusione contestata dell’Autorità di regolazione dei trasporti (Art).

«L’obiettivo è ottenere dalla Corte una registrazione piena della delibera Cipess – ha spiegato Pietro Ciucci, amministratore delegato della Stretto di Messina -. Il percorso individuato non prevede una nuova gara ma la riattivazione dei procedimenti riguardanti la delibera Cipess e il decreto interministeriale relativo al III Atto aggiuntivo alla Convenzione al fine di conformarsi alle motivazioni della Corte dei conti». A più riprese Ciucci ha escluso la scorciatoia della registrazione condizionata: «La registrazione con riserva è teoricamente possibile, ma del tutto inappropriata». Ciucci ha inoltre sottolineato le ragioni tecniche che, a suo avviso, giustificherebbero l’interpretazione italiana sui costi storici e sulle deroghe ambientali, auspicando «una valutazione favorevole della commissione Ue che consideri corretta la nostra interpretazione nell’applicazione delle direttive Habitat e Appalti». Per poi aggiungere: «Una volta acquisita questa valutazione, potrà essere assunta dal governo una seconda delibera al Cipess».

A fine ottobre era arrivata la prima pronuncia della Corte dei Conti, che aveva respinto la delibera del Comitato interministeriale per la programmazione economica e lo sviluppo sostenibile (Cipess) che impegna 13,5 miliardi di euro per la costruzione del Ponte. Tra le altre cose, i magistrati avevano evidenziato la mancata coerenza dei calcoli relativi alle spese per il Ponte, rilevando un «disallineamento tra l’importo asseverato dalla società Kpmg in data 25 luglio 2025 – quantificato in euro 10.481.500.000 – e quello di euro 10.508.820.773 attestato nel quadro economico approvato il 6 agosto 2025», evidenziando come diverse voci, dagli oneri per le condizioni contrattuali (cct) a quelli per la sicurezza, fossero lievitate rispetto al progetto preliminare. Poi, a metà novembre, la Sezione centrale di controllo di legittimità della Corte dei Conti non ha concesso il visto di legittimità al terzo atto aggiuntivo della convenzione tra il Ministero delle Infrastrutture e la società concessionaria Stretto di Messina Spaampliando la crisi amministrativa aperta dal precedente rifiuto sul provvedimento Cipess.


La Meloni non ha fatto nulla a parte ubbidire


(Alessandro Di Battista) – I giornali governativi esaltano la Meloni perché ha incontrato Zelensky e questo la renderebbe “centrale nella politica internazionale e nella diplomazia”. Siamo alle comiche. Come se incontrare Zelensky, un uomo ormai debolissimo, fosse un segno di forza. La verità è che Meloni non ha mai toccato palla in questi anni sulla guerra in Ucraina e questa è una colpa che si porterà dietro per sempre. È aiutata dal fatto che pochissimi politici e giornalisti le ricordano le sue immense responsabilità. Proprio per il rapporto storico che il nostro Paese ha sempre avuto con l’URSS prima e con la Russia poi, l’Italia avrebbe dovuto immediatamente scegliere la linea neutrale e proporsi come mediatrice nella guerra in Ucraina. L’Italia, lo ricordo, faceva affari con l’URSS anche quando il mondo era diviso in blocchi. Enrico Mattei, a parole elogiato dalla Meloni, comprava gas dai sovietici quando l’Armata Rossa invadeva Budapest o quando Mosca annunciava la costruzione del Muro di Berlino. Gianni Agnelli, il simbolo del capitalismo italiano, faceva affari su affari con Mosca mentre le guardie sovietiche sparavano ai tedeschi che cercavano di scavalcare il Muro. L’Italia era allora infinitamente più autonoma e sovrana di quella attuale. E la cosa ridicola è che questo governo di camerieri viene definito sovranista.

Nel maggio del 1966 venne firmato a Mosca un accordo tra Aleksandr Tarasov, ministro dell’industria automobilistica dell’URSS, e Vittorio Valletta, presidente della Fiat, per la realizzazione di un immenso stabilimento automobilistico a Togliatti, una città russa che si trova lungo il Volga. Il 2 febbraio del 1967, Nikolaj Viktorovič Podgornyj, Presidente del Presidium del Soviet Supremo dell’URSS, in visita ufficiale in Italia, visitò lo stabilimento Fiat di Mirafiori accompagnato da Andreotti, all’epoca ministro dell’Industria, e da Giusto Tolloy, ministro per il Commercio con l’estero. Venne accolto calorosamente dall’Avvocato Agnelli che volle ribadire la solidità delle relazioni industriali tra l’Italia e l’URSS. E gli affari proseguirono anche quando, a seguito della Primavera di Praga, i carri armati del Patto di Varsavia entrarono a Praga per sedare le sacrosante richieste di libertà dei giovani cecoslovacchi. Alcuni mesi dopo, un giovane studente cecoslovacco, Jan Palach, si diede fuoco per protestare contro l’occupazione sovietica del Paese. Ecco, mentre avveniva tutto questo, l’Italia faceva affari con Mosca.

Queste relazioni, solide, vantaggiose per entrambi, capaci di resistere anche ai venti più tragici della Storia, avrebbero dovuto spingere i governanti italiani a portare avanti una linea del tutto diversa da quella sostenuta nei primi anni di guerra da Biden e Ursula von der Leyen.

Ma prima Draghi e poi la Meloni non hanno fatto altro che ubbidire agli ordini NATO e UE, esponendo l’Italia ai contraccolpi economici ed energetici e al rischio di una sconfitta in Ucraina che la Meloni forse oggi ha capito che potrebbe trasformarsi in disfatta.

Oggi, soltanto oggi, e solo perché Trump ha compreso la realtà, la Meloni prova a smarcarsi da Bruxelles. Ma è la stessa Meloni che ha pubblicamente “scommesso sulla vittoria di Zelensky” decine di volte, che ha armato Kiev senza dire agli italiani cosa stessimo inviando. È la stessa Meloni che ha accettato di smettere di comprare gas russo e di sostituirlo con il gas liquido americano. È la stessa Meloni che, il 20 marzo del 2024, disse queste parole ridicole: “Putin durante il G20 sosteneva una tesi del tipo: noi vorremmo la pace ma gli altri non la vogliono, e gli ho risposto: è molto facile, ritiri le truppe e avrà la pace come lei ha voluto la guerra”. Avete letto bene. Nel marzo del 2024 sosteneva che c’era un modo per ottenere la pace: il ritiro di Mosca.

Ieri ha parlato con Zelensky di “concessioni dolorose”. Capito sì? Una delle artefici della sconfitta UE in Ucraina oggi suggerisce a Zelensky di cedere perché vuole il bacetto sulla fronte da Trump dopo aver ottenuto, come sempre grazie alla vile ubbidienza, quello di Biden.

La Meloni in questi anni non ha fatto nulla a parte ubbidire. Non ha mai avuto una linea propria. Quando la Casa Bianca sosteneva Kiev con armi e centinaia di miliardi lei stava dalla parte della Casa Bianca. Adesso che alla Casa Bianca c’è un presidente che per affarismo, amore per Putin, realismo e chissà, anche perché ha capito che la situazione potrebbe davvero degenerare, spinge per un negoziato, lei sta con la Casa Bianca. Ma vi dico questo: se le elezioni le avesse vinte la Harris (e grazie a Dio non le ha vinte lei) la Meloni oggi ubbidirebbe alla Harris come ha fatto a Biden, della quale la Harris era vicepresidente.

“Ora, questo tiranno solo non è necessario combatterlo, né abbatterlo. Si dissolve da sé, purché il Paese non accetti di essergli asservito. Non si tratta di togliergli qualcosa, ma di non dargli nulla”, scrive Étienne de La Boétie nel Discorso sulla servitù volontaria.

Sono convinto che se l’Italia si fosse comportata davvero in maniera autonoma, davvero in maniera sovrana, non solo si sarebbe portata dietro altri Paesi UE che boccheggiano per via della guerra Russia-NATO in Ucraina, ma che alla fine la stessa Casa Bianca avrebbe accettato una maggiore indipendenza decisionale dell’Italia. Certo, la nostra sovranità è ancora limitata, ma siamo diventati colonia USA più per pavidità propria che per pressioni altrui. E la Meloni, la regina del finto sovranismo, è uno dei massimi artefici di questa fine ingloriosa del nostro Paese. E in tal senso è anche comprensibile che Trump tratti l’UE da serva, perché i servi vanno trattati da servi se preferiscono, per carriere personali, servire nazioni straniere piuttosto che i loro popoli.


Pier Silvio Berlusconi dà il benservito a Tajani: “In Forza Italia servono facce nuove”


PIER SILVIO BERLUSCONI, ‘FACCE NUOVE IN FORZA ITALIA? NON CAMBIO IDEA’ 

(ANSA) – MILANO, 11 DIC – Sulla necessità di vedere facce nuove in Forza Italia “il mio pensiero non cambia”. Lo ha affermato il vicepresidente e amministratore delegato di Mfe – Media for Europe, Pier Silvio Berlusconi, parlando con i giornalisti durante gli auguri di fine anno negli studi Mediaset.   

“Io ho gratitudine vera per Antonio Tajani e per tutta la squadra di Forza Italia, hanno tenuto in piedi il partito dopo la scomparsa di mio padre, cosa tutt’altro che facile”, ha osservato. Ma per il futuro “ritengo che siano inevitabilmente necessarie facce nuove, idee nuove e un programma rinnovato.

Attenzione, che non metta in discussione i valori fondanti di Forza Italia – ha sottolineato -, che sono i valori fondanti del pensiero e dell’agire politico di Silvio Berlusconi, ma valori che devono essere portati a ciò che è oggi la realtà, cioè all’anno 2025″. E sulle facce nuove, “quello che vale per Forza Italia vale per la politica in generale”.

Anche sullo Ius Scholae, ha proseguito, “non ho cambiato idea” ha aggiunto, rispondendo con una battuta a chi gli faceva notare che anche Matteo Salvini aveva bocciato la proposta di Forza Italia sulla cittadinanza: “Anche io ma non perché mi senta particolarmente in linea con Salvini…”.   

“Che io e Marina ci si appassioni ai destini di Forza Italia, siamo onesti, è naturale. Tra i lasciti di mio padre, uno dei più grandi, se non il più grande, è proprio Forza Italia. Noi siamo due persone che lavorano, appassionate e impegnate nel proprio lavoro. Chi fa l’imprenditore non può essere distante dalla politica” ha poi concluso Pier Silvio Berlusconi.

PIER SILVIO BERLUSCONI, MIA CANDIDATURA È TEMA CHE OGGI NON ESISTE

(ANSA) – MILANO, 11 DIC – “Non è un tema che oggi esiste”. Pier Silvio Berlusconi, durante la consueta cena di fine anno con i giornalisti negli studi Mediaset, replica così a chi gli chiede di una sua possibile discesa in campo in politica.   

“Tutte le energie sono dedicate a Mfe, alla nostra Europa e quelle che rimangono alla mia famiglia che è il centro della mia vita” ha aggiunto Pier Silvio Berlusconi durante il tradizionale incontro per gli auguri di fine anno negli studi Mediaset.    E a chi gli fa notare che nel 2027 avrà la stessa età di suo padre Silvio quando si è candidato in politica, Pier Silvio risponde con una battuta: “Oggi la scienza porta la vita ad allungarsi, c’è tempo…”.

PIER SILVIO BERLUSCONI, ‘L’EUROPA DEVE ESISTERE, AGIRE E DIFENDERSI’

(ANSA) – MILANO, 11 DIC – “Di sicuro ciò che è stato fatto fino ad oggi non è sufficiente, ma l’Europa deve riuscire ad esistere, ad agire e a difendersi”. Lo ha detto il vicepresidente e amministratore delegato di Mfe – Media for Europe, Pier Silvio Berlusconi, parlando con i giornalisti durante gli auguri di fine anno negli studi Mediaset. “Di questo sono certo. Prima di tutto da cittadino italiano ed europeo, e ancora di più da imprenditore italiano ed europeo”, ha aggiunto.

“Non so rispondere se l’Europa sia sotto tiro o no. Perché qualunque risposta sarebbe strumentalizzata – ha proseguito Pier Silvio Berlusconi -. Penso però che l’Europa esista e che agisca su alcuni fronti fondamentali in maniera coesa e compatta. E penso che sia fondamentale anche che si difenda. Perché altrimenti, in un’economia globale fortemente sotto pressione, con dei grandi squilibri, le grandi potenze e due guerre in atto, i singoli paesi in Europa rischiano di non avere un futuro”.    “Non è per nulla facile, è molto complicato – ha concluso -, è una questione di trovare delle intese su tanti e diversi temi fondamentali”.

Pier Silvio Berlusconi, la parola patrimoniale non mi piace per niente

(ANSA) – COLOGNO MONZESE, 11 DIC – “La parola patrimoniale non mi piace per niente e mi sembra onestamente fuori posto”. Lo ha sottolineato il vicepresidente e amministratore delegato di Mfe – Media for Europe, Pier Silvio Berlusconi, durante gli auguri di fine anno negli studi Mediaset.   

“Che in certi momenti storici particolari dell’economia di particolare fragilità ci possano essere delle imposte una tantum che vengono legate al livello di profitto delle aziende, questo non lo ritengo sbagliato. Ma la parola patrimoniale secondo me non va bene. Come era sbagliatissima l’espressione extra-profitti – ha aggiunto -. Cosa vuol dire extra? Non vuol dire niente”.

MFE: PIER SILVIO BERLUSCONI, MOMENTO DIFFICILE MA CHIUDEREMO IN UTILE

(ANSA) –  “Sul risultato finale dell’anno restiamo positivi e non mettiamo in discussione la possibilità di chiudere in utile e di fare un utile più alto dell’anno scorso con una distribuzione dei dividendi simile all’anno scorso”: lo ha detto il vicepresidente e amministratore delegato di Mfe – Media for Europe, Pier Silvio Berlusconi.    “Il momento economico del mercato pubblicitario in Italia, Germania e Spagna è complicato. Non è dal punto di vista di mercato un bel quadrimestre. Tutti e tre i Paesi vedono ricavi pubblicitari Tv in deciso calo con un mercato Tv che registra un -10% in Spagna, -8% in Germania e -2% in Italia”, ha aggiunto.

PIER SILVIO BERLUSCONI, IN GERMANIA FAREMO DI TUTTO PER NON DIMINUIRE L’OCCUPAZIONE

(ANSA) – COLOGNO MONZESE, 11 DIC – Per quanto riguarda ProsiebenSat “sull’occupazione in Germania stiamo parlando di una situazione a dir poco complicata. Il momento economico in Germania è difficile e il mondo dei media e della Tv è in una situazione di stress. Lo dico primo per una questione di ciò che vogliamo fare in Germania. Secondo perché penso che abbia a che fare con l’etica imprenditoriale: noi faremo tutto ciò che è possibile per non diminuire l’occupazione”.

Lo ha sottolineato il vicepresidente e amministratore delegato di Mfe – Media for Europe, Pier Silvio Berlusconi, durante la conferenza stampa di fine anno negli studi Mediaset.    “Non posso promettere che non avverrà mai, non dipende solo da noi. Ma a oggi non c’è nessun piano di licenziamento. Questo è un fatto coraggioso e se ci riusciremo sarà una grande nota di merito nei confronti di Mfe. Abbiamo appena iniziato a lavorare e lavoro da fare è tanto” ha aggiunto.   

“In una situazione molto complicata, ad oggi non abbiamo trovato sorprese negative presenti nel core business – ha spiegato -. Andiamo avanti con ciò che abbiamo studiato prima e stiamo lavorando a un nuovo piano che si integrerà ma è veramente presto per parlarne. Ci stiamo lavorando da poche settimane. Mi auguro prestissimo di migliorare i conti, ma serve lavorare sull’offerta editoriale e lavorare sulla tv e sul digitale”.

P.S. BERLUSCONI, IL NUOVO DIRETTORE FINANZIARIO DI MFE È SIMONE SOLE

(ANSA) – MILANO, 11 DIC – “Il nuovo direttore finanziario di Mfe è Simone Sole che lavora con noi da tantissimo tempo, grande professionista che ha lavorato con me per anni”. Lo ha sottolineato il vicepresidente e amministratore delegato di Mfe – Media for Europe, Pier Silvio Berlusconi, durante la conferenza stampa di fine anno negli studi Mediaset.

PIER SILVIO BERLUSCONI, ‘TERRIBILE LA CONCORRENZA DEI GIGANTI DEL WEB, SERVONO REGOLE’

(ANSA) – COLOGNO MONZESE, 11 DIC – Se la situazione economica in generale in Europa “è sotto pressione, il mondo dei media è sotto stress per la terribile concorrenza dei giganti del web, che operano senza regole, praticamente”: è l’analisi dell’Ad Mediaset Pier Silvio Berlusconi.   

“Senza regole i giganti del web sono avvantaggiati nel pagamento delle tasse, si autocertificano i dati: tutto ciò che riescono a marginare in più verrà usato per fare ancora più concorrenza agli editori, è una questione di principio e reale. Mi auguro – ribadisce – che arrivino almeno delle regole”. 


Nuove proteste in Bulgaria: “Il governo della mafia è finito”


(ANSA) – SOFIA, 11 DIC – Nuove proteste in Bulgaria contro il governo, accusato dai manifestanti di corruzione e di connubio di stampo mafioso. Nella piazza ‘Indipendenza’ della capitale Sofia, sulla quale si affacciano i palazzi del parlamento, del governo e della presidenza, il cosiddetto ‘triangolo del potere’, anche in tarda serata si è riversata una folla di oltre 50 mila persone per chiedere le immediate dimissioni del governo.

“Il governo della mafia è finito!”, “La goccia ha fatto travasare il bicchiere”, “Questa volta non ci fregano” si leggeva sui cartelli dei dimostranti. Gli studenti universitari che si sono riversati in piazza con un corteo partito dall’Università della capitale scandivano “Siamo contro la sfacciataggine dei governanti”, “Vogliamo un futuro degno, vogliamo rimanere in Bulgaria!”. Proteste popolari anche in altre grandi città come Plovdiv (Sud), Varna e Burgas (due città sul Mar Nero).

La gente scandiva slogan per le dimissioni del governo ma anche contro il continuo rincaro dei generi alimentari e contro l’inflazione alla vigilia dell’ingresso della Bulgaria nella zona dell’euro il primo gennaio. Le proteste di oggi si sono svolte sotto lo slogan “Dimissioni, Peevski e Borissov fuori dal potere!”.

L’esecutivo di Sofia guidato da Rossen Zhelyazkov, esponente del partito conservatore Gerb, è una coalizione formata dal Gerb che ha vinto le ultime elezioni, i socialisti (Bsp) e il partito populista ‘C’è un popolo come questo’ (Itn). Non dispone di una maggioranza in parlamento ma conta sull’appoggio incondizionato del partito ‘Movimento per diritti e libertà – Nuovo inizio’ (Dps-Nn), uno dei due partiti della minoranza turca in parlamento, quello di Delian Peeevski, figura centrale e controversa della politica bulgara, accusato da anni di essere il simbolo della corruzione nazionale.

Leader storico del Gerb è Boyko Borissov, ex premier accusato dai bulgari di abuso di potere e nepotismo, il quale oggi ha dichiarato che l’attuale governo è stato formato esclusivamente per far entrare la Bulgaria nella zona dell’euro a partire dal primo gennaio prossimo.

“Soltanto dopo il primo gennaio potremmo parlare di rimpasti, dimissioni e tutto il resto”, ha detto Borissov ai giornalisti. Domani i deputati dovrebbero votare una mozione di sfiducia contro il governo di Zhelyazkov presentata dal partito liberale ‘Continuiamo il cambiamento’ (Pp), la maggiore forza d’opposizione. I liberali accusano l’esecutivo di aver fatto fiasco nella politica economica del paese.


L’ora più buia per l’Ucraina


TRUMP, ‘ZELENSKY DEVE ESSERE REALISTICO. QUANDO TERRANNO LE ELEZIONI?’

(ANSA) – WASHINGTON, 10 DIC – Zelensky “deve essere realistico”. Lo ha detto Donald Trump, rispondendo ai reporter durante una riunione con un gruppo di imprenditori. Il tycoon ha risollevato il problema del voto e della trasparenza, chiedendo “quando terranno delle elezioni?”. In Ucraina “c’è un enorme problema di corruzione”, ha aggiunto.

TRUMP, GLI USA NON VOGLIONO PERDERE IL LORO TEMPO CON L’UCRAINA

(ANSA) – WASHINGTON, 10 DIC – Gli Usa “non vogliono perdere il loro tempo” sull’Ucraina: lo ha detto Donald Trump rispondendo ai reporter durante una riunione con un gruppo di imprenditori.

TRUMP, CON I LEADER EUROPEI ABBIAMO DISCUSSO DELL’UCRAINA IN TERMINI FORTI

(ANSA) – WASHINGTON, 10 DIC – “Ne abbiamo discusso in termini piuttosto forti”: lo ha detto Donald Trump rispondendo ad una domanda dei reporter – durante una riunione con un gruppo di imprenditori – sulla telefonata con i leader europei riguardo all’Ucraina.

TRUMP, EUROPEI VOGLIONO UN INCONTRO CON NOI E ZELENSKY NEL FINE SETTIMANA

(ANSA) – WASHINGTON, 10 DIC – “Gli europei vogliono un incontro con noi e Zelensky nel fine settimana in Europa”, “prenderemo una decisione in base a ciò con cui torneranno”: lo ha detto Donald Trump rispondendo ai reporter durante una riunione con un gruppo di imprenditori.

KIEV HA INVIATO AGLI USA UN PIANO AGGIORNATO PER LA PACE

(ANSA-AFP) – KIEV, 10 DIC – L’Ucraina ha inviato a Washington un piano aggiornato per porre fine alla guerra con la Russia. Lo hanno riferito all’AFP due funzionari ucraini informati sulla questione. Kiev ha “già inviato” la bozza aggiornata agli Stati Uniti, ha detto un alto funzionario in merito al piano, senza fornire dettagli sul suo contenuto.

MOSCA, ‘TRUMP IN LINEA CON NOI, È L’UNICO A CAPIRE LA GUERRA’

(di Alberto Zanconato – ANSA) – MOSCA, 10 DIC – In attesa del contropiano euro-ucraino in 20 punti, nulla sembra far recedere la Russia dalle sue posizioni.

La base per le trattative in Ucraina rimangono le originarie proposte degli Usa, secondo Mosca, che ora interviene anche sull’intervista di Donald Trump a Politico – contenente tra l’altro pesanti attacchi a Kiev e ai leader europei – affermando che essa è “coerente” con la linea russa. Il capo della Casa Bianca, ha sottolineato il ministro degli Esteri Serghei Lavrov, è l’unico leader occidentale a mostrare di comprendere “le cause profonde” del conflitto.

 Le autorità russe sono rimaste indifferenti anche alle ultime due mosse – la proposta di una tregua negli attacchi reciproci alle infrastrutture energetiche e la promessa di tenere elezioni entro i prossimi due o tre mesi – fatte dal presidente ucraino Volodymyr Zelensky.

  “Noi lavoriamo per la pace, non per una tregua”, ha risposto in merito al secondo punto Dmitry Peskov, il portavoce di Vladimir Putin, affermando che deve trattarsi di “una pace stabile, garantita, duratura”.

Quanto alle possibili elezioni in Ucraina, che secondo Zelensky potrebbero tenersi se gli alleati occidentali ne garantiranno la sicurezza, la portavoce del ministero degli Esteri, Maria Zakharova, ha paragonato la proposta a una scena da teatro delle marionette.

Zelensky, ha dichiarato Zakharova in un’intervista a Radio Sputnik, dice di volere “l’indipendenza” dell’Ucraina, ma “chiede che altri Paesi garantiscano la possibilità di tenere elezioni, e al contempo chiama queste elezioni ‘democratiche'”. Tutto ciò, secondo la portavoce della diplomazia russa, assomiglia al “teatro di Karabas-Barabas”. Cioè il tirannico capo di un teatro delle marionette in una favola di Alexei Tolstoy.

Peskov è tornato sull’intervista a Politico di Trump, per dire che, a suo avviso, il presidente Usa “ha toccato le cause profonde di questo conflitto in molti modi”. “Certamente – ha aggiunto il portavoce di Putin – per molti versi è una linea coerente con la nostra comprensione”. Una delle “cause profonde”, secondo Mosca, era la possibilità che l’Ucraina potesse entrare nella Nato.

Una prospettiva minacciosa in ottica russa, che l’intervento militare si è proposto di sventare. Anche Zakharova, commentando due giorni fa la nuova Strategia di sicurezza americana, aveva valutato come un aspetto positivo il fatto che “per la prima volta” gli Usa hanno “messo in dubbio le dinamiche eternamente aggressive ed espansioniste” della Nato.

Mentre, parlando oggi al Consiglio della Federazione (il Senato russo), il ministro degli Esteri Serghei Lavrov, ha riconosciuto in Trump “l’unico leader occidentale il quale, subito dopo l’insediamento nel gennaio di quest’anno, ha iniziato a mostrare comprensione delle ragioni che hanno reso inevitabile la guerra in Ucraina”. E quindi, per i russi, anche la necessità che un accordo di pace “incluse garanzie che l’Ucraina non entrerà nella Nato”.

Ma sono gli europei, ha ribadito Lavrov, che continuano a cercare di “ostacolare” il processo di pace, illudendosi, nella loro “cecità politica senza speranza”, di poter sconfiggere la Russia. A questo punto il ministro ha richiamato le parole di Putin: “Non abbiamo piani – ha detto – per combattere contro l’Europa. Ma risponderemo ad ogni passo ostile, compreso lo schieramento di truppe europee in Ucraina e la confisca degli asset russi, e siamo già preparati a farlo”.


Ecco la proposta che unisce davvero tutto il Pd: vietato mangiare la carne di cavallo


I dem passano dall’equità all’equinità. Altro che Gaza, altro che Jobs act, Schlein e gli altri sono finalmente uniti per la gioia di asini, cavalli e muli

(Salvatore Merlo – ilfoglio.it) – Asini, abbracciateci. E ovviamente anche voi, cavalli. Teniamoci stretti. Senza dimenticare i muli. Qui con noi. Dall’equità, insomma, all’equinità. Ella ossia Elly, traccia l’affezione ed Evi, ovvero l’Eleonora, deputata del Pd e amica della segretaria, tosto presenta alla Camera una proposta di leggericonoscere gli “equidi” come animali “d’affezione”. Vietato mangiarli. Basta. Fine. Stop. Orrore. Sicché, dopo mesi di dibattiti identitari nel partito, dopo settimane di polemiche tra massimalisti e riformisti, dal Jobs Act alla Palestina libera, ecco la proposta che unisce davvero tutte le correnti, anzi aree culturali, del Pd. A dimostrazione della larga condivisione infatti, a presentare il disegno di legge, l’altro giorno, assieme all’on. Evi, in una magnifica conferenza stampa piena di pathos e di fieno morale, c’erano anche le deputate Patrizia Prestipino e Debora Serracchiani. Quest’ultima è la responsabile Giustizia del Pd che un tempo sognava la separazione delle carriere dei magistrati e oggi lavora in senso inverso, ma sembra comunque aver trovato una nuova frontiera istituzionale: separare le carriere degli equini da quelle dei bovini. Quel che non si riesce a fare con giudici e pm, si può sempre recuperare nella zootecnia.

Ma la proposta, attenzione, merita di essere presa sul serio. E’ ambiziosa. Stop alla macellazione, tutela rafforzata, riconversione degli allevamenti. E qui, inevitabile, si spalanca la fantasia. Per anni abbiamo discusso di transizioni ecologiche, energetiche, digitali. Ora arriva la transizione ippica. Dunque ci saranno, supponiamo, fondi per riqualificare gli allevatori: dal maniscalco al pedagogista equino, dall’allevatore al consulente motivazionale per cavalli in pensione. Si può quasi immaginare un seminario dal titolo: “Dal filetto alla felicità. Strategie per un futuro equino sostenibile e resiliente”.

Il problema, tuttavia, è che in Italia la cavallina, come direbbe il poeta, ha corso assai. E spesso dentro la pentola. La geografia gastronomica del cavallo è un atlante sentimentale della penisola, che possiede un repertorio gastronomico che della carne equina ha fatto arte. Ci sono la Pìcula ’d cavall piacentina, il Tordo Matto di Zagarolo, le Brasciole di Sicilia, Puglia e Basilicata, i Pezzetti di Cavallo del Salento, la Lucanica mochena del Trentino, la Pastissada de Caval veneta. E poi c’è Catania, dove la carne di cavallo intorno a Via Plebiscito si acquista con la stessa spontaneità con cui altrove si compra il pane: arrusti e mangiaServirà un commissario straordinario, uno psicologo di comunità e forse anche l’Esercito per spiegare ai catanesi che il Pd ha deciso che la loro tradizione è un reato.

Ma la sinistra, si sa, vive di simboli. Ha un po’ smarrito la classe operaia, forse ha litigato con le partite Iva, non sa se tassare le rendite del ceto medio, ma ora prova a ricompattarsi. E con grande sagacia, degna dei tempi, lo fa attorno a un soggetto che non vota, non protesta e non sciopera: il cavallo. E’ la seconda grande battaglia di Eleonora Evi, pupilla delle pupille di Schlein. Prima voleva raddoppiare la tassa sulle bevande zuccherate. Una linea politica limpida: colpire tutto ciò che gli italiani trovano commestibile. Che poi, siamo sinceri, se si tassano le bibite e si proibisce la carne equina, rimangono solo due scelte: o disubbidire alla legge o iscriversi al Pd di Elly Schlein. Entrambe, certo, misure drastiche.


Tirare a campare


Tirare a campare

(di Antonio Pitoni – lanotiziagiornale.it) – Stupisce chi si stupisce che Trump parli di “Europa decadente”, di capitali “sovraccariche” di migranti, di “leader deboli”, che “non sanno cosa fare”, che “parlano troppo e non producono”. Non era la prima volta, d’altra parte, che il presidente degli Stati Uniti bullizzava il vecchio continente.

Lo ha fatto saccheggiando le imprese Ue con i dazi al 15% ingoiati, senza fare una piega, da Ursula von der Leyen, entusiasta per il cappio che gli Usa ci hanno stretto intorno al collo spacciandolo per il migliore degli accordi possibili. Lo ha rifatto pretendendo e ottenendo (con la sola eccezione della Spagna) l’incremento degli investimenti Nato al 5% del Pil per acquistare le armi che ci venderà guadagnandoci due volte. Lo ha fatto, ancora una volta, defilandosi dal sostegno economico e militare all’Ucraina e lasciando all’Europa il conto della guerra e della ricostruzione che verrà.

Di fronte all’ultima ondata di contumelie, l’unica replica da Bruxelles è arrivata da un’anonima portavoce della Commissione: “Mi asterrò dal commentare queste affermazioni, salvo confermare che siamo molto orgogliosi e grati di avere leader eccellenti, a partire dalla leader di questa istituzione, la presidente della Commissione europea von der Leyen. Siamo davvero fieri di chi ci guida nell’affrontare le molte sfide che il mondo ci pone”. Tipo il Piano di Riarmo da 800 miliardi per difenderci da nemici inesistenti, sottraendo risorse al Welfare e preparando un apocalittico futuro di guerra ai nostri figli.

Ma chi in Europa sembra messa peggio perfino di bomb der Leyen, è la premier italiana Meloni. Schiacciata tra la sudditanza a Trump – aggravata dalla rivendicata affinità ideologica con il modo Maga rispetto a quella già manifestata con il predecessore Biden – e l’ingombrante sostegno promesso all’alleato Zelensky – sempre più scomodo ed economicamente insostenibile – con l’improvvida scommessa sulla vittoria dell’Ucraina.

Un equilibrismo reso ancora più difficile dal rompete le righe suonato dalla Lega che ha fatto slittare di nuovo il via libera al nuovo decreto armi a sostegno di Kiev. La strategia di Meloni, per ora, resta quella di tirare a campare. Che, come diceva Andreotti, è sempre meglio che tirare le cuoia. Anche se al fronte gli ucraini le cuoia continuano a tirarle sul serio.


La Repubblica e Meloni, la premier “loda” Kryakou l’editore pronto a rilevare il quotidiano. I piani e gli incontri


A settembre, videocollegata, la premier loda l’editore che intende acquistare il quotidiano di Scalfari. Sono seguiti incontri istituzionali per illustrare il progetto. Chi è e cosa vuole fare l’editore che conosce Trump e Blair

(Carmelo Caruso – ilfoglio.it) – Vuole acquistare La Repubblica, è gradito a Giorgia Meloni, conosce Donald Trump e Tony Blair. L’editore greco Theo Kyriakou, pronto a rilevare il gruppo Gedi, è apprezzato, lodato, dalla presidente del Consiglio. L’operazione non è ostile al governo. Meloni e Kyriakou hanno avuto modo di parlarsi, piacersi. Non significa nulla, può significare tutto. Il 26 settembre, l’editore greco, a capo del gruppo Antenna Group, ha annunciato ad Atene un partenariato con l’Atlantic Council. All’evento hanno partecipato il primo ministro greco Mitsotakis, il vice primo ministro del Regno Unito, Lammy oltre al ministro di stato del Qatar. Durante la conferenza Meloni si è videocollegata e ha “lodato la leadership di Kryiakou”. Lo stima. Tra i presenti c’era anche il nuovo ambasciatore americano ad Atene, Kimberly Guilfoyle. Lo riporta il quotidiano greco Tovima.com. Il gruppo Gedi sta trattando in esclusiva con Kyriakou e ha già rifiutato l’offerta di Leonardo Maria Del Vecchio. Il cdr di Repubblica è stato informato da Gedi della trattativa che prosegue. Il comitato di redazione, ieri, si è riunito e ha proposto, tra le forme di protesta, un appello a Sergio Mattarella o una controfesta in occasione dei cinquant’anni del giornale. L’intenzione, dichiarata, del gruppo Gedi, dell’azionista di Exor,  è chiara. Si predilige la via “greca”. Repubblikas.

Kyriakou viene ritenuto da Gedi un editore affidabile, le sue ambizioni concrete e reali perché rispetta le richieste di indipendenza e pluralità. L’operazione per alcuni viene data per chiusa, per altri è alle battute finali, per tutti, l’annuncio della possibile cessione non arriverà prima della festa dei cinquant’anni, il 14 gennaio 2026. Al momento di ufficiale c’è una trattativa, in esclusiva, con Kyriakou, scaduta il 30 novembre e riprorogata. Quello che non è mai stato scritto è che Kyriakou si è mosso da editore puro. Ha informato il governo. Ha cercato un’interlocuzione con Palazzo Chigi, e l’avrebbe avuta, per spiegare il suo piano, gli investimenti. Chi è Kyriakou? Viene da una famiglia di editori, è il figlio che si occupa solo di media. E’ un editore che non ama gli spifferi, neppure la formula “fonti”. Intende investire sul gruppo Gedi, in particolare sulle radio, perché è convinto che sia un business redditizio. E’ dell’opinione che sia necessario possedere più piattaforme: radio, quotidiani. Nel suo progetto italiano manca solo una rete televisiva e non si esclude possa essere uno dei prossimi obiettivi. In Italia ha come riferimento, come esempio da seguire, Urbano Cairo. Quando la trattativa per l’acquisto di Gedi è stata resa nota e si è iniziato a parlare di veti e golden power, Kyriakou ha scelto di muoversi istituzionalmente. Non si può usare la formula “fonti”, che all’editore greco non piace, e non si può usare neppure “chi è vicino al dossier”. Si usa dunque la formula, all’italiana: si parla. Si parla (e con verifiche) di contatti fra l’editore ed esponenti di primo piano del governo, sottosegretari. Sarebbero state conversazioni franche. L’investimento ha spiegato Kyriakou è interamente del gruppo, non ci sono fondi stranieri. Il governo non si è dichiarato ostile.

Si virgolettano parole di chi lavora e conosce la trattativa: “Kyriakou investe solo se gradito al paese dove investe altrimenti si sarebbe già dileguato”. Nelle interlocuzioni fra l’editore e i rappresentanti istituzionali sarebbero state formulate domande sulla linea editoriale. Kyriakou avrebbe risposto che non si snatura un giornale ma che servono quotidiani ordinati. I suoi modelli di sarebbero Le Monde e El Paìs. Vuole un giornale internazionale che si trasformi nel portale italiano nel mondo, con la versione in lingua inglese. La sua comunicazione, parca, è stata affidata all’agenzia Comin & Partners. Kyriakou ha già rilevato altri media risanandoli (Bulgaria, Inghilterra). In Italia punterebbe solo su un quotidiano, Repubblica. Gedi possiede anche La Stampa. I giornalisti di Repubblica, in assemblea, hanno sollevato dubbi. Parte della redazione preferirebbe la proposta di Del Vecchio, rigettata da Gedi, perché sarebbe  rispettata “l’italianità”. Oltre al gradimento del governo, Kyriakou ha il gradimento di Exor. Si vuole cedere un asset  ma con “responsabilità”, come già fatto con Iveco rilevata da  Tata.  Kyriakou per Exor rispetta il parametro della responsabilità. Del Vecchio si sarebbe mosso tardi. Nel mondo sconquassato di Trump cambiano frontiere e mutano i  media. Paramount è contesa da Warner e Netflix e Trump sogna, attraverso Paramount, di stravolgere la Cnn. In Italia un editore che rispetta i patti di non divulgazione sta provando ad acquistare un giornale che la sinistra non ha saputo difendere, maltrattato da chi lo ha ereditato, impoverito da chi voleva farne il Corriere e non è riuscito a farne neppure la mezza Repubblica di Ezio Mauro. Le firme sono state nascoste, l’allegria è nelle pagine del meteo, la polemica si fa nelle rubriche, le feritoie del pensiero laterale. L’unica che aveva capito come sarebbe andata a finire una Repubblica è stata Meloni. Kalispera, Repubblikas.


Com’è antica la guerra


(di MICHELE SERRA – repubblica.it) – Le foto aeree di Gaza mostrano una distruzione quasi totale. Metro per metro, un annientamento che si estende oltre l’orizzonte. Una visione da evo antico, quando la presa di una città spesso valeva la sua cancellazione fisica, così che i superstiti non potessero fare altro che andarsene. Molte città (una per tutte, Venezia) sono state fondate da profughi in fuga dagli invasori, ma non risulta che per i gazawi questo sbocco sia verosimile. Rimangono lì, sulle loro macerie, con tende e materassi piazzati laddove c’erano muri, pavimenti, cucine, mobili. In una condizione primordiale: primordiale come la distruzione e come la tenacia della vita.

I discorsi sulle guerre a noi contemporanee sono intrisi di tecnologia, i droni, l’intelligence, la sofisticazione dei sistemi di difesa e di offesa. A cose fatte, però, ci sono montagne di cadaveri sotto montagne di macerie, come dall’alba dei tempi, i villaggi che bruciano, le città distrutte, la cenere e la polvere che assorbono e calcificano la carne e il sangue.

La vera opposizione ideale alla mostruosa riqualificazione di Gaza come resort turistico sarebbe lasciarla tale e quale, una specie di enorme museo a cielo aperto della guerra. Da visitare con le scolaresche in fila indiana, chilometri nel nulla, una città sbriciolata. È un’ipotesi puramente teorica, l’impulso umano a ricostruire e ricominciare a vivere è incontenibile. E alla rimozione delle macerie si somma, come è normale, la rimozione del dolore, perché la vita deve continuare. Ma quasi dispiace che una testimonianza così precisa e lampante del potere di distruzione degli uomini possa scomparire. Un museo fatto solo di quelle foto e di quelle macerie basterebbe a fare di Gaza (come Leningrado, come Dresda, come Hiroshima) una città simbolo.


AI e droni, a Gaza si è combattuta la prima guerra robotica della storia


Yaron Sarig, responsabile delle ricerche tecnologiche del Ministero della Difesa israeliano, ha fornito le prime informazioni sull’impiego di armi guidate dall’intelligenza artificiale durante le operazioni contro Hamas nella Striscia. In un video ha mostrato alcuni dei sistemi usati come bulldozers senza uomini alla guida

AI e droni, a Gaza si è combattuta la prima guerra robotica della storia

(di Gianluca Di Feo – repubblica.it) – Una guerra disumana, letteralmente: “Quella di Gaza è stata la prima guerra robotica della Storia”. Così l’ha definita Yaron Sarig, responsabile delle ricerche tecnologiche del Ministero della Difesa israeliano. Lo ha fatto all’Università di Tel Aviv durante la Defence Tech Week, tenendo una conferenza intitolata: “Robot e intelligenza artificiale: dalla teoria al campo di battaglia”. Sarig ha fornito le prime informazioni sull’impiego di armi guidate dall’AI durante le operazioni contro Hamas nella Striscia, spiegando che sono state frutto di “vent’anni di ricerche”. In un video ha mostrato alcuni dei sistemi usati durante la campagna a Gaza: bulldozers e veicoli blindati M113 senza uomini alla guida, oltre a piccoli veicoli a otto ruote motrici, alcuni dei quali dotati di mitragliatrice.

L’orchestra degli automi

Sono solo una parte della falange di automi schierati dalle Israeli Defence Forces per penetrare nei centri abitati palestinesi durante la lunga e devastante operazione nella Striscia. Quello che Sarig ha sottolineato non è il ruolo dei singoli robot, quanto la capacità di farli agire tutti insieme “come un’orchestra”. Squadre di M113 senza equipaggio che si coordinavano per aprire una strada all’interno di una zona abitata; mezzi ruotati telecomandati che rifornivano di cibo e munizioni i reparti appostati in basi fortificate all’interno delle città. “Abbiamo visto questi assetti operare in praticamente tutti i reparti”, ha spiegato Sarig, sottolineando che sono in grado di agire anche dove le coordinate Gps vengono azzerate dalle contromisure e che dispongono di “un certo numero di sensori di nuovo tipo”.

Controllo totale sulla Striscia

Questa onnipresenza dei robot è stata agevolata dal flusso colossale di dati raccolti dagli israeliani grazie a “decine di migliaia di ore di volo” dei droni in aria e “migliaia di ore di attività“ di macchine autonome presenti sul terreno. Molti analisti ritengono che sia proprio la capacità di gestire in sciame i sistemi unmanned il settore in cui Israele ha una superiorità rispetto a qualsiasi altro Paese. Gli ucraini e in misura minore i russi hanno impiegato droni volanti e terrestri in manovre combinate, oltre a sviluppare coppie di mezzi che interagiscono tra cielo e suolo. Ma riescono a farlo solo in spazi ristretti e per periodi limitati. A Gaza invece la falange delle macchine autonome è stata sempre in azione, garantendo il controllo della Striscia pure nelle zone dove i soldati e i tank non riuscivano a penetrare. Questo ha ridotto i rischi per i militari in carne e ossa, che hanno affidato ai droni qualsiasi attività pericolosa. Si è visto pure nei filmati dell’uccisione del capo di Hamas, Yahya Sinwar: il terrorista ferito – e non riconosciuto – è stato avvicinato da un quadricottero, contro cui ha tirato un bastone, e poi ammazzato sparando una cannonata.

L’esercito dell’AI

Sarig non ha parlato di alcuni episodi emersi durante il conflitto, come l’uso degli M113 robotizzati e imbottiti di esplosivo per far saltare in aria interi isolati di Gaza City durante l’ultima fase della guerra. Il responsabile del ministero della Difesa ha anticipato altri sviluppi: “Siamo solo all’inizio di questa rivoluzione. Nei prossimi anni, spinti dalle necessità operative, espanderemo in maniera significativa le nostre capacità operative. I robot serviranno come ponte decisivo verso il mondo dell’intelligenza artificiale che, guardando al futuro, sarà integrata in ogni armamento e nelle dotazioni di ogni soldato”. Nella stessa conferenza il generale Oren Giber, responsabile del direttorato del ministero della Difesa che si occupa di mezzi corazzati ha presentato quali saranno i carri armati israeliani del 2030: ogni tank sarà accompagnato da un gregario-robot, che potrà anche lanciare piccoli droni volanti e combattere sincronizzandosi con il resto delle forze.

Le unità Bina e Sphera

La scorsa settimana Israele ha annunciato la nascita di una nuova branca del ministero della Difesa che dovrà gestire tutte le iniziative nel campo dell’AI: è stata chiamata Bina, il termine ebraico per intelligence, e avrà alle dipendenze le strutture già esistenti. Il generale Aviad Dagan, capo della rete di comunicazione e cyber, ha detto che l’obiettivo è costruire una “macchina efficiente” per i decenni a venire: “Trasformerà un tank in cento carri armati, un soldato in cento combattenti”. La testata online Ynet ha spiegato che è stata creata anche un’unità segreta chiamata Sphera che si occupa di comunicazioni strategiche ma ha assorbito il reparto incaricato delle contromisure elettroniche che hanno fermato un quarto dei droni lanciati contro Israele negli ultimi due anni. Un altro raggruppamento – la Manpower Building Division – condurrà i processi di preparazione delle forze, incluse le collaborazioni digitali all’interno delle IDF e dell’industria nazionale e internazionale. Tutte queste trasformazioni organizzative sono basate soprattutto sull’esperienza della guerra contro l’Iran, mentre non viene fatta menzione dei bombardamenti su Gaza.

Le stragi decise dai software

Nei due mesi immediatamente successivi ai massacri jihadisti del 7 ottobre 2023, l’utilizzo di sistemi di intelligenza artificiale da parte delle IDF per individuare e localizzare i membri di Hamas è stato rivelato da più inchieste giornalistiche israeliane e statunitensi che hanno messo in luce una serie di gravissimi errori, sia nell’accertare il ruolo di singole persone nell’organigramma della formazione terroristica sia nel valutare il numero di civili che sarebbero stati messi a rischio dagli attacchi aerei. Questi software avrebbero contribuito a uccidere 15 mila palestinesi entro il 25 novembre 2023, un quarto di quelli ammazzati nei successivi 21 mesi stando ai dati del ministero della Salute di Hamas. L’impiego degli algoritmi per decidere chi colpire e per calcolare i civili presenti nell’area è stato successivamente ridotto, rafforzando le verifiche affidate a personale dell’intelligence. Il ritmo dei bombardamenti è statisticamente diminuito: il risultato finale – 65 mila morti e 165 mila feriti – resta terrificante.