Selezione Quotidiana di Articoli Vari

La censura si allarga ma il governo non c’entra


(di Marcello Veneziani) – Nell’Italia di Giorgia Meloni la censura funziona a pieno regime. Ma non dipende dalla destra al governo e dalla premier, ma da altri agenti politici, ideologici, atmosferici. La censura di Capodanno, che indigna gli “artisti”, ovvero i cantanti, riguarda l’esclusione di Tony Effe dal concerto di fine anno per i testi troppo violenti delle sue canzoni in materia di sesso, droga e misoginia. Esclusione voluta da Roberto Gualtieri, sindaco del Pd, nel nome del nuovo bigottismo femminista. Allo stesso tempo, Bruno Vespa denuncia una censura storica assurda dovuta agli algoritmi dementi ma ideologicamente ispirati, che impediscono all’Orco Bruno di pubblicizzare sui social, da Facebook a Instagram, il suo libro intitolato Hitler e Mussolini. Deve chiamarli per nome, e se lo sgamano, magari dovrà adottare il soprannome o il pronome. Insomma, l’apologia di fascismo parte già dal nome; nel nuovo catechismo social non è Dio che non devi nominare invano ma il Demonio. Anzi, solo un tipo di demonio: di altri, metti Stalin e Mao, ma si potrebbe dire di Lenin e di mille altri, va tutto liscio. Conosco persone che non possono neanche candidarsi col loro cognome perché si chiamano Negro o Negri, o roba simile, e l’algoritmo li stronca sul nascere, appena si presentano.

Di censure, penalizzazioni, esclusioni è pieno l’universo social; non c’è giorno che qualcuno non mi scriva che gli hanno chiuso la pagina, oscurato, o che sta in castigo per non so quanti giorni o col braccialetto elettronico figurato per una parolina, un’opinione, un’immagine sconvenienti.

Anche una studiosa di Tolstoj, traduttrice, viene censurata dal circuito bibliotecario romano perché osa parlare di Russia. E non è la prima.

L’elenco della censura potrebbe essere sterminato, la tendenza serpeggia da alcuni anni, si allarga ad ambiti sempre più vari e sempre più vasti, dalla sostenibilità all’inclusività, generando situazioni insostenibili e criteri d’esclusione. Ma a trovare un punto di partenza recente, è col Covid che la censura fece il salto decisivo e la prova generale in cui fu elevata a sistema.

Lasciamo perdere i singoli fatti, di cui si è già occupata la stampa, e risaliamo alla tendenza di fondo.

Viviamo in un’epoca che inneggia alla libertà illimitata, elogia la trasgressione, denigra e denuncia ogni forma di autoritarismo, di costrizione, di pudore che proviene dal passato, dalla religione, dalla tradizione. Ma poi, stranamente, è piena di censure, di squadre della buoncostume: questo non si può dire, quello non si può fare, vietato qui, proibito là. È quello che solo qualche giorno fa chiamavamo il nuovo bigottismo dell’ipocrisia. Nascondere la realtà, omettere la verità, usare un linguaggio falso e fariseo, adottare la finzione come galateo e catechismo, cioè come norma etica ed estetica. Parlare con la boccuccia a culo di gallina, per dirla in modo greve ma adeguato, e fare in modo che gli ovetti appena partoriti escano già bolliti e pastorizzati dall’orifizio.

Sappiamo bene che tante canzoni, tanti film, tanti libri in circolazione fino a pochi anni fa, oggi non sarebbero possibili con le nuove cataratte della censura woke. Altro che la censura ai tempi della Rai di Bernabei, delle parrocchie al tempo di Pio XII o delle commissioni censura di Scalfaro e Andreotti; è molto peggio. Se è già una censura inaccettabile non poter avere una lettura diversa della storia contemporanea, non poter adottare alcun revisionismo, che pure è l’essenza della ricerca storica, è veramente assurdo e totalmente idiota non poter nemmeno citare quei nomi, e solo quei nomi. C’è un teorema invisibile che poggia su questa sequenza: primo, ci sono alcuni mali che sono assoluti e indiscutibili, a differenza di altri; secondo, di questi mali si può dire solo male; terzo, non è possibile nemmeno citarli, chiamarli per nome, senza anteporre un insulto o una maledizione. Ma poi che demenza questa ossessione che dobbiamo tenere lontani i cittadini, come bambini permanenti, da ogni scena, da ogni canzone, da ogni testo o pagina di storia, reputate scabrose o violente, per non turbare la loro fragile mente e la loro fragilissima coscienza… Ma è così deficiente il popolo sovrano?

Non sono un fautore della libertà senza limiti, come hanno teorizzato tanti cantanti a proposito del trapper censurato. So bene che la libertà è un bene prezioso ma va coltivato e regolato, va data una misura, un limite, una responsabilità; e parte dal rispetto della libertà altrui – rispetto, parola regina secondo la Treccani. So bene che gli stessi artisti, cioè i cantanti, si sarebbero smentiti subito dopo se solo qualcuno avesse proposto di cantare qualcosa che infrange gli algoritmi mentali della nostra epoca, da loro ormai digeriti e ingoiati; o se anziché Tony Effe fosse stato, mettiamo, il generale Vannacci o Povia a dire cose “sconvenienti”. Quel che hanno tutti assimilato, senza naturalmente averlo mai letto e saputo, è la lezione di Lenin e di Gramsci secondo i quali esiste una violenza e una dittatura regressive da sopprimere anche con la forza, e una violenza e una dittatura progressive da sostenere, anche con la forza. Come distinguerle? A stabilire in modo inappellabile quando è la prima o quando è la seconda, è l’Intellettuale Collettivo, ieri il Partito-Principe, oggi il Mainstream, l’Establishment, la Cappa, con la spada dell’algoritmo o la chitarrina di Gualtieri. (Che detto tra parentesi, ha creato a Roma, tra lavori in corso simultanei, non solo per il Giubileo ma anche lavori decennali per la Metro in pieno centro, con l’incapacità di disciplinare mezzi e tassisti, una censura stradale senza precedenti: Roma, da sempre difficile da praticare, è ormai La Città proibita, invivibile se non barricandosi in casa, come ai tempi del covid. Ma questo non c’entra, è solo uno sfogo).

Il nuovo bigottismo, combinandosi con gli algoritmi e tra breve con l’Intelligenza Artificiale e i suoi dodici apostoli, sta paralizzando l’Intelligenza, il pensiero critico, la libertà di divergere. Sta rendendo la vita impossibile, dico quella del sentimento, della ragione, della parola, della vita reale.

In tutto questo cosa c’entra il governo Meloni? Un beneamato tubo, non c’entra affatto. Ma questa non è solo un’assoluzione, perché dice quanto sia irrilevante e impotente la politica o il governo rispetto al mondo reale. Il governo fa le sue cose – buone, cattive, non so – ma tutto il resto della vita è altrove, e in altre mani.


La vera fonte dell’odio


(Tommaso Merlo) – Se non gli è saltata qualche rotella, è l’odio a spingerli ad investire passanti al mercatino natalizio e assassinare innocenti. Un odio viscerale. Hanno una idea di come dovrebbe andare il mondo e odiano tutti coloro che la impediscono. Nemici che prima deumanizzano e poi colpiscono. Gli altri non sono più esseri umani ma infedeli, occidentali, oppressori, privilegiati. Categorie generiche a cui attribuiscono stereotipi rendendole indegne di ogni umanità e soprattutto colpevoli per il proprio malessere. Invece di guardarsi dentro, guardano fuori finché trovano qualcuno contro cui puntare il dito. Contro cui scaricare le responsabilità del proprio dolore, della propria frustrazione per un mondo che si ostina ad essere diverso da come vorrebbero loro. Un odio accecante che sfocia in atti di vile violenza che rendono il mondo ancora peggiore, distruggendo la vita delle vittime ma anche dei carnefici perché il loro odio si ritorcerà contro di loro perseguitandoli per il resto dei loro giorni. Lupi solitari ma anche partiti e governi di qualche Terra Maledetta del pianeta che sfruttano la politica e perfino la religione per deumanizzare qualche categoria avversaria e attaccarla. Come se non avessero imparato nulla da millenni di inutili massacri. Opinioni politiche spacciate come verità scientifiche e pure come superiori ad altre. Proprie credenze spacciate come verità assolute ed imposte con la forza. Arrivando a permettersi di interpretare la volontà divina, come se esistesse un profeta o un Dio che ritenesse giusto terrorizzare e ammazzare esseri umani che si rapportano con l’ignoto diversamente. Delirante presunzione egoistica, con esseri che si credono dei quando non riescono nemmeno ad essere umanamente terreni. Esseri troppo arroganti per guardarsi dentro ed ipocriti al punto di dare la colpa ad altri illudendosi che la soluzione di tutto sia colpirli. Investitori natalizi ma anche sterminatori di civili nelle Terre Maledette del pianeta ed assassini di strada. Come Luigi Mangione accusato di aver giustiziato a New York l’assicuratore milionario e per questo diventato un eroe social per tutte le vittime di un sistema sanitario da incubo. Chiunque sia stato, si tratta sempre di un odio viscerale sfociato in violenza, un delirante tentativo di ottenere giustizia sommaria fai da te ammazzando una persona che non faceva altro che implementare delle regole seppur assurde e quindi innocente. Se negli Stati Uniti non esiste un sistema sanitario pubblico è colpa della politica che si fa comprare dalle lobby delle compagnie di assicurazione. Colpa di idee neoliberiste sbagliate e di un sistema corrotto dal profitto che specula perfino sulla pelle dei poveri cristi. Se a Luigi Mangione e ai suoi fan e se agli investitori natalizi, non va bene il sistema in cui vivono, dovrebbero piuttosto impegnarsi democraticamente a cambiarlo lottando per le proprie idee invece di scagliarsi contro altri esseri umani innocenti. Anche perché non è affatto ciò che li circonda ma dentro di loro la vera fonte dell’odio che li perseguita. Un odio frutto di ferite mai curate e di risposte mai trovate. Un odio fomentato da una società sempre più superficiale ed ingiusta. Un odio covato giorno dopo giorno e mai capito, e mai ascoltato e mai sconfitto. Un odio che col tempo diventa un dolore sempre più insopportabile fino a sfociare brutalmente. Una violenza inaudita contro degli innocenti, nient’altro che un disperato e rovinoso sfogo per il proprio fallimento esistenziale.


Le stanze del potere occulto


(Giuseppe Gagliano – lafionda.org) – L’Italia è il Paese del segreto. Lo è sempre stata, lo è ancora oggi. Nelle stanze del potere, visibili o invisibili, si sono costruiti i destini della Repubblica, ma anche le sue tragedie. E proprio nel segreto si annida il nucleo più profondo del potere, come scriveva Elias Canetti. Ma in Italia il segreto non è solo la caratteristica di un potere che si sottrae agli occhi dei cittadini: è la strategia sistematica con cui si copre, si devia, si confonde.

La storia recente della nostra democrazia – dai giorni tragici del caso Moro alle bombe della strategia della tensione – è disseminata di episodi in cui il potere occulto non si è limitato a nascondere sé stesso, ma ha attivamente ostacolato la ricerca della verità. I servizi segreti, che per statuto dovrebbero proteggere la Repubblica, hanno operato spesso come strumenti di disinformazione, manipolazione e deviazione.

Il potere nascosto, ma non invisibile

Il potere invisibile si manifesta in due modi principali: nascondendosi e nascondendo. Da un lato, si ritira nell’ombra, evita di mostrarsi, si avvale di identità false, codici, simboli; dall’altro, usa la menzogna come arma. In Italia, queste due modalità si sono intrecciate profondamente. Il terrorismo eversivo degli anni di piombo si è mosso nell’oscurità delle sette segrete, ma non è stato l’unico. I settori deviati dei servizi segreti hanno adottato le stesse tecniche, non per combattere la sovversione, ma per alimentarla o, peggio, per coprire chi ne tirava le fila.

Lo abbiamo visto nel caso Moro: cinquantacinque giorni di sequestri, lettere, comunicati, piste false e verità negate. Lo abbiamo visto nella strage di Bologna, nei depistaggi, nei dossier spariti, nelle bugie di Stato che hanno protetto colpevoli e mandanti. E lo vediamo ancora oggi, quando a decenni di distanza il velo su quelle vicende non è stato mai completamente sollevato.

La disinformazione di Stato

La menzogna, nella sua forma più sofisticata, è lo strumento prediletto del potere occulto. Non si limita a negare la verità: la distorce, la manipola, la trasforma in un’arma per confondere. I settori deviati dei servizi segreti hanno messo in pratica questa tecnica con precisione chirurgica, ostacolando indagini, ritardando informazioni, fornendo notizie manipolate o del tutto false.

Nel caso Moro, ad esempio, settori dello Stato hanno deliberatamente scelto di non trasmettere informazioni utili alla liberazione del presidente della DC. La disinformazione è stata sistematica: dai depistaggi sul lago della Duchessa al mancato utilizzo di canali che avrebbero potuto portare a Moro, tutto è stato orchestrato per garantire che l’epilogo fosse quello già deciso. Non era la salvezza di Moro l’obiettivo, ma la stabilità di un sistema che non poteva permettersi di fare concessioni, né tantomeno di rivelare le sue collusioni.

Il doppio volto dei servizi segreti

I servizi segreti italiani hanno giocato un ruolo ambiguo nella lotta contro l’eversione. Da un lato, erano chiamati a combattere il terrorismo, a proteggere lo Stato e i suoi cittadini. Dall’altro, alcuni loro settori hanno lavorato attivamente per sabotare le indagini, proteggere i colpevoli e deviare l’attenzione dai mandanti. Questo doppio volto emerge con chiarezza sia nelle indagini sull’eversione di destra – dove i depistaggi sono stati sistematici – sia in quelle sull’eversione di sinistra, dove comunque si registrano episodi di inerzia e connivenza.

Le tecniche utilizzate sono molteplici: informazioni non trasmesse, comunicazioni ritardate, notizie manipolate, dossier falsificati. Tutto questo non è stato frutto di errori o disorganizzazione, ma di una strategia precisa. Chi avrebbe dovuto combattere la sovversione, in molti casi, l’ha favorita o almeno tollerata, quando non era utile agli equilibri del potere.

Una Repubblica fondata sul segreto

In Italia, ogni mistero si conclude sempre allo stesso modo: una verità che resta nascosta, colpevoli che non vengono mai puniti, una giustizia che non arriva mai fino in fondo. Lo scriveva già Leonardo Sciascia: in questo Paese, “di ogni mistero criminale molti conoscono la soluzione, i colpevoli, ma mai la soluzione diventa ufficiale e mai i colpevoli vengono assicurati alla giustizia”.

Il problema non è solo ciò che è accaduto, ma ciò che non è stato mai chiarito. Il potere occulto ha attraversato ogni fase della storia repubblicana, costruendo un sistema in cui il segreto e la menzogna sono diventati strumenti ordinari di gestione. Le vittime non sono solo Moro, i morti di Bologna o le figure sacrificate della strategia della tensione. Le vittime siamo tutti noi, cittadini di una Repubblica che non è mai riuscita a fare piena luce sulle sue pagine più buie.

Ed è qui che il potere occulto vince, nella sua capacità di non lasciare traccia, di nascondersi dietro maschere e menzogne. Non possiamo aspettarci che chi detiene il potere faccia emergere la verità. La verità è una minaccia per il potere, soprattutto quando quel potere si nutre del segreto. Spetta a noi, come cittadini, continuare a chiederla, anche a distanza di decenni. Perché la democrazia non può fondarsi sull’occultamento, ma sulla trasparenza e sulla responsabilità. E finché queste non saranno garantite, resteremo prigionieri di un sistema che ci tiene in ostaggio, come Moro in quella prigione segreta.


Salvini, luci e ombre per Meloni: Santanchè torna in bilico, ma niente scontro con il Colle


Dalla Lapponia la premier tira un sospiro di sollievo attacca i pm siciliani a difesa dell’alleato. Ma l’assoluzione rimette in bilico le sorti della ministra del Turismo e del sottosegretario Delmastro 

(Simone Canettieri – ilfoglio.it) – Giorgia Meloni si era preparata a entrambi gli scenari. E in caso di condanna di Matteo Salvini aveva auspicato dall’alleato reazioni contro la magistratura che non le mandassero di traverso il messaggio di fine anno del presidente della Repubblica, capo del Csm. Alla fine il leader della Lega è stato assolto e dalla Finlandia – in un paesino sopra il circolo polare artico –  la premier ha tirato in questo senso un respirone di sollievo. Meloni ha accolto – “con grande soddisfazione” – questa notizia mentre si trovava a cena con gli omologhi  di Svezia, Grecia e Finlandia. Nemmeno a farlo a posta il vertice in Lapponia  è proprio sulla sicurezza e i migranti. Meloni tra renne e slitte – accompagnata dalla figlia Ginevra – trova dunque un bel regalo di Babbo Natale. Ma, volendo, l’assoluzione di Salvini le porta anche del carbone. 

Salta l’automatismo che salvava Daniela Santanchè dalle dimissioni così come Andrea Delmastro in caso di condanna. Una sentenza avversa per il leader del Carroccio avrebbe blindato i destini politici della ministra del Turismo e del sottosegretario alla Giustizia. Visto che Salvini dal primo momento aveva annunciato che davanti a una condanna mai e poi mai avrebbe mollato. Ora, anche se sono fattispecie diverse, torna di nuovo tutto precario. Con Santanchè, si sa, l’accordo è che davanti a un rinvio a giudizio per truffa ai danni dell’Inps nell’utilizzo della cassa Covid il passo indietro sarà d’obbligo. Con Delmastro idem: è stato rinviato a giudizio per rivelazione di segreto d’ufficio in merito alle visite in carcere dei parlamentari del Pd all’anarchico Alfredo Cospito. Sono due esponenti di Fratelli d’Italia su cui Meloni ha potere di vita e di morte (politica). Questo è un effetto collaterale della decisione di Palermo di ieri sera che in un certo toglie un enorme palcoscenico a Salvini e anche la possibilità di rilanciarsi all’interno del suo partito. La sua leadership torna contendibile. E ora dovrà trovare nuove parole di battaglia per cercare di rosicchiare consensi nel centrodestra e soprattutto a Fratelli d’Italia. Inoltre con l’assoluzione la legge per la separazione della carriere va ancora più spedita e non altera un dibattito già molto acceso con quel pezzo di magistratura contraria (ieri ha comunque stigmatizzato le accuse “infondate e surreali” dei pm siciliani).  

Circondata dal bianco della Lapponia, Meloni mette sul piatto i pro e i contro di questa sentenza attesa a Roma, in Parlamento, con una certa ansia. Visto che la Camera era alle prese con la manovra. E non sono mancati i cortocircuiti. Come l’ordine del giorno, poi ritirato, presentato dalla Lega a proposito della norma “anti Renzi”.  L’odg chiedeva  di adottare “iniziative normative volte ad escludere dal divieto le attività professionali regolate da albi previsti per legge, limitatamente ai compensi derivanti esclusivamente dall’esercizio di tali attività”. Per FdI una mossa ispirata dalla senatrice e regina del Foro Giulia Bongiorno, legale di Salvini e non solo. Poi da Palazzo Chigi è arrivato lo stop. Il bottone pare che sia stato spinto dal sottosegretario Giovanbattista Fazzolari.


Salvini e Renzi: i “due Mattei” e il principio di legalità


Le due sentenze di assoluzione hanno un punto in comune: sono il frutto del rigoroso rispetto da parte dei giudici siciliani e toscani del principio di legalità. In entrambi i casi tale requisito mancava nella formulazione dell’accusa

(Cataldo Intrieri – editorialedomani.it) – L’assoluzione in contemporanea, dei “due Mattei” pone il problema delle conseguenze politiche che la sconfitta, cosi pervicacemente inseguita dalle procure di Palermo e Firenze, causerà.

Le due sentenze, relative a indagini, reati e vicende ben diversi, hanno un punto in comune: sono il frutto del rigoroso rispetto da parte dei giudici siciliani e toscani del principio di legalità, il diritto che un cittadino (anche il peggiore) ha di essere edotto delle caratteristiche di illiceità di determinate condotte formulate nel codice penale in modo tassativo. In entrambi i casi tale requisito mancava nella formulazione dell’accusa.

Ciò vale anche per Matteo Salvini, accusato del gravissimo reato di sequestro di persona commesso nell’agosto 2019, quando bloccò lo sbarco della Open Arms che aveva a bordo 147 migranti, costretti a subire una dura sofferenza in base a una legge votata in Senato dalla maggioranza giallo-verde che dava al ministro il potere di impedire l’approdo di una nave qualora avesse violato le norme italiane in materia di immigrazione.

“Porto sicuro”

La legge in questione trattava in anteprima uno dei profili cruciali del conflitto più duro tra magistrati e governo, quello della individuazione dei luoghi di attracco e rimpatrio da ritenersi “sicuri”.

In base al decreto l’individuazione del cosiddetto â€œporto sicuro” di sbarco (POS) spettava allo «stato responsabile dell’operazione di soccorso» così come di recente la controversia ha riguardato la individuazione in appositi elenchi di “paese sicuri” da parte del governo.

La nave è rimasta bloccata in mare per molti giorni, aspettando il permesso, reso possibile anche in questo caso solo dall’intervento sia della magistratura amministrativa che ha sospeso il divieto di sbarco su ricorso dei legali dell’ong sia della procura di Agrigento che apriva un’indagine.

Questo l’antefatto che ha portato dopo ben 5 anni alla sentenza: come già scritto qui la procura ha ritenuto di contestare un reato, il sequestro di persona, nel caso di specie non configurabile per la elementare considerazione che un divieto di accesso con invito ad andare in ogni altra direzione non può equipararsi a una qualsivoglia forma di restrizione con il pieno controllo del luogo fisico (la nave) da parte degli autori del reato.

Governo e magistrati

Appunto il principio di legalità, applicato anche nel caso Renzi, e qui sta il punto su cui occorre fare un qualche distinguo mentre già infuriano le polemiche. Ci si può interrogare sugli scopi e le ragioni di tali forzature concettuali degli inquirenti (addirittura plateali nonostante l’intervento ripetuto della Cassazione nel caso Renzi) ma è bene che non si creino interessate confusioni.

Innanzitutto il principio di legalità ha tenuto grazie ai tribunali e questa è una notizia confortante specie in tempi di tentazioni autoritarie. In secondo luogo ancorché da parte della maggioranza si ipotizzino ricadute sulla politica degli hub albanesi i profili sono ben diversi. Nei casi più recenti di annullamento dei trasferimenti in Albania, l’intervento dei magistrati di Roma e di Bologna ha trovato ratifiche importanti.

Tra queste, la I sezione civile della Cassazione, che dovrà anche pronunciarsi sul ricorso di Matteo Piantedosi contro il provvedimento del giudice emiliano che annullava il trasferimento di 12 migranti in Albania, ha depositato giovedì una sentenza pronunciata in un altro caso stabilendo due punti importanti.

Il primo è che il giudice non può disapplicare direttamente gli ultimi decreti legge con la lista dei paesi sicuri perché non può sostituirsi alle valutazioni politiche espresse con leggi ordinarie. Dunque ciò conforta la posizione governativa.

In secondo luogo, però, ha affermato che il tribunale ha il dovere di esaminare comunque con cura le richieste di asilo basate su situazioni anche soggettive di pericolo del rifugiato e ciò, in ragione dei tempi, seppellirà la fantasiosa procedura accelerata di rimpatrio ideata da Giorgia Meloni. Dunque negli hub resteranno i cani randagi.

Da qui l’avvio di una nuova offensiva dei vari governi sovranisti per lo sganciamento dal controllo delle corti europee al fine di aver le mani libere in materia di pieno controllo nazionale delle leggi e della giurisdizione.

Lo hanno detto sia il sottosegretario alla presidenza, Alfredo Mantovano, e ancora in modo più esplicito il successore di Meloni alla guida dei Conservatori europei, il polacco Mateusz Morawiecki («dobbiamo porre fine all’eccesso di potere giudiziario dell’Ue, deve rimanere una comunità di nazioni libere e non una grande burocrazia»).

Qui il vero pericolo. Sarebbe un danno gravissimo: la fine della giurisdizione europea lascerebbe i cittadini senza un enorme scudo di ultima istanza cui in Italia si deve la introduzione del giusto processo in Costituzione nel momento in cui i vari governi nazionalisti varano leggi che investono i diritti non solo dei più deboli ma di tutti.


Così l’occidente ha perso Ankara


Grimaldello finanziario – I colossi economici. Usa hanno complottato per impoverire il regime di Erdogan. Così il “Sultano” ha deciso di mischiare le carte e cambiare le alleanze: ne vediamo gli effetti in Siria

(Di Pino Arlacchi – ilfattoquotidiano.it) – La grandezza di una civiltà si misura dalla sua capacità egemonica, dall’attrazione che esercita in primo luogo sulle entità politiche più vicine.

Queste finiscono con l’entrare nella sua orbita fino al punto di esserne, in certi casi, assorbite. La perdita di egemonia, al contrario, innesca prese di distanza che possono sfociare in avversione, ostilità e guerre.

Questo è quanto accaduto negli ultimi anni nei rapporti tra la Turchia e l’Occidente. A una fase di ravvicinamento e di intesa così ampi da arrivare fino alla soglia dell’inclusione del maggiore paese del Medioriente nell’Unione europea, è seguito un rapido distacco che ha portato Ankara, nell’ultimo decennio, a diventare una vera e propria alterità rispetto a Bruxelles e a Washington. I due principali legami rimasti sembrano ancora consistenti, ma il cuore della Turchia batte ormai verso l’altra parte del continente eurasiatico.

I rapporti commerciali con l’Europa e l’appartenenza alla Nato contano ancora molto per Ankara, ma la sua politica estera si dirige sempre più verso i lidi non occidentali: Brics, Cina e Russia per intenderci.

Ma se questo è vero, dov’è finito allora il celebre doppiogiochismo di Erdogan? Cioè la sua inclinazione a stare da entrambi i lati della guerra in Ucraina e di altri scontri regionali? La risposta è che il suo doppio gioco non è una frode machiavellica, né un obbligo creato dalla posizione di ponte est-ovest della Turchia, ma una postura che serve a celare una netta presa di posizione sottostante.

Erdogan e la Turchia hanno in effetti compiuto una scelta di campo, determinata in gran parte da ciò che il paese guida dell’Occidente ha fatto di recente contro entrambi. Il doppio gioco di Erdogan nasconde in realtà una vendetta coperta contro gli Stati Uniti. E contro l’Europa che è rimasta a guardare in due circostanze cruciali della storia recente della Turchia: nel momento in cui gli Usa hanno tentato di sbarazzarsi del presidente turco sostenendo il tentato golpe marca Gülen nel 2016, e quando, due anni dopo, Wall Street ha sferrato un intemerato attacco alla valuta turca.

Fethullah Gülen, predicatore islamico e leader carismatico, da poco deceduto, era accusato da Ankara di avere infiltrato le istituzioni turche con circa 50 mila seguaci tramite un impero educativo e finanziario costruito con il supporto americano. Il suo movimento, Hizmet (“Il Servizio”), si era presentato per decenni come un esempio di Islam moderato, perfettamente allineato con gli interessi occidentali. Dalla sua residenza in Pennsylvania, dove viveva dal 1999, Gülen aveva tessuto una rete globale che si estendeva in 160 paesi. Le sue scuole, frequentate da figli delle élite locali, avevano formato una generazione di funzionari e professionisti in posizioni chiave, mentre le sue holding finanziarie avevano accumulato un patrimonio stimato in 50 miliardi di dollari.

Gli Stati Uniti avevano visto in Gülen un potenziale contrappeso all’Islam politico di Erdogan. La Cia, secondo documenti resi pubblici, aveva facilitato il rilascio del suo visto americano nel 1999, nonostante le obiezioni dell’Fbi. Graham Fuller, ex vicepresidente del National Intelligence Council, aveva personalmente garantito per lui. Le sue scuole hanno ricevuto consistenti finanziamenti americani, circa 750 milioni di dollari tra il 2010 e il 2015.

Il tentativo di colpo di stato del 15 luglio 2016 – 251 morti e 2200 feriti – ha rivelato la vera portata della rete di Gülen. Secondo fonti dell’intelligence turca, sono stati i servizi segreti russi a informare Erdogan dell’imminente golpe poche ore prima del suo inizio. Un’informazione cruciale che ha permesso al presidente turco di mettersi in salvo e, soprattutto, di attivare un piano di contro-golpe predisposto da tempo. Le liste di 89.000 persone da arrestare immediatamente erano già pronte, suggerendo che il governo turco stesse solo aspettando il momento giusto per colpire i gulenisti.

La rapidità della repressione – iniziata nelle prime ore del golpe con arresti mirati di alti ufficiali e funzionari chiave – conferma questa tesi. In sole 48 ore sono stati arrestati 6.000 militari, inclusi 150 generali e ammiragli. Le liste includevano anche giudici, professori universitari, giornalisti e uomini d’affari sospettati di appartenere al movimento. Dal fallito golpe, più di 130.000 dipendenti pubblici sono stati licenziati e oltre 30.000 membri delle forze armate sono stati arrestati o congedati. Il rifiuto americano di estradare Gülen, nonostante le 84 casse di documentazione fornite dalla Turchia, ha esacerbato le tensioni.

L’attacco alla lira turca rappresenta un caso da manuale di guerra finanziaria. Tutto inizia nell’agosto 2018, quando un’ondata coordinata di vendite allo scoperto da parte di grandi fondi di investimento americani innesca il panico sui mercati. JP Morgan, Goldman Sachs e altri colossi di Wall Street pubblicano simultaneamente report estremamente negativi sulla lira, consigliando ai clienti di liquidare le loro posizioni sulla valuta turca. La lira perde il 17% in un solo giorno, il 10 agosto 2018. Il pretesto è la scoperta improvvisa che la Turchia non ha sufficienti riserve di valuta estera. I buoni fondamentali dell’economia vengono semplicemente ignorati.

Nei mesi successivi, hedge fund come Bridgewater Associates e BlackRock aumentano le loro posizioni ribassiste sulla lira per un valore complessivo di 5,5 miliardi di dollari. Il crollo si autoalimenta: la lira perde oltre il 70% del suo valore rispetto al dollaro tra il 2018 e il 2022. Nel solo 2021, la svalutazione raggiunge il 44%, provocando un’inflazione che tocca l’85% nell’ottobre 2022. La spirale negativa porta il debito estero turco da 454 miliardi di dollari nel 2017 a 568 miliardi nel 2023, con un costo del servizio del debito triplicato.

L’impatto sociale è devastante: 3,2 milioni di turchi scivolano sotto la soglia di povertà, mentre il Pil pro capite crolla da 12.600 dollari nel 2013 a circa 8.000 dollari nel 2022. Il salario minimo, che nel 2018 equivaleva a 380 dollari, scende a 220 dollari nel 2023 nonostante ripetuti aumenti in lire. La classe media turca vede i propri risparmi polverizzati: chi aveva 10.000 dollari in lire nel 2018 si ritrova con l’equivalente di 3.000 dollari nel 2022.

La Banca Centrale turca brucia oltre 128 miliardi di dollari di riserve nel tentativo di stabilizzare il cambio, mentre il governo accusa apertamente gli Stati Uniti di condurre una “guerra economica” contro la Turchia. Nel marzo 2021, il licenziamento del governatore della Banca Centrale Naci Agbal, considerato vicino agli ambienti finanziari euroamericani, segna la definitiva rottura con l’ortodossia economica occidentale.

La risposta di Erdogan è stata l’inizio di un asse con la Russia e l’Iran e un drastico riorientamento degli scambi commerciali: il volume delle transazioni con la Russia è aumentato del 198% nel 2022, raggiungendo i 68 miliardi di dollari. Gli investimenti cinesi in Turchia sono cresciuti del 307% dal 2016, superando i 4 miliardi di dollari nel 2023. La Turchia ha inoltre aderito alla Banca Asiatica d’Investimento in Infrastrutture (Aiib) con una quota di 2,6 miliardi di dollari, ed ha chiesto di entrare nei Brics.

Questi numeri raccontano più di mille parole la storia di una potenza regionale che, sentendosi tradita dall’Occidente, ha scelto di diversificare radicalmente le proprie alleanze. Non è più questione di equilibrismo diplomatico, ma di una precisa strategia di lungo termine che sta ridisegnando gli assetti geopolitici dell’Eurasia. L’Occidente ha perso la Turchia non per una deriva autoritaria di Erdogan, ma per una serie di errori di valutazione tipici di una civiltà che tramonta.


Fisco, pensioni, tagli. Cosa c’è in manovra (e chi ci perde meno)


(ilfattoquotidiano.it) – Seppur con procedure problematiche, a voler eufemizzare, la manovra 2025 è passata dallo stato gassoso degli scorsi giorni alla versione solida approvata ieri alla Camera. È l’ora, dunque, di un riassunto della situazione, a partire dall’obiettivo generale: in accordo coi nuovi vincoli Ue, l’idea è portare il deficit pubblico sotto il 3% del Pil nel 2026 e sotto il 2% dal 2029. Per far questo il governo ha fatto una manovra che per gran parte proroga misure già in vigore. Un breve riassunto.

Cuneo+Irpef.
Il taglio del cosiddetto “cuneo fiscale” viene riscritto per non far danni al bilancio Inps, ma alzando la soglia per il beneficio a 40 mila euro di reddito annuo: al costo di 13 miliardi di euro concede un migliaio di euro all’anno in più a lavoratore. Confermato pure il passaggio da quattro a tre delle aliquote Irpef: vale quasi 5 miliardi. Queste due misure pesano per quasi 18 miliardi sui 30 della manovra.

Natalità.
Le nascite continuano a calare e Meloni spera di invertire la rotta spendendo 1 miliardo: ci sono il bonus da mille euro per ogni neonato e la conferma decontribuzione previdenziale per le lavoratrici madri, estesa alle autonome, per chi ha Isee sotto i 40 mila euro, il rafforzamento dei congedi parentali e il bonus asili nido.

Pensioni.
Regna la legge Fornero: le uscite anticipate (Quota 103, Ape sociale e Opzione donna) saranno qualche migliaio. Pure il cumulo tra pensione pubblica e integrativa per raggiungere il minimo contributivo riguarderà pochissimi lavoratori. Gli assegni sociali degli over 70, infine, aumentano di 8 euro, per il resto delle minime l’aumento è di 1,8 euro al mese.

Spese indifferibili.
Rifinanziate le missioni militari internazionali (1,27 miliardi nel 2025 e 1,57 dal 2026), stanziati i fondi per il rinnovo dei contratti del pubblico impiego (1,2 miliardi nel 2025, 2,8 miliardi nel 2026, 4,6 nel 2027) con la positiva novità di uno stanziamento già previsto a bilancio anche per il rinnovo 2028-2030.

Welfare aziendale.
Confermata la detassazione (al 5%) dei premi di produttività e del welfare aziendale: Meloni ci investe 900 milioni l’anno.

Imprese&banche.
Insieme agli enti locali, le imprese sono le grandi sconfitte. L’hanno scorso era toccato all’Ace, lo sconto fiscale per chi reinveste gli utili (-4,8 miliardi) per finanziare il taglio dell’Irpef. In manovra viene reintrodotta con l’“Ires premiale”, ma per soli 400 milioni. Tagliata brutalmente anche la decontribuzione Sud (lo sconto si riduce al 25% e per le sole pmi, con tetto di 145 euro mensili a dipendente) che perde quasi 6 miliardi. Banche e assicurazioni contribuiscono alle coperture, con 3,4 miliardi, in buona parte un anticipo di liquidità che recupereranno dal 2027. Resta invece la superdeduzione al 120% per chi aumenta i dipendenti a tempo indeterminato, cioè un sussidio ad aziende in espansione che avrebbero assunto comunque. Prorogati anche il fondo di garanzia Pmi, i crediti per la Zes del Mezzogiorno.

Tagli.
Giorgetti li aveva promessi “significativi” e lo sono. Ai ministeri, oltre alle riduzioni di spesa già previste l’anno scorso, vengono tolti altri 7,5 miliardi in tre anni. A Regioni, Province e Comuni quasi 5. Nella moria generale sorprende la spesa per sistemi d’arma: aumenta di 7,5 miliardi nel prossimo triennio.

Salute.
Al finanziamento del Servizio sanitario nazionale vanno 1,3 miliardi di euro nel 2025, 5,1 miliardi di euro nel 2026, 5,8 miliardi di euro nel 2027, soldi che si aggiungono agli spiccioli della manovra precedente: di fatto non bastano neanche a coprire il rinnovo dei contratti di lavoro e l’inflazione. L’intenzione del Mef è stabilizzare la spesa in rapporto al Pil attorno al 6,2%: una delle più basse tra i Paesi sviluppati.

Misure “politiche”.
Hanno scarso peso finanziario, ma alto impatto mediatico: dalla cancellazione delle multe ai no-vax ai 500 mila euro di rimborsi ai ministri non eletti fino alla norma “anti-Renzi” contro i parlamentari che ricevono soldi dall’estero.

Mance.
Ai parlamentari sono stati lasciati 102 milioni in tre anni per i soliti interventi localistici. I fondi saranno assegnati con Dpcm, dentro ci finirà di tutto: dai 100 mila euro per la parrocchia di Santa Maria della Grotticella di Viterbo ai 100 mila euro per una strada da rifare a Caiazzo (Caserta).

Casa.
Bonus ed ecobonus per le prime case restano al 50% nel 2025 (al 26% nel 2026). Rinnovato il bonus mobili. La novità? Il “bonus elettrodomestici” da 100 euro.


In memoria di militi ignoti


(Michele Serra – repubblica.it) – Chissà se ci sarà mai uno scrittore, o un regista, in grado di raccontare la storia stupefacente dei circa diecimila soldati nord-coreani mandati a combattere al fianco dei russi in Ucraina. E molti a morire.

I soldati di tutte le guerre sono, al 99 per cento, pedine disperse su una scacchiera immensa e sconosciuta. Non meno stranito e sballottato di un coreano a Kursk doveva sentirsi un siciliano sul Carso nella guerra, scelleratissima, del ’15-18, crimine dei nazionalismi europei trionfanti e anticamera della carneficina della Seconda Guerra Mondiale. È la famosa carne da cannone, schiavi spediti a morire lontano da casa, come dalla notte dei tempi (che ci faceva un fante macedone alle porte dell’India, duemilaquattrocento anni fa?).

Ma in questo caso lo straniamento è aumentato dal misterioso isolamento che avvolge quel popolo silenziato, sequestrato alla storia. Riesce difficilissimo immaginare mogli, figli, case che quei giovani uomini hanno lasciato per andare a combattere la guerra di Putin. Non si sa niente di loro, non si legge un’intervista, una dichiarazione, una frase, perfino la precaria lettura del mondo che noi chiamiamo “informazione” non riesce ad arruolare quei fanti. È solo emerso, a un certo punto, che il traffico porno sul web, in quei paraggi, è molto aumentato, e tutti abbiamo pensato: poveretti, fuori dalla galera che chiamano Patria, hanno scoperto il nostro porco mondo. Mi chiedo se ci saranno mai lapidi, con nome e cognome, sopra le tombe di quei caduti. Che almeno da morti abbiano identità di persone. O neppure quella potranno avere, e a celebrarli solo una stretta di mano tra generali.


Putin non vuole tregua, anche grazie alla Nato


Putin non vuole la pace, ma ha bisogno di far credere all’Occidente che la voglia. Congelare il conflitto in questo momento sarebbe un danno irreparabile per la Russia. Ecco perché.

(Di Alessandro Orsini – ilfattoquotidiano.it) – Putin non vuole la pace, ma ha bisogno di far credere all’Occidente che la voglia. Congelare il conflitto in questo momento sarebbe un danno irreparabile per la Russia. Ecco perché.

In primo luogo, Putin ha dichiarato di voler trattare con l’Ucraina, ma non con Zelensky, il cui mandato presidenziale è scaduto molti mesi fa. Che cosa significa questa precisazione? Da una parte, Putin ha detto di voler trattare; dall’altra, ha detto che non tratterà. Putin ha attaccato Zelensky per raggiungere due obiettivi. Il primo è delegittimarlo per favorire i suoi oppositori interni, i quali potranno dire che la precondizione per salvare l’Ucraina è la sostituzione di Zelensky. Il secondo obiettivo è il rafforzamento del partito delle “colombe” in Europa, Orbán e Salvini in testa. Dicendo che desidera trattare, Putin consente ai moderati d’Europa di dire: “Basta escalation, facciamo un passo indietro”. La tecnica di Putin si chiama “prender tempo”. Putin ha bisogno che la guerra vada avanti perché l’esercito ucraino è esangue. Questo è il momento di incassare dopo avere speso tanto. In secondo luogo, Putin non può trattare con Trump prima di avere liberato Kursk con le proprie forze. La liberazione del territorio russo con la mediazione degli Stati Uniti sarebbe una manifestazione di debolezza smisurata per la Russia. Liberare Kursk con Trump significherebbe porre il Cremlino sotto la Casa Bianca. Se gli Stati Uniti sono il garante dei confini russi, i russi sono infeudati agli americani.

In terzo luogo, Putin non vuole la pace adesso perché l’Occidente si sta armando per armare l’Ucraina. L’Occidente non darebbe armi all’Ucraina nelle trattative, ma le produrrebbe nel pieno della tregua per dargliele alla prima occasione utile o in caso di necessità. L’Occidente si sta armando in funzione anti-russa. Putin lo sa perché l’Unione europea glielo dice tutti i giorni: “Noi ci stiamo armando contro di te”. Le armi che l’Occidente non dà a Zelensky oggi gliele darà domani. I nuovi Samp/T che Crosetto sta producendo non sono per l’Italia, ma per l’Ucraina. Per questi motivi, Putin ritiene che i problemi della Russia in Ucraina debbano essere risolti con la forza. Il che richiede tempo. Per esempio, il tempo per eleggere un nuovo presidente ucraino. È la stessa tecnica di Netanyahu. Annunciare la tregua tutti i giorni a Gaza per rimandarla all’infinito. L’Occidente non vuole fermare Netanyahu, pur potendo, e non può fermare Putin, pur volendo. Quindi Netanyahu e Putin vanno avanti.

In quarto luogo, Putin non vuole la pace adesso perché deve completare il riarmo della Russia per tenere testa al riarmo dell’Europa. La fine della guerra renderebbe meno sopportabile per i russi l’idea di fare sacrifici per costruire armi. I russi odiano la Nato, soprattutto dopo gli Atacms contro il loro territorio e l’invasione di Kursk. I russi farebbero ogni sacrificio per sconfiggere quel prolungamento della Nato che l’Ucraina è diventata. Trump ha l’ansia di trattare perché teme il crollo. L’idea che Trump sia schierato con la Russia è del tutto errata. Se Trump fosse schierato con Putin, si opporrebbe alla tregua perché il tempo lavora per i russi. Trump vorrebbe fermare la guerra adesso perché l’Ucraina perde territori tutti i giorni. Trump non invoca la trattativa per affossare Zelensky, ma per tirarlo fuori dalla fossa.

Finora ho spiegato che Putin ambisce al proseguimento della guerra. Tuttavia, questa non era la sua posizione iniziale. All’inizio della guerra, Putin ha cercato la trattativa per evitare gli investimenti smisurati che oggi deve fronteggiare. Ma la Nato ha esecrato la diplomazia giurando di sconfiggerlo sul campo. Kherson è stata la vera svolta con l’uso dei missili americani Himars. Putin ha capito che la Nato faceva tremendamente sul serio e ha reagito con l’investimento non voluto. Eccoci al paradosso finale: l’Unione europea si fregia tutti i giorni di avere costretto Putin a impegnare le sue risorse finanziarie nella guerra. Il Corriere della Sera scrive soddisfatto: “Visto? Il rublo si svaluta, Putin deve spendere molti soldi grazie all’intransigenza della Nato”. È vero, la Russia sta spendendo molti soldi per finanziare la sua macchina da guerra. Ed è proprio per questo motivo che l’Ucraina sarà privata delle sue regioni più ricche e dello sbocco al mare, quasi interamente. Costringendo la Russia a finanziare la sua macchina bellica, la Nato ha causato la distruzione dell’Ucraina. Il Corriere della Sera esulta per i soldi che Putin sta sborsando. Non ha ancora capito che Putin rientrerà dalla spesa con i territori ucraini. Quanto maggiori saranno i costi della Russia, tanto maggiori saranno le lacrime degli ucraini. Una classe dirigente fallita non può capirlo perché ha smarrito la capacità di ragionare.


Il caso Mattei


(Marco Travaglio – Il Fatto Quotidiano) – Se Salvini sperava nell’aureola del martire arrestato (per finta, siamo in Italia) per aver difeso i sacri confini patrii da qualche decina di derelitti, i giudici gliel’hanno negata. Se il partito dell’impunità puntava alla sua condanna per dimostrare che i giudici danno sempre ragione ai pm e dunque bisogna separarne le carriere, in due giorni è stato sbugiardato prima dal […]


Rimane la sconfitta politica


Salvini è assolto ma passate le feste nella Lega e nel governo stanno già preparando l’imboscata contro di lui.

Rimane la sconfitta politica

(di Giulio Cavalli – lanotiziagiornale.it) – Nonostante l’assoluzione, Matteo Salvini torna a casa con in tasca una sconfitta politica che non potrà negare a lungo. Dal punto di vista umanitario, un ex ministro dell’interno convinto che lasciare galleggiare in mezzo al mare dei disperati per giorni potesse risolvere il problema delle migrazioni è un’onta conosciuta oggi a livello internazionale. Il cattivismo per scoraggiare l’affollamento delle rotte migratorie non funziona e non funzionerà mai con gente che ha nel Mediterraneo l’unica rotta per poter sperare di salvarsi.

Si potrebbe dire che tutto questo non interessi ai suoi elettori e ai suoi compagni di partito. È vero. Ma il Salvini custode dei confini è un’occasione persa che non si ripeterà mai più. Il Viminale Salvini l’ha perso per sempre quando Giorgia Meloni ha deciso di relegarlo al ministero dei Trasporti regalandogli il ponte come illusorio giocattolo per tenerlo a bada. Salvini ieri ha politicamente perso perché i suoi alleati hanno preferito addirittura il suo capo di gabinetto al ministero dell’interno.

Ma anche sul campo del vittimismo il leader leghista non ha troppo spazio di manovra. Quando si tratta di rivendersi come custode della patria contro nemici più o meno immaginari Giorgia Meloni gli è irraggiungibile. Salvini è assolto ma è una vittoria languida che durerà il tempo di un paio di brindisi. Passate le feste nella Lega e nel governo stanno già preparando l’imboscata contro di lui. E in quel caso non sarà possibile fare appello.


Salvini assolto al processo Open Arms: “Il fatto non sussiste”


Accusa e difesa si sono confrontati con un ultimo intervento prima dell’ingresso del tribunale in camera di consiglio

Matteo Salvini all'ingresso dell'aula bunker (foto di Igor Petyx)

(repubblica.it) – Matteo Salvini è stato assolto dalle accuse di sequestro di persona e rifiuto di atti d’ufficio. Così ha deciso la seconda sezione penale del tribunale di Palermo presieduta da Roberto Murgia, giudici a latere Andrea Innocenti ed Elisabetta Villa. Il verdetto è arrivato dopo otto ore di camera di consiglio. Il vice premier rischiava sei anni di reclusione, una richiesta di condanna ribadita anche stamattina dai pubblici ministeri Marzia Sabella, Geri Ferrara e Giorgia Righi. Questa sera, alla lettura della sentenza, era presente anche il procuratore capo di Palermo, Maurizio de Lucia.

Processo Open Arms, Salvini assolto: “Il fatto non sussiste”

Matteo Salvini è stato assolto dalle accuse di sequestro di persona e rifiuto di atti d’ufficio. Così ha deciso la seconda sezione penale del tribunale di Palermo presieduta da Roberto Murgia, giudici a latere Andrea Innocenti ed Elisabetta Villa. Il verdetto è arrivato dopo otto ore di camera di consiglio.


Manovra, Meloni e Giorgetti si tengono il ‘tesoretto’ (nascosto) da tre miliardi per accontentare l’Europa


Quelle risorse aggiuntive sono una sorta di riserva dello Stato. Fondi non usati per tagliare l’Irpef al ceto medio. Ecco perché

(Di Alberto Maggi – affaritaliani.it) – Con la fiducia alla Camera di oggi e al Senato di settimana prossima, appena prima di Capodanno per evitare l’esercizio provvisorio, si chiude anche quest’anno la solita telenovela della Legge di Bilancio. Tra vertici di maggioranza, emendamenti che spuntano come funghi, pasticci, incomprensioni e scarsa comunicazione tra relatori e ministero dell’Economia (stando almeno a fonti della stessa maggioranza). Ma è sempre stata così la manovra economica, fin dalla Prima Repubblica.

Di certo c’è, come ha scritto ieri Affaritaliani.it, che la strategia del ‘wait and see’ del titolare del Mef Giancarlo Giorgetti con la premier Giorgia Meloni ha consentito di depennare moltissime modifiche al testo originale anche se ha inevitabilmente allungato i tempi. Ma la presidente del Consiglio sapeva benissimo che saremmo finiti in zona Cesarini e l’importante era salvare l’impianto della Finanziaria.

E questo risultato l’ha ottenuto con piccolissime concessioni come l’intervento sull’Ires incrementale per le aziende, accontentando Forza Italia e Confindustria (in parte) e il provvedimento sulle pensioni e il secondo pilastro del sottosegretario Claudio Durigon per lasciare il lavoro a 64 e non a 67 anni. Non una svolta clamorosa, ma qualcosa che soddisfa la Lega e che in prospettiva e nei prossimi anni potrà riguardare sempre un maggior numero di lavoratrici e di lavoratori per superare per sempre l'”odiata” Legge Fornero.

Grande delusione invece sul taglio dell’aliquota Irpef dal 35 al 33% per il ceto medio, sopra i 40mila euro lordi l’anno, e per sulle pensioni minime con la mancetta di tre euro in più al mese da gennaio 2025. D’altronde dal concordato fiscale sono arrivati solo 1,6 miliardi euro e per ridurre le tasse fino a 50mila euro ne servono 2,5 e fino a 60mila 4. Forza Italia tornerà alla carica e già a febbraio si farà una ricognizione per capire se sarà possibile intervenire per decreto. Ma ciò che nessuno dice è che al Mef, in piena sintonia con Palazzo Chigi, c’è un ‘tesoretto’ intorno ai tre miliardi di euro – poi ovviamente le voci sono diverse ma questa dovrebbe essere la cifra – che né Giorgetti né Meloni hanno voluto utilizzare nella Legge di Bilancio.

Il motivo? Quelle risorse aggiuntive sono una sorta di riserva dello Stato. Prima di tutto perché non si sa mai e potrebbero servire in caso di catastrofi naturali o terremoti o eventuali interventi d’urgenza. Ma a parte questo aspetto quasi ovvio c’è dietro l’Unione europea. Con la produzione industriale in calo da 21 mesi consecutivi e con la Germania e la Francia in gravissima crisi economica con un quadro politico incerto sia a Berlino che a Parigi il 2025 potrebbe riservare brutte sorprese in termini di crescita economica. E laddove il Pil dovesse, ipotesi non affatto remota, deludere le attese anche e soprattutto per effetti esterni all’Italia, il governo deve avere dei fondi a disposizione per rispettare i rigorosi impegni presi con Bruxelles sul rientro dal deficit e dal debito pubblico in base alle nuove regole del Patto di Stabilità.

Non solo, questo impegno si inquadra anche nell’accordo tra Meloni e Ursula von der Leyen che ha portato la presidente della Commissione europea a battersi con le unghie contro i socialisti Ue per difendere Raffaele Fitto vice-presidente esecutivo della Commissione. Portato a casa il risultato, ora la premier deve garantire Bruxelles sui conti pubblici. Ed ecco perché quel ‘tesoretto’ da circa tre miliardi non è stato usato per la manovra e soprattutto per ridurre le tasse anche al ceto medio. Vincono la prudenza europeista di Meloni e Giorgetti (e gli impegni presi con Ursula).


Giorgia Meloni, ieri con la febbre a Bruxelles oggi nella Lapponia di Babbo Natale


La premier volerà in un villaggio sami di 350 anime invitata dal premier finnico, Petteri Orpo, che ha organizzato un inedito vertice “Nord-Sud” dell’Ue

(Lorenzo De Cicco – repubblica.it) – Saariselkä (Finlandia) – Nella terra di Babbo Natale (con la figlia Ginevra) per parlare di migranti, a tre giorni dall’antivigilia. Giorgia Meloni è arrivata nel primo pomeriggio qui in Lapponia, temperatura minima -22 gradi, reduce da una febbraccia che l’ha costretta ad abbandonare ieri i lavori del consiglio europeo a Bruxelles. A 260 chilometri a nord del circolo polare artico, la premier approda per affrontare questioni in teoria spinose, in una località che sembra uscita da una fiaba e che a dirla tutta di migranti scarseggia. Anzi, a occhio non ci sono proprio. Saariselkä è un villaggio sami di 350 anime, sole zero in questo periodo dell’anno, renne al pascolo, igloo col soffitto di vetro sepolti dalla neve, l’immancabile casa di Santa Claus (anche se il “villaggio doc” di Babbo Natale – i finlandesi su questo non ammettono imprecisioni – è 250 chilometri più a sud, a Rovaniemi).

Che ci fa la presidente del Consiglio italiana tra queste lande ghiacciate che in passato, soprattutto durante la guerra fredda, hanno ospitato leader come BreznevFord e persino il palestinese Arafat, altra epoca, altro contesto storico, a ridosso del cenone? L’ha invitata il premier finnico, Petteri Orpo, che qui ha organizzato questo inedito vertice “Nord-Sud” dell’Ue. Si tratta in sostanza di un summit a quattro – Finlandia naturalmente, più Svezia da un lato, Italia e Grecia dall’altro. Summit a quattro, che avrebbe dovuto svolgersi lo scorso aprile, hanno raccontato fonti italiane nei giorni scorsi, ma per motivi di agenda è stato rimandando e fissato il 21 e 22 dicembre, proprio sotto Natale. Ci sono dunque il primo ministro greco Kyriakos Mitsotakis, lo svedese Ulf Kristersson e l’Alto rappresentante Ue per la politica estera, Kaja Kallas. Più Meloni.

Non si ricordano visite di un premier italiano a queste latitudini, così a nord insomma. Potrà dire, Meloni, “abbiamo fatto la storia”. Certo è difficile immaginare che da una sperduta località lappone, a un’ora e mezzo di volo da Helsinki, più mezz’ora abbondante di torpedone nello stradone imbiancato che corre in una foresta di conifere gelate, il quartetto politico cavi fuori dal cilindro la soluzione “all’immigrazione irregolare di massa”, chiodo fisso della leader di FdI. Ma chissà, è pur sempre Natale. E se si è fortunati, si può vedere l’aurora boreale.


“I clienti hanno paura del nuovo Codice della Strada, bevono di meno. Si preferisce il calice alla bottiglia, superalcolici già in calo”: l’allarme dalle Langhe


A lanciare l’allarme – dalle pagine di Repubblica – è Ferruccio Ribezzo, presidente del Consorzio Turistico Langhe Monferrato Roero, che registra un calo di presenze tra i turisti

(ilfattoquotidiano.it) – Il 14 dicembre è entrato in vigore il nuovo Codice della Strada e con esso è arrivata una stretta contro la guida in stato di ebbrezza o sotto l’effetto di droghe. Tanto che ora, a meno di una settimana dall’introduzione, gli effetti già si sentono. A lanciare l’allarme – dalle pagine di Repubblica – è Ferruccio Ribezzo, presidente del Consorzio Turistico Langhe Monferrato Roero, che registra un calo di presenze tra i turisti, intimoriti dalla possibilità di essere “pizzicati” dall’alcoltest dopo una degustazione.

“È una questione di sicurezza, e sulla sicurezza non si scherza“, dichiara Ribezzo, sottolineando l’importanza di un consumo responsabile. “Il nostro territorio ha sempre proposto esperienze qualificate: l’abuso di alcol non rientra nei nostri meccanismi di promozione”. Eppure, la paura di superare il limite consentito sembra frenare gli enoturisti, con ripercussioni sull’intero settore. L’impatto delle nuove norme si fa sentire tra ristoratori e produttori vinicoli, che notano un cambiamento nei comportamenti dei clienti. Davide Palluda, chef stellato dell’Enoteca di Canale nel Roero, riflette: “È ovvio che nessuno deve guidare ubriaco o incapace di farlo, ma un po’ di paura nei clienti l’abbiamo notata. Si preferisce il calice alla bottiglia, e credo che il consumo di superalcolici, già in calo, diminuirà ulteriormente”. Palluda intravede una possibile soluzione: “Come in altri Paesi, ci si organizzerà per alternarsi alla guida. Certo, per una coppia sarà più complicato”.

Anche altri ristoratori confermano il trend. Beppe Rambaldi, chef a Villar Dora, racconta: “Possiamo confermare che i tavoli stanno bevendo decisamente molto meno. La preoccupazione c’è, anche se capisco l’obiettivo di limitare gli incidenti. Tuttavia, perdiamo clienti che arrivano da Torino o altre città. Una soluzione potrebbe essere un servizio di trasporto pubblico più efficiente, ma al momento non esiste“. E così diversi operatori stanno già cercando di correre ai ripari, da una parte organizzandosi con transfer e navette, dall’altra aumentando l’offerta delle alternative analcoliche.

LE NORME
Giova ricordare che qualora si venisse sorpresi a guidare con tasso alcolemico compreso tra 0,5 e 0,8 grammi per litro è prevista una multa da 573 a 2.170 euro e sospensione della patente per un periodo compreso tra 3 e 6 mesi. Con alcolemia tra 0,8 e 1,5 grammi per litro si rischia l’arresto fino a sei mesi e una ammenda da 800 a 3.200 euro, oltreché la sospensione della patente da 6 a 12 mesi. Con alcolemia di 1,5 grammi/litro, è previsto l’arresto da 6 mesi a 1 anno, un’ammenda che varia da 1.500 a 6.000 euro e sospensione della patente per un periodo compreso tra 1 e 2 anni. Inoltre, qualunque violazione comporta una decurtazione di 10 punti dalla patente.