
(ANSA) – WASHINGTON, 05 DIC – Il Dipartimento di Stato americano ha approvato la possibile vendita all’Italia di missili aria-terra con gittata estesa e relative attrezzature per un costo stimato di 301 milioni di dollari. L’Agenzia per la cooperazione alla sicurezza della Difesa americana ha notificato il via libera al Congresso. I missili sono prodotti dalla Lockheed Martin.
La possibile vendita, si legge in una nota del Dipartimento di Stato americano, “sosterrà gli obiettivi di politica estera e di sicurezza nazionale degli Stati Uniti, migliorando la sicurezza di un alleato della Nato che rappresenta una forza per la stabilità politica e il progresso economico in Europa”. Inoltre, si sottolinea “migliorerà la capacità dell’Italia di affrontare le minacce attuali e future, fornendo sistemi d’attacco avanzati a lungo raggio da impiegare sui caccia italiani, inclusi, a titolo esemplificativo ma non esaustivo, gli F-35”.

(Giuseppe Gagliano – lafionda.org) – La nuova Strategia di sicurezza nazionale degli Stati Uniti, pubblicata nel novembre 2025, è un testo che pretende di essere una bussola per i prossimi anni, ma finisce per somigliare più a una dichiarazione d’intenti ideologica che a un vero manuale di sopravvivenza in un mondo complesso e frammentato. Dietro il linguaggio solenne, le celebrazioni dell’“America forte” e i toni autocelebrativi, si intravede una potenza che fatica a riconoscere i propri limiti e a convivere con la fine della propria supremazia indiscussa.
Il documento parte da un atto d’accusa contro le élite del dopo guerra fredda: avrebbero inseguito il miraggio di un dominio planetario permanente, sacrificando industria nazionale, classe media e credibilità internazionale. Per rimediare, la nuova linea propone un ritorno alla “priorità degli interessi nazionali” e al rifiuto di istituzioni e vincoli sovranazionali. Ma, invece di produrre una vera ricalibratura, questa svolta rischia di diventare solo una versione più dura e più chiusa dello stesso universalismo americano: la convinzione che la sicurezza degli Stati Uniti coincida con l’ordinamento del mondo secondo criteri stabiliti a Washington.
Sovranità come parola magica
La parola chiave della nuova dottrina è “sovranità”. Sovranità dei confini, del mercato interno, del sistema energetico, delle filiere industriali, perfino del discorso pubblico, visto come minacciato da potenze straniere, piattaforme digitali e organizzazioni internazionali. Non è solo una preoccupazione legittima, dopo decenni di delocalizzazioni e dipendenze strategiche: è una vera ossessione.
Ogni fenomeno viene ricondotto alla stessa matrice: migrazioni di massa, accordi commerciali, organismi multilaterali, intese sulla tutela del clima, tutto sarebbe un modo per indebolire l’identità e la sicurezza statunitensi. Da qui discende la volontà di rompere con la stagione del “libero commercio” e del multilateralismo e di tornare a una gestione bilaterale, transazionale e contingente dei rapporti esterni.
Il problema è che questo ritorno alla sovranità assoluta è pensato solo per gli Stati Uniti. Il documento proclama di difendere la piena legittimità di ogni Stato a perseguire i propri interessi, ma di fatto nega lo stesso diritto quando quegli interessi non coincidono con quelli di Washington. La libertà degli altri si ferma dove cominciano i corridoi energetici, le filiere di approvvigionamento e gli spazi di manovra militare voluti dagli Stati Uniti.
L’emisfero occidentale come cortile di casa
Il capitolo sul continente americano è il più esplicito: si annuncia una sorta di “corollario” alla dottrina Monroe, con cui gli Stati Uniti si arrogano il diritto di impedire a potenze esterne di possedere infrastrutture strategiche, basi, porti, reti di comunicazione o risorse chiave in tutto l’emisfero.
L’obiettivo dichiarato è la stabilità: bloccare i flussi di droga, gestire la migrazione, garantire catene di approvvigionamento sicure. Ma lo strumento scelto è un misto di pressione militare, economica e diplomatica che lascia ben poco spazio alla sovranità degli altri. Si parla di “arruolare” Paesi della regione per stabilizzare aree di crisi, ospitare forze statunitensi, adattare la propria politica industriale alle priorità di Washington.
Non è una novità: la storia dell’America latina è piena di colpi di Stato, interventi mascherati, pressioni economiche. La differenza è che, oggi, sullo stesso terreno agiscono anche Cina, Russia, Turchia, monarchie del Golfo. Pensare di poterli cacciare tutti con qualche tariffa, qualche base navale e qualche prestito agevolato significa non capire che, per molti governi latinoamericani, la competizione tra potenze è diventata un’opportunità, non una minaccia.
Asia: contenere la Cina senza dirlo
Il capitolo asiatico è in apparenza improntato alla moderazione. Si afferma di non voler la guerra con la Cina, ma di voler “riequilibrare” i rapporti economici, proteggere le filiere critiche, coordinarsi con alleati e partner per impedire qualsiasi forma di dominio regionale. Dietro la prudenza lessicale, però, c’è un obiettivo chiarissimo: contenere l’ascesa cinese in ogni settore.
Economia, tecnologia, finanza, spazio, mari: la regione del Pacifico viene descritta come il teatro decisivo del secolo. Il testo insiste sulla necessità di un sistema di alleanze che vada dal Giappone all’India, dall’Australia alla Corea, passando per i Paesi dell’Associazione del sud-est asiatico, legati tra loro da accordi militari, cooperazione industriale, progetti infrastrutturali e regole comuni sulle esportazioni sensibili.
Ma è proprio qui che la strategia mostra il fianco. Molti di questi Paesi hanno rapporti vitali con la Cina, sia commerciali sia finanziari. Accettare fino in fondo la logica americana del “disaccoppiamento” significherebbe mettere a rischio intere economie, catene logistiche, stabilità politiche già fragili. Washington chiede loro di aumentare la spesa militare, di offrire basi e porti, di esporsi nella confrontazione con Pechino. In cambio promette accesso al mercato statunitense, trasferimenti tecnologici, garanzie di sicurezza.
Ma non è affatto scontato che l’Asia voglia farsi trascinare in una nuova guerra fredda. Molti governi, dall’India all’Indonesia, puntano a un gioco multipolare: cooperare con gli Stati Uniti su difesa e tecnologia, senza rompere con la Cina sul piano commerciale. Pretendere un allineamento totale rischia di spingerli proprio tra le braccia di Pechino, o di rafforzare la loro tentazione di restare neutrali in caso di crisi su Taiwan.
Europa tra paternalismo e diffidenza
La parte dedicata all’Europa è impietosa. Si descrive un continente in declino demografico, schiacciato da apparati burocratici sovranazionali, paralizzato da politiche migratorie giudicate suicidarie, prigioniero di dirigenti che censurano il dissenso e soffocano la libertà di espressione. La critica al “modello europeo” è così radicale da sfiorare il disprezzo.
Eppure, al tempo stesso, si sottolinea che l’Europa resta “vitale”: mercato centrale per le esportazioni statunitensi, culla di industrie avanzate, infrastrutture, ricerca scientifica. In altre parole: un alleato indispensabile, ma considerato inaffidabile sul piano politico e culturale.
La guerra in Ucraina è il banco di prova. La strategia riconosce che il conflitto ha reso l’Europa più dipendente dall’esterno per energia e sicurezza e che ha aggravato le divergenze interne. Per questo indica come priorità la chiusura relativamente rapida delle ostilità, il ripristino di una stabilità strategica con la Russia e la ricostruzione di un’Ucraina “viabile”. L’interesse centrale, detto senza troppi giri di parole, non è tanto il destino di Kiev quanto la necessità di evitare che l’Europa rimanga intrappolata in una paralisi economica e politica che indebolirebbe l’intero blocco occidentale.
Qui emerge una contraddizione di fondo: da un lato si pretende che gli alleati europei aumentino la spesa militare fino a livelli molto superiori a quelli finora ritenuti accettabili; dall’altro lato si guarda con sospetto a leadership e governi ritenuti incapaci o poco legittimati. Si chiede all’Europa di essere forte, ma non autonoma; responsabilizzata, ma sotto tutela; “grande” solo nella misura in cui resta allineata alla linea statunitense sulla Russia, sulla Cina, sull’energia, sul commercio.
Medio Oriente: dalla guerra alla gestione del rischio
Per mezzo secolo il Medio Oriente è stato il centro della politica estera americana. Il nuovo documento proclama che questa epoca è finita: grazie alla produzione energetica interna e agli accordi con Israele e monarchie del Golfo, la regione sarebbe ormai meno decisiva. In realtà, la strategia non si traduce in un vero disimpegno, ma in una diversa gestione del rischio.
Iran viene descritto come potenza indebolita dalle ultime operazioni israeliane e dalle azioni statunitensi contro il suo programma nucleare. La questione palestinese è presentata come in fase di “normalizzazione” grazie all’intesa per il cessate il fuoco e alla prospettiva di nuove intese tra Israele e Paesi arabi. La Siria è vista come potenziale candidato a una stabilizzazione guidata dagli attori regionali con il sostegno di Washington.
Dietro le formule ottimistiche restano però aperte tutte le fratture storiche: rivalità tra potenze regionali, fratture confessionali, milizie armate, sistemi politici autoritari. Gli Stati Uniti dichiarano di voler trattare i partner del Medio Oriente “così come sono”, senza più pretendere di esportare modelli democratici. In pratica, accettano regimi poco trasparenti purché garantiscano corridoi energetici, basi, cooperazione contro il terrorismo e, soprattutto, allineamento nel confronto con Iran, Russia e Cina.
La promessa è quella di ridurre le “guerre senza fine” e di sostituirle con accordi diplomatici mirati. Ma l’esperienza degli ultimi decenni insegna che, quando la regione entra in una fase di crisi, le stesse potenze che oggi puntano alla “gestione del rischio” finiscono per essere risucchiate in spirali di intervento sempre più profonde.
Africa: risorse prima delle persone
Il capitolo sull’Africa è breve ma rivelatore. Gli Stati Uniti annunciano di voler passare da una logica di aiuto allo sviluppo a una logica di investimenti e scambi, privilegiando i Paesi giudicati “affidabili” e pronti ad aprire i propri mercati a imprese e tecnologie statunitensi.
Si insiste sulle potenzialità del continente in termini di minerali critici, energia, crescita demografica. Si parla di accordi nel settore nucleare civile, del gas, delle infrastrutture. Tutto giusto, in teoria. Ma il documento dedica pochissimo spazio alla questione della governance, delle disuguaglianze interne, dei conflitti locali. L’Africa appare come un grande magazzino da cui estrarre materie prime e consenso diplomatico, non come un insieme di società complesse, con interessi propri, memorie di colonizzazione, nuove classi dirigenti che non intendono più essere solo destinatarie di progetti decisi altrove.
Il rischio è evidente: se l’unico parametro di scelta sarà la fedeltà alla linea statunitense, la competizione con Cina, Russia, India, Turchia e monarchie del Golfo non farà che accentuare la frammentazione interna al continente, alimentando nuovi “clientelismi” geopolitici anziché sostenere una crescita autonoma.
Il mito dell’“economia come arma totale”
In tutto il documento si respira l’idea che l’economia possa e debba essere usata come strumento integrale di potere. Tariffe, controlli sulle esportazioni, sanzioni finanziarie, incentivi fiscali, controllo delle filiere: tutto viene concepito come parte di un’unica macchina di pressione, da attivare verso avversari, ma anche verso alleati recalcitranti.
Si promette una grande “reindustrializzazione” interna: riportare in patria produzioni strategiche, rilanciare l’industria degli armamenti, garantire energia abbondante e a basso costo grazie a idrocarburi e nucleare, respingere le politiche di riduzione delle emissioni considerate un regalo ai rivali. È un programma ambizioso, che però si scontra con due ostacoli.
Il primo è sociale: riportare fabbriche e catene produttive negli Stati Uniti richiede non solo investimenti pubblici e privati, ma anche manodopera qualificata, infrastrutture, sistemi educativi, alloggi, servizi. Non basta alzare i dazi per far ricomparire miracolosamente l’industria primaria e quella pesante. Il secondo ostacolo è internazionale: un uso sempre più esteso di sanzioni, blocchi e condizionamenti può spingere gli altri attori a costruire sistemi alternativi di pagamento, nuove valute di riferimento, accordi commerciali sganciati dal dollaro. La supremazia finanziaria statunitense, che il documento dà quasi per scontata, è proprio ciò che viene messo in discussione da questa strategia aggressiva.
Potere morbido in crisi
Curiosamente, in mezzo a tante parole d’ordine muscolari, il testo riconosce anche l’importanza del potere morbido: la capacità degli Stati Uniti di attrarre con cultura, scienza, innovazione, modelli di vita. Ma la soluzione proposta per “rafforzare” questo potere è quasi esclusivamente morale: recuperare l’orgoglio nazionale, esaltare il passato, respingere la critica interna, schiacciare quelli che vengono percepiti come movimenti “antiamericani” dentro il Paese stesso.
È una contraddizione evidente. Il potere morbido statunitense è nato, storicamente, proprio dalla capacità di presentarsi come società aperta, autocritica, capace di mettere in discussione le proprie ingiustizie. Chiudere gli spazi di dissenso in nome della sicurezza nazionale significa indebolire quella forza di attrazione, trasformando la democrazia americana in una fortezza assediata che non ammette dubbi.
Una strategia di transizione, non di visione
In conclusione, la Strategia di sicurezza nazionale del 2025 è un documento che fotografa perfettamente il momento storico degli Stati Uniti: una grande potenza che non si rassegna a essere “una” delle potenze, che vuole difendere il proprio primato con tutti gli strumenti possibili, ma che al tempo stesso non offre una visione condivisibile del futuro.
Il testo denuncia gli eccessi del globalismo, ma propone solo una sua versione ristretta e gerarchica, dove il mondo continua a essere diviso tra chi comanda e chi deve allinearsi. Invoca la fine delle guerre infinite, ma non rinuncia all’idea di poter gestire dall’alto i conflitti altrui, scegliendo di volta in volta quali meritino un cessate il fuoco e quali una pressione ulteriore.
Soprattutto, resta prigioniero di una certezza: che l’ordine mondiale sia legittimo solo quando coincide con l’interesse nazionale americano. È una posizione comprensibile per una potenza abituata a decenni di supremazia, ma difficilmente sostenibile in un sistema internazionale che, piaccia o no, è già entrato in una fase multipolare.
L’America potrà ancora pesare moltissimo, forse più di chiunque altro. Ma non potrà più decidere da sola le regole del gioco. Una vera strategia dovrebbe partire da qui. Questa, al contrario, è ancora un tentativo di tenere vivo un mondo che non esiste più.
Gli studenti tedeschi protestano contro il ritorno della leva. Nelle piazze, una generazione sta mostrando di aver capito prima degli adulti.

(di Giulio Cavalli – lanotiziagiornale.it) – È nelle ore in cui gli studenti tedeschi marciano in più di sessanta città contro la riforma della leva che si misura la profondità della frattura europea. «Non vogliamo diventare carne da cannone!» è il coro che attraversa Berlino mentre il Bundestag approva una legge che obbliga tutti i maschi nati nel 2008 a rispondere ai formulari militari dal 2026 e a presentarsi alla visita di leva dal 2027. L’obiettivo è portare la Bundeswehr fino a circa 260mila soldati entro il 2035, con altri 200mila riservisti pronti all’attivazione. Non è amministrazione: è un destino immaginato per una generazione.
Intanto, a Torino, l’industria della difesa festeggia la sua edizione “dei record”: oltre tremila partecipanti, più di ottocento aziende, trecento buyer. Tra caccia in scala reale, droni per l’addestramento e componenti per missili, i rappresentanti del settore spiegano che la domanda “cresce rapidamente” e che i conflitti aperti stanno accelerando gli affari. Fuori, gli attivisti incatenati ai cancelli ricordano che la filiera militare prospera sempre quando il mondo brucia.
In Italia, il ministro della Difesa Guido Crosetto ripete che vanno aumentate le forze armate e che serve una parte kombat sempre più ampia. Nello stesso discorso evoca la necessità di nuove missioni all’estero, di riserve civili integrate, di meccanismi di reclutamento più flessibili. La prospettiva è chiara: costruire un Paese che considera il ricorso alla forza una normalità operativa, un requisito strutturale.
È questo l’orizzonte in cui l’Europa continua a muoversi: dichiara di volere la pace mentre rialza la leva, ingrassa l’industria militare, organizza la gioventù come un database da cui attingere in tempi di crisi. Non c’è discussione pubblica, solo la retorica dell’“inevitabile”, che trasforma ogni passo verso la militarizzazione in un obbligo morale.
Eppure, nelle piazze tedesche, una generazione sta mostrando di aver capito prima degli adulti. Rifiuta la logica del sacrificio come condizione d’ingresso nella cittadinanza. Si sottrae al ruolo di combustibile. E indica l’unica verità che l’Europa si ostina a non vedere: giocare con il fuoco resta il modo più sicuro per bruciarsi.
Pesa la deindustrializzazione mentre una fascia crescente della popolazione si impoverisce

(Chiara Saraceno – lastampa.it) – Quest’anno il Censis ha dedicato la consueta metafora con cui sintetizza l’immagine di una società e un’epoca non all’Italia, ma al mondo: una «età selvaggia», «del ferro e del fuoco», preda di «pulsioni antropologiche profonde» che poco o nulla hanno di razionale.
Una lettura di sicuro effetto comunicativo, ma che temo segua troppo la strada facile dell’imputazione di irrazionalità a processi che indubbiamente stanno squassando equilibri, rapporti di potere, procedure, istituzioni che sembravano consolidati. Ne deriva un’immagine di “barbari alle porte” e di imminente Apocalisse di cui gli italiani, non è chiaro se perché inguaribilmente sventati o testardamente resilienti, tuttavia sembrano non essere particolarmente spaventati secondo la lettura del Censis. E sì che, oltre alle guerre non più solo in Paesi lontani, ma anche vicinissimi, l’Italia ha problemi suoi non piccoli: una de-industrializzazione strisciante, un invecchiamento demografico inarrestabile, un impoverimento di una fascia crescente della popolazione, un debito pubblico di proporzioni mostruose che riduce lo spazio per gli investimenti per la crescita e il welfare.
In realtà, a leggere i dati, più che non spaventati gli italiani sembrerebbero sfiduciati nella capacità delle istituzioni di risolvere i loro problemi e rassegnati a dover contare solo sulle proprie risorse.
Se il 53% ritiene che l’Ue ormai abbia un ruolo marginale nello scacchiere mondiale, oltre il 70% condivide la sfiducia nei confronti dei partiti e dei loro leader, cosa che può spiegare i tassi di assenteismo elettorale ed anche la diffusione dell’idea che la democrazia abbia fatto il suo corso: non (solo) per voglia di autoritarismo, credo, ma per sconforto rispetto a chi dovrebbe concretamente farla vivere e funzionare con un’idea del bene comune e azioni coerenti. Un bene comune che invece si sperimenta sempre più evanescente quando riguarda bisogni primari.
Il 78,5% esprime sfiducia nei confronti di servizi sanitari e assistenziali, ritenendo che, se si trovasse in condizione di non autosufficienza, non potrebbe contare su adeguati sostegni. Una sfiducia drammatica, ancorché purtroppo fondata, in una società in cui gli anziani e i grandi anziani, i più vulnerabili al rischio di non autosufficienza, sono un numero sempre più consistente. Lo stesso vale per i rischi ambientali: il 72,3% crede che, in caso di eventi atmosferici estremi o catastrofi naturali, gli aiuti finanziari dello Stato sarebbero insufficienti. Anche in questo caso, le esperienze anche recenti di disastri ambientali, il ritardo degli aiuti il rimpallo delle responsabilità ha contribuito a minare la fiducia in uno Stato sempre pronto ai condoni, ma troppo spesso inadempiente rispetto ai diritti e ai bisogni.
È a motivo di questa sfiducia che oltre la metà del campione intervistato ritiene che sarebbe necessario assicurarsi privatamente contro queste evenienze, anche se la maggior parte non lo fa, per scarsità di risorse o per fatalismo. Ma intanto si erode anche la fiducia nel welfare, indebolendo ulteriormente la legittimità del prelievo fiscale. Un rischio che dovrebbe preoccupare i governanti, che invece troppo spesso, tra un condono e una regalia a questo o a quel particolare gruppo sociale si dedicano loro stessi a delegittimarlo, anche se non ne diminuiscono il peso.
Gli italiani avranno anche una vita sessuale attiva e soddisfacente, come segnala il Rapporto, quasi fosse un segno della loro non volontà di prendere sul serio i molti segnali negativi da cui sono circondati. Ma ciò non toglie la fatica del vivere e la difficoltà a programmare il futuro, specie per i giovani. La sfiducia nelle istituzioni e la percezione di marginalità dell’Italia e dell’Unione Europea non sembra offrire alternative al limitarsi a vivere giorno per giorno.

(Tommaso Merlo) – Per essere sicuri non dobbiamo armarci, ma sbarazzarci di quei politicanti che ci stanno trascinando verso la terza guerra mondiale. È questa la priorità, fermarli prima della catastrofe. A quel punto vanno immediatamente ripristinati rapporti di amicizia con la Russia. Vicina con la quale condividiamo secoli di storia e con cui abbiamo reciproco interesse a condividerne altrettanti in futuro. Siamo sicuri collaborando con Russia, non sfidandola e ci conviene pure economicamente. Altro che deliri bellici, la disfatta occidentale in Ucraina va sfruttata per lanciare una ribellione democratica che porti ad un cambiamento radicale. Milioni di cittadini non aspettano altro, ma per non ripetere gli stessi errori, dobbiamo capire le cause del baratro in cui siamo precipitati. Al momento la nostra più grande minaccia è la Nato, una organizzazione storicamente superata che invece di difenderci è diventata la banda della lobby della guerra che da decenni ci trascina in conflitti che giovano solo ai produttori e venditori di armi. Ma la Nato come la Commissione Europea, sono solo due esempi di furti di sovranità popolare. Stiamo subendo un tradimento democratico epocale. Tra cittadini e lobby, la politica oggi serve le lobby, non i cittadini. Un po’ per incapacità, un po’ per tornaconto e un po’ perché costretti dal sistema. Prima incassano voti e poltrone, e poi si accodano vigliaccamente a cordate sovranazionali, a deliri ideologici e pensieri unici neoliberisti e bellicisti. La folle guerra in Ucraina è un caso scuola. Una guerra facilmente evitabile e che non voleva nessuno, eppure l’hanno fatta lo stesso mentendo perfino sulle sue vere cause. Manipolando la realtà e buttando nel cesso miliardi di soldi pubblici di cittadini già sulla soglia della povertà. E se nessuno li ferma, ci trascineranno dritti verso la terza guerra mondiale. È questa la priorità. Se le lobby hanno più potere dei cittadini, non è democrazia, è mafia lobbistica. In una vera democratica, la sovranità appartiene esclusivamente al popolo, senza interferenze e senza ambiguità. Altro che deliri bellici, la politica deve tornare ad essere una cosa seria, fatta da cittadini comuni, per i cittadini comuni. Il carrierismo partitocratico è uno dei mali peggiori del nostro tempo perché crea insulse caste privilegiate che non avendo nemmeno il senso della vergogna, diventano irremovibili e permettono alle incrostazioni lobbistiche di dilagare. Quanto all’altra parte dell’oceano, bisogna ringraziare Trump per l’impegno con cui sta distruggendo l’Impero statunitense e l’alleanza atlantica. Dopo decenni di fallimentare leadership americana che ha reso il mondo più ingiusto ed insicuro che mai, tocca al dragone giallo e per noi vecchi europei si apre una grande opportunità per riprenderci le redini del nostro destino. Basta col delirante turbocapitalismo a stelle e strisce che produce demenziali oligarchie e giungle commerciali. Torniamo ai capisaldi costituzionali delle nostre repubbliche, alla sapienza dei nostri avi e al buonsenso economico e sociale. Oltre che delle lobby, ci dobbiamo liberare dal casinò finanziario globale che ci ricatta e dalle illusioni consumistiche. Fine della politica è garantire la migliore qualità della vita possibile ai cittadini, ma quella vera non quella dei grafici finanziari, e favorire una società sempre più giusta e sana. Serve una visione anche filosofica più profonda di quello che questo sistema superficiale e moralmente marcio riesce a concepire. La disfatta in Ucraina è una opportunità storica per lanciare una ribellione pacifica e democratica che porti ad un cambiamento politico radicale. I milioni di cittadini che non votano nemmeno più, non aspettano altro che nuove proposte all’altezza e chiunque abbia mezzi e capacità non deve perdere tempo. I partiti esistenti sono facce della stessa medaglia di tolla. Sono anni che si alternano coalizioni e poi non cambia mai nulla, e questo perché in tempi di pensiero unico il banco vince sempre. Serve una forza politica esterna che dal basso abbia l’ambizione rivoluzionaria di ristabilire la normalità democratica e cioè il dominio della politica sull’economia, del bene pubblico su quello privato e che esalti la sovranità e la partecipazione popolare invece di sedarle. Una politica che investa nella pace invece che nella guerra, rilanciando l’amicizia con la Russia e riprendendo la strada virtuosa che parte dalla fine della seconda guerra mondiale ma anche dentro di noi.

(Giancarlo Selmi) – La 7. Televisione che cerca di captare ciò che resta del pensiero di sinistra. Una manovra più furba che sentita, capitanata da un uomo di Berlusconi che, detto per onorare il vero, è editore del giornale principe del mainstreem italiano. Il Corriere della Sera, foglio di rappresentanza del riarmo e degli interessi che gravitano intorno alle industrie delle armi.
Quando si parla de La7 e del Corriere, non si tratta della legittimità di pareri o di quanto sia legittimo esporre un opinione, si tratta di come si tenti di influenzare la pubblica opinione, con l’obiettivo di fare diventare predominante e unica la loro opinione. Molti spettatori de La7, quelli dichiaratamente di sinistra, sono contenti perché quella televisione parla male della Meloni, finendo per dimenticare le evidenti operazioni di manipolazione.
Vi faccio un esempio: oggi il tema principale è stato quanto Giuseppe Conte, con riferimento al possibile dibattito in Atreju, abbia sabotato il tentativo della Schlein di accreditarsi come unica oppositrice della Meloni. Tiziana ridens Panella ha definito l’iniziativa di Conte “fuoco amico” e ha cercato in tutti i modi di coinvolgere, senza successo peraltro, il povero De Angelis in un commento negativo sul leader politico dei cinque stelle. Come se il primato spettasse per diritto divino alla Schlein e a Conte spettasse solo il dovere dell’inchino.
La cosa è proseguita nel più tragico programma satirico della storia. Un programma che possiede una sola genialità, il nome: Propaganda. Dove la satira è utilizzata in un unico senso. E diventa più una leccatina del culo degli amici e puntuali stoccate ai nemici. E fra i nemici, oltre al facile e scontato lavoro su Salvini, rientra il solito Giuseppe Conte. Nulla di nuovo, peraltro. Floris fa anticipare un’intervista a Conte da una squallida esibizione di due tipi che hanno deciso di essere comici senza riuscirci. Una roba da barzellette stupide da terza elementare, con Floris che rideva in perfetta solitudine.
Il problema, bisogna rendersene conto, è il riarmo. Questo è il tema principe. Conte è un nemico perché a quel riarmo si oppone e perché in un panorama che include tutto meno che la sinistra, quella vera, quella amica della pace e della qualità di vita, Conte è l’unico che, pur definendosi “progressista”, cosa che mi trova d’accordo, è l’unico a dire “cose di sinistra”. La7 la sinistra la scimmiotta e ama la guerra che di sinistra certamente non è.
La proposta avanzata da una parte dei dem sono una minaccia per la democrazia e la libertà d’opinione

(ANNA FOA – lastampa.it) – L’antisemitismo esiste, anche se chi, come il governo israeliano, ne denuncia dappertutto l’apparizione non fa certo un buon servizio a chi lo vuole combattere, annegandolo in una palude in cui tutte le vacche sono nere. Se tutto è antisemitismo, nulla lo è più.
L’antisemitismo è esistito, non solo nel progetto hitleriano di totale sterminio degli ebrei, ma più banalmente in giornali, libri, partiti politici apertamente “antisemiti”, in quella prima metà del XX secolo in cui, tanto per non citare che un caso, un sindaco antisemita, Karl Lueger, ha governato Vienna.
Oggi l’antisemitismo riaffiora alla luce, cresce, si espande, aiutato dall’indignazione per le immani stragi compiute da Israele a Gaza, dalle drammatiche vicende della Cisgiordania, dalla follia messianica dei coloni.
Ma proprio perché l’antisemitismo è una realtà, e combatterlo è una necessità, bisogna smettere di usarlo per mascherare obiettivi inconfessabili, come la difesa della politica di Netanyahu. Smettere di identificare come antisemite le critiche, anche durissime, alla politica israeliana, le denunce delle violenze commesse. Non sono quelle critiche, quelle denunce a far crescere l’antisemitismo, sono le bombe, la fame, le violenze, e il silenzio di troppa parte del mondo.
Per questo le proposte di legge contro l’antisemitismo attualmente in discussione, una della Lega ed un’altra recentissima presentata, sembra, a titolo personale da un senatore PD, sono non solo inefficaci, ma pericolose. Entrambe si riallacciano ad una definizione dell’antisemitismo elaborata a livello internazionale nel 2016, e adottata da 43 Stati, Italia compresa, dall’Ihra (International Holocaust Remembrance Alliance), una definizione che consentiva di tracciare una stretta connessione fra antisionismo e antisemitismo. Ma la definizione, volta a favorire una più rigorosa ricognizione dei fenomeni di antisemitismo, non è “giuridicamente vincolante”. Con queste proposte si rischia di renderla tale, e si potrebbe definire come antisemita e perseguirla come tale ogni manifestazione di dissenso verso la politica del governo israeliano. Potrebbe ad esempio, diventare punibile come antisemitismo perfino il confronto fra la Shoah ed altri genocidi. È un tema spesso affrontato dagli storici, soggetto a dibattito e critiche. Ma farlo diventare oggetto di accuse penali rasenterebbe il ridicolo se non fosse tragico. Tragico per la democrazia, per la libertà di opinione, di critica, di manifestazione. Sotto il velo della lotta all’antisemitismo negheremmo libertà fondamentali sancite dalla nostra Costituzione. La politica di Israele, e solo quella, sarebbe protetta perché attaccarla significherebbe macchiarsi del crimine di antisemitismo. In base a questa logica, Putin ha richiamato la lotta all’antisemitismo per giustificare la sua aggressione all’Ucraina, Trump la usa a scopi interni, per combattere le Università e le manifestazioni degli studenti a favore della Palestina, e anche in Gran Bretagna è aperto il dibattito sull’adozione della definizione dell’Ihra. Insomma, sembra che i prossimi attacchi contro le libertà democratiche si svolgeranno in nome della lotta all’antisemitismo. Col risultato, immagino, di alimentarlo e farlo crescere.
Mi auguro davvero che faccia marcia indietro almeno quella parte della sinistra italiana che sembra tanto accecata dalla parola “antisemitismo” da prendere le armi senza curarsi nemmeno di guardare attentamente il suo bersaglio, senza preoccuparsi dei danni collaterali che leggi di tal fatta implicherebbero. A meno che il desiderio di appiattirsi sulle politiche di Netanyahu e di seguirne passo passo le orme non impedisca loro ogni critica. Ma l’antisemitismo è cosa troppo seria per essere agitata a casaccio, e gli ebrei meritano di meglio che essere usati da tutti e in ogni circostanza.
Tra picchetti d’onore, pranzi di gala e accordi economici in India, lo Zar si inchina di fronte alla tomba del profeta della non-violenza. Così il dittatore arruola il Mahatma nel suo nuovo blocco antioccidentale

(Domenico Quirico – lastampa.it) – L’atto scenico può sembrare scabroso, al limite dello sberleffo profano. Ma è tutt’altro che equivoco. L’autocrate i cui metodi stanno tra Politburo e Kgb, tessitore di deprecabili terapie sanguinose, indossa una figura mite, suadente, pensosa. Gli occhi quasi socchiusi sono quelli dei tête-à-tête con i suoi “amici” Trump, Xi e ora Modi. E che, meglio ricordarlo per non farsi troppe illusioni su noi stessi, prima della Grande Paura, prima del 2014 e anche oltre, ispiravano tenerezze interessate anche nella assai duttile coscienza dei mediocri “decideur” d’Occidente.
Sono agli archivi gli anni dopo il 2022 in cui Putin sfanalava gli occhi globosi per far festa al massimo a piccoli tiranni-clienti, bielorussi azeri turcomanni siriani ayatollah un po’ sbilenchi. Questo gli restava in anticamera. Il signore della guerra appigionato da 25 anni al Cremlino ora va a far visita al tempio del sacerdote, del protomartire della non violenza, della mitezza e della pace, l’omino seminudo che sfidava a mani nude l’Impero britannico: Ghandi. E lo arruola il mahatma, allegramente, spudoratamente, al modico prezzo di una manciata di petali rossi e gialli, nell’arsenale ideologico del nuovo blocco antioccidentale, nel multilateralismo dove contano le bombe, atomiche e non, e l’impiego della forza alla maniera assirobabilonese.
Un attimo. Tutto questo rito si svolge davvero in India, nella fabbrica degli asceti, nella casa madre dell’assoluto, un deposito di sogni dove vivono ancora gli dei? Come osa questo profanatore? Poi si rammenta che l’India ha anch’essa la Bomba, i suoi forsennati jihadisti hindu, che ha appena sfiorato l’Apocalisse con i vicini pachistani… e tutto il fatto di ieri si fa più ambiguo e relativo.
Ghandi lo hanno abusato molti, a proposito e a sproposito, la citazione ghandiana, implacabile, la trovi in grossolane retoriche che meriterebbero arcigne diffide. Insomma: perfino Mussolini pensò di utilizzarlo contro la perfida Albione… Da ieri l’Incolpevole è diventato apostolo, con Tolstoj anche lui impossibilitato a resistere, del nuovo mondo «in cui tutti sono eguali e liberi da diktat ed egemonie, fondato su principi di eguaglianza rispetto reciproco e cooperazione tra le nazioni…». Così parlò Putin ieri intendendo che sarebbe la descrizione di quello che, a cannonate, ha disegnato lui .
“He ram!”, Oh dio! sta scritto sulla lastra deposta dove il padre dell’India (e del pacifismo occidentale) fu cremato dopo l’assassinio. Non ci potrebbe esser miglior e più stringato commento all’asserto temerario. Nella vita di uomini grandissimi e “buoni” l’avvenimento caratteristico non è la nascita, è la morte. Perché, ahimè! non possono più difendersi.
Per percorrere il sentiero di pietra che porta alla grande piattaforma di marmo nero dietro cui brucia una fiamma perenne Putin ha dismesso le punte torve, il ghigno con cui solo l’altro ieri aveva azzannato gli ucraini, e gli europei ultimi affiochiti alleati di Kiev: il Donbass lo voglio e lo prendo, tutto. Rassegnatevi, è meglio per voi!
Tutto sembra marciare a puntino per lo zaretto. I satelliti gli segnalano che le truppe avanzano nella loro metodica e millimetrica marcia sgretolatrice. Lui non ha fretta. L’amico americano dà segni evidenti di squagliamento tra appetiti e furori parolai da week end a Mar-a-Lago e soprattutto compromissioni affaristiche.
Ieri a Rajghat il cabalista dei violenti- invadenti del nuovo ordine del mondo e delle faide neo imperialistiche è venuto a cantare la vittoria del suo cinismo pragmatico e spietato. Ricordate quando giuristi un po’ grossolani, nella patria del diritto romano, garantivano, pandette in mano, che il criminale internazionale non sarebbe sopravvissuto penalmente neppure a un viaggetto fuoriporta, tra le jurte mongole? Il diritto internazionale non perdona…! Credemmo loro sulla parola. Lui colleziona placidamente un altro miliardo di uomini a cui non importa nulla dei rinvii a giudizio di una Corte impotente all’Aja. Dove è l’Aja? Putin va a zonzo nella più grande democrazia del mondo… Tra picchetti d’onore pranzi di gala accordi economici per lustrar gli occhi ai suoi oligarco-capitalisti. E fa la foto ricordo gandhiana. A gridare alla profanazione penalistica delle sue tournée son rimasti solo gli europei, e neppur tutti. Per onor di firma.

L’inchino alla tomba del profeta disarmato merita però un posto a parte. Modi, il molto teorico erede che con Ghandi ha più o meno le stesse discendenze di Putin, non emette nemmeno un lieve squittio deprecativo e isterico allo spettacolo. Anzi. Liscia approva firma applaude. Ma non doveva essere il premier indiano una sponda fondamentale dell’implacabile isolamento che doveva togliere i sentimenti al grande carnivoro russo? Una visita a Dheli di Von der leyen non era stata presentata come l’epifania della nuova frizzante diplomazia “tout azimout’’ europea?
L’India di Putin non è certo quella di coloro che hanno letto Siddartha di Hesse (lo avrà in biblioteca il tiranno del Nord ? Domanda intrigante) ovvero il viaggio ipnotico struggente nostalgico naufragante. Dicono che Dioniso avesse casa e baccanti da queste parti. Putin non fa una visita al mite rivoluzionario che sconfisse l’impero britannico, (non quello sovietico!) per avere levitazioni, visioni inciampi nei mandala, incontri con una sàkti, per inoltrarsi nel grande flusso dell’esistenza. A lui basta inoltrarsi nel Donbass. È lì per dire: guardate ho vinto!
La fondatrice di FdI è leader assoluta di una maggioranza che non fiata. La segretaria dem invece, tra alleati e regole interne, parla con il freno a mano

(Flavia Perina – lastampa.it) – Di solito dopo le sfide televisive ci si chiede chi ha vinto e chi ha perso. Nel caso, il giudizio è arduo: Giorgia Meloni ed Elly Schlein hanno parlato ciascuna al suo popolo, ai suoi elettori, ai suoi simpatizzanti. Ma il colpo giornalistico di Enrico Mentana va valutato con un altro metro, e cioè immaginando quale altro nome, personalità, e soprattutto faccia potrebbe essere appaiata con possibilità di vittoria a quella della premier in un futuro e più autentico confronto in diretta. Chi risulterebbe più efficace? A suo tempo, il popolo delle primarie scelse Schlein anche per questo, giudicandola simmetrica alla leader di FdI per età, energia, carica innovativa e assolutamente alternativa per biografia e contenuti politici. Non un’imitazione ma un credibile alter ego. Ora quel sentimento si è alquanto appannato, e tuttavia: ciascuno provi a raffigurarsi la doppia intervista con un’altra faccia al posto di Meloni, e poi valuti.
Per il resto, il duello in differita tra Elly Schlein e Giorgia Meloni è stato (soprattutto) il confronto tra due posizioni politiche disallineate. Schlein è capo di un franchising correntizio irrequieto, è proiettata verso una candidatura a premier che non può ammettere nemmeno come desiderio ( “deciderà il partito”), è vincolata a regole interne datate ma immodificabili. Insomma: deve parlare tenendo tirato il freno a mano. Meloni è leader assoluto di una maggioranza che non fiata, regina senza bisogno di congressi, primarie, conferme, che mette a sistema pure le bizze degli alleati scrollando le spalle alle obiezioni di Matteo Salvini sull’Ucraina ( «La linea del governo rimane la stessa, la pace si costruisce con la deterrenza») e in molti passaggi si può permettere anche di scordarsi il classico «noi politico»: dice «io» ed è sufficiente, perché quella prima persona personale è il riassunto di tutto il resto.
Anche per questo la rappresentazione delle posizioni dei due poli (uno reale, l’altro ancora immaginario) sui temi del momento è risultata zoppa. Sulla politica estera, sul premierato e sulla prospettiva stessa di una potenziale alleanza progressista, Schlein ha dovuto esprimersi a titolo di segretario del Pd, perché un patto nazionale ancora non c’è. Il suo rifiuto di una pace senza Kiev e l’Europa al tavolo della trattativa sarebbe condiviso dal campo largo? Oppure risulterebbe indicibile pure la battuta su Matteo Salvini con la maglietta di Putin, visto che il Movimento Cinque Stelle ha sempre coltivato analoghe simpatie? E anche sul netto no al premierato con la connessa riforma elettorale, vai a vedere. Giuseppe Conte ha già detto che vuole tenersi mani libere addirittura fino al prossimo autunno, tempi infiniti, rischi infiniti. Al contrario, l’”io” di Meloni riassume l’intero centrodestra. È tanto solido da riuscire ad aggirare anche la notizia di giornata della nuova Strategia nazionale pubblicata dalla Casa Bianca, che inquadra l’Europa come un nemico, le intima di cambiare la sua politica e la sua economia, strapazza i suoi governi come deboli e antidemocratici. La premier nega la rupture («non parlerei di incrinatura») e si appella al processo storico inevitabile, al quale bisogna rispondere dotandosi di una difesa indipendente: pure qui il noto dissenso salviniano è derubricato a ordinaria discussione su come servire al meglio gli italiani. Stesso copione per i sì della premier alla riforma della giustizia e al premierato come norma di stabilità, o per il ragionamento sul sostegno ai salari limitato dalle spese per il superbonus: sono paletti che non contemplano dubbi o controcanti.
Sarebbe stato davvero interessante vederle sullo stesso palco per una sfida vera e personale: la donna del popolo così sicura di sé e la ragazza che si fece le ossa nella campagna di Obama, quella che dice Nazione e quella che dice Paese, la signora che rivendica il miracolo italiano citando il costo dell’instabilità dei precedenti governi (265 miliardi) e quella che demolisce i record governativi raccontando l’incontro con l’anziana che non si può curare perché la Tac costa troppo e l’ospedale pubblico non la mette in lista. Ma non succederà a breve e forse mai: se il destino della candidata Meloni è chiarissimo, quello della sua possibile sfidante lo è assai meno, e la premier ieri ha rigirato pure il coltello nella piaga: prontissima alla sfida col capo dell’opposizione «ma mi dicano chi è», se no basta l’ordinario confronto in Parlamento.

(di Massimo Gramellini – corriere.it) – Ci vorrebbe la penna di Gogol, maestro russo del grottesco, per descrivere la scena di Putin che versa petali di rosa sul monumento che commemora Gandhi, eleggendo l’apostolo della non violenza a suo modello politico. Escludo che recitasse, o che possa avere colto l’aspetto surreale della faccenda: paragonarsi lui, il «macho» domatore di tigri, all’uomo che incarnava la quintessenza della mitezza.
Chi esercita il potere in modo assoluto, circondato dal tremebondo ossequio dei sottoposti, finisce per credere davvero a quello che dice. Tanto più che di ogni biografia si può saccheggiare la parte che più ci fa comodo. Gandhi, per ovvie ragioni storiche, non era esattamente un fan dell’imperialismo anglosassone. Ma era contrario anche a quello degli altri, e oggi sarebbe difficile immaginarlo accanto a Putin in Ucraina, in Africa e in tutti gli scenari dove l’autocrate russo persegue obiettivi di dominio, pardon, di «pacifica cooperazione tra le nazioni», come ha scritto sul libro riservato ai messaggi dei visitatori.
Immaginate se oggi qualcuno in Russia dicesse, a proposito della guerra: «Occhio per occhio, alla fine si diventa tutti ciechi», a proposito dei rapporti con Trump: «L’uomo si distrugge facendo affari senza morale» e a proposito di Putin stesso: «L’unico tiranno che accetto è la voce silenziosa dentro di me».
Ascoltando queste parole di Gandhi, Putin lo inviterebbe di sicuro al Cremlino per complimentarsi e sullo slancio gli offrirebbe una squisita tazza di tè.

(di Michele Serra – repubblica.it) – Nel documento dell’amministrazione Trump denominato “Strategia nazionale”, in realtà un vero e proprio rapporto sullo stato del mondo, l’Unione Europea viene tirata in ballo, oltre che per decretarne la rottamazione, come «uno degli organismi transnazionali che minano la libertà e la sovranità politica». Di conseguenza si annovera, tra le piaghe del vecchio continente, la «perdita delle identità nazionali».
Nel caso non si fosse ancora capito, per Trump (esattamente come per Putin) non sono i singoli Stati europei, è l’Unione il nemico da combattere. Nella visione sovranista tutto ciò che sottomette il concetto di Nazione a vincoli più ampi è opera del Maligno. Il solo modo legittimo di trascendere i propri confini è allargarli invadendo altre Nazioni, o rovesciare, in altre parti del mondo, i governi sgraditi.
Ma sopra la Nazione, concettualmente, nessuna entità, nessun ordine, nessuna legge può darsi. Non deve esiste arbitro, nel match tra le Nazioni, non l’Onu, non il Tribunale dell’Aia, non l’appellarsi a diritti universali che puzzano di cosmopolitismo (mondialismo, dicono i fascisti). L’identità nazionale è racchiusa nel triangolo Dio Patria Famiglia, e peggio per chi non ci si ritrova. E la guerra — che altro? — rimane la sola forma percepibile di regolamento dei conti.
A questo punto è interessante chiedersi se e quando la Chiesa di Roma, rimasta forse la sola istituzione sovranazionale del Pianeta funzionante e influente, entrerà in conflitto con la nuova egemonia sovranista. Chissà se il Papa americano si fa domande e si dà risposte, su questo passaggio così antievangelico della storia umana: nel quale non è più l’umanità intera, la fonte e l’oggetto del diritto. Sono le Nazioni più forti e più ricche. Il resto non esiste, e se esiste va cancellato.

(di Lucio Caracciolo – repubblica.it) – Invitiamo il lettore a un esperimento mentale. Chiuda gli occhi e immagini l’Italia senza Roma. Poi Roma senza l’Italia. Il nostro Stato e la nostra capitale sono compossibili o si elidono a vicenda? Scegliamo la prima opzione. Con caveat che rubiamo allo storico tedesco Gustav Seibt: «Roma ha sempre fatto sembrare l’Italia un po’ più grande di quanto sia». O sarà vero l’opposto? Il mito romano ci schiaccia?
Non è sciolto il dilemma Roma/Italia che ci occupa dal Risorgimento. Filoromani e antiromani si fronteggiano ora come allora. Se per amor di discussione osassimo un pronostico sull’esito dell’esperimento, dopo religiosa consultazione degli aruspici e veloce ripasso dei cori delle curve calcistiche — in forma gentile riassumibili nel motto di Gianni Brera per cui Roma è «monumentale capoluogo della Regione Lazio» — proporremmo questo: la maggioranza degli italiani non romani sopporterebbe o forse si augurerebbe un’Italia senza Roma, magari profittandone per suggerire ulteriori amputazioni (reciproche). Quanto agli autoctoni, scetticoni irridenti sé stessi e il prossimo («mò nun me fa’ er grandioso!») perdutamente innamorati della città contro cui smoccolano senza posa, refrattari ai campanilismi forse per eccesso di campanili propri, quindi relativamente patriottici, molti farebbero finta di non capire la domanda.
Dirimente il parere degli stranieri, per i quali giureremmo che il fascino di Roma possa prescindere dall’Italia e dagli italiani, se non come attrazioni estetico-etnografiche. Considerando anche il voto con i piedi, dal Grand Tour alle correnti invasioni turistiche di massa. Fra l’altro, alcuni sono romani in quanto abitanti di una delle altre 51 Rome fondate nel mondo — 27 negli Stati Uniti — in omaggio all’Urbe. Sicché la nostra domanda potrebbe suonar loro mal posta. Trattasi di grandezze incomparabili: Roma è Roma, l’Italia non proprio un colosso della geopolitica mondiale. Su di noi gravano stereotipi razzisti — «gli italiani sono bianchi?» — o identificazioni entomologiche, sì che asserite formiche nordeuropee ci classificano cicale. Tesi esplicitata nella sentenza verbalmente trasmessa anni fa a Limes dall’allora ministro delle Finanze olandese: «Avete bisogno di un Gauleiter».
Emblema dell’irrisolta, forse irresolubile questione romana, il dialogo fra il grandioso (anche nel senso romanesco del termine) storico tedesco Theodor Mommsen e il severo ministro italiano delle Finanze, il biellese Quintino Sella, subito dopo il battesimo della capitale. Mommsen: «Ma che cosa intendete fare a Roma? Questo ci inquieta tutti. A Roma non si sta senza avere propositi cosmopoliti». Sella: «Ne faremo un centro scientifico di luce», contrapposto all’oscurantismo del papato. A botta geopolitica risposta apolitica. La domanda giusta che Mommsen avrebbe potuto avanzare ma cui certamente Sella non avrebbe saputo rispondere sarebbe stata: «Ora che siete a Roma, che cosa intendete fare con l’Italia?».
Tutto o quasi chiama Roma e la sua funzione strategica per l’Italia. L’inclinazione bellica dell’asse terrestre dovrebbe da sola portarci a riflettere su una Pax Romana modernamente intesa. Dialogo di convergenza. Non conversazione da salotto dove ci si ascolta da soli, solo interessati all’effetto delle proprie risposte alle obiezioni altrui.
Roma è città aperta ab origine. Fonti antiche vogliono che Romolo, pur di rinsanguare la stirpe, avesse eretto un tempio al dio Asylum, in una spianata che accoglieva chiunque. Rito di passaggio per forestieri esiliati, liberi o schiavi, da volgere in romani fra i romani. Luogo di espiazione. Scavi archeologici lo vorrebbero presso Piazza del Campidoglio. Troppo sperare che qualcuno, ispirato da Asylum, voglia idealmente ricostruirvi il tempio? Per disporvi uno spazio internazionale di educazione al dialogo e alla pratica negoziale, figlio d’un patto fra tutte le Rome del mondo?

(Andrea Zhok) – Oggi il Teatro Grande Valdocco di Torino ha negato la sala, preventivamente noleggiata, al prof. Angelo D’Orsi che insieme al prof. Alessandro Barbero e ad una pluralità di altri intellettuali avrebbero dovuto dar vita all’evento “Democrazia in tempo di guerra. Disciplinare la cultura e la scienza, censurare l’informazione”.
Simultaneamente si è infiammata ulteriormente la polemica per la presenza della casa editrice “Passaggio al Bosco” alla kermesse libraria “Più libri, più liberi” di Roma. Dopo Zerocalcare oggi è la volta di Corrado Augias ad annunciare la propria assenza dalla manifestazione per protesta contro il fatto di aver dato ospitalità ad una casa editrice di estrema destra.
Questi due eventi hanno qualcosa di profondo in comune, qualcosa, vorrei dire, di epocale. Per metterlo in evidenza bisogna fare due osservazioni, la prima intorno alla temperie ideologica e la seconda intorno allo stile.
Sul piano ideologico, osserviamo innanzitutto come i posizionamenti di autori come D’Orsi e Barbero da un lato e dell’editore “Passaggio al bosco” dall’altro non potrebbero essere più diversi. Essi hanno una sola cosa in comune: testimoniano di narrazioni divergenti rispetto al conformismo perbenista sedicente “liberaldemocratico” che domina i centri di potere e di informazione in tutta Europa.
Questo conformismo, originariamente nato come frutto del trionfo neoliberale, oggi è ideologicamente immensamente flessibile, annacquato, ma è tenuto assieme, più che da qualche idea definita, dall’identificazione “virtuosa” con le preferenze dei “ceti erogatori di prebende”.
In sostanza, per quanto di principio questo groppo ideologico ritenga di far riferimento ad un certo impianto liberale e neoliberale (europeismo, atlantismo, liberismo, dirittumanismo, femminismo, scientismo, secolarismo, individualismo) in verità è straordinariamente disponibile a tutti gli aggiustamenti del caso, battendo i tacchi di volta in volta a favore della legge e dell’ordine o del libertarismo assoluto, della mano invisibile o dei “prestiti di guerra”, dell’inclusivismo buonista o del bullismo ghignante.
Questa posizione ideologicamente fluida, tenuta assieme dai desiderata delle oligarchie paganti, ha un grande problema, e questo ci porta al secondo punto. Le “opinioni giuste” oggi non possono più fidarsi di essere coerenti con un paradigma, neppure liberale o neoliberale. Come nelle epoche più oscure della storia, non ci si può fidare del proprio intelletto o della ragionevolezza o del principio di non contraddizione per “pensare la cosa giusta” o almeno per essere esenti da rimprovero.
No, bisogna percepire con grande attenzione quali sono i desideri lassù in alto; bisogna continuamente giocare ad un gioco di rincorsa all’ultima “opinione buona”, una rincorsa che potremmo chiamare di “conformismo estremista”.
Bisogna tenere le antenne all’erta per capire se è il momento di dimostrarsi patriottici prestando il petto alle baionette nemiche, o di dimostrarsi anarconidividualisti nel perseguimento del proprio utile; se bisogna dimostrarsi empatici con l’oppresso o se è il momento di colpevolizzare le vittime per il mal che gliene incolse; se è il momento di venerare le regole o di denigrarle col saggio cinismo della Realpolitik, ecc.. E soprattutto, bisogna tenersi sempre all’erta per capire in quali contesti bisogna utilizzare un criterio di giudizio o invece quello opposto.
Vale tutto e dunque niente vale stabilmente.
Ora, l’unico modo per tenersi all’altezza di questo processo di sottile continuativa sintonizzazione verso la voce del padrone (le richieste del caporedattore, le circolari del dirigente, le valutazioni del ministero, ecc.) consiste nel lanciare costanti segnali della propria virtù, della propria ottemperanza, e di riceverne dagli altri.
Questa è l’essenza di ciò che gli americani chiamano “virtue signalling”: l’esibizione costante di segni di appartenenza al gregge dei buoni, dei disponibili, della gente perbene, di tutti quelli che non discutono mai, ma al massimo aggrottano le sopracciglia.
Il teatro che non concede il palcoscenico ad un dibattito che protrebbe contestare la lettura oggi prevalente rispetto alla Russia non sta, ovviamente, mettendo in discussione quelle opinioni. Non le conosce, non gli interessa conoscerle, non sarebbe in grado di discuterle e non vuole discuterle. Sta solo lanciando un segnale alla propria catena di erogatori di prebende, un segnale che dice: “Ci siamo capiti, sono ottemperante, sono a disposizione.”
La stessa cosa fanno i Zerocalcare, gli Augias et alii, con i loro proclami che ricordano tanto Ecce Bombo (“Mi si nota di più se vengo e me ne sto in disparte o se non vengo per niente?”). Stanno segnalando alle loro catene (afferenti ai medesimi erogatori) che stanno dalla parte dei buoni, di chi sa come pensarla giusta, quelli di cui ci si può fidare, che non metteranno mai in imbarazzo i vertici della catena alimentare.
Naturalmente la sostanza del contendere è perfettamente pretestuosa. Chiunque abbia avuto un libro esposto in libreria sarà stato in compagnia di altri libri che considerava odiosi. Il punto non è mai la sostanza, ma la sceneggiata, la segnalazione.
L’essenza di questa ubertosa fioritura delle “segnalazioni di virtù” consiste nel rifiutare rigorosamente ogni discussione nel merito, ogni confronto su contenuti, ogni analisi materiale. Ci si conforma e ci si coordina tra quelli che la pensano bene, e che perciò possono continuare a ricevere becchime, e quelli che deviano o – Dio non voglia – si oppongono.
Fornire un diapason su cui sintonizzare le parole per chi “pensa bene” è, più o meno, l’unica funzione rimasta alle “grandi testate giornalistiche” che oramai non vendono neanche per coprire le spese di riscaldamento.
E questo li aiuta a coprire le spese rimanenti.
Il documento di National Security Strategy firmato dal presidente Usa: difesa dei confini e mantenimento della leadership planetaria. Tra gli obiettivi la fine della guerra in Ucraina, la stabilità strategica con la Russia e il mantenimento di un rapporto economico vantaggioso con la Cina

(di Viviana Mazza – corriere.it) – DALLA NOSTRA INVIATA WASHINGTON – Donald Trump vuole mantenere una maggiore presenza miliare statunitense nell’emisfero occidentale per combattere le migrazioni, il narcotraffico e l’ascesa di potenze rivali nella regione, secondo la Strategia di sicurezza nazionale, un documento di 33 pagine a firma del presidente pubblicato giovedì senza grandi annunci sul sito della Casa Bianca.
Il documento, diviso per regioni, parla anche dell’Europa e della guerra in Ucraina e contiene passaggi molto duri sul Vecchio Continente «in declino»: «I funzionari americani si sono abituati a pensare ai problemi europei in termini di insufficiente spesa militare e stagnazione economica. È in parte vero, ma i veri problemi dell’Europa sono più profondi – si legge nel documento -. Il suo declino economico è eclissato dalla reale e stridente prospettiva di cancellazione della civiltà».
È una tradizione pubblicare ad ogni mandato questi documenti di strategia da parte dell’esecutivo: è un modo di definire le priorità per il bilancio e le politiche del governo, anche se poi eventi come l’11 settembre o la guerra in Ucraina hanno cambiato le traiettorie definite da presidenti Usa come Bush o Biden.
La National Security Strategy di Trump afferma che «è un interesse chiave degli Stati Uniti negoziare una rapida cessazione delle ostilità in Ucraina, al fine di stabilizzare le economie europee, prevenire l’escalation ed espansione non voluta della guerra e ristabilire una stabilità strategica con la Russia, come pure di consentire la ricostruzione dell’Ucraina dopo la guerra perché possa sopravvivere come Stato».
Ma il documento non critica Mosca. Invece riserva alcuni dei suoi commenti più duri ad alcuni alleati in Europa. «L’amministrazione Trump si trova in disaccordo con i funzionari europei che mantengono aspettative irrealistiche per la guerra, arroccati in governi instabili di minoranza, molti dei quali calpestano i principi basilari della democrazia per sopprimere l’opposizione. Una ampia maggioranza in Europa vuole la pace, ma questo desiderio non si traduce in politica in gran parte per via del sovvertimento dei processi democratici da parte di questi governi».
Una delle preoccupazioni espresse è l’ascesa della Cina: «La Guerra in Ucraina ha avuto l’effetto perverso di aumentare le dipendenze esterne dell’Europa, specialmente della Germania. Oggi le aziende chimiche tedesche stanno costruendo alcuni dei più grandi impianti del mondo in Cina, usando gas russo che non possono ottenere in patria».
Un bersaglio particolare è l’Ue: «Le questioni più ampie che affronta l’Europa includono le attività dell’Unione europea e di altri organismi transazionali che minano le libertà politiche e la sovranità, le politiche migratorie che stanno trasformando il continente e creando conflitti, la censura delle libertà di espressione e la soppressione della opposizione politica, facendo crollare le nascite, con la perdita di identità nazionale e sicurezza in sé».
L’amministrazione, in termini velati, critica i tentativi di limitare l’influenza dei pareri di destra, definendola una forma di censura. Il documento sembra anche suggerire che le migrazioni cambieranno in modo fondamentale l’identità europea, al punto che ciò potrebbe danneggiare l’alleanza economica e militare con gli Stati Uniti.
«Nel lungo periodo, è più che plausibile che nel corso di un paio di decenni al massimo, alcuni membri della Nato diventeranno per la maggioranza non europei», si legge nel testo. «Perciò si pone la domanda se vedranno il proprio posto nel mondo o la propria alleanza con gli Stati Uniti allo stesso modo di coloro che firmarono il Trattato della Nato».
In questo scenario, gli Usa starebbero proseguendo il loro processo di disimpegno dalla Nato: secondo quanto riportato in esclusiva dalla Reuters, gli Stati Uniti vorrebbero che l’Europa prendesse il controllo della maggior parte delle capacità di difesa convenzionali dell’Alleanza, dall’intelligence ai missili, entro il 2027. La volontà statunitense sarebbe stata trasmessa durante una riunione questa settimana a Washington tra il personale del Pentagono che supervisiona la politica della Nato e diverse delegazioni europee.
Il documento di National Security Strategy riconosce tuttavia l’importanza economica e culturale dell’Europa, come pure il fatto che l’alleanza degli Usa con gran parte del Vecchio continente abbia aiutato l’America. L’enfasi è sul far sì che «l’Europa rimanga europea»: «Non possiamo permetterci di mettere da parte l’Europa… sarebbe controproducente per gli obiettivi di questa strategia. Il nostro obiettivo dovrebbe essere aiutare l’Europa a correggere la sua attuale traiettoria».
Il focus sull’Emisfero occidentale è superiore a quello delle precedenti amministrazioni, che si sono spesso concentrate sulla Russia, la Cina e la lotta al terrorismo. È presentato come cruciale per proteggere gli Stati Uniti.
Questi piani vengono definiti parte di un “Corollario Trump” della Dottrina Monroe, ovvero la nozione presentata dal presidente James Monroe nel 1823 che gli Stati Uniti non tollereranno interferenze di avversari stranieri nel proprio emisfero. «La sicurezza dei confini è l’elemento primario della sicurezza nazionale», si legge nel documento, che fa velati riferimenti al tentativo della Cina di conquistare terreno in America Latina, il “cortile di casa” degli Stati Uniti. «Gli Stati Uniti devono essere preminenti nell’Emisfero occidentale, come condizione per la nostra sicurezza e prosperità – si legge nel documento -. I termini delle nostre alleanze, e sulla base dei quali forniamo ogni genere di aiuto, devono essere dipendenti dalla riduzione dell’influenza esterna rivale incluso il controllo di installazioni militari, porti, infrastrutture chiave fino all’acquisto di beni strategici ampiamente definito”.
Questo è anche il primo di una serie di importanti documenti sulla strategia di politica estera e difesa che l’amministrazione Trump dovrebbe pubblicare, inclusa la National Defense Strategy. La pubblicazione ha subito ritardi in parte per via di dibattiti interni nell’amministrazione sulla Cina. Il segretario del Tesoro Scott Bessent ha spinto per ammorbidire il linguaggio su Pechino, secondo fonti del sito Politico, dal momento che continuano i negoziati commerciali.
La Strategia di sicurezza nazionale del primo mandato di Trump era fortemente puntata sulla competizione con la Russia e la Cina, ma il presidente di fatto cercò spesso di negoziare con i leader delle due superpotenze. La nuova strategia sembra riflettere meglio la visione di Trump, che nel documento viene definito un «Presidente di Pace» che «usa la diplomazia in modo non convenzionale».
La Strategia dice che gli Stati Uniti non possono più occuparsi di tutto il resto del mondo. «Dopo la fine della Guerra fredda, le elite di politica estera americane si convinsero che il dominio americano permanente del mondo intero fosse nel miglior interesse del nostro Paese. Ma gli affari di altri Paesi sono di nostro interesse solo le loro attività minacciano direttamente i nostri interessi», afferma l’attuale dottrina.
Nell’introduzione, Trump dichiara che questa è la «roadmap per assicurarsi che l’America resti la nazione più grande e di maggior successo nella storia umana e la casa della libertà».
Il testo è in linea con diverse scelte della Casa Bianca in quest’ultimo anno, incluso un maggiore schieramento di forze militari nell’Emisfero occidentale (che non è intesa come una mossa solo temporanea e punta anche a identificare nella regione materie prime strategiche come le terre rare), le mosse finalizzate alla riduzione dell’immigrazione, la spinta per rafforzare la produzione industriale e la promozione della «identità occidentale», anche in Europa.
Nel testo si menzionano i valori tradizionali evocati spesso dalla destra cristiana, con obiettivi quali «la restaurazione e il rafforzamento della salute spirituale e culturale americana», «un’America che celebra le sue glorie passate e dei suoi eroi». «Un numero crescente di famiglie tradizionali forti che crescano figli sani».
Anche la Cina, considerata da molti politici americani bipartisan la maggiore minaccia per gli Stati Uniti, è centrale nel documento, anche se non sempre menzionata direttamente. L’amministrazione promette di «bilanciare i rapporti economici con la Cina, dando la priorità alla reciprocità e equità per ripristinare l’indipendenza economica americana», ma dice anche che «il commercio con la Cina dovrebbe essere bilanciato e puntare su fattori non sensibili» e suggerisce di «mantenere un rapporto economico davvero vantaggioso per entrambi».
La strategia afferma che l’amministrazione Usa vuole evitare la guerra nell’Indo-Pacifico: «Manterremo la nostra tradizionale politica su Taiwan, ovvero che gli Stati Uniti non appoggiano alcun cambiamento unilaterale allo status quo dello Stretto di Taiwan», una frase che rassicura quanti in Asia si preoccupano che Trump si tiri indietro all’appoggio a Taiwan.
Il leader M5s replica al governatore Schifani che in aula ha definito deplorevole il suo recente intervento alla Cala

(di Giusi Spica – repubblica.it) – «Schifani mi attacca? Si tenga stretto Cuffaro». Il leader nazionale di M5s replica a distanza al governatore che lo ha chiamato in causa nel suo intervento all’Ars. E attacca la premier Giorgia Meloni «che non può fare finta di nulla» di fronte alle inchieste per corruzione che stanno scuotendo le forze di centrodestra al governo nell’Isola, Fratelli d’Italia incluso.
Conte, il governatore Schifani ha definito deplorevole il suo recente discorso davanti al murale di Falcone e Borsellino a Palermo. Cosa replica?
«Mi tengo stretti i cittadini e i valori che sono sfilati sotto quel murale, i valori per cui ci battiamo ogni santo giorno. Lui può tenersi stretti le foto e gli abbracci con Cuffaro».
A proposito di Cuffaro, le carte dell’inchiesta descrivono un “sistema” per controllare appalti e concorsi. È stato un errore riaprire le porte della politica a un ex governatore già condannato per favoreggiamento?
«Ognuno ha i suoi riferimenti, il M5S ha portato in politica campioni dell’antimafia come Antoci, Scarpinato, De Raho. Quando si vuole raggiungere il potere con tutti i mezzi possibili pur di prendere voti e clientele, calpestando non solo la legalità e l’etica pubblica ma la stessa dignità dei siciliani, i risultati sono questi: una Regione in cui si truccano gli appalti in sanità mentre si muore di tumore dopo aver aspettato per 8 mesi un esame istologico. Serve un moto di orgoglio dal basso per ribaltare questa idea di politica».
Quella su Cuffaro è solo l’ultima inchiesta sul centrodestra siciliano. Cosa si aspetta dal governo nazionale?
«Meloni ha detto più volte di essere in politica da decenni per Borsellino, per quel che ha rappresentato. La riporto alla dura realtà: tutti i partiti di maggioranza che sostengono Meloni proprio nella Sicilia di Borsellino e Falcone sono travolti da scandali per corruzione, truffa e altre pesanti accuse, a partire dal presidente dell’Assemblea regionale e dall’assessora al Turismo, entrambi di Fratelli d’Italia. Oggi assistiamo al fallimento totale della vecchia e nuova classe politica e dirigente della destra siciliana. Meloni non può far finta di nulla e far credere che tutto questo non la riguardi in quanto leader di FdI».
M5S, con le forze di opposizione, ha promosso la mozione di sfiducia al presidente della Regione poi bocciata all’Ars. Ci sono i margini per il prosieguo della legislatura?
«Assolutamente no. Qui siamo alla restaurazione della peggiore politica: appalti truccati in sanità, arresti, rinvii a giudizio e, ciliegina sulla torta, anche il rafforzamento della tutela della casta. Noi abbiamo lottato per anni per tagliare i vitalizi e ridurre il numero dei parlamentari, i costi e i privilegi della politica e adesso la loro unica premura è di ampliare il numero dei deputati regionali blindando la maggioranza».
Sulla mozione l’opposizione ha dimostrato compattezza. Lo sarà anche alle Regionali?
«Come opposizione abbiamo già condiviso diverse battaglie contro la destra: oltre alla mozione di sfiducia al governo regionale, a giugno abbiamo fatto una manifestazione unitaria sulla sanità e siamo insieme anche nella battaglia contro il Ponte sullo Stretto. Il M5S è promotore di un progetto alternativo per la Regione che per noi dovrà passare dall’ascolto dei cittadini».
Schifani accusa l’opposizione di non avere proposte alternative e di essere il partito del no (al Ponte, ai termovalorizzatori)…
«Noi le proposte alternative le abbiamo sempre fatte, anche se Schifani ha fatto sempre orecchie da mercante. Metta la politica fuori dalla sanità, come chiediamo da sempre, visto che i giochi di palazzo la stanno distruggendo. Accolga le nostre proposte per famiglie e imprese in difficoltà. E usiamo i fondi che vogliono mettere sul fallimentare progetto del Ponte sullo stretto per le infrastrutture che servono davvero, come strade, ferrovie, impianti idrici».
Ha ragione Calenda: la Sicilia va commissariata?
«Per noi la parola deve tornare ai cittadini siciliani».
Come si affronta la questione morale?
«Mettendo al primo posto sempre l’interesse dei cittadini e delle istituzioni, come fa il M5S. I partiti che esprimono rappresentanti nelle istituzioni non possono agire come gruppi di potere che piazzano i loro amici pur di alimentare un sistema clientelare basato sullo scambio di favori. Servono regole interne rigide, rigorose. Se al loro interno emergono casi di possibile illegalità, ma anche solo comportamenti contrari all’etica pubblica, bisogna fare pulizia, pretendere trasparenza e assunzione di responsabilità verso i cittadini».