Mentre infuriano le polemiche politiche, lo Stato ebraico fornisce missili all’Europa, gas all’Egitto e tecnologia agli Emirati. Il compimento degli Accordi di Abramo

(adnkronos.com) – Di Israele si continua a parlare quasi esclusivamente attraverso il prisma della guerra a Gaza, delle polemiche politiche e delle fratture diplomatiche che attraversano l’Europa e l’opinione pubblica occidentale. Ma questa narrazione rischia di oscurare una realtà parallela e altrettanto decisiva: Israele oggi è uno dei nodi strategici più rilevanti nello spazio euro-mediterraneo e mediorientale sul piano tecnologico, energetico e della sicurezza. E lo dimostrano una serie di accordi conclusi o rilanciati proprio nelle ultime settimane.
Negli ultimi quindici anni Israele ha progressivamente costruito un profilo che va oltre quello di attore militare regionale. È diventato un fornitore di sicurezza, un hub tecnologico globale e un pilastro emergente dell’architettura energetica del Mediterraneo orientale. Questa traiettoria non è stata interrotta dalla guerra a Gaza; al contrario, in alcuni settori ne è uscita rafforzata.
Il dato politico di fondo è che, mentre il dibattito pubblico europeo resta concentrato sulle sanzioni, sulle prese di posizione diplomatiche e sulle mozioni parlamentari, governi e apparati industriali continuano a considerare Israele un partner strategico difficilmente sostituibile.
L’accordo da 2,3 miliardi di dollari tra Elbit Systems e gli Emirati Arabi Uniti per lo sviluppo congiunto di un avanzato sistema di difesa elettronica aeronautica è uno dei segnali più chiari della solidità delle relazioni israelo-emiratine. Non si tratta di una semplice fornitura di armamenti, ma di un programma pluriennale, stimato tra gli otto e i dieci anni, che prevede co-sviluppo, integrazione industriale e condivisione tecnologica.
Un passaggio di questo tipo implica un livello di fiducia molto elevato. I sistemi di guerra elettronica e autoprotezione degli aeromobili sono tra le tecnologie più sensibili in assoluto, perché toccano direttamente la capacità di sopravvivenza di velivoli civili e militari in scenari ad alta intensità. Il fatto che il contratto sia stato approvato e supervisionato dal ministero della Difesa israeliano indica che Tel Aviv considera questa cooperazione non solo compatibile, ma funzionale alla propria strategia di sicurezza regionale.
Sul piano politico, il messaggio è altrettanto forte: gli Accordi di Abramo, il patto firmato nel 2020 con Stati Uniti, Emirati, poi Bahrein, Marocco, Sudan e Kazakistan, non sono rimasti una cornice diplomatica, ma si sono trasformati in una vera architettura di sicurezza, capace di resistere anche alle tempeste generate dalla guerra di Gaza. D’altronde, l’avvicinarsi nel 2023 della firma anche dell’Arabia Saudita è stata una delle cause scatenanti del 7 ottobre: l’Iran e i suoi proxy regionali non potevano permettersi il compimento di questo asse tra Stato ebraico e stati sunniti dal Nord Africa al Golfo.
Ancora più significativo, per l’Europa, è il maxi-accordo tra Israele e Germania sul sistema di difesa antimissile Arrow-3. Berlino ha deciso di espandere l’acquisizione con un ulteriore ordine da 3,1 miliardi di dollari, portando il valore complessivo del programma a oltre 6,7 miliardi. È il più grande accordo per la difesa mai firmato da Israele.
Arrow-3 non è un sistema qualsiasi. È progettato per intercettare missili balistici al di fuori dell’atmosfera terrestre e rappresenta uno dei livelli più avanzati di difesa antimissile al mondo. Ha permesso a Israele di proteggersi dai due massicci attacchi missilistici iraniani. La sua integrazione nella Bundeswehr rientra nella European Sky Shield Initiative, il progetto con cui la Germania punta a costruire uno scudo europeo contro minacce missilistiche provenienti da est e dal Medio Oriente.
Il dato politico è evidente: nel momento in cui l’Europa parla di autonomia strategica e di rafforzamento della propria difesa, sceglie una tecnologia israeliana tra i pilastri centrali.
Se la difesa racconta una parte della storia, l’energia ne racconta un’altra altrettanto rilevante. L’approvazione dell’accordo da 35 miliardi di dollari per l’esportazione di gas israeliano verso l’Egitto rappresenta il più grande deal economico mai concluso da Israele.
Il gas proveniente dai giacimenti di Leviathan e Tamar (che si trovano nel Mediterraneo di fronte alla costa israeliana) è destinato agli impianti di liquefazione egiziani, per poi essere esportato sui mercati internazionali, inclusa l’Europa. In un contesto segnato dalla riduzione delle forniture russe e dalla ricerca di nuove fonti affidabili, Israele si è ritagliato un ruolo strutturale nella sicurezza energetica europea, seppur indiretta.
Questo accordo rafforza anche il legame Israele-Egitto, spesso sottovalutato nel dibattito pubblico. Il Cairo non è solo un partner commerciale, ma un attore centrale nella stabilizzazione del Mediterraneo orientale, e il gas israeliano diventa uno strumento di interdipendenza strategica.
Dietro questi accordi c’è un fattore strutturale: l’ecosistema tecnologico israeliano. Dalla cyber-security alla difesa antimissile, dalla guerra elettronica all’intelligenza artificiale applicata alla sicurezza, Israele ha costruito un vantaggio competitivo difficilmente replicabile nel breve periodo. Questo vale tanto per i Paesi del Golfo quanto per l’Europa.
Le aziende israeliane non vendono solo prodotti, ma soluzioni integrate, spesso sviluppate in contesti operativi reali. È un elemento che pesa enormemente nelle scelte di governi e forze armate, soprattutto in una fase in cui le minacce sono percepite come concrete e immediate.
Il paradosso, soprattutto in Europa, è evidente. Da un lato cresce la pressione politica e mediatica su Israele per Gaza; dall’altro, gli Stati europei firmano o espandono accordi miliardari proprio nei settori più sensibili: difesa, energia, tecnologia critica. È una frattura tra discorso pubblico e decisioni strategiche che racconta molto delle priorità reali dei governi.
Israele, nel frattempo, continua a muoversi su più piani: rafforza le alleanze regionali nate con gli Accordi di Abramo, consolida il rapporto con i grandi Paesi europei e si propone come attore imprescindibile nei dossier energetici del Mediterraneo.
Chi vuole capire davvero il posizionamento del Paese deve guardare a questi accordi, più che alle dichiarazioni di giornata. È lì, nei contratti firmati e nelle interdipendenze costruite, che si misura la reale centralità di Israele negli equilibri dei prossimi dieci anni.

(Alessandro Di Battista) – Ursula von der Leyen dovrebbe dimettersi all’istante. E’ il pericolo pubblico numero 1 in Europa. Incapace, arrogante, guerrafondaia, bugiarda.
1. Ha minacciato risposte durissime contro gli autori dell’attacco terroristico ai gasdotti Nord Stream nel Baltico per poi restare in silenzio quando si è saputo che erano stati gli ucraini (tra l’altro guidati da Valerij Zalužnyj, l’allora numero 1 dell’esercito di Kiev).
2. Ha più volte (come la Meloni del resto) scommesso sulla vittoria ucraina sostenendo che fosse obiettivo europeo la vittoria di Kiev. Obiettivo europeo non la Pace ma la vittoria di Kiev contro una potenza nucleare. Irresponsabile!
3. Ha mentito ai cittadini europei sostenendo pubblicamente che l’esercito russo fosse un’armata Brancaleone e che i soldati di Mosca smontassero frigoriferi e lavastoviglie per trovare componentistica militare.
4. Non ha fato nulla (e continua a non far nulla) contro il genocidio dei palestinesi. Si è di fatto sempre opposta a sanzioni verso lo Stato genocida di Israele (Israele è alla sbarra per genocidio presso la Corte Internazionale di Giustizia) mentre ha fatto approvare 19 pacchetti alla Russia. Ipocrita!
5. Per anni ha parlato della transizione ecologica come una questione di vita o di morte e poi l’altro ieri la Commissione europea da lei presieduta ha dato l’ok alla vendita di auto con motori termici (benzina e diesel) anche dopo il 2035. Pensate le balle che ci ha detto anche su questo.
6. Infine si è esposta pubblicamente sul sequestro degli asset russi per proseguire la guerra (sarebbe stato un vero e proprio furto che avrebbe esposto l’intera Europa a contraccolpi incalcolabili) e ha perso su tutta la linea. Si è consolata facendo approvare un prestito da 90 miliardi (più di 3 finanziarie italiane) a Zelenzky per i prossimi anni. Soldi ovvianente dei contribuenti europoei, italiani inclusi.
Ursula è una nullità politica, una vergogna continentale che occupa la poltrona più importante della Commissione europea grazie, lo ricordo, al Partito Democratico, a Forza Italia e a Fratelli D’Italia, dunque anche grazie alla Meloni che adesso prova a farci credere di non averla mai sostenuta.
In dieci anni ha saldato il Fmi prima del tempo e sta ripagando il debito con Bruxelles. Ora uno dei suoi è stato nominato a capo dell’Eurogruppo. Con l’applauso della Germania

(Federica Bianchi – lespresso.it) – Quando Alexis Tsipras, il premier che condusse la sinistra greca al potere a inizio millennio per poi essere divorato dalla crisi finanziaria, qualche giorno fa ha presentato il suo libro, Itaca, ha spiegato le ragioni del titolo: «Itaca non è una destinazione, è un viaggio eterno». Quello della sinistra greca, certamente. Ma anche quello della Grecia tout-court. Un viaggio dai risvolti sorprendenti, che nell’ultimo decennio ne ha profondamente trasformato il tessuto economico, conducendola dallo status di paria a quello d’esempio per l’Europa.
Nel 2009 a portare i venti della tempesta finanziaria americana in Europa fu proprio Atene, con l’annuncio a un esterrefatto gruppo di ministri delle Finanze europeo del ministro George Papaconstantinou: il deficit del Paese era quattro volte quello permesso dal patto di stabilità e due volte quello precedentemente dichiarato. Partirono le verifiche e il nuovo responsabile dell’ufficio di statistica, alla fine del 2010, scoprì che il deficit reale arrivava addirittura al 15,4 per cento.
Fu l’inizio ufficiale della Tragedia greca e della Grande crisi europea. Anni di scossoni politici ed economici che portarono Syriza al potere, seppellendo il dualismo politico tra socialisti e conservatori. Fino a quando nel 2015 Atene, stretta nella morsa dell’austerità dalla Troika (il trio composto da Commissione europea, Banca centrale europea e Fondo monetario internazionale) fu a un passo della Grexit, con Tsipras disperato, in maniche di camicia bianca tra Bruxelles e Atene, costretto ad accettare un accordo capestro che avrebbe salvato la Grecia e l’euro ma che tradì il suo elettorato, gettò in povertà la metà della popolazione e distrusse la sua carriera politica. Nel 2019 vinse le elezioni il conservatore Kyriakos Mitsotakis, ancora oggi al potere.
Dieci anni più tardi arriva l’ultima svolta. Quel gruppo di ministri delle Finanze, l’Eurogruppo, che voleva la Grecia fuori dall’euro, la settimana scorsa ha nominato un greco, Kyriakos Pierrakakis, alla sua guida. Nel discorso di insediamento ha dichiarato di volere rendere quei 20 membri dell’Euro «un corpo unico, da Nord a Sud, da Est a Ovest, superando le vecchie divisioni tra frugali e spendaccioni». Compito complesso, ma oggi alleggerito dalla caduta degli stereotipi tradizionali con il crollo del sistema economico tedesco, l’esplosione del debito francese e la rimonta dell’economia greca.
A favorire Pierrakakis rispetto al più competente belga Vincent van Peteghem ha contribuito la riluttanza del Belgio a sbloccare i fondi russi congelati per sostenere l’Ucraina. Ma è stata la svolta economica della Grecia, che ha ripagato i prestiti del Fondo monetario in anticipo e sta restituendo in tempo quelli europei, a decretare che fosse il momento che un greco guidasse la moneta unica. Tanto più che la sua crisi ha salvato l’euro stesso, con la creazione del Meccanismo economico di stabilità (Esm) e la definizione della Bce come prestatrice ultima. «A causa della Grecia l’Europa è cambiata», ha detto Yannis Stournaras, governatore della Banca centrale greca: «La Grecia è stata l’ostetrica della Storia».
Dopo avere sforato la soglia del 200 per cento rispetto al prodotto interno lordo, il debito greco si è attestato oggi a poco più del 150 per cento e, nel giro di un paio d’anni, dovrebbe scendere al 138 per cento, uguagliando il dato dell’Italia.
Il rapporto debito/Pil migliora anche perché l’economia è cresciuta negli ultimi anni a una media del due per cento, superiore a quella dell’Eurozona, dopo periodi di tassi negativi al 5 per cento, grazie a una vivace ripresa dei consumi interni, all’aumento degli investimenti e al buon utilizzo dei fondi del Recovery fund. Un capovolgimento radicale rispetto alla situazione del 2015 quando l’allora ministro delle Finanze tedesco Wolfang Schauble avrebbe voluto la Grecia fuori dall’euro.
«Permettetemi di dire che seguiamo con il più grande rispetto quello che la Grecia ha fatto dalla crisi finanziaria del 2009», ha detto il cancelliere tedesco Friedrich Merz durante la visita di Mitsotakis a Berlino lo scorso maggio: «Ha dei tassi di crescita che qui in Germania possiamo solo sognare».
Anche la disoccupazione, per cui la Grecia era tristemente famosa, è crollata. Durante gli anni della Grande crisi oltre un quarto della popolazione attiva non aveva lavoro: adesso è scesa all’otto per cento. E, forse il miglior segnale che molto è cambiato, i greci stanno rientrando in Patria. Nel secondo decennio di questo secolo circa 600mila persone, per lo più giovani, avevano lasciato malvolentieri le loro case alla ricerca di un lavoro in Europa. Oggi i dati citati dal vice primo ministro Kostis Hatzidakis indicano che due terzi di loro sono tornati, incoraggiati dai nuovi investimenti, dalla politica fiscale del governo, che ha dimezzato le tasse sul reddito per sette anni per chi ne ha vissuti almeno cinque all’estero, dall’aumento dei salari del 28 per cento dal 2016, ma anche dal desiderio di uno stile di vita magari meno ambizioso e remunerato, ma più rilassante e, nel 30 per cento degli intervistati, in un Paese inondato dal sole.
Il rientro di personale altamente qualificato sta rafforzando non solo il comparto tecnologico – inesistente prima della crisi – ma anche i settori delle costruzioni, dell’educazione e della salute, e sta irrobustendo la produttività complessiva, il vero tallone d’Achille della Grande ripresa greca.
Non tutti i problemi sono infatti risolti. Debole produttività – meno della metà della media europea, investimenti in crescita ma ancora al di sotto della media europea del 20 per cento del Pil, persistenti sacche di povertà in alcune fasce della popolazione e episodi di corruzione in alcuni settori (come quello agricolo) dopo il boom della digitalizzazione dei servizi pubblici negli anni del Covid voluta anche per ridurre l’evasione fiscale, hanno spinto Mitsotakis all’adozione di alcune misure controverse che recentemente ne hanno indebolito il sostegno popolare, intorno al 23 per cento dei consensi. Convincendo Tsipras che un ritorno nell’arena politica, come grande unificatore di una sinistra debole e frammentata, sia possibile.
Tra gli strali dei sindacati, il premier ha introdotto infatti la possibilità di lavorare sei giorni a settimana in alcuni settori – l’industria manifatturiera, le aziende che operano 24/7 e quelli con comprovata carenza di manodopera –pagando il sesto giorno il 40 per cento in più della retribuzione giornaliera. Quest’anno ha poi aumentato a 13 il numero di ore che possono essere lavorate nello stesso giorno per lo stesso datore di lavoro.
Si tratta di misure controverse che vanno in controtendenza rispetto a quelle dai Paesi del Nord Europa, dove la settimana lavorativa si sta progressivamente riducendo a quattro giorni, e che rischiano di azzerare quell’equilibrio tra vita e lavoro che fino a oggi ha riportato in Patria tanti giovani. Un lusso questo che la Grecia non si può permettere. Perché dopo anni di distruzione di ricchezza dovrà continuare a crescere più della media europea almeno per altri 15 anni. Se non eterno, il viaggio è certamente ancora lungo.
FI, “pronti ad aggregare Azione se ci sono le condizioni”

(ANSA) – ROMA, 19 DIC – “Il candidato premier dipenderà dalla legge elettorale. Noi preferiremmo che restasse la storica regola che il partito della coalizione che prende più voti indica il capo del governo”. Lo ha detto il portavoce di FI Raffaele Nevi ad Affaritaliani.
Un possibile allargamento di Forza Italia, in vista delle politiche? “Noi siamo aperti a tutti quelli che vogliono aggiungersi e che condividono i nostri valori.
Riteniamo da tempo che serva una razionalizzazione dell’offerta politica. Forza Italia cresce quotidianamente come iscritti e adesioni anche di consiglieri comunali, provinciali e regionali in ogni parte d’Italia e per il voto delle Politiche siamo aperti al 100% ad aggregare chi condivide i nostri valori, compresa Azione se ci fossero le condizioni”, ha risposto.
Fratelli d’Italia e Noi moderati esultano per gli emendamenti alla manovra: “Garantita libertà di scelta per le famiglie a basso reddito”. Floridia (M5s): “Soldi da destinare all’istruzione pubblica”

(ilfattoquotidiano.it) – Le scuole paritarie possono gioire in vista della legge di Bilancio, grazie a 3 regali: esenzione Imu, 20 milioni per il cosiddetto “Buono scuola”, ’fondo incrementato di 86 milioni di euro. Le paritarie sono gli istituti privati dove si paga una retta annuale, ma con lo stesso valore legale dell’istruzione pubblica.
L’annuncio dei 20 milioni è giunto da Maurizio Lupi e l’ex ministra della Scuola Maria Stella Gelmini, esponenti di spicco di Noi Moderati, dopo il sì del Senato all’emendamento sul cosiddetto “buono scuola”. Ovvero un contributo fino a 1.500 euro per gli studenti iscritti a una scuola paritaria delle medie o al primo biennio delle superiori. Per accedere al bonus, ha spiegato Lupi, “c’è un limite ISEE di 30mila euro” l’anno. Secondo il segretario di Noi moderati, “viene riconosciuto concretamente il principio della libertà di scelta delle famiglie, a cui la nostra Costituzione riconosce il diritto e il dovere dell’educazione dei figli (art. 30)”. Anche Gelmini è della stessa idea: “Aiutare le famiglie economicamente più svantaggiate e sostenere tante scuole paritarie di periferia è un atto doveroso per garantire, così come previsto dalla Costituzione, libertà di scelta educativa e pluralismo scolastico”. Secondo i detrattori, invece, si tratta di risorse sottratte all’istruzione pubblica, già all’osso.
Anche Fratelli d’Italia festeggia il “buono scuola”, ma rilancia con l’esenzione Imu e l’incremento di 86 milioni del fondo dedicato per scuole paritarie. Queste ultime dunque non dovranno più pagare l’imposta sugli immobili destinata ai comuni, “dando finalmente pieno riconoscimento al ruolo sociale che esse svolgono”, ha dichiarato Lorenzo Malagola, deputato di Fratelli d’Italia. Giova ricordare, tuttavia, come l’esenzione Imu non dovrebbe riguardare le attività con finalità di lucro, un principio ribadito dalla Cassazione. Ma le destre esultano: “Finalmente la parità scolastica diventa realtà, come aveva promesso Giorgia Meloni al Meeting di Rimini di quest’anno”, ha ricordato Malagola.
Molto critico il M5s con Barbara Floridia: “I soldi che stanno elargendo a chi manda i figli alle scuole private potevano invece essere destinati a cose diverse: per esempio l’educazione digitale, che noi abbiamo inserito e loro lasciano senza finanziamenti”.
I prossimi dodici mesi si profilano come la stagione più delicata della legislatura per il centrodestra. Con la fine di Superbonus e Pnrr l’economia rallenterà. E il referendum sulla giustizia sarà un voto pro o contro Giorgia. Se l’esecutivo reggerà l’urto ne uscirà più forte. Altrimenti si apriranno scenari nuovi

(di Enrico Mingori – tpi.it) – Giorgia Meloni si affaccia sul nuovo anno forte di sondaggi che stimano il suo partito, Fratelli d’Italia, saldamente intorno al 30% dei consensi. La fiducia di cui gode la presidente del Consiglio costituisce un’assicurazione sulla vita – anzi, un’assicurazione sul governo – anche per gli altri partiti della maggioranza, Lega, Forza Italia e Noi Moderati. Malgrado le divergenze interne, la coalizione continua ad apparire robusta, o quantomeno più solida rispetto a un centrosinistra dai contorni ancora nebulosi. Tuttavia i prossimi dodici mesi si profilano come i più delicati della legislatura per l’esecutivo di centrodestra.
La situazione economica stagnante e il referendum sulla giustizia rappresentano insidie dalle quali Meloni uscirà inevitabilmente o più forte o più debole rispetto a oggi, con effetti che potrebbero rivelarsi determinanti per l’esito delle elezioni politiche del 2027.
Stagnazione
Già oggi il Pil dell’Italia meloniana è tra i più anemici dell’Unione europea: secondo i calcoli della Commissione, la crescita acquisita per il 2025 è dello 0,4%; solo in Austria, Finlandia e Germania è più bassa, mentre la media nell’Ue è dell’1,4%.
Ma il peggio deve ancora venire: nel prossimo biennio, infatti, il ritardo del nostro Paese aumenterà. Per il 2026 Bruxelles si attende un +0,8% che ci vedrebbe penultimi davanti alla sola Irlanda, e nel 2027 – con un Pil ancora a +0,8% – dovremmo scivolare all’ultimo posto. Nel frattempo la Spagna correrà a una velocità più che doppia rispetto a noi e la “moribonda” Germania dovrebbe ricominciare a dare segni di vita passando dallo 0,2% attuale fino all’1,2%.
Consolidarci come l’economia più fiacca d’Europa sarà sufficiente a scalfire la tenuta del Governo? Chissà. Quel che è certo è che le previsioni del Ministero dell’Economia guidato da Giancarlo Giorgetti sono in linea con quelle dell’Ue: nel Documento Programmatico di Bilancio il Mef ha indicato una crescita dello 0,5% per il 2025, dello 0,7% nel 2026 e dello 0,8% nel 2027. A constatare e profetizzare la stagnazione, insomma, non sono solo i «gufi» europei ma è il nostro stesso governo.
D’altronde, la manovra appena varata – la più leggera degli ultimi anni – fa poco o nulla per invertire la rotta. L’Istat e l’Ufficio Parlamentare di Bilancio l’hanno analizzata e sono giunti entrambi alla stessa conclusione: la finanziaria non inciderà sul Prodotto interno lordo.
Manovra debole
La misura-bandiera della Legge di Bilancio è la riduzione dell’aliquota Irpef dal 35 al 33% per la fascia di reddito tra i 28mila e i 50mila euro. Con questo intervento il Governo afferma di voler sostenere il potere d’acquisto delle famiglie. Peccato che – come ha calcolato l’Istat – il beneficio medio annuo sarà pari ad appena 230 euro per ciascun contribuente e comunque corrispondente a un aumento sotto l’1% del reddito familiare. Poca, pochissima roba.
Per giunta, Istat e Banca d’Italia hanno rilevato che la finanziaria tende a favorire in quota maggiore le fasce più abbienti. In particolare, secondo l’Istituto di Statistica l’85% delle risorse stanziate per il taglio Irpef andranno nelle tasche delle famiglie che rientrano nei due quinti più ricchi della popolazione. Il tutto mentre ormai un italiano su dieci vive in condizioni di povertà assoluta. E mentre le retribuzioni contrattuali risultano in media inferiori dell’8,8% rispetto al 2021 in termini reali.
Questi numeri finiscono per sgonfiare i record di occupazione spesso sbandierati da Meloni. Peraltro, se è pur vero che con questo governo il tasso di occupati ha toccato il livello massimo da quando esistono le rilevazioni (62,7%), va anche precisato che il dato è influenzato in misura decisiva da due fattori su cui la premier astutamente sorvola.
Il primo è che nell’arco dei tre anni di esecutivo di centrodestra il tasso di occupazione è aumentato quasi esclusivamente tra i lavoratori anziani: nella fascia d’età tra i 50 e i 64 anni è salito dal 62 al 67,1%, mentre per i 15-24enni è sceso dal 20,1 al 17,5%. Si tratta di una dinamica legata alla Legge Fornero, che costringe le persone a lavorare più a lungo: norma che il centrodestra aveva promesso di smantellare e che invece è rimasta intaccata.
Il secondo fattore riguarda l’impatto provocato sul mercato del lavoro da Superbonus edilizio e Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza, due provvedimenti su cui il centrodestra non può rivendicare particolari meriti. Il Centro Studi di Confindustria stima ad esempio che, senza il Pnrr, quest’anno il Pil dell’Italia sarebbe stato negativo (-0,3%) e nel 2026 sarebbe inchiodato a +0,1%.
Presto i nodi verranno al pettine: il Superbonus è finito e i fondi del Next Generation Eu devono essere spesi tassativamente entro l’estate prossima, dopodiché si inizierà a vedere qual è il reale stato di salute della nostra economia. Sulla quale peserà anche il macigno dei dazi statunitensi.
Crescita piatta, povertà diffusa e soprattutto salari bassi rischiano di alimentare il malcontento degli italiani nei confronti del Governo.
Armi sì, welfare no
In questa manovra Meloni e Giorgetti hanno badato soprattutto a mantenere in ordine i conti pubblici. Abbassando il deficit sotto la soglia di allarme sancita dall’Ue, il Governo italiano si è assicurato l’uscita dalla procedura d’infrazione europea per squilibri di bilancio, passaggio importante per poter accedere ai fondi di Safe, il nuovo strumento costituito dalla Commissione per elargire prestiti destinati a sostenere la spesa militare: nello specifico, Roma ha reso noto che chiederà una linea di credito da 15 miliardi di euro. Somma che evidentemente andrà restituita nel tempo.
Come noto, la presidente Meloni ha impegnato l’Italia davanti agli Stati Uniti ad aumentare le erogazioni per la difesa fino al 5% del Pil entro il 2035 (a fronte del 2% attuale). Ma, mentre in una prima fase i meccanismi predisposti da Bruxelles consentiranno di finanziare le commesse di armi senza alterare gli equilibri del bilancio pubblico, nel lungo periodo una maggior spesa militare comporterà tagli su altre voci. Non si scappa.
«Un aumento permanente della spesa per la difesa dovrà necessariamente essere compensato da misure di riduzione della spesa in altri settori o di aumenti discrezionali delle entrate», ha sintetizzato l’Ufficio Parlamentare di Bilancio.
Sarà complicato spiegare all’opinione pubblica che per comprare più caccia o veicoli corazzati bisogna sforbiciare il welfare, oppure alzare le tasse. Tra parentesi: già oggi la pressione fiscale è al livello più alto degli ultimi dieci anni.
Il test delle urne
Un’economia zoppicante – ancor più se gestita con poche concessioni alla spesa sociale e molte alla difesa – può provocare contraccolpi sul consenso elettorale. Ma il rapporto fra le due cose non è affatto automatico, come dimostra anche il fatto che già oggi siamo in stagnazione, eppure Meloni è salda al suo posto. Se nemmeno le ulteriori difficoltà che si intravedono all’orizzonte riuscissero a scalfire il vantaggio della destra nei sondaggi, significherebbe che il Governo gode di una particolare resistenza agli urti e che la sua permanenza al potere è fortificata.
Economia a parte, tuttavia, è sul terreno della stretta politica che si giocherà la partita più decisiva del 2026 per il Governo Meloni. Entro fine marzo gli italiani saranno chiamati alle urne per il referendum confermativo sulla riforma della giustizia: per il centrodestra sarà un passaggio cruciale. Quasi da vita o morte.
La separazione delle carriere dei magistrati è un vecchio cavallo di battaglia in particolare di Forza Italia, ma le cronache giudiziarie degli ultimi anni – con innumerevoli episodi di scontro tra le toghe e l’esecutivo – lo hanno reso un tema visceralmente sentito anche dagli altri partiti della coalizione. La legge costituzionale firmata dal ministro della Giustizia Carlo Nordio rappresenta la risposta del Governo a una magistratura percepita e presentata come nemica.
Nelle fila dell’opposizione si registrano sensibilità diverse sul merito del quesito. Ciononostante, la consultazione popolare si risolverà di fatto in un referendum pro o contro Meloni. È inevitabile che sia così, benché la premier stia cercando di non incorrere nell’errore di personalizzare il voto, errore che nel 2016 costò la carriera politica a Renzi.
Il braccio di ferro che vede contrapposti centrodestra e giudici non lascia spazio alle sfumature: se vincesse il Sì, la maggioranza di governo avrebbe superato una prova di forza e potrebbe guardare al 2027 con il vento in poppa; viceversa, se prevalesse il No, una doccia gelata si riverserebbe sulla presidente del Consiglio, e anche la sua narrazione mediatica di successo dovrebbe cambiare, mentre il centrosinistra incasserebbe un’importante iniezione di fiducia.
Il cantiere del centrosinistra
Indipendentemente da quale sarà l’esito del referendum, il centrodestra ha già fatto sapere che nei prossimi mesi intende metter mano alla legge elettorale. Secondo indiscrezioni convergenti, si va verso un proporzionale puro con alta soglia di sbarramento e generoso premio di maggioranza per il partito o la coalizione vincente.
Meloni e i suoi alleati vogliono capitalizzare al massimo il vantaggio che hanno, ben sapendo che la legge attuale – che attribuisce un terzo dei seggi con il sistema maggioritario – potrebbe riservare brutte sorprese nei collegi uninominali, qualora il centrosinistra si presentasse con la formazione allargata del «campo largo».
Quest’ultimo è un altro dei temi più rilevanti da segnare sull’agenda politica del 2026. Il prossimo sarà un anno chiave anche per le opposizioni. Tra Partito Democratico, Movimento 5 Stelle, Alleanza Verdi e Sinistra, Italia Viva e Più Europa (Azione si è più volte chiamata fuori) entrerà nel vivo il confronto per dar vita a una coalizione con cui presentarsi alle elezioni del 2027. La grande sfida è mobilitare quel 40/50% di elettori che ultimamente disertano le urne, ma per riuscirci è indispensabile delineare una visione alternativa dell’Italia che sia chiara, credibile e semplice da comunicare. Se i partiti di centrosinistra ci riusciranno, il governo del Paese sarà ancora contendibile. Altrimenti, il centrodestra dovrà temere solo se stesso.
Dopo una notte complicata, nella maggioranza la tensione resta alta. Lunedì 22 la discussione generale, seguirà il voto. Martedì le dichiarazioni la fiducia in diretta tv

(di Emma Bonotti – repubblica.it) – Dall’oro al contributo per le paritarie al buono scuola, passando per il sostegno all’industria della difesa e i tagli al piano Casa. Si allunga la lista di emendamenti che ottengono il via libera dalla commissione Bilancio del Senato. Dopo una notte complicata, nella maggioranza la tensione resta alta.
Restano da sciogliere il nodo delle risorse per l’editoria: nella nuova bozza trovano spazio anche 60 milioni per il 2026, senza penalizzare le tv locali. Sul tavolo anche l’emendamento del governo arrivato stamattina che stralcia i temi della previdenza, i rifinanziamenti di Zes e Transizione

Tra i primi a ottenere l’ok della Commissione è l’emendamento a favore della difesa, che prevede l’individuazione di aree, opere e progetti infrastrutturali per “l’ampiamento, conversione, gestione e sviluppo delle capacità industriali della difesa”. L’obiettivo, recita il testo, è “tutelare gli interessi essenziali della sicurezza dello Stato e di rafforzare le capacità industriali della difesa riferite alla produzione e al commercio di armi, di materiale bellico e sistemi d’arma”.
Secondo quanto ricostruisce Radiocor, la misura punterebbe a interventi per l’ampliamento e l’adeguamento di alcune basi militari esistenti funzionali ad alcuni programmi di interesse strategico per la difesa: esempi di questi interventi potranno riguardare le aree per prove e test dei nuovi carri armati e mezzi di fanteria prodotti da Leonardo-Rheinmetall o la pista di addestramento degli F-35 nella base di Trapani-Birgi.
Via libera in commissione Bilancio al Senato all’emendamento sull’oro. Il testo, così come riformulato dal governo, sancisce che le riserve auree della Banca d’Italia appartengono al popolo italiano. L’emendamento riformula la proposta di Fratelli d’Italia, inserendo il riferimento al trattato sul funzionamento dell’Unione Europea.
Da gennaio scatterà poi il raddoppio (dallo 0,2% allo 0,4%) della Tobin tax, la tassa sulle transazioni finanziarie. Arriverà anche una nuova tassa di 2 euro sui piccoli pacchi in arrivo dai paesi extra Ue e di valore fino a 150 euro.
Inoltre, per i contratti assicurativi stipulati dall’anno nuovo sale al 12,5% l’aliquota sulla polizza Rc auto per gli infortuni del conducente e di rischio di assistenza stradale.
Nel 2026 arriverà anche un sostegno alle paritarie. Si tratta di un contributo fino a 1.500 euro per le famiglie con Isee entro i 30mila euro. Un buono scuola che riguarda gli studenti che frequentano una scuola paritaria secondaria di I grado o il primo biennio di una scuola paritaria di II grado. Vale a dire le medie o il primo biennio delle superiori.
La misura sarà determinata secondo scaglioni inversamente proporzionali al reddito Isee e ha un tetto di spesa di 20 milioni di euro per il prossimo anno. Servirà un decreto del ministro dell’Istruzione, di concerto con il ministro dell’Economia, per fissare i criteri nel dettaglio “tenuto conto delle somme riconosciute” per lo stesso obiettivo dalle Regioni.
Ottengono il sì della commissione anche gli emendamenti su banche, affitti brevi e dividendi. Nel dettaglio, agli istituti di credito vengono chiesti 605 milioni in più per i prossimi due anni, con una riduzione della deducibilità sulle perdite, mentre l’aumento dell’Irap – l’imposta sulle attività produttive – resta al 2%.
Quanto alle cedole, viene drasticamente ridotto rispetto al testo varato in Cdm l’introito della tassazione dei dividendi sulle holding, passando da 736 a 35 milioni per il prossimo anno, limitando il regime dell’esclusione alle società controllate superiori al 5% o di importo superiore a 500mila euro.
Cambia anche l’aliquota sugli affitti brevi con finalità turistica: oltre i due immobili diventa reddito di imposta: sulla prima casa resta al 21%, sulla seconda al 26%.
C’è il via libera anche sulla riformulazione della norma sui pagamenti da parte della pubblica amministrazione ai professionisti, con alcuni ‘paletti’ in caso di irregolarità fiscale, come anche sull’emendamento che permette alle aziende agricole in difficoltà di aderire alla rateizzazione per il pagamento delle multe delle quote latte.
Saltano i 150 milioni di euro attesi in manovra per il piano Casa nel 2026. Secondo una riformulazione del governo alla manovra presentata in commissione Bilancio, si autorizza una spesa di 50 milioni nel 2027 e altri 50 nel 2028, contro i 150 milioni previsti nel 2026 e altrettanti nell’anno successivo previsti nella prima versione della modifica. Secondo quanto riporta Adnkronos, lo stanziamento per il prossimo anno andrebbe sul nuovo decreto da varare entro fine 2025.
Ritirata la riformulazione dell’emendamento che rintroduceva il condono del 2003 per sanare tutte le tipologie di illecito previste (dalle opere realizzate in assenza o difformità di titolo abitativo alle opere di manutenzione straordinaria, compresi restauri), con poche eccezioni.
Oltre alla stretta sulle pensioni, stralciata nella notte nella sua interezza, dall’emendamento del governo alla manovra saltano anche le norme sul Tfr per i nuovi assunti. La misura – contenuta nella prima versione della proposta di modifica a firma dell’esecutivo – prevedeva l’adesione automatica alla previdenza complementare per i lavoratori dipendenti del settore privato di prima assunzione.
Salta il nuovo contributo di 1,3 miliardi chiesto alle assicurazioni. La misura non è contenuta infatti nel maxi emendamento presentato questa mattina dal governo. La norma introduceva un meccanismo che prevedeva il versamento a titolo di acconto pari all’85% del contributo sul premio delle assicurazioni dei veicoli e dei natanti dovuto per l’anno precedente.
Ridurre la realtà geopolitica a due campi è un errore logico: l’intervento del matematico sulla guerra in Ucraina

(ilfattoquotidiano.it) – “Io putiniano? No, perché per essere putiniano bisogna essere d’accordo con Putin. E io non sono d’accordo con Putin e non sono però nemmeno d’accordo con l’Occidente“. Sono le parole pronunciate a Battitori Liberi, su Radio Cusano Campus, da Piergiorgio Odifreddi, che in questo modo respinge la solita e pressante accusa indirizzata a giornalisti, intellettuali e commentatori critici verso la linea euro-atlantica sulla guerra in Ucraina.
Il matematico e saggista chiarisce subito il punto centrale del suo ragionamento: “Il mondo non è fatto in questo modo, le cose non sono bianche e nere e soprattutto non ci sono solo due valori di verità“. Odifreddi richiama la logica classica, disciplina che ha insegnato per anni, per contestare un dibattito pubblico ridotto a una contrapposizione rigida. A suo giudizio, è perfettamente possibile “essere contro Putin e contro l’Occidente allo stesso tempo e per gli stessi motivi”, ma in Italia questa posizione viene sistematicamente delegittimata.
Nel discorso pubblico, osserva, la critica all’Occidente viene interpretata come una prova di schieramento opposto: “Se sei contro l’Occidente, sei un putiniano”. Una semplificazione che Odifreddi sintetizza con una formula ironica: “I nemici dei nostri nemici sono i nostri amici e viceversa. Gli amici dei nostri nemici sono i nostri nemici”. Questo motto, secondo il matematico, non descrive il mondo reale e non lascia spazio a chi rifiuta la guerra come strumento politico, indipendentemente da chi la combatta.
Odifreddi colloca poi il conflitto ucraino in una sequenza storica più ampia. “La guerra in Ucraina è cominciata a febbraio del 2022”, ricorda, ma sei mesi prima l’Occidente usciva dall’Afghanistan. “Nell’agosto del 2021, noi europei siamo usciti dall’Afghanistan, anzi gli ultimi a uscire dall’Afghanistan siamo stati noi italiani”. Una guerra durata vent’anni, ufficialmente dichiarata dalla Nato, che secondo Odifreddi è costata “migliaia di miliardi, non centinaia come oggi”.
Questa cronologia alimenta una domanda che attraversa tutto il suo intervento: quale credibilità ha una coalizione che si indigna per un conflitto dopo averne appena concluso un altro, lungo e devastante? Odifreddi richiama anche una lettura diffusa secondo cui “Biden era uscito dall’Afghanistan proprio per liberarsi le mani e poter spingere la guerra, diciamo così, dall’altra parte sul fronte ucraino“. Senza negare la gravità dell’invasione russa, sottolinea una continuità nelle pratiche occidentali: “Certo, ci si deve scandalizzare per la guerra in Ucraina, però noi queste cose le abbiamo sempre fatte”.
Il matematico denuncia poi una profonda confusione storica e culturale. “Molti confondono la Russia con l’Unione Sovietica, col comunismo, credono che Putin sia un comunista, credono che l’Unione Sovietica sia ancora in vita”. Racconta di sentirsi spesso dire: “Vada in Russia, poi così vede come si vive”, come se il Paese fosse rimasto fermo all’età della pietra. “Abbiamo un’ignoranza spaventosa, un po’ di storia non farebbe male“, osserva.
Secondo Odifreddi, questa ignoranza emerge anche nelle dichiarazioni di esponenti istituzionali europei. Cita il caso di Kaja Kallas, Alto Commissario europeo per la Politica Estera e di Sicurezza, che sostiene che negli ultimi cento anni la Russia abbia invaso diciannove Paesi senza essere mai stata attaccata.
Odifreddi ricorda il contesto personale della dirigente europea: “Sua madre, sua nonna e la sua bisnonna furono deportate dai sovietici nel 1949 in Siberia”. Comprende il peso di una simile storia familiare, ma arriva a una conclusione esplicita: “Io capisco benissimo che uno che ha una storia familiare di questo genere veda la Russia come il diavolo, però non la si mette agli affari esteri e alla sicurezza della Commissione europea”.
Odifreddi si pronuncia anche sulle parole del presidente della Repubblica Sergio Mattarella riguardo alla Russia e ai confini: “Vorrei che il capo dello Stato mi indicasse un Paese i cui confini non sono stati ridisegnati con la forza“. A suo giudizio, “tutti gli Stati sono stati definiti attraverso la forza” e la Russia, Paese vastissimo e privo di confini naturali, ragiona in termini di sicurezza strategica.
Nel caso ucraino, osserva, “è chiaro che preferisca avere uno Stato cuscinetto”. Odifreddi distingue tra le guerre tra Stati confinanti, legate a tensioni territoriali e geopolitiche, e quelle combattute da potenze lontane migliaia di chilometri: “Altra cosa sono le guerre di nazioni che vanno dall’altro capo del mondo a invadere altri paesi”. Senza giustificare l’aggressione russa, conclude: “Non dico che va bene così, ma non ci si deve stupire di quello che è accaduto in Ucraina”.
ScenaTeatro presenta
“Traccia di Mamma”
a Palazzo Marone a Monte San Giacomo (Salerno)
Sabato 20 dicembre 2025 ore 21 | Ingresso Libero
Il Sindaco Angela D’Alto: “La drammaturgia di Antonello De Rosa ci offre una riflessione sulla contemporaneità. Qualità per un’offerta culturale e artistica resa fruibile per il nostro territorio”

Ancora una grande produzione targata Scena Teatro Management, in scena questo week end, sabato 20 dicembre 2025 alle ore 21 a Palazzo Marone a Monte San Giacomo (Parco Nazionale del Cilento, Vallo di Diano e Alburni in provincia di Salerno), con lo spettacolo cult “Traccia di Mamma” scritto diretto ed interpretato da Antonello De Rosa. Il teatro diventa occasione di scoperta delle aree interne della Campania e delle bellezze del Vallo Di Diano, attraverso un itinerario artistico che si muove sul filo della cultura.
Prosegue, così, la rassegna di drammaturgia contemporanea “Ditirambi Valdianesi”, diretta dal Maestro Antonello Mercurio, inserita nella più ampia progettualità sovracomunale “Custodi del Tempo Fest – Borghi e Tradizioni del Vallo di Diano” – che vede come capofila il Comune di Monte San Giacomo – con l’obiettivo di valorizzare il grande patrimonio culturale del territorio, snodandosi tra musica, teatro, itinerari religiosi e turistici.
«Abbiamo deciso di aprire la rassegna itinerante “Custodi del Tempo Fest” a Monte San Giacomo con questo spettacolo di Scena Teatro perché la drammaturgia di Antonello De Rosa e della sua compagnia è molto apprezzata nel Vallo Di Diano – esordisce il Sindaco Angela D’Alto – Abbiamo deciso di proporre, per le festività di Natale un’offerta culturale e musicale ampia per incontrare i gusti di un pubblico variegato, offrendo momenti di svago, ma anche di riflessione su temi più importanti. Il teatro, con il suo impatto emozionale e profondo riesce a scuotere le coscienze. L’idea creativa che sottende la progettualità, condivisa con gli amministratori dei Comuni coinvolti e con il direttore Antonello Mercurio, è la scelta qualitativa: abbiamo selezionato il meglio dell’offerta culturale e artistica per condividerla e renderla fruibile al nostro territorio».
La cultura diventa, quindi, veicolo di promozione culturale. «Siamo molto orgogliosi di portare la nostra arte nel Vallo di Diano, in un percorso di valorizzazione della grande eredità culturale delle aree più interne della Campania, tra borghi storici, tradizioni, identità e natura. Siamo orgogliosi della collaborazione con Ditirambi Valdianesi, che ci permette di sperimentare attraverso la cultura.
e ringraziamo la sindaca Angela D’Alto per averci voluti fortemente. Il teatro è un presidio essenziale anche nella formazione delle giovani generazioni. Teatro di parole, di impegno civile, di entertainment, che ha la funzione di far pensare e di riattivare le menti ormai assopite dall’immediatezza dei social e da ciò che ci circonda. Non siamo più predisposti al pensiero, mentre il teatro ci obbliga al pensiero. È questa la missione di Scena Teatro», sottolineano Antonello De Rosa, regista, attore e fondatore di Scena Teatro, e Pasquale Petrosino, Direttore Organizzativo.
Antonello De Rosa torna ad indagare l’essere umano. “Traccia di Mamma” racconta il lento e implacabile tormento di una donna smarrita nel labirinto della sua mente offuscata. Una donna alla deriva, schiacciata dalla follia e dalla memoria, da ricordi spesso abbaglianti, dal dolore di una perdita assurda e maledetta, affaticata da un ruolo e da una vocazione, da un’allucinazione che crede vera e reale e in cui continuamente si perde.
«Le mie donne si consumano in silenzio, carnefici e vittime, luce e oscurità, trascinandosi per strade strette e buie e malinconicamente lunghe, senza orizzonti, ignorando l’alba, i tramonti, il mare – sottolinea il regista Antonello De Rosa – In una scenografia essenziale, attraverso un sapiente gioco di luci, prende vita la parola, assaporata e restituita con forza nuova, rivissuta nella sua brutale dolcezza e nella sua morbida crudezza».
E si odono le voci di donne, di una donna che incarna tutte le altre, nelle righe sofferte di solo due dei quattro monologhi previsti: mischiate, confuse, immerse in una rete di simboli e segni, che diventano un vero e proprio collante tra l’immagine e la parola, tra il gesto e il senso.
Una pazza che crede di essere la Madonna, una donna sola che trova nel telefono l’unica salvezza e una madre che scopre con orrore la gravidanza della figlia. La follia che spinge la donna in una tunica che è una camicia di forza e in una camicia di forza che è una tunica, tra lo sfavillio dei paramenti sacri, è senz’altro scandalosa, ma ciò che rende inquietante questa figura è la sua inossidabile ostilità all’ipocrisia. La vicenda si gioca tutta sulla trama delle affinità e dei contrasti: la maternità di Adriana e quella della pazza del manicomio nascono da un’insaziabile e avida fame d’amore, ma vengono rifiutate e calpestate da chi vive la religione come superstizione stancamente reiterata; la donna che ripudia sua figlia, al punto da imporle il suicidio, rivela con inaudita ferocia il lato oscuro dell’essere madre, l’incapacità di perdonare, agli altri e a se stessi.
Non resta che un groviglio inestricabile di rabbia sacrilega e follia irriverente, su cui domina implacabile l’immagine di una Madonna-Bambola, cui spetta l’ingrato compito di farsi adorare da un’umanità che fa scempio dell’amore.
La maternità, l’amore, la follia, gli stereotipi, la salute mentale, l’equilibrio complesso dell’essere umano di trovare un senso alla realtà emergono con forza nel lavoro di Antonello De Rosa.
Un teatro dal risvolto psicologico, con una performance intensa e una drammaturgia densa, che cattura lo spettatore, lo avvolge e lo destruttura, aprendo nuovi orizzonti e stimolando a riappropriarsi del suo sentire, contro l’omologazione e la massificazione dei sentimenti di un’umanità sospesa. Teatro di parola, di impegno civile, di denuncia sociale contro l’indifferenza.
UFFICIO STAMPA & COMUNICAZIONE
Barbara Landi
Giornalista | Head of Communication | Digital Strategist
Virus Teatrali
in collaborazione con Teatro Madrearte – Teatro Smoda -Teatro Rostocco -Spazio Ottosognante
presenta
lettura integrale diffusa
“SCRITTI (ancora) CORSARI”
di PIER PAOLO PASOLINI
a cinquant’anni dalla morte
un’idea di | a cura di
GIOVANNI MEOLA
con 25 lettori/interpreti (in o. a.) Mario Autore | Daniele Arfè | Melania Balsamo | Fabio Boccalatte | Anna Bocchino | Serena Caffi | Francesca Caprio | Vincenzo Coppola | Antonio Dell’Isola Asia Del Regno | Michela Esposito | Cristian Izzo | Giuseppe Izzo | Simone Izzo | Giancarlo Lobasso | Giovanni Meola | Sara Missaglia | Angela Panico | Antonio Piccolo | Noemi Pirone | Simone Santagata | Francesco Serpico | Ferdinando Smaldone | Giulia Toscano | Chiara Vitiello
martedì 23 dicembre teatro MADREARTE a Villaricca ore 20.30
sabato 27 dicembre teatro SMODA a Sant’Arpino ore 20.30
domenica 28 dicembre teatro ROSTOCCO ad Acerra ore 20.00
lunedì 29 dicembre spazio OTTOSOGNANTE a Napoli ore 20.30

La compagnia Virus Teatrali, da sempre attenta alle voci disturbanti e analitiche del mondo della cultura italiana e internazionale, dopo aver reso omaggio dieci anni fa, il 2 Novembre 2015, alla figura di Pier Paolo Pasolini e a una raccolta di suoi articoli giornalistici pubblicati sui maggiori quotidiani italiani nei tre anni circa precedenti il suo brutale assassinio, ovvero i meglio conosciuti ‘Scritti Corsari’, ora indicati come ‘Scritti (ancora) Corsari’, ha deciso di riproporre la lettura interpretativa dei 25 articoli contenuti in quella raccolta, ma con una formula differente.
Coordinati da Giovanni Meola, 25 lettori/interpreti furono protagonisti di una lettura maratona integrale in tre postazioni diverse nel Complesso Monumentale di San Domenica Maggiore a Napoli, in collaborazione con l’Ass.to alla Cultura del Comune di Napoli.
In questa occasione, si è deciso di rendere l’evento ‘diffuso’, distribuendo i lettori/interpreti e le relative letture in 4 location differenti a suggellare il cinquantennio dalla scomparsa di un intellettuale mai organico e mai consolatorio, e per questo oltremodo necessario, come PPP.
Il 23 dicembre al Teatro Madrearte (via della Repubblica, n. 173 | Villaricca-NA), il 27 dicembre al Teatro Smoda (via Ercole Capone, n. 3 | Sant’Arpino-CE), il 28 dicembre al Teatro Rostocco (corso Italia, n. 124 | Acerra-NA) e il 29 dicembre nello spazio Ottosognante (via M. R. Imbriani, n. 93° | Napoli) si terrà questo omaggio a cura di Virus Teatrali in collaborazione con i quattro spazi ospitanti.
In ognuna delle serate, sempre alle ore 20:30, verranno presentate al pubblico sei letture, ciascuna interpretata da un attore diverso. La venticinquesima sarà appannaggio del curatore del progetto, che la presenterà in ciascuna delle quattro location. L’ingresso è libero con sottoscrizione volontaria.
Come dichiara Giovanni Meola che cura e coordina il progetto «Cinquant’anni dalla morte di Pier Paolo Pasolini. Cinquant’anni dal suo cruento assassinio, che ha lasciato questo paese orfano di una voce importante, inquietante, suggestiva, visionaria ed altra. Una voce difficilmente sostituibile per lucidità ed acutezza di analisi.
Insostituita a tutt’oggi, in un paese omologato e conformista oltre misura, non solo per sua intima natura ma per intolleranza profonda nei confronti di chi, omologazione e conformismo, li ha sempre identificati come malattie pericolose e in alcuni casi mortali. Di conformismo si muore, di omologazione ci si ammala.
Pasolini non aveva remore a dirlo, a urlarlo.
Ha pagato in vita e con la perdita della vita.
Ma il corpus del suo pensiero, delle sue provocazioni, delle sue visioni, dei suoi errori e delle sue intuizioni micidiali, dei suoi j’accuse e delle sue tenerezze, continua a vivere e a diffondersi, continua a provocare domande, dubbi, indignazioni, pensieri e azioni.
Pensando a questo anniversario, ho pensato ad un omaggio che fosse costruttivo: invitare attori ‘pensanti’ a testimoniare la loro attenzione e il loro ascolto a quelle parole, a quelle invettive, a quelle lucide analisi, a quei provocatori affondi, a quelle inimitabili architetture che furono gli ‘Scritti Corsari’, raccolta di articoli richiesti a Pasolini tra il Gennaio ’73 e il Febbraio ’75 da diverse, importanti, testate giornalistiche, a partire dal Corriere della Sera.
Far risuonare alte quelle parole, quei ragionamenti, quelle visioni sulla società italiana, i suoi limiti e le sue malattie, evidenti o striscianti, dovrebbe essere un imperativo per chi, come noi, lavora su temi, parole, sensazioni e contenuti legati ai nostri tempi, anche perché moltissime di quelle intuizioni hanno ‘pre-visto’ molto di quello che è accaduto poi.
Molto di quello che ‘ci’ sta accadendo tuttora.
Leggendo quegli articoli si ha come la sensazione che siano stati scritti pensando a noi, ai nostri tempi, ai nostri momenti.
Persone ed avvenimenti sono diversi, è ovvio, il mondo è cambiato, molto si è trasformato ma le analisi di Pasolini sono ancora lì a campeggiare, urticanti, intelligenti, in anticipo sui tempi, come se il suo terzo occhio fosse arrivato fino ad oggi (e forse anche oltre) per raccontare e descrivere difetti e pochezze dell’italica gente.
Gli Scritti sono ancora Corsari, oggi.
E degli Scritti, ancora Corsari, oggi abbiamo bisogno per imparare e ricordare chi eravamo, come eravamo e perché siamo diventati quello che Pasolini, in moltissimi casi, aveva previsto con la sensibilità di un intellettuale che sapeva anche senza avere le prove di ciò che sapeva».
di seguito la distribuzione (in o. a.) per singola serata
Teatro MADREARTE – 23 Dicembre – ore 20.30
Daniele Arfè – Vincenzo Coppola – Antonio Dell’Isola
Cristian Izzo – Sara Missaglia – Angela Panico
Teatro SMODA – 27 Dicembre – ore 20.30
Melania Balsamo – Anna Bocchino – Serena Caffi
Giuseppe Izzo – Francesco Serpico – Giulia Toscano
Teatro ROSTOCCO – 28 Dicembre – ore 20.00
Fabio Boccalatte – Francesca Caprio – Asia Del Regno
Giancarlo Lobasso – Noemi Pirone – Ferdinando Smaldone
Spazio OTTOSOGNANTE – 29 Dicembre – ore 20.30
Mario Autore – Michela Esposito – Simone Izzo
Antonio Piccolo – Simone Santagata – Chiara Vitiello

Sabato 20 dicembre alle ore 17 nell’Art Gallery della Casa di Bacco in piazza Castello a Guardia Sanframondi sarà inaugurata la personale del maestro d’arte Salvatore Fiore.
La mostra sarà visitabile fino al 9 gennaio 2026 (martedì – giovedì dalle ore 16 -18 e su appuntamento, per informazioni e contatti stampa tel. 3477226170)).
In occasione della chiusura della mostra sarà presentata al pubblico un’ opera realizzata e donata dal maestro Fiore alla Casa di Bacco per arricchire la Rassegna d’Arte Contemporanea Permanente dedicata alla cultura del vino della Casa di Bacco..
Un’artista, definito “maestro della luce” da Vittorio Sgarbi, che è stato apprezzato in numerose occasioni come testimoniano i tanti riconoscimenti alla carriera ricevuti e gli apprezzamenti che, negli anni ha ricevuto in tante manifestazione.
“Sono molto contenta -ha affermato l’amministratrice della Casa di Bacco, Fiorenza Ceniccola – che nella Casa di Bacco ritorni un artista del calibro di Salvatore Fiore e mi auguro che tanti cittadini decidano di venire a Guardia, per farsi conquistare dal fascino delle opere di questo artista sannita, brillante promessa della pittura italiana. Sono convinta che, ancora una volta, le opere di Salvatore Fiore, riusciranno ad incantare i visitatori per la magia dei colori e per l’atmosfera incantata che sanno creare”.
Guardia Sanframondi 19 dicembre 2026
La Casa di Bacco
Il Magico Parco di Natale si prepara a un finale straordinario: attese oltre 5.000 persone nel weekend prenatalizio al Parco del Grassano

Il Magico Parco di Natale, incastonato nella suggestiva cornice naturale del Parco del Grassano di San Salvatore Telesino, si avvia verso il gran finale di questa edizione da record, con oltre 5.000 presenze attese nel prossimo weekend prenatalizio e con le ultime date del 26, 27 e 28 dicembre pronte ad accogliere migliaia di visitatori.
Un evento che anche nel 2025 ha confermato numeri straordinari e un entusiasmo crescente, trasformando il Parco in un luogo dove la magia prende forma tra luci, musica e sorrisi.
“Vedere così tante famiglie scegliere il nostro Parco per vivere il Natale è per noi la più grande soddisfazione – racconta lo staff organizzativo –. Ogni dettaglio è pensato per regalare emozioni autentiche, soprattutto ai bambini, che qui possono ancora credere nella magia”.
I più piccoli continueranno a essere protagonisti assoluti: potranno consegnare le loro letterine a Babbo Natale in un’atmosfera fiabesca, tra giocolieri, street performer, artisti itineranti e sorprendenti incontri… incluso quello con il mitico Grinch, sempre pronto a farsi scoprire tra i vialetti del Parco.
Tra le attrazioni più amate e attese anche nei prossimi giorni spiccano gli spettacoli itineranti della Compagnia “I Giullari” di Davide Rossi, le affascinanti magie del Mago Loran, la grande pista di pattinaggio sul ghiaccio, il nuovo Villaggio delle Giostre dedicato ai più piccoli e una ricca area mercatino con oltre 35 espositori di artigianato natalizio.
Cuore pulsante dell’evento è, come sempre, l’area street food, con circa 12 punti ristoro: profumi, sapori e specialità natalizie accompagnano i visitatori in un percorso sensoriale tra luci scintillanti, musica e animazioni.
“Il Magico Parco di Natale non è solo un evento, ma un’esperienza da vivere insieme – sottolineano gli organizzatori –. È il luogo dove il tempo rallenta e il Natale torna ad essere quello delle emozioni vere”.
Il programma musicale regala momenti imperdibili: sabato 20 dicembre il concerto di fine anno della scuola di canto “Heart of Music”; domenica 21 dicembre e giovedì 26 dicembre (Santo Stefano), alle ore 18:00, l’attesissimo concerto Gospel dei “The Vocalists”, per un momento di intensa emozione sotto le luci del Parco.
Per informazioni è possibile contattare il numero 0824 976475 oppure visitare il sito ufficiale: parcodelgrassano.it/il-magico-parco-di-natale-3-ed/

(Giuseppe Gagliano – lafionda.org) – Julian Assange è tornato. Non nel modo rassicurante che piace al potere, ma in quello che più lo disturba: tornando a denunciare, nomi e fatti alla mano. Dopo anni di detenzione in una prigione britannica di massima sicurezza, ignorato mentre veniva logorato fisicamente e psicologicamente, oggi Assange è libero ma resta scomodo. Perché continua a fare il giornalista, non il testimonial della democrazia occidentale.
La sua ultima mossa è una denuncia penale depositata in Svezia contro la Fondazione Nobel. Non un gesto simbolico, ma un atto formale presentato contemporaneamente all’Autorità svedese per i crimini economici e all’Unità per i crimini di guerra. Trenta le persone indicate, tutte legate alla Fondazione, compresi i vertici: la presidente Astrid Söderbergh Widding e la direttrice esecutiva Hanna Stjärne. Le accuse sono tutt’altro che generiche: appropriazione indebita aggravata di fondi, facilitazione di crimini di guerra e contro l’umanità, finanziamento del crimine di aggressione.
Il cuore della denuncia è l’assegnazione del Premio Nobel per la Pace 2025 a María Corina Machado, leader dell’opposizione venezuelana. Secondo Assange, non si tratta di una scelta discutibile sul piano politico, ma di una violazione diretta del testamento di Alfred Nobel, che destinava il premio a chi avesse lavorato per la fratellanza tra le nazioni, la riduzione degli eserciti permanenti e la pace. Qui, sostiene Assange, siamo esattamente all’opposto.
Le accuse rivolte a Machado sono precise e documentate. Primo: istigazione pubblica e reiterata all’uso della forza militare. Nel febbraio 2014, davanti al Congresso degli Stati Uniti, Machado dichiarò che “l’unica strada rimasta è l’uso della forza”. Non una frase isolata, ma l’avvio di una linea politica coerente. Negli anni successivi, fino al 2025, ha continuato a invocare un intervento armato contro il Venezuela, arrivando a sostenere che gli Stati Uniti potrebbero dover intervenire direttamente.
Secondo: legittimazione politica di crimini di guerra altrui. Dopo aver ricevuto il Nobel per la Pace, Machado ha telefonato al primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu per congratularsi della conduzione della guerra a Gaza. Assange non entra nel merito ideologico, ma giuridico: lodare pubblicamente operazioni militari già oggetto di accuse internazionali significa fornire copertura morale e politica a quei crimini.
Terzo: uso strumentale del Nobel come scudo reputazionale. Secondo la denuncia, Machado avrebbe immediatamente sfruttato l’autorevolezza del premio per rafforzare la narrativa dell’intervento militare, trasformando il Nobel da riconoscimento simbolico in strumento operativo. Non la pace come fine, ma la pace come marchio da spendere per rendere accettabile una guerra.
Quarto: integrazione consapevole nella strategia statunitense di cambio di regime. Assange collega le posizioni di Machado alla linea dell’amministrazione Trump, che descrive il governo venezuelano come una struttura criminale da abbattere. In questo contesto, Machado non appare come un’oppositrice interna, ma come un ingranaggio politico di una strategia esterna. Emblematiche, in questo senso, le dichiarazioni rilasciate a Donald Trump Jr., in cui prometteva di aprire le aziende e le risorse venezuelane agli Stati Uniti. Altro che autodeterminazione dei popoli.
Quinto, e più grave sul piano giuridico: concorso morale nel crimine di aggressione. Assange non accusa Machado di aver combattuto una guerra, ma di aver contribuito a crearne le condizioni politiche, mediatiche e morali. Nel diritto internazionale, questo non è un dettaglio. La denuncia sostiene che l’assegnazione del Nobel abbia rafforzato questa funzione, trasformando il premio in uno strumento di facilitazione indiretta di un’aggressione armata.
Per questo Assange chiede il congelamento immediato degli 11 milioni di corone svedesi legati al premio e il ritiro della medaglia. Non una provocazione, ma una conseguenza logica: se il premio viene usato in violazione del mandato testamentario, quei fondi diventano, a suo avviso, il frutto di un’appropriazione indebita.
Il silenzio che circonda questa denuncia è coerente con la storia di Assange. Ieri ignorato mentre marciva in cella, oggi ignorato mentre mette in discussione uno dei totem morali dell’Occidente. Perché la sua accusa non colpisce solo Machado, ma un sistema che distribuisce patenti di pace a chi giustifica la guerra, che chiama “democrazia” ciò che conviene e “crimine” ciò che disturba.
Assange non è un eroe né un martire. È un giornalista che continua a fare il suo mestiere: mostrare documenti, collegare i fatti, smontare le narrazioni ufficiali. E per questo resta l’uomo da rimuovere dal dibattito pubblico. Ma anche quello che, ciclicamente, torna a ricordare una verità semplice e insopportabile: la pace non si proclama, si pratica. E chi invoca i bombardamenti, per quanto premiato, pacifista non è.
MERZ, ‘MELONI HA CHIESTO DUE SETTIMANE SUL MERCOSUR MA GARANTISCE IL SÌ’

(ANSA) – “L’Italia ci ha chiesto di rinviare la firma” sul Mercosur “di altre due settimane”, ma la premier “Giorgia Meloni ha affermato che, in coordinamento con la Commissione europea, si assicureranno che al più tardi a metà gennaio questo appuntamento a Brasilia” per la firma “possa aver luogo, quindi è ormai certo che il Mercosur entrerà in vigore una volta che il governo italiano avrà dato il suo consenso”.
Lo ha detto il cancelliere tedesco Friedrich Merz in conferenza stampa al termine del vertice Ue. “Non rinuncio alla speranza che anche la Francia lo approvi. Ma se così non fosse, abbiamo la maggioranza qualificata”, ha aggiunto.
MELONI, ‘SU MERCOSUR PIÙ TEMPO PER AVERE GARANZIE PER AGRICOLTORI’
(ANSA) – “Si sta lavorando per posticipare il summit del Mercosur, il che ci offre altre settimane per cercare di dare le risposte richieste dai nostri agricoltori, le salvaguardie che sono necessarie per i nostri prodotti e consentirci così di poter approvare l’accordo quando, come abbiamo detto, avremo tutte le garanzie”.
Lo ha detto la premier Giorgia Meloni parlando ai cronisti del rinvio dell’intesa Ue-Mercosur. “Direi che in entrambe le questioni principali sta prevalendo il buon senso e quindi sono soddisfatta dei risultati di questa lunga giornata”, ha aggiunto riferendosi anche all’intesa per il prestito da 90 miliardi all’Ucraina.
MACRON RILANCIA SUL MERCOSUR, ‘IL TESTO DEVE CAMBIARE NATURA’
(ANSA) – Dopo il rinvio della firma, Emmanuel Macron rilancia e chiede di riaprire il dossier Mercosur. Il testo “deve cambiare natura”, ha sottolineato il presidente francese al termine del vertice Ue.
I progressi richiesti da Parigi dovranno passare dall’introduzione di “solide clausole di salvaguardia” per gli agricoltori, “che dovranno essere adottate dal Parlamento europeo e accettate anche dai Paesi del Mercosur”.
In particolare, Macron insiste sulla necessità di “clausole specchio” per garantire reciprocità nelle regole sul fronte agricolo e ambientale. Il presidente francese ha spiegato che, se le nuove clausole di salvaguardia e le clausole specchio saranno implementate a partire da gennaio, l’intesa potrà essere considerata di fatto un “nuovo accordo”.
Von der Leyen, ‘sul Mercosur svolta per chiudere a gennaio’
(ANSA) – “Questa sera c’è stata una svolta che spiana la strada a un completamento positivo dell’accordo Mercosur a gennaio. Abbiamo bisogno ancora di qualche settimana per discutere alcune questioni con gli Stati membri e abbiamo già contattato i nostri partner del Mercosur, decidendo di rinviare leggermente la firma”.
Lo ha detto la presidente della Commissione europea, Ursula von der Leyen, sottolineando che l’intesa resta “di importanza essenziale per l’Europa sotto il profilo economico, diplomatico e geopolitico”.
Con le ulteriori garanzie previste, ha aggiunto, sarà assicurata “tutta la tutela necessaria per i nostri agricoltori e consumatori”.
Macron, ‘firmare il Mercosur a gennaio? E’ troppo presto per dirlo’
(ANSA) – “E’ troppo presto per dirlo, non lo so”. Così il presidente francese Emmanuel Macron ha risposto alla domanda se Parigi potrà firmare a gennaio l’accordo commerciale tra l’Ue e il Mercosur. “Lo spero – ha aggiunto -, perché significherebbe che avremo ottenuto dei progressi, alcuni dei quali sarebbero storici”.
Il piano di usare 210 miliardi di asset russi congelati fallisce: l’Ue finanzia Kiev con un prestito garantito dal bilancio europeo

(di Francesco Valendino – ilfattoquotidiano.it) – Bisogna ammirarli, questi euro-fenomeni. Hanno quella faccia di bronzo lucidata a specchio che consente loro di uscire da un palazzo in fiamme gridando “Che bel calduccio abbiamo creato!”. La scena andata in onda a Bruxelles è degna di una commedia all’italiana, se non fosse che il conto, alla fine, lo paghiamo noi.
I fatti, depurati dalla melassa dei giornaloni che ormai riscrivono la realtà meglio di Orwell, sono semplici. Ursula von der Leyen e il Cancelliere tedesco Friedrich Merz dovevano portare a casa lo scalpo dell’Orso: 210 miliardi di asset russi congelati per finanziare Kiev. “Pagherà Putin!”, tuonavano fino a ieri mattina. Invece, dopo quattro ore di psicodramma a porte chiuse, senza telefonini (come i carbonari o i liceali in punizione), hanno partorito il topolino. Anzi, il debito.
Il piano geniale si è schiantato contro il Belgio. Il premier De Wever, che evidentemente sa far di conto meglio dei nostri soloni, ha detto nein. Non ha alcuna intenzione di accollarsi rischi finanziari illimitati per fare un favore alla geopolitica di Von der Leyen. Uscendo dal vertice, De Wever non ha usato metafore poetiche: “Era come una nave che affonda, come il Titanic“. Capito? Loro dentro a suonare l’orchestra della “solidarietà incrollabile”, e fuori l’iceberg della realtà.
Ma ecco il colpo di teatro. Davanti alle telecamere, Von der Leyen e Merz – che fino a cinque minuti prima definiva il prelievo dagli asset russi “l’unica opzione” – hanno sfoderato il sorriso delle grandi occasioni. “L’abbiamo fatto!”, ha esultato lei. Fatto cosa? Hanno deciso che, visto che i soldi russi non si toccano (perché le banche non sono onlus e i rischi legali terrorizzano tutti), i soldi ce li mettiamo noi.
La scena madre è stata quella di Macron, il Napoleone tascabile, costretto a pietire da Viktor Orban – il dittatore, il paria, il cattivo dei film Marvel – il via libera per emettere debito comune. Sì, avete letto bene. Per salvare la faccia e coprire il buco, i rigoristi e gli europeisti hanno dovuto chiedere al sovranista ungherese di firmare cambiali a nome dei cittadini europei.
Merz, con un’agilità dialettica che fa invidia ai nostri democristiani della Prima Repubblica, ha addirittura rivendicato la paternità dell’idea di prendere i soldi dall’interno dell’Ue. Ieri era impossibile, oggi è una sua proposta. Un genio.
Morale della favola: l’Ucraina riceverà i soldi (forse), ma non saranno quelli di Mosca. Sarà un prestito garantito dal bilancio Ue, cioè dalle nostre tasse. Kiev dovrà rimborsarlo solo se riceverà le riparazioni dalla Russia: cioè mai, o nel duemila-e-credici.
I “globalisti”, come li chiama chi ha capito il gioco, hanno fatto la loro mossa: volevano punire la Russia a costo zero, hanno finito per indebitare l’Europa a costo altissimo. Un capolavoro al contrario. Il Titanic affonda, ma l’orchestra di Bruxelles ci manda la fattura per il biglietto.