Nel DDL non è mai citata Gaza. Mai citata la Palestina. Nessun riferimento ai bambini palestinesi trucidati. Niente.

(Alessandro Di Battista) – Come avrete letto nelle scorse ore il Partito democratico ha presentato un DDL “per la prevenzione e il contrasto dell’antisemitismo”. Dieci senatori del PD lo hanno firmato. Dieci. Il primo firmatario è Graziano Delrio. A seguire: Simona Flavia Malpezzi, Alessandro Alfieri, Alfredo Bazoli, Pier Ferdinando Casini, Tatjana Rojc, Filippo Sensi, Walter Verini, Sandra Zampa e Beatrice Lorenzin.
Nel DDL non è mai citata Gaza. Mai citata la Palestina. Nessun riferimento ai bambini palestinesi trucidati. Niente.
All’articolo 1 del disegno di legge c’è scritto questo: “Ai fini della presente legge si applica la definizione operativa di antisemitismo approvata dall’Alleanza internazionale per la memoria dell’Olocausto (International Holocaust Remembrance Alliance – IHRA)”. La definizione IHRA include tra gli esempi di antisemitismo anche critiche politiche allo Stato terrorista di Israele. Significa che chi denuncia il genocidio dei palestinesi, chi racconta dei bambini palestinesi fatti a pezzi dai terroristi israeliani, chi parla dell’occupazione della Palestina, può essere additato come antisemita. Come già avvenuto svariate volte a chi, come me, ha denunciato il genocidio dei palestinesi dall’8 ottobre 2023.
All’articolo 2 si passa alla fase operativa con interventi “ai contenuti antisemiti diffusi sulle piattaforme on line di servizi digitali”. Si stabilisce la rimozione accelerata di contenuti giudicati antisemiti secondo i criteri IHRA, maggiori poteri di vigilanza all’AGCOM e un sistema privilegiato di segnalazioni per le comunità ebraiche: “prevedere che gli utenti delle piattaforme on line possano segnalare direttamente, in forma associata, all’AGCOM casi specifici di diffusione di contenuti antisemiti e che a tal fine l’AGCOM, in collaborazione con gli organismi rappresentativi delle comunità ebraiche compili un registro delle associazioni di utenti che, su richiesta, possano segnalare direttamente all’Autorità un insieme aggregato di segnalazioni – e ancora – l’AGCOM disciplini procedure semplificate di collaborazione tra l’Autorità, le piattaforme on line di servizi digitali e gli organismi rappresentativi delle comunità ebraiche”.
Poi c’è l’articolo 4: “L’articolo 4 dispone che presso l’organismo di vigilanza di ogni università sia individuata un soggetto preposto all’attività di verifica e monitoraggio delle azioni per contrastare i fenomeni di antisemitismo, in linea con il codice etico dell’università stessa”. In pratica in ogni università ci sarebbe un organo incaricato di stabilire se una critica allo Stato terrorista di Israele debba essere perseguita come antisemitismo.
Quello del Partito democratico è un capolavoro. Ufficialmente dicono che è un’iniziativa personale di Delrio. Personale. Peccato che la proposta di legge l’abbiano firmata undici parlamentari. Se il PD fosse coerente li espellerebbe domattina e li inviterebbe a unirsi ai partiti di Scalfarotto (Italia Viva), Romeo (Lega) e Gasparri (Forza Italia), che da tempo presentano proposte di legge molto simili. Ma non lo faranno. Non possono. Perché il PD vive di questa ambiguità strutturale: da un lato fa finta di denunciare il genocidio dei palestinesi (senza avere il coraggio di chiamarlo genocidio), dall’altro si tiene in casa chi presenta queste porcherie. Si tengono la vicepresidente del Parlamento europeo Pina Picierno che incontra ex generali sionisti nel pieno del genocidio. Si tengono Fassino, che si è collegato alla Knesset e ha detto: “Israele è una società aperta, una società libera, una società democratica, una società che anche su questi due anni e sulle prospettive ha una dialettica democratica tra chi propone certe soluzioni e chi ne propone altre”.
Lo dico da molto tempo: il Partito democratico è il partito peggiore di questo Paese perché è il più ipocrita. Il PD ha due facce: una faccia per i comunicati e una faccia per “rassicurare” i poteri che contano a cominciare dal potere sionista, un potere che sta realizzando lo sterminio di un popolo.

(ANSA) – Lo straniero nato in Italia, per diventare italiano a 18 anni deve superare un esame di integrazione e non deve avere condanne o procedimenti penali per delitti non colposi: punta a una stretta sulla cittadinanza la proposta di legge presentata dalla Lega alla Camera, allungando il periodo minimo di residenza legale in Italia per ottenerla e introducendo nuove cause di revoca, tra cui una condanna definitiva oltre i 5 anni o superiore a 3 per reati di violenza di genere, stupro, maltrattamenti contro familiari e conviventi, stalking, revenge porn, nonché quelli cosiddetti “culturalmente motivati”, come la costrizione o induzione al matrimonio, le pratiche di mutilazione degli organi genitali femminili o la tratta di esseri umani.
I risultati del referendum di giugno sulla cittadinanza, “unitamente ai sondaggi e all’ascolto quotidiano dei cittadini nelle strade e nelle piazze, consentono di affermare che gli italiani considerano lo status di cittadino come un riconoscimento importante, da attribuire solo agli stranieri residenti nel territorio nazionale che dimostrino di meritarlo”, affermano nella presentazione del testo i firmatari, il capogruppo Riccardo Molinari e i deputati Jacopo Morrone, Giorgia Andreuzza, Ingrid Bisa ed Elena Maccanti.
L’esame per ottenere la cittadinanza, secondo il testo, serve a verificare l’effettiva integrazione nonché la conoscenza delle regole sociali e giuridiche minime: contenuti e modalità della prova sono stabiliti dal Ministro dell’interno. La Lega propone di raddoppiare, da 2 a 4 anni, il periodo minimo di residenza legale in Italia per i minori, figli o discendenti di secondo grado di italiani, per chiedere la cittadinanza al raggiungimento della maggiore età.
Per quanto riguarda gli stranieri adulti, si propone di raddoppiare da 2 a 4 anni il periodo di residenza legale per chi ha un genitore italiano per nascita, da 3 a 10 per gli stranieri nati in Italia, da 4 a 8 per i cittadini Ue e da 5 a 10 per gli apolidi. Per quanto riguarda invece le procedure amministrative, si propone di accorciare i termini, con una riduzione da 24 a 12 mesi (prorogabili fino a 24 anziché 36).
Inoltre la Lega chiede di ridurre da 10 a 2 anni il termine per l’adozione della revoca della cittadinanza, ed elimina l’impossibilità di revoca se l’interessato non possiede o non può acquisire un’altra cittadinanza, “elemento che – si spiega nella proposta – rende di fatto attualmente inapplicabile la revoca nella maggioranza dei casi”.
Una stretta è prevista anche sui ricongiungimenti familiari: sono esclusi da questa possibilità persone “che nella propria vita attiva non hanno fornito alcun contributo al progresso della comunità nazionale italiana e che, ragionevolmente, possono determinare un aumento degli oneri in termini di prestazioni sociali anziché rappresentare un sostegno per la collettività”.
Il riferimento, viene precisato nella presentazione del testo, è a genitori a carico o ultrasessantacinquenni. Inoltre si chiede di aumentare la soglia di reddito minimo annuo per richiedere il ricongiungimento, dall’attuale importo pari a quello dell’assegno sociale aumentato della metà per ogni familiare da ricongiungere, al triplo dell’assegno sociale aumentato dell’intero importo per ogni familiare da ricongiungere. Infine la Lega punta a estendere a ogni familiare da ricongiungere l’obbligo di assicurazione sanitaria.

(ANSA) – Il cambiamento della strategia di sicurezza nazionale degli Stati Uniti da parte dell’amministrazione del presidente americano Donald Trump, in cui la Russia non viene menzionata come una “minaccia diretta”, è un passo positivo: lo ha dichiarato all’agenzia di stampa Tass il portavoce del Cremlino, Dmitry Peskov. “Consideriamo questo un passo positivo”, ha detto Peskov aggiungendo che il messaggio sulle relazioni Russia-Usa inviato da Trump differisce dagli approcci delle amministrazioni americane precedenti.
“Nel complesso, questi messaggi sono certamente in contrasto con gli approcci precedenti”, ha affermato il portavoce russo specificando che il Cremlino esaminerà “più in dettaglio” la strategia di sicurezza nazionale Usa aggiornata e ne analizzerà le disposizioni.
CREMLINO, STRATEGIA USA SULL’EUROPA È IN LINEA CON MOSCA
(ANSA) – I cambiamenti adottati da Donald Trump sulla strategia per la sicurezza nazionale – che critica duramente l’Europa evocando il rischio di “cancellazione della civiltà” – sono “coerenti” con la visione di Mosca e possono garantire un “lavoro costruttivo” con gli Usa sulla soluzione ucraina.
Lo ha detto il portavoce del Cremlino Dmitrij Peskov citato dalla Tass. “Gli aggiustamenti sono in gran parte coerenti con la nostra visione”, ha osservato. “Forse possiamo sperare che questa possa essere una modesta garanzia che saremo in grado di continuare in modo costruttivo il lavoro congiunto per trovare una soluzione pacifica in Ucraina”.

(Enrica Perucchietti – lindipendente.online) – La Banca Centrale Europea chiude la porta a un emendamento presentato da Fratelli d’Italia alla legge di bilancio, primo firmatario il senatore Lucio Malan, e richiama Roma al rispetto delle regole dell’Eurozona. Con un parere formale, la BCE mette in guardia l’Italia contro qualsiasi tentativo volto a contestare l’indipendenza della banca centrale ed evidenzia conflitti con il Trattato UE e l’autonomia della Banca d’Italia. Il Ministero dell’Economia e delle Finanze (MEF) sta ora lavorando a una riformulazione del testo per recepire le obiezioni della BCE, anche se diversi esperti suggeriscono di ritirarlo del tutto per evitare nuovi attriti istituzionali. Al centro dello scontro c’è un tema che ciclicamente riemerge nel dibattito politico: la proprietà e il controllo delle riserve auree della Banca d’Italia. Una questione che va ben oltre il valore simbolico dell’oro e tocca un nervo scoperto del rapporto tra sovranità nazionale e architettura europea. L’iniziativa di FdI ha riacceso tensioni mai del tutto sopite tra politica e istituzioni monetarie, riportando alla luce una storica battaglia sovranista e sollevando il timore, per la BCE, di un precedente pericoloso. In gioco non c’è solo la gestione di uno dei maggiori patrimoni aurei mondiali, quello italiano, ma anche l’assetto istituzionale che regola i rapporti tra Stati membri, banche centrali nazionali e Unione Europea.

La versione originaria della proposta, firmata dal senatore e capogruppo di FdI Lucio Malan, enunciava una cosa apparentemente semplice: «Le riserve auree gestite e detenute dalla Banca d’Italia appartengono allo Stato, in nome del popolo italiano». Nei giorni scorsi, l’emendamento è stato riformulato in chiave interpretativa. Secondo il nuovo testo, la disposizione sulla gestione delle riserve ufficiali contenuta nel Testo Unico delle norme in materia valutaria «si interpreta nel senso che le riserve auree gestite e detenute dalla Banca d’Italia appartengono al popolo italiano». Il senatore Malan ha precisato che la versione aggiornata dell’emendamento è attualmente oggetto di istruttoria da parte della Banca centrale europea.
L’oro è già patrimonio dello Stato italiano, ma quando l’Italia è entrata nell’euro ha ceduto la sua sovranità monetaria all’Unione Europea. In pratica, lo Stato non può esercitare alcuna prerogativa diretta, perché ha accettato che la Banca d’Italia facesse parte di un sistema più grande: quello delle banche centrali europee, coordinate dalla BCE. Ed è proprio questo il nodo dello scontro. L’emendamento avanzato da FdI è, pertanto, in contrasto con i trattati europei e con lo statuto del Sistema Europeo delle Banche Centrali, il cosiddetto SEBC. L’articolo 127 del Trattato sul funzionamento dell’Unione Europea obbliga gli stati membri a consultare la BCE in caso di interventi in materie che la riguardano, tra cui appunto l’oro.

L’emendamento di Fratelli d’Italia non è una novità. È una battaglia storica della destra, che risale ai tempi in cui lo stesso partito di Giorgia Meloni aveva posizioni apertamente antieuro e chiedeva l’uscita dell’Italia dall’Unione Europea. In tutta Europa, i partiti euroscettici contestano i vincoli che legano le banche centrali nazionali alla BCE. Non sorprende, quindi, che l’idea di riportare l’oro sotto il controllo diretto dei governi sia stata a lungo un tema centrale per le forze favorevoli, in passato, all’uscita dall’euro e dall’Unione Europea, come Lega e Fratelli d’Italia. Tra i promotori più attivi figuravano i leghisti Claudio Borghi e Alberto Bagnai e la stessa Giorgia Meloni, che negli anni dell’opposizione ha più volte invocato un utilizzo diretto delle riserve auree per sostenere misure di spesa pubblica.
L’oro non può essere utilizzato per finanziare deficit o nuove spese pubbliche. Le norme europee lo vietano esplicitamente. L’unico modo per “sfruttarlo” sarebbe venderlo o darlo in garanzia. Se il governo potesse effettivamente disporre delle riserve auree, potrebbe teoricamente usarle come un tesoretto politico per ridurre le tasse, finanziare opere pubbliche o sostenere misure contro la povertà. L’emendamento presentato da Malan non arriva a ipotizzare un impiego diretto dell’oro, ma il modo in cui è formulato lascia intendere una posizione implicita della maggioranza: l’idea che il patrimonio aureo possa essere messo al servizio della politica fiscale. Dall’altra, si aprirebbe uno scontro istituzionale perché significherebbe rinnegare l’indipendenza delle banche centrali. Per la BCE, anche piccole modifiche possono trasformarsi in crepe pericolose e l’indipendenza di Bankitalia rimane una linea rossa.

L’Italia custodisce 2.452 tonnellate di oro fisico, la terza riserva aurea al mondo, superata solo da Stati Uniti (8.133 tonnellate) e Germania (3.352 tonnellate). Una dimensione che colloca Bankitalia tra gli attori strategici globali. Il valore dell’oro è iscritto a bilancio a circa 200 miliardi di euro, secondo criteri prudenziali, ma il valore di mercato – con l’oro che negli ultimi mesi ha ritoccato nuovi massimi – ha superato i 280 miliardi. Venderne una parte oggi comporterebbe un incasso potenzialmente elevato, ma allo stesso tempo indebolirebbe la riserva strategica del Paese. Inoltre, grandi vendite produrrebbero automaticamente un ribasso dei prezzi, riducendo il guadagno atteso.
Se la riserva aurea italiana nasce in gran parte nel secondo dopoguerra, solo una parte è custodita in Italia (il 44,86%, 1.100 tonnellate), tra Palazzo Koch e le sedi dell’Eurosistema. Una quota significativa, stimata attorno al 43,29% (circa 1.061,5 tonnellate), è depositata presso la Federal Reserve Bank di New York, uno dei caveau più sicuri e storicamente più utilizzati al mondo. Il trasferimento di una parte delle riserve auree negli USA risale agli accordi di Bretton Woods del 1944: allora, molti Paesi depositarono parte del loro oro negli Stati Uniti –considerati il centro della finanza globale e il Paese più sicuro per stoccare metallo fisico – e l’Italia, uscita dal conflitto in condizioni fragili, adottò la stessa strategia. Il resto si trova presso la Banca d’Inghilterra (5,76% per 141,2 tonnellate) e la Banca dei Regolamenti Internazionali (BRI) a Basilea (6,09% 149,3 tonnellate). Questa distribuzione non risponde a logiche politiche, ma operative: l’oro all’estero è più facilmente mobilizzabile per eventuali operazioni di mercato, swap o garanzie internazionali.

La BCE, attraverso un parere firmato da Christine Lagarde, ha bocciato l’emendamento avanzato da FdI, ricordando che l’oro detenuto da Bankitalia fa parte delle riserve ufficiali dell’Eurosistema. Ciò implica che nessuno Stato membro può disporne unilateralmente. Interpellata dall’eurodeputato Tridico, Lagarde ha chiarito che, secondo i trattati europei, la detenzione e la gestione delle riserve spettano esclusivamente alla banca centrale nazionale di ciascuno Stato membro. «La Banca d’Italia non è diversa da qualsiasi altra banca centrale», ha rimarcato la presidente della BCE, ribadendo come la gestione operativa, contabile e distributiva dell’oro resti di sua piena competenza, senza alcuna variazione rispetto al parere già espresso nel 2019.

Lagarde ha di fatto ricordato che l’assetto giuridico europeo assegna alle banche centrali nazionali la piena gestione delle loro riserve. La BCE vuole preservare tale equilibrio istituzionale su cui si fonda l’Eurosistema ed evitare che si crei un precedente: un trasferimento di proprietà o una riformulazione ambigua della norma sulla gestione delle riserve auree potrebbe aprire la strada a un uso politico dell’oro, creando un precedente in tutta l’Eurozona. Se un Paese modifica unilateralmente il quadro relativo alle proprie riserve, altri potrebbero sentirsi legittimati a fare lo stesso, con impatti potenzialmente pericolosi per la stabilità dell’Eurozona.
Lo scontro tra governo e BCE non è un caso isolato, ma il segnale di un contesto in cui la politica cerca nuovi spazi di manovra dentro un sistema europeo sempre più strutturato. La vicenda dimostra quanto sia sottile il confine tra sovranità nazionale e regole dell’Eurozona e come, paradossalmente, l’oro continui a essere un nodo sensibile anche nell’epoca della finanza digitale. Attribuire formalmente alla Repubblica la proprietà di un bene che il governo non può toccare e che rimane nella disponibilità operativa di una banca centrale indipendente, produce effetti concreti minimi, a meno che non rappresenti il primo passo verso un ripensamento radicale dell’unione monetaria: un’ipotesi estrema sul piano politico, ma che, dal punto di vista tecnico, passerebbe proprio attraverso il controllo delle riserve auree.
Il capitalismo si aggiorna, oggi fa affidamento a tecnologie violente, che i “tecno-signori” sperimentano sui palestinesi a Gaza. Lo dice Yanis Varoufakis, arrivato in Italia per seguire la protesta dei portuali di Genova: “Dobbiamo trasformare le strade in parlamenti”. Ecco l’intervista a Chrono Collective Media

(di Domenico Agrizzi – mowmag.com) – Il ministro delle finanze del paese più in bancarotta, nel continente più in bancarotta. Si presenta così Yanis Varoufakis, arrivato a Genova per supportare i lavoratori in sciopero, schierati con il popolo palestinese contro il genocidio. Varoufakis ha rilasciato un’intervista di sei minuti a Chrono: il primo punto è proprio la rabbia che i manifestanti stanno tenendo “alla massima intensità” nei confronti del governo italiano e di tutti gli stati complici di ciò che sta accadendo nella Striscia, perché il “genocidio non è finito e influenza le nostre vite ovunque allo stesso modo”. Lotta dei lavoratori e contro il colonialismo, quindi, trovano un’intersezione in questi giorni di protesta a Genova. Varoufakis racconta anche di aver conosciuto “in tre dimensioni” Francesca Albanese, senza uno schermo a fare da mediatore. “Niente ha più senso di scendere in strada, nelle piazze, nei viali, nei vicoli, nelle stradine secondarie”. Nonostante le forme digitali di attivismo, la mobilitazione fisica ha ancora un valore decisivo: perché quando l’establishment, il potere dominante, trasforma “i parlamenti in farsa”, allora “dobbiamo trasformare le strade in parlamenti”. Le strade, prosegue ancora Varoufakis, “hanno più potere di quanto i trattati filosofici neoliberali ci abbiano permesso di credere”. Il “demos” della democrazia deve “trovare la sua voce dalla strada, ai palazzi, fino al Parlamento”.
Ma le forme del capitalismo sono variate, non basta più che il proletariato si organizzi autonomamente. È l’era del tecnofeudalesimo, che dà il titolo al libro pubblicato dal militante greco due anni fa: oggi il capitale “può relazionarsi dialetticamente con te al di fuori di qualsiasi mercato e può allenarti ad addestrare la macchina”. Qui l’IA sembra il riferimento implicito. Un sistema che impara dagli stessi utenti come indurre in loro desideri che prima non avevano per poi soddisfarli, lasciando parte del profitto al “tecno-signore” che possiede quella quota. Il riferimento concreto è l’utilizzo della tecnologia a Gaza, sviluppata dalle big tech e grazie alle quali Palantir sta addestrando algoritmi “usando dati in tempo reale dei movimenti dei palestinesi oggi, anche dopo il cosiddetto cessate il fuoco”, per poi “venderli al servizio sanitario nazionale in Gran Bretagna”. Una sperimentazione fatta sui palestinesi “mentre vengono bombardati e uccisi” che punta a migliorare la logistica e il supporto a medici e infermieri negli ospedali britannici in casi emergenziali. “La nuova forma di ‘cloud capital’ è addestrata dalle urla, dagli omicidi, dall’angoscia delle persone sul campo di battaglia in zone genocidio, così che quell’azienda possa massimizzare i propri profitti tramite il governo britannico assumendo la gestione operative degli ospedali statali”. E dunque ciò che stanno facendo i portuali genovesi è “cruciale per difendere l’umanità, non solo la Palestina”. Un punto fondamentale, per Varoufakis, è la necessità di evitare la costruzione di “un’aristocrazia operaia”, una verticalità che tradirebbe il senso stesso della mobilitazione. Serve impostare strategie “bottom-up”, dal basso verso l’alto, che al contrario si concentrino sull’orizzontalità delle relazioni tra i lavoratori. Senza cadere – altro rischio – nella prospettiva nazionalistica: abbiamo bisogno di “movimenti operari che uniscono il proletariato con il precariato, con persone che lavorano gratis in stage, persone che lavorano gratis per il ‘cloud capital, magari volontariamente, ma comunque sottopagati. È un compito davvero impegnativo, ma è il compito per fare la differenza tra una società in cui vale la pena vivere e una in cui non vale la pena vivere”.
L’intervista di Giorgia Meloni da Enrico Mentana ci ha fatto venire in mente un film che esiste solo nei meme: Barbenheimer, un mix tra Barbie e Oppenheimer. Così, ecco quattro consigli per affrontare con stile e luminosità l’esplosione di un ordigno nucleare
(di Ottavio Cappellani – mowmag.com) – Giorgia Meloni ed Enrico Mentana, viviamo nell’epoca della superficie, per cui vorrei commentare l’intervista andata in onda ieri su La7, in maniera “superficiale”, ricordando però che è nella “superficie” che abitano le metafore. Così la “skin care”, la cura della pelle, vale sia per le interviste televisive che in caso di esplosione di ordigno nucleare: danni alla pelle diretti e danni alla pelle derivanti dal fall out. Tutto molto Barbienheimer. Ma comunque, l’intervista di Mentana alla Meloni era smunta. Forse Mentana era così contento di avere fatto la doppia (Schlein e Meloni) che avrà pensato che il risultato lo aveva portato a casa e bòn, non si è impegnato più di tanto.
Giorgia, dal canto suo, sembrava un po’ stanca, ma forse è il colore appastellato che sparava o forse, come tutti, è un po’ esaurita perché sta andando in giro per comprare i regali di Natale, oppure ancora era un effetto voluto tipo “sono Giorgia, sono una donna, sono cristiana e devo pure venire da Mentana con tutte le faccende che ho da fare a casa”, trasmettendo così il messaggio, che funziona, “ma guarda te cosa mi tocca fare”, e se non si è messa particolarmente in tiro è perché era già andata alla prima del documentario di Tornatore su Brunello Cucinelli, quello che vende le sciarpe a più di 500 euro (e poi ci credo che parla di azienda felice, sai le risate che si fanno) e sono pochissimi quelli tra gli elettori che, risparmiando sulla spesa alla Lidl, se la potranno permettere per queste feste: insomma sembra una scelta azzeccata quella dell’immagine del premier (al maschile) quanto il più vicino possibile a quella dell’elettore (in questi giorni abbiamo tutti un po’ quella faccia come a dire: “Ci mancavi solo tu”).
Però i commenti in rete, dato l’affetto che in tanti provano per Giorgia, erano tutti del tipo: “Uh come è sbattuta”, mentre i più maligni sfruttavano l’effetto Tartaro-Giuli per fare commenti poco eleganti sulla tenuta dello smalto del suo sorriso. Alessandro Giuli, infatti, durante la fiera Più Libri Più Liberi ha rilasciato un’intervista su non si sa cosa perché tutti sono rimasti ipnotizzati dal colore dei denti, una sorta di buco nero della cultura. Probabilmente l’effetto era voluto: Alessandro Giuli, come ogni buon italiano, fuma il sigaro Toscano e — non lo so esattamente il perché — i fumatori di Toscano, a farsi la pulizia dei denti, non ci vogliono andare; probabilmente il dente fumé è, tipo, uno status symbol patriottico, non saprei.
Comunque Giuli è maschio, l’omo ha da puzza’, porta gli stivaloni ed è anche giusto che sappia di cuoio, tabacco e sudore di cavallo (una volta era di questo che doveva sapere il vero gentiluomo).
Ma Giorgia non fuma italico. Come abbiamo scritto il (al maschile) premier fuma le Vogue e quindi non si può fare passare il colore un po’ spento del sorriso (io non l’ho visto così “spento” e macchiato, lo hanno visto gli altri che sono maliziosi) come il dente opacizzato perché che fuma l’N80 (gloriosa, ma non la producono più) o l’Esportazione senza filtro (micidiale ma col pacchettino piccino picciò), considerando che anche le MS sono state vendute alla British Tobacco.

Per cui ecco dei consigli “care” economici, alla portata di tutte le tasche, in maniera da conservare la vicinanza con l’elettorato che non arriva a fine mese.
Viso. Ho cercato crema economica per il viso e il sito di Vogue (come le sigarette che Lei fuma) mi ha proposto la CeraVe Healing Ointment perché è economica e la usa anche la Emily Ratajkowski, ma ho visto il prezzo: siamo sui 50 euro, e con l’economia di guerra alla quale ci staremmo appropinquando, io Le consiglierei la buona, cara (nel senso di affetto, non di prezzo), vecchia Nivea, addirittura nella versione “universale” a 3,90. La vendono anche in Russia e, pare, sia la più adoperata in Siberia.
Denti. Certo, l’igienista dentale di uno studio medico dentistico resta la scelta migliore. Ma anche questa opzione sembra un po’ cara rispetto alle economie familiari che, ci dicono molti studi di settore, stanno sempre più rinunciando alle spese mediche se vogliono fare mangiare i figli. Per sbiancare i denti a casa si consiglia un lavaggio con spazzolino, bicarbonato di sodio (0,99 centesimi alla scatola) e succo di limone: ne basta mezzo, circa 5 centesimi a limone all’origine (li pagano poco, i produttori, rispetto alle vendite al dettaglio, forse è un problema che andrebbe affrontato, più che dell’origine dei vari frutti e ortaggi se patriottici o meno). Per il tartaro, invece (glielo hanno notato, i maliziosi, tra i denti inferiori), lavaggi con bicarbonato e sale grosso.
Capelli. Tanto successo ha avuto il suo “half up hair” (capelli metà raccolti e metà sciolti), che sono il corrispettivo tricologico della cosiddetta “guerra ibrida” durante le sue trasferte americane, dove probabilmente e giustamente Ella era influenzata dalla moda del Potere Americano che non ammette eccezioni: “Io sono di Potere e sono Figo e Tu No”, società americana nella quale sono i poveri cristi degli elettori a dovere assomigliare ai potenti e non il contrario. Potrebbe anche riprenderlo: un elastico, alla fine, è alla portata di tutte le tasche. Al posto dello shampoo può usare l’aceto di mele, anche se alla Lidl e all’Eurospin si trovano shampoo a pochi centesimi.
Labbra. I maliziosi le hanno notate un po’ secche e screpolate. A me non pareva proprio. Ma comunque. Ovviamente io lascerei perdere rossetti appanterati, trattamenti labbra rinvigorenti e filleranti. Creme che promettono gommoni sui quali solcare il mediterraneo nella speranza di una vita migliore. Io, se Ella permette, mi butterei sul classico e intramontabile burro di cacao Labello, costo poco più di due euro. Sì, non è italiano ma tedesco e c’è il rischio che Zerocalcare non vada in farmacia perché la Labello fu fondata nel 1909. Però Massimo Cacciari ha detto che tu, un burro di cacao, per combatterlo, devi prima provarlo.
Sa, io sono tra quelli del Grande Boh. Non ho capito come sia possibile che all’improvviso sembra che siamo lì lì per assistere alla Terza Guerra Mondiale e non ne abbiamo assolutamente capito il perché. Gli enunciati di principio, teorici e astratti, non ci soddisfano. Non per criticarla, ma sinceramente perché, data la situazione, vorremmo almeno capire.
Così come quando Lei ha sostenuto che occorre un’azione “deterrente” europea, e non “appaltata” agli americani, per evitare brutte sorprese in futuro. Mi chiedo: che deterrenza possiamo mettere in atto noi europei contro la Russia se non quella atomica? E mettere in piedi una deterrenza europea nei confronti della Russia non vuol dire passare dall’“appalto” americano a quello “francese”, unica nazione, la Francia, a possedere arsenale nucleare? Perché se non ci armiamo nuclearmente, finisce che facciamo la deterrenza ai russi coi soldatini di piombo.
Lo sa che per attuare una vera deterrenza dovremmo incominciare anche noi italiani un piano per dotarci di bombe nucleari, con la responsabilità che ne deriva di nuclearizzare ed essere nuclearizzati? Vuole cominciare un piano atomico per l’Italia o l’atomica deve essere sempre “appaltata”? Mi sembra che tali questioni non siano state affrontate da Mentana.
In ogni caso, meglio farci trovare belli, così almeno, quando ci si squaglierà la faccia, potremmo dire: ma che peccato!
Torino, i Salesiani stoppano l’evento su democrazia e guerra con Alessandro Barbero, Angelo D’Orsi, Luciano Canfora e Carlo Rovelli. Lo storico barese: «Censura stupida e volgare». La nota dell’Oratorio Salesiano San Francesco di Sales dopo le polemiche sull’annullamento dell’evento, organizzato dal Circolo Arci della Poderosa

(di Mattia Aimola – corriere.it) – «Alla luce dell’identità del Teatro e dei criteri con cui vengono accolte le iniziative culturali, è stato ritenuto opportuno non procedere con lo svolgimento dell’evento». Così l’Oratorio Salesiano San Francesco di Sales spiega oggi, sabato 6 dicembre in una nota, lo stop allo svolgimento nel Teatro Grande Valdocco di Torino della conferenza «Democrazia in tempo di guerra», prevista il 9 dicembre, a cui avrebbero dovuto partecipare, tra gli altri, il professor Angelo D’Orsi e lo storico Alessandro Barbero, e ancora Luciano Canfora e Carlo Rovelli.
Dopo le polemiche sull’annullamento dell’evento, organizzato dal Circolo Arci della Poderosa, i salesiani precisano che «la decisione non esprime alcuna valutazione sui temi». Meno di un mese fa il Polo del ‘900, sempre a Torino, aveva annullato un analogo evento con D’Orsi e il giornalista Vincenzo Lorusso.
«È una cosa stupida e volgare, una censura». Il professor Luciano Canfora commenta così la decisione dell’Oratorio Salesiano San Francesco di Sales di annullare la conferenza Democrazia in tempo di guerra. Tra gli ospiti invitati figurava anche lui, tra i più autorevoli storici italiani. «È una cosa stupida come la levata di scudi contro la fiera di Roma. Una volgarità che a Torino si ripete per la seconda volta, dopo il caso del Polo del ’900. In quell’occasione ci fu una catena di comando per cui Picerno chiama il sindaco di Torino e l’incontro sulla russofobia non si fa. Passano alcuni giorni e ora si ricade nella stessa volgarità». Canfora, che avrebbe partecipato alla conferenza insieme ad Angelo D’Orsi, Alessandro Barbero e Carlo Rovelli, insiste sulla necessità di preservare lo spazio del dibattito: «Sono forme pre-culturali di eludere la discussione, che forse è l’unica forma civile. Se la smettessimo di fare giochi di censura, forse vivremo un po’ meglio». E rievoca perfino la storia romana per spiegare come la censura sia un meccanismo antico e, a suo giudizio, sempre fallimentare: «Tacito racconta che sotto Tiberio vennero bruciati libri di storia. Eppure quei libri furono recuperati ed editi. La censura è essenzialmente stupida».
«L’Oratorio Salesiano San Francesco di Sales comunica che l’iniziativa Democrazia in tempo di guerra, prevista presso il Teatro Grande Valdocco il 9 dicembre 2025, non si svolgerà». Questo si legge nella nota in merito all’annullamento dell’evento. «Il Teatro Grande Valdocco – si legge ancora – è inserito in un contesto educativo animato dal carisma di San Giovanni Bosco, la cui tradizione pone al centro la crescita integrale dei giovani, la promozione di ambienti sereni e accoglienti e la valorizzazione di percorsi culturali fondati sull’incontro diretto, sul dialogo personale e sulla responsabilità educativa. Gli spazi salesiani sono concepiti come ambienti formativi, nei quali le proposte culturali sono chiamate a favorire partecipazione, prossimità e modalità di confronto chiare e contestualizzate. Alla luce dell’identità del Teatro e dei criteri con cui vengono accolte le iniziative culturali, è stato ritenuto opportuno non procedere con lo svolgimento dell’evento. La decisione non esprime alcuna valutazione sui temi o sulle opinioni collegate all’iniziativa, ma riguarda esclusivamente l’utilizzo degli spazi in relazione alla loro missione educativa e comunitaria, che richiede modalità organizzative e comunicative coerenti con la vita e la finalità degli ambienti salesiani. Rimaniamo disponibili a valutare, in forme e contesti più adeguati, future proposte che possano collocarsi in armonia con la vocazione culturale ed educativa del Teatro Grande Valdocco. L’Oratorio Salesiano ha esercitato la facoltà di recesso della scrittura privata per prestazione di servizi di natura spettacolistica sottoscritta in data 30 novembre 2025».
Il presidente del CPAC: “È casa sua e non possiamo presentarci senza il suo consenso, con la partecipazione fisica della presidente del Consiglio sul palco”

(Paolo Mastrolilli – repubblica.it) – WASHINGTON – «La prossima conferenza all’estero vorremmo organizzarla in Italia, magari già l’anno prossimo. Per riuscirci però abbiamo bisogno di due cose: l’appoggio convinto della premier Giorgia Meloni, e i finanziamenti».
Matt Schlapp si aggira per i corridoi del Kennedy Center, dove è venuto per assistere al sorteggio dei Mondiali di calcio, ma uno come lui è sempre impegnato a fare networking. È il presidente della Conservative Political Action Conference, lobby conservatrice e trumpiana più potente degli Stati Uniti. Ogni anno organizza una grande conferenza dove il capo della Casa Bianca è sempre l’ospite d’onore, più tutti i leader del movimento Maga. Nel 2026 la terrà a Dallas in marzo, ma intanto già guarda al futuro, compresa l’idea suggerita dallo stesso Trump di ospitare questo appuntamento annuale nella sua nuova ballroom alla Casa Bianca, appena saranno completati i lavori in corso. Giorgia Meloni ha partecipato a questo evento in varie occasioni, prima di diventare premier, quando si stava accreditando nel mondo conservatore americano, con cui ormai ha stabilito un rapporto assai più solido del leader leghista Salvini.

Cpac organizza le sue conferenze anche all’estero, per promuovere ovunque l’agenda sovranista, in linea con la nuova Strategia per la sicurezza nazionale appena pubblicata dall’amministrazione Trump, che attacca duramente l’Europa e lascia capire come l’obiettivo di fondo sia demolire l’Unione basata a Bruxelles. L’ultimo evento internazionale è in Argentina, dove il presidente Milei è stato appena salvato dalla bancarotta grazie ad un prestito americano da 20 miliardi di dollari. In Europa finora la sede preferita è stata Budapest, per ovvie affinità elettive col premier Viktor Orbán, anche lui da sempre spina nel fianco della Ue. Schlapp però sogna il nostro Paese perché rappresenterebbe un salto di qualità nella conquista del continente.
Volete andare in Italia subito, magari il prossimo anno?
«Certo, ci stiamo ragionando da tempo. Chi non vuole andare in Italia, qualunque sia il motivo? È un Paese meraviglioso, con una grande storia».
Quando?
«Appena possibile. Per farlo però si devono creare le condizioni giuste».
Quali sono?
«La prima, indispensabile, è il sostegno della premier Meloni. Ovviamente è casa sua e non possiamo presentarci senza il suo consenso. Oltre alla partecipazione fisica della presidente del Consiglio alla conferenza, però, avremmo bisogno anche del suo convinto appoggio politico per quello che intendiamo fare sul palco, per l’agenda. Questa è la prima condizione irrinunciabile, a cui stiamo lavorando da tempo».
E la seconda?
«I finanziamenti. Le nostre conferenze sono costose e abbiamo bisogno di aiuto. Negli Stati Uniti per le aziende private è abbastanza usuale sponsorizzare simili eventi, ma in Italia no, le compagnie tendono a restare fuori dalla politica».
Così però mette Meloni in imbarazzo, perché se dice no fa uno sgarbo a voi, ma se dice sì rischia di farlo a Bruxelles.
«Il suo sostegno politico è imprescindibile».
Da Conte a Fini, dalla riforma della giustizia a Raul Bova, parte la kermesse di FdI. Arianna Meloni: «Grande emozione»

(ANTONIO BRAVETTI – lastampa.it) – «Non vi siete divertiti? Che dovevamo fa’, ce dovevamo mena’?». Sorriso sornione e un po’ di romanesco. Roberto Gualtieri passeggia tra gli stand di Atreju accompagnato da Giovanni Donzelli. «Lì c’è Babbo Natale – gli dice Donzelli – magari gli vuoi chiedere qualcosa…». Gualtieri ha appena parlato dal palco, un saluto istituzionale, da sindaco, si è preso pure qualche applauso. Nel retropalco un breve saluto con Arianna Meloni. «Che c’è, volevate le botte?».
Dopo un anno al Circo Massimo, la sagra politica della destra italiana torna ad apparecchiarsi nei giardini di Castel Sant’Angelo, risistemati nel frattempo coi soldi del Giubileo. Due anni fa qui arrivò Elon Musk: il miliardario che ora spara contro l’Unione europea si presentò col figlio algoritmo in spalla, X Æ A-XII. Fu l’edizione scombussolata dall’apparizione di Andrea Giambruno, il compagno di Meloni mollato da poco via social.
Porchetta e arrosticini, birre e vin brulé. Presepi e folletti, la pista di pattinaggio sul ghiaccio dove ondeggia Lucio Malan e, poco più in là, la figlia di Galeazzo Bignami. Donzelli porta Gualtieri davanti al “Bullometro” , dove i Fratelli d’Italia danno «i voti alle parole d’odio della sinistra». Un grosso muro con gli «insulti» di Maurizio Landini, Francesca Albanese, Maria Elena Boschi, Adelmo Cervi e anche il cantante rock Brian Molko.
Foto e citazioni incriminate, giudicate secondo «originalità» e «livore». Landini e Boschi si beccano un 10 in livore per aver detto che «Giorgia Meloni è una cortigiana» e che «c’è un posto speciale all’inferno per le donne che non aiutano le donne».
Dalla parte opposta del “Bullometro” ci sono “Le egemonie che ci piacciono” , il pantheon di FdI. Guglielmo Marconi, Gabriele D’Annunzio, Ettore Majorana. Dai classici ai nuovi acquisti: Pier Paolo Pasolini accanto a Charlie Kirk. Si potrebbe obiettare. «Pasolini era il Kirk degli anni Settanta – giura Federico Mollicone – lo stesso coraggio di confrontarsi con chi non era come lui».
«C’è un medico?», grida qualcuno. Appena il tempo di tagliare il nastro, che un uomo sviene sulle scale che scendono ai giardini. Il primo a soccorrerlo è Guido Liris. Aquilano, senatore di FdI e medico. La politica al servizio dei cittadini. Poi spazio ai paramedici.
Quest’anno Atreju durerà dieci giorni, la più lunga di sempre. In attesa di Giorgia Meloni, che chiuderà domenica 14, l’affluenza di pubblico e politici è già alta. Deputate e deputati, senatori e senatrici di ogni dove d’Italia, che di solito lavorano dal martedì al giovedì, hanno rinunciato persino al ponte dell’Immacolata per esser qui. Tira più il castello del Parlamento.
S’intravedono il ministro Urso e la ministra Roccella, il sottosegretario Delmastro che si fa fotografare sorridente sotto la foto di Landini. Nei prossimi giorni pop e politica. Un palco per Abu Mazen come per Raoul Bova e Arianna Meloni a parlare di odio social. Il mondo dello spettacolo rappresentato da Carlo Conti, Mara Venier ed Ezio Greggio. Quello dello sport dal ct del volley maschile Ferdinando De Giorgi. Ma non è che qualcuno viene pagato? «Nessun ospite ha mai preso o prende un euro per venire ad Atreju. A chi in passato ci ha chiesto soldi abbiamo detto no, grazie».
Parola di Francesco Filini, che ogni anno alla conferenza stampa di presentazione della kermesse legge il programma tutto d’un fiato, pagine e pagine zeppe di nomi, un salmo senza fine. «È il nostro momento corazzata Potëmkin», lo canzonano.
Il buio rende ancora più luminoso il gigantesco albero di Natale, il mega orsacchiotto e la grande stella cometa. Gli altoparlanti diffondono radio Atreju: «Voglio dedicare “Unica” di Antonello Venditti a Giorgia Meloni». Paola Concia, trent’anni tra Pci e Pd, è presentata come «la femminista che ha mandato in tilt la sinistra». Eccola: «Per me è la prima volta ad Atreju. Mi sono divertita ad andare in giro per la festa con Delmastro, mi ha anche offerto uno spritz, forse era per drogarmi…», scherza. «Quando Meloni è diventata presidente del Consiglio il Pd ha avuto la necessità di contrapporle una donna giovane, come Elly Schlein. Quindi – sorride – Giorgia Meloni ha fatto bene anche alla sinistra».

(di MICHELE SERRA – repubblica.it) – La scalata di Netflix a Warner Bros, non ancora ratificata, sembra fatta apposta per farci capire se nel capitalismo del terzo millennio l’antitrust e la lotta ai monopoli sia ancora un fattore attivo oppure solo un cascame novecentesco. Ovvero se il capitalismo sia ancora disposto ad ammettere regole o non ne conosca al di fuori della legge del più forte che fagocita il più debole.
Vedremo come si pronunceranno in proposito gli enti regolatori degli Stati Uniti – ammesso che Trump non ficchi pure loro, a male parole, nel novero degli enti inutili che si impicciano di cose che non li riguardano. Nell’attesa, fa una certa impressione ricordare che, nei dintorni della caduta del Muro e del disastro dell’economia pianificata di Stato, legioni di ottimisti pronosticarono che il trionfo mondiale del liberismo (allora in piena sintonia con la globalizzazione) avrebbe prodotto, a pioggia, un contagio virtuoso, e un moltiplicarsi febbrile dello spirito imprenditoriale. Fu la stagione (breve) degli yuppies, degli impiegatini che si atteggiavano a manager, in uno sforzo simulatorio di “capitalismo popolare” che si rivelò ben presto, anche prima della grande crisi del 2008, molto differente da quanto promesso, o ingenuamente immaginato.
Il rattrappirsi del ceto medio, la crescita vertiginosa degli oligopoli della tecnologia e della distribuzione commerciale, sono invece lo sbocco visibile e tangibile del neoliberismo: e non assomigliano alle premesse dei suoi propagandisti di allora. L’idea di un possibile quasi-monopolio anche nella produzione dell’immaginario sorprende, dunque, quanto scoprire che la volpe è entrata nel pollaio. Ci era già entrata da un bel pezzo.

(di Lucio Caracciolo – repubblica.it) – America e Italia abitano mondi diversi. O noi ci adattiamo a quello americano o veniamo espulsi dalla lista dei paesi d’interesse del capocordata. Con noi, tutti gli europei che secondo la strategia di sicurezza nazionale varata da Trump stanno cancellando la loro stessa civiltà. Il messaggio non potrebbe essere più chiaro: fine dell’Europa americana perché l’America deve concentrarsi su sé stessa. Sanzione di un disimpegno annunciato. Graduale ma inesorabile. Destinato ad accelerarsi, Trump o non Trump. Allo scadere dell’ottantesimo anno di semiprotettorato a stelle e strisce, noi italiani e altri europei siamo invitati a varcare la linea d’ombra che separa l’adolescenza dalla maturità geopolitica. Mamma America non può né vuole salvare il mondo perché deve salvarsi la vita. Per tornare grande deve scaricare parte della zavorra imperiale. E se noi non ci allineiamo saremo parte di quella parte.
La parola d’ordine di Trump è tornare al common sense: l’America nazione fra le nazioni, che come tutte le altre si fa gli affari suoi, con la differenza che si considera prima fra i non pari. Rinuncia a redimere il mondo, a cambiare i regimi altrui disperdendo potenza, credibilità e amor proprio in guerrette senza senso. Il nemico non è la Cina, tantomeno la Russia.È il morbo liberal che ha favorito l’immigrazione senza freni, ha diffuso una forma radicale di politicamente corretto (woke), ha deindustrializzato il paese con la follia della globalizzazione. La priorità è cambiare il proprio regime in senso autoritario. Tutto il resto, competizione con la Cina per l’Indo-Pacifico compresa, viene dopo. L’Unione Europea non conta. Benvenute invece le nazioni europee disposte a difendersi con i propri mezzi, utili a risparmiare forze e denari americani. E a ristabilizzare i rapporti con la Russia, che l’America considera reintegrabile nel sistema continentale. Anche per evitare che a integrarla sia la Cina.
L’Italia non è citata. Fra gli europei, si evoca la Germania, in senso critico, si allude alla Francia che si illude di battere la Russia. Non manca scappellata di prammatica a Inghilterra e Irlanda. Ma Washington non intende abbandonare l’Europa, che “rimane vitale per gli Stati Uniti”. Per questo “vogliamo lavorare con paesi allineati che intendono restaurare la loro antica grandezza”. Difficile immaginare che Trump si rivolga a Roma. Probabile che intenda Parigi, Londra e Berlino. Decisivo che li degradi da alleati ad allineati potenziali. Eccoci al punto per noi dolentissimo. La Nato non è né sarà più la Nato. Non che gli americani vogliano sgombrare le basi che hanno nel Vecchio Continente, a partire da quelle sul suolo tedesco e italiano. Evidente però l’intenzione di ridurre le forze per riconcentrarle nell’Indo-Pacifico. E in casa, per combattere il “nemico di dentro” — gli americani antiamericani secondo Trump. Logico se si considera che la Russia non sia più il Nemico, ma una potenza da trattare con “impegno diplomatico” per “mitigare il rischio di un conflitto con gli Stati europei”. E se non si intende spendere un dollaro in più per la ricostruzione dell’Ucraina, del cui destino Trump si lava le mani dando a Biden la colpa di averlo compromesso. Fondamentale l’impegno a “prevenire l’espansione della Nato quale alleanza in espansione perpetua”, così dichiarando insensata la ragione per cui l’Ucraina si difende dall’invasione russa. Altro che Ue: l’Europa deve operare “come un gruppo di nazioni sovrane allineate”. Questa rivoluzione geopolitica ci coglie impreparati. E imbarazza il governo. Già divisi, l’approccio di Trump contribuisce a metterci gli uni contro o senza gli altri. Nel momento in cui il capocordata allenta la corda, inverte il percorso e lascia pendere la minaccia di tagliarla, far finta di nulla e aggrapparci al nostro Olimpo immaginario fatto di diritto internazionale, Nazioni Unite, Unione Europea e Alleanza Atlantica, significa slittare nell’irrilevanza. Lusso che non ci possiamo permettere mentre la Russia sta finendo di finire l’Ucraina, la Cina installa le sue stazioni di polizia sul territorio nazionale, la Turchia si piazza dirimpetto allo Stivale e i nostri riferimenti europei — Germania e Francia — sono molto più interessati a competere fra loro che a considerarci. Insomma: vogliamo allinearci all’America? E se non lo vogliamo, quale alternativa? Il mondo non sta ad aspettarci. È irresponsabile giocare agli eterni adolescenti. Abbiamo, per necessità, l’opportunità di stabilire una nostra strategia di sicurezza nazionale basata sulla realtà. Occasione per rinnovare la nostra repubblica. Per ridare senso alla politica, prima che lo perda del tutto. E con esso la sua legittimità.

(Dott. Paolo Caruso) – Giuseppe Cavo Dragone, da ammiraglio della NATO, ha fatto sapere che un attacco ibrido su Mosca è possibile. La cosa non è caduta nel vuoto ma ha molto irritato il Cremlino, che, per bocca dello stesso Putin, ha fatto sapere che la Russia è pronta alla guerra totale contro la Nato e l’ Europa. Ma la NATO non comprende anche gli USA come partner maggiore? Trump che ne pensa della questione? Ha deciso davvero di disinteressarsi della UE lasciandola, come ha detto, al suo destino e a rischio perdita sua civiltà. In periodo elettorale ci aveva raccontato la favola che avrebbe risolto in una settimana la fine del conflitto in Ucraina. Ora si arrende alla evidenza dei fatti con parole poco sibilline: ” È un casino! “. Visto l’ attuale scenario quindi si può affermare che ancora una volta sarà un Natale sotto le bombe, perché Putin quando c’è da trattare alza la posta. Zelensky da parte sua si trova in un cul di sacco infatti o accetta diplomaticamente sotto la supervisione americana le condizioni richieste dal sedicente Zar e la perdita delle repubbliche del Donbass o queste saranno prese con la forza. Si fa forte il dittatore sulla debolezza, più o meno manifesta, dell’Europa che con le sanzioni alla Russia si trova in una economia di guerra con gravi ripercussioni sulla stabilità dei governi. A causa dei Sovranisti anche nostrani ( Salvini e Meloni docet ), la UE non riesce a parlare all’ unisono e a essere polo di riferimento. L’ Ungheria di Orban di fatto risente fortemente dell’ influenza russa mentre l’ Europa stoltamente illude Zelensky di una improbabile vittoria. Sarà una Pace allora a qualunque prezzo? La Pace di Trump e Putin sarà comunque dolorosa e non potrà di sicuro essere ” giusta ” agli occhi degli sconfitti. Bastava accettare pochi mesi dopo l’ inizio della guerra la tregua proposta da Erdogan per limitare le richieste di Putin. Ora i 28 punti di Trump cercano di mettere fine alla guerra cercando un compromesso con la Russia. Nonostante le evidenti difficoltà, i bellicisti europei tentano di boicottare questo primo abbozzo di pace. La UE non è per niente apprezzata dai due capi, il Tycoon e lo Zar, Il disprezzo che li accomuna è rivolto verso chi dissente. Del resto gli affari sono affari. Sono queste le guide dei popoli che ci meritiamo? Quale dunque “regalo” a Natale? Il capriccio schizoide di due che si ritengono i padroni della Terra, e possono dettare il bello e il cattivo tempo impunemente.

(Giancarlo Selmi) – “L’opposizione non è unita”. È il mantra del giornalismo italiano. Non solo di quello di destra, ma di tutto. Di chi, deontologicamente, dovrebbe informare ma che, invece, si occupa di “orientare”. Ed è un’affermazione solidamente comica. Molti di quei giornalisti che ripetono il suddetto mantra sono di area PD. Il mantra lo ripetono perché il terribile cattivone Giuseppe Conte non si allinea al pensiero unico che vorrebbe la guerra e il riarmo come fattori ineludibili.
Il grande equivoco, o meglio, la grande pigliata per il culo è il ripetere l’esistenza di un governo e di un’opposizione. Se veramente esistesse e non fosse un tragico teatrino, quale invece è, esclusa l’unica vera opposizione esistente, quella di Conte e del movimento, si dovrebbero ascoltare tesi e antitesi. Dovrebbero esistere narrazioni differenti fra chi governa e chi si oppone, ma, chiedo, è veramente così? A me non pare affatto. Il padre di tutti i temi, il riarmo, le posizioni che riguardano la politica estera, con l’esclusione del solo Conte, vedono tutti uniti appassionatamente in una corrispondenza di amorosi sensi.
Rimproverano Conte e il Movimento, di disorganicità con le posizioni di questa strana opposizione rappresentata in gran parte dal PD, non si accorgono che sia lo stesso PD ad avere un paio di migliaia di posizioni. Gran parte del PD ha le stesse posizioni di Meloni & compagnia. Un’altra parte, la migliore, no. il PD è un contenitore del tutto e del suo contrario. C’è una parte sana, indubitabilmente, ma è pieno di vecchie cianfrusaglie democristiane, neocon e guerrafondai ubbidienti alle logiche dei produttori di morte, di sionazi e di evoluzioni del pensiero di destra neoliberista.
Schlein definisce questa accozzaglia “vocazione plurale”. Non è così, questa è solo una definizione simpatica. Il PD contiene al suo interno l’intero arco parlamentare: dalle posizioni più di destra possibili a quelle più di sinistra possibili. Il PD è governo e opposizione insieme, cosa diavolo c’entra Conte? Mentre Salvini compra una casa da 674 mq in un quartiere “bene”, pagandola la metà del prezzo di mercato e nessuno, a parte Leonardo Donno, oppone un bah, Delrio presenta un emendamento che vuole sanzionare chi critica i suoi amici si
nazisti (e nel PD su questo si stanno scannando) e Fassino i si
nazisti li abbraccia e li loda.
Niente è peggio di Meloni, certamente, ma prima di parlare di “opposizione disunita” non sarebbe il caso di parlare della multipolarità, per non dire cose peggiori, del partito di Schlein? Non sarebbe il caso di chiedere a Delrio e Fassino cosa li distingue da Gasparri? Non sarebbe il caso di chiedere a Schlein di mettersi d’accordo con sé stessa? Non sarebbe il caso di inviare un pacco dono a Forza Italia con dentro Delrio, Fassino, Guerini, Picierno e tutta la truppa renziana? Non sarebbe forse e finalmente un elemento di chiarezza per chi ha rinunciato al voto?
Questo è il problema della costruzione di un fronte di opposizione, altro che Conte.
Il commento sul Fatto sulla relatrice Onu «toccata da inaspettata e insperata popolarità». E la sua replica

(Alessandro D’Amato – open.online) – Il 4 dicembre scorso Antonio Padellaro aveva scritto sul Fatto Quotidiano un commento in cui criticava il Partito Democratico su Francesca Albanese. E aveva scritto che alla relatrice speciale dell’Onu sulla Palestina, «forse perché toccata da inaspettata e insperata popolarità, capita di straparlare». Citando i casi di Liliana Segre o del sindaco di Reggio Emilia. Oggi Albanese in una lettera al quotidiano risponde a Padellaro. «Non credo di “straparlare”: esprimo ciò che penso, rendendomi disponibile a rispondere a giornalisti di tutto il mondo ogni giorno, tra continue conferenze e un delicato lavoro di inchiesta che da tre anni mi porta a confrontarmi con istituzioni, accademie e società civile dei cinque continenti. Le mie posizioni sono il frutto di studio, esperienza sul campo e un mandato Onu che non si improvvisa», esordisce.
Poi Albanese passa a parlare di quello che ha detto su La Stampa: «Non ho mai – MAI – auspicato violenza contro chicchessia (come potrei io che da una vita mi batto contro la violenza in tutte le sue forme?), né inteso che ciò che è accaduto servisse da “avvertimento” ai giornalisti, come qualcuno ha fantasiosamente suggerito, pontificando sulla parola “monito” e sul virgolettato trasfigurato ad arte all’interno del quale è stato fatto circolare». E spiega: «Il mio richiamo era, ed è, alla necessità di riflettere sul diffuso clima di imprecisione, superficialità e violenza verbale ed epistemica consolidatosi in Italia, di cui la copertura mediatica della Palestina è esempio. Un clima da cui tutti dovremmo difenderci, ciascuno facendo il proprio lavoro con rigore».
Albanese poi dice che la sua presunta “popolarità inaspettata e forse insperata” non è motivo di giubilo: «Ne farei, anzi, molto volentieri a meno, dato che è il frutto dell’essere divenuta testimone – quasi oculare – di un genocidio, e delle persecuzioni seguite alle denunce che il mio ruolo mi impone di formulare. Trovo infatti che l’attuale rumore attorno alla mia persona stia servendo a continuare a ignorare i crimini incessanti di Israele e, insieme, a non raccontare la straordinaria presa di coscienza che sta attraversando l’Italia».
Infine, conclude così: «La ringrazio comunque per aver posto la questione con misura. Il confronto civile resta essenziale, soprattutto ora, mentre la libertà di parola si restringe e mentre, altrove, si muore per raccontare la verità. Io continuerò a fare il mio lavoro, con rigore e senza infingimenti, come si addice a chi cerca di servire il diritto, incurante dell’opportunità del momento».

(dagospia.com) – Se, come dice Giorgia Meloni, Donald Trump sveglia l’Europa, c’è bisogno che qualcuno svegli Mentana. Perché non ha ribattuto alla demagoga trumpiana chiedendole per quale motivo ha rimandato a gennaio il piano Purl per gli aiuti a Kiev? Se, sulla scia delle farneticazioni di Trump, Meloni vuole un’Ue unita e forte che “si difenda da se”; bene, ci può far sapere perché si oppone alla riforma Salva-Stati (Mes), si oppone a dar vita a un organismo di Difesa Europea, si oppone alla rimozione del diritto di veto in Consiglio Europeo, che blocca ogni decisione determinante per un cambio di passo dell’Unione?
Se in queste interviste con il premier o con i leader si impongono domande prefabbricate, l’intervistatore può scegliere tra due opzioni: la prima è ribattere squadernando fatti e dichiarazioni che smontano le risposte, la seconda è accontentarsi di annuire facendo da spalla all’intervistato. Mentana ha scelto la seconda: si è travestito da asta reggi-microfono.