Selezione Quotidiana di Articoli Vari

Quando i maschi parlano della guerra


In Europa, dopo ottant’anni di pace, il suo spettro si riaffaccia con prepotenza. Ma come ripensare il continente senza cedere al bellicismo? Munendo i nostri discorsi di quell’arma indispensabile che è l’amore per gli esseri umani

Un palazzo danneggiato da un attacco di droni russi a Kiev

(di Michele Serra – repubblica.it) – Non c’è cittadino europeo di buon senso che non capisca la necessità di ripensare daccapo la difesa del continente, su basi federali e non più nazionaliste. Esercito, intelligence, armamenti, logistica, cultura (soprattutto cultura: ovvero essere in grado di chiedersi perché si portano le armi, e di continuare a chiederselo ogni giorno). Con l’ovvia cura di stabilire, secondo i principi dell’Unione – che è post-nazionalista e post-imperialista per nascita – lo scopo rigorosamente, strettamente difensivo delle sue forze armate.

Ci si arma (sì, ci si arma) per essere pronti al peggio e possibilmente per evitarlo. Certo non per provocarlo o innescarlo: come capita di pensare udendo e leggendo le parole di guerra che ultimamente sbocciano ovunque con una leggerezza feroce. Si è tornati a parlare della guerra non solo come una ordinaria circostanza della storia, ma come una prova del fuoco alla quale possono sottrarsi solo il pusillanime e l’imboscato; e di conseguenza si è tornati a parlare della pace come di una imbelle patologia del benessere.

Si leggono costernati rimproveri ai giovani europei, che in larga parte, alla domanda se morirebbero per la Patria, rispondono, come Bartleby, “preferirei di no”. Aspettarsi un “preferirei di sì”, dopo ottant’anni di pace, corrisponde ad aspettarsi un “preferisco la fame” dopo ottant’anni di piatti pieni. Se quel poco o quel tanto di decente e di utile che noi europei adulti abbiamo portato in dote alle nuove generazioni, insieme a un relativo benessere e molte tangibili libertà, sono gli ottant’anni di pace, per la prima volta nella storia d’Europa, come può meravigliarci che la guerra sia considerata da figli e nipoti una caduta nell’abisso inconcepibile, e un tradimento delle premesse nelle quali sono nati?

C’è poi la cordiale competenza degli strateghi e degli esperti, che nei talk show disegnano gli scenari di guerra come il geometra la sua villetta. E infine c’è il rassegnato fatalismo di chi, non bellicoso, valuta però che la guerra sia inevitabile perché la natura umana è aggressiva e sopraffattrice. E soprattutto: è immutabile, come se i millenni di civilizzazione non fossero un percorso accidentato ma effettivo; solo un falso movimento, un inganno auto consolatorio.

Diceva Kurt Vonnegut che la guerra accade quando “vecchi porci mandano a morire i ragazzi”. Se la sintesi vi sembra brutale, ecco, sullo stesso identico tema, lo svolgimento di papa Leone XIV nella sua omelia di Natale: “Fragili sono le vite dei giovani costretti alle armi, che proprio al fronte avvertono l’insensatezza di ciò che è loro richiesto e la menzogna di cui sono intrisi i roboanti discorsi di chi li manda a morire”.

Si è liberi di attribuire questo ripudio della guerra al rigore evangelico (papa Leone) o al pacifismo beatnik (Vonnegut), insomma a visioni “ottimistiche” degli esseri umani e del loro percorso. Ma non si è liberi di parlare di guerra omettendo di dirne ogni volta, fino allo sfinimento, la struttura materiale, ben visibile e immutabile (se non peggiorata) dalla protostoria ai nostri giorni: pochi maschi di potere, quasi sempre anziani e quasi sempre per ragioni di prevaricazione economica, mandano a morire moltitudini di maschi giovani, esponendo le città alla distruzione, le donne al silenzio e alla rassegnazione, quando non allo stupro, la natura e gli animali allo scempio.

Di questo “scontro frontale di una virilità guerriera” che travolge nel suo farsi non solamente il presente, ma cancella ogni altra ipotesi differente di convivenza e perfino di conflitto, ha molto scritto Lea Melandri, e alla cultura femminista non sono certo serviti giri di parole o forzature ideologiche per inquadrare l’evidenza: la guerra è una pratica arcaica ed è una pratica maschile.

Doppia circostanza che fa riflettere, inevitabilmente, sulla giustapposizione dei due concetti, arcaico e maschile, e giustifica e sollecita ogni possibile ragionamento su come e quanto muterebbero, le sorti dell’umanità, alla luce di una più forte presenza e influenza della cultura femminile nella società, nei luoghi di pensiero e nelle stanze del potere. Non è solo per un fortuito caso statistico che, a livello politico, i tre discorsi più recenti di leader europei che invitano a prepararsi alla guerra sono di tre maschi di potere, i capi di Stato Maggiore di Regno Unito e Francia e il segretario della Nato, l’olandese Mark Rutte. Non possiamo che fare nostre le desolate domande che si è fatto Gianni Cuperlo: “quando e come si è prodotto uno strappo così profondo anche nel linguaggio e nella possibilità di pronunciare frasi che soltanto una manciata di anni fa non avrebbero avuto cittadinanza alcuna nello spazio condiviso del discorso pubblico?… Quando e perché una parte della classe dirigente europea ha rimosso la consapevolezza di cosa siano guerre e conflitti?”.

Anche Cuperlo, come chi scrive, è oramai un maschio anziano. Leggere le sue parole mi ha confortato perché siamo prima di tutto noi maschi anziani, quando parliamo e scriviamo di guerra, ad avere il dovere di riconoscere in quella parola una diretta, irrefutabile responsabilità di genere; e anche una responsabilità anagrafica. Perché – detto bruscamente – non saremmo noi a rischiare la pelle in trincea, ma i maschi giovani, e questo affido ad altri della morte “eroica”, più semplicemente della morte ordinaria e ripugnante nel fango di una trincea, dovrebbe suggerirci il massimo della cautela, della delicatezza, della compassione per noi stessi e per gli altri.

Sapere di che cosa stiamo parlando, quando parliamo di guerra, è della massima importanza (nel senso che non riesco a vedere, in questo passaggio della nostra storia, argomenti altrettanto importanti). Dunque muniamo i nostri discorsi, per favore, di quell’arma indispensabile che è l’amore per gli esseri umani, per i bambini, le città, le scuole, i teatri, i negozi, i campi, gli alberi e gli animali. Senza temere che qualcuno faccia osservare che è la solita melassa. In quella melassa la vita vive, la vita è la regola, non il sospiro dello scampato.


Clima, indietro tutta: l’Europa era partita in anticipo, ma ha perso un altro anno per salvare il pianeta


Le corporazioni gas-petrolifere potrebbero dare la svolta sacrificando solo il 5% dei profitti

Clima, indietro tutta: l’Europa era partita in anticipo, ma ha perso un altro anno per salvare il pianeta

(Mario Tozzi – lastampa.it) – È difficile immaginare una marcia indietro più decisa di quella innestata dai governi mondiali, europei in particolare (perché erano quelli che avevano giustamente accelerato di più) nel 2025. Quest’anno non ci sono regali sotto l’albero per la Terra e, di conseguenza, neanche per i sapiens, tanto per rispedire subito al mittente l’obiezione che il pianeta non si accorge nemmeno di quanto combinano gli uomini: è vero, ma se non preservi gli equilibri e gli ecosistemi del mondo, i primi a soffrirne saremo noi. E, inoltre, le attività produttive dei sapiens l’atmosfera la modificano eccome: per la prima volta nella storia dei viventi una sola specie minaccia tutte le altre e intacca le geosfere.

Partiamo dall’agricoltura: la Commissione Europea propone di estendere illimitatamente le autorizzazioni per immettere sul mercato tutti i pesticidi, i biocidi e gli additivi che aumentano la resa, ma ammalano persone e ambiente. Il settore più sovvenzionato di tutti non riesce proprio a riconvertirsi e addossa la colpa al Green Deal, dimenticando che non solo non è mai partito, ma ora viene pure bloccato. E dimenticando che, se i loro affari vanno male, è a causa di mezzo secolo di Brown Deal e di migliaia di errori di prospettiva. In questo campo, però, possiamo sempre imparare dagli Usa, dove colorano di blu i mirtilli con gli idrocarburi, irrorano il riso con l’arsenico, spruzzano le mele con la difenilammina e immergono i polli nel cloro prima di smerciarli. Non c’è fine nella corsa al ribasso.

E poi le foreste: perché vogliamo proteggerle così in fretta? Secondo il Wwf, il regolamento contro la deforestazione in Europa (Eudr) è stato artatamente ritardato, così verranno abbattuti almeno 50 milioni di alberi in più, liberando 17 milioni di tonnellate di gas serra in aggiunta nell’atmosfera. Non male, anche se nel Sudest asiatico, in Borneo e in parte del Sudamerica stanno cercando di fare ancora peggio. Ed è anche vero che in Italia abbiamo riforestato negli ultimi decenni, ma spesso pinete o boschi non di pregio, che non risaneranno mai la perdita delle nostre foreste primarie alpine e delle faggete vetuste dell’Appennino.

Se poi vogliamo considerare qualche nostro compagno di viaggio, le cose non vanno meglio. Uno su tutti, il lupo, simbolo della nostra incapacità di convivere con l’ambiente naturale, cui l’Europa ha ridotto il livello di protezione declassandolo. Ad agosto, in Italia, è stato abbattuto legalmente il primo lupo a oltre 50 anni dalla sua tutela (in Italia il Wwf di Fulco Pratesi), andando incontro a odii atavici di cittadini ignoranti che vedono nel lupo ogni sorta di male, dimenticando che si tratta di una specie cruciale per il mantenimento degli equilibri ecosistemici che, alla fine, tornano utili prima di tutto a noi. Magari si potrebbe pensare che così i nostri allevatori tuteleranno meglio il loro bestiame. Peccato che solo meno dello 0,1% (ripeto: zero virgola uno per cento) degli animali da allevamento europei viene predato dal lupo e che non si riscontrano attacchi di lupi ai sapiens, visto che noi non rientriamo nel target delle sue prede e che, per fortuna sua, il lupo fugge appena ci vede.

Sul clima le cose vanno meglio che negli Usa, che si sottraggono agli impegni internazionali e trivellano come se non ci fosse un domani, ma non è che vadano bene. Rinvii, ritardi, obiettivi sempre meno ambiziosi: cosa non si farebbe pur di compiacere le corporation gaspetrocarboniere, i negazionisti d’accatto e le nuove geometrie sovraniste al potere. Dal punto di vista climatico l’avvento dei populisti trumpiani anche in Europa è una jattura micidiale: ci si cura solamente di accumulare il più possibile prima che la barca affondi, senza pensare che quella barca è la stessa per tutti. La testimonianza plastica della retromarcia innestata è la manomissione del phase-out europeo del 2035 per la vendita dei motori endotermici, che vede ridotto l’obiettivo di abbattimento delle emissioni di CO₂ dal 100% al 90% e l’apertura alla follia del biometano per il trasporto su strada. E nella stessa inversione di marcia va la possibile cancellazione del programma Life, unico strumento autonomo per la biodiversità e il clima.

Se si fa eccezione per lo straordinario incremento delle energie rinnovabili in Cina e per l’intervento del Brasile a favore delle sue foreste, non si vede l’ombra di un Green Deal in nessuna parte del pianeta (e dobbiamo anche ricordare il record di centrali a carbone cinese o quelli dell’allevamento brasiliani): è ufficiale, il mondo non crede più alla rivoluzione verde. La scusa formale è che la sostenibilità ambientale non collimerebbe con quella economica e sociale, che non si capisce benissimo cosa mai possa voler dire. Tutto dipende da chi paga, e siccome nessun ambientalista di buon senso vuole addossare i costi della crisi al pensionato con la Panda euro 1, i responsabili li conosciamo bene: sono proprio le Oil & Gas Corporation che potrebbero mutare in meglio i destini dei sapiens semplicemente riducendo, e non di tanto (si calcola meno del 5%), i propri profitti, magari re-investendoli in rinnovabili.

La riconversione ecologica è una necessità non eludibile e meno ancora negoziabile, perché sull’altro piatto della bilancia ci sono vittime, danni economici (tutt’altro che irrilevanti, nonostante la mancata comprensione della letteratura scientifica da parte di alcuni giornalisti ideologizzati e ignoranti in materia) e un futuro che si prospetta pesante per chi ci ha prestato il pianeta. Aver perso un altro anno per passare dalla constatazione della crisi alle contromisure può far contento solo chi su quella crisi continua a guadagnare o su chi teme che le regole odorino di comunismo e soffochino il libero mercato: tranquilli, intanto soffochiamo solo noi.


L’opinione delle ciabatte


(di Michele Serra – repubblica.it) – È possibile che abbiano ragione i seguaci di Bolsonaro nell’accusare di «propaganda politica» la pubblicità delle ciabatte infradito Havaianas, che invita a «non iniziare il 2026 con il piede destro», ma con entrambi i piedi. Anche il meno malizioso dei passanti può pensare che ci sia un riferimento abbastanza esplicito alle imminenti elezioni politiche.

Ciò detto, vista l’invadenza dei prodotti, delle merci, dei marchi nelle nostre vite, perché negare a un paio di ciabatte (o quant’altro) i diritti politici? Solo loro devono rimanere in eterno nel limbo inespressivo dell’unanimismo? Solo loro devono essere costrette a essere “di tutti”, senza mai contrariare nessuno? Elette a feticcio, a totem, in cambio di tanta grazia le merci devono tacere in eterno, mute, neutrali, complici di chiunque, buone per i piedi di chiunque, del migliore benefattore come del peggiore assassino?

In considerazione del loro predominio assoluto sulle nostre vite, le merci hanno il pieno diritto, ma anche il dovere, di avere finalmente una identità pubblica, e delle opinioni. Quando ero giovane e lavoravo con Grillo (il Grillo giovane…) mi ripeteva sempre: puoi dire tutto il peggio di Andreotti, ma se parli male di Coccolino ti denunciano.

Questo accadeva perché Coccolino, come tutte le merci, era sacro. Per dissacrarsi, bisogna che le merci, finalmente, scendano in mezzo a noi, e corrano i nostri stessi rischi. Si espongano. Dicano come la pensano. Se necessario sbaglino, come capita a noi. I rischi commerciali, tra l’altro, sono relativi: Havaianas ha perso in Borsa dopo la minaccia di boicottaggio della destra. Ha subito ripreso quota grazie al favore dei clienti di sinistra.


Merz, l’incubo tedesco e la pax americana finita


Quel che il cancelliere tedesco non può né vuole ammettere è che la Germania ha perso il primato in Europa. Ma non per colpa sua

Il cancelliere tedesco Friedrich Merz

(di Lucio Caracciolo – repubblica.it) – «Mi capita di svegliarmi la mattina e chiedermi se questo non sia solo un brutto sogno». Il cancelliere tedesco Friedrich Merz ha una qualità sempre più rara fra i politici: gli scappa di dire quel che pensa. Talvolta anche quel che pensano suoi colleghi meno imprudenti, come quando spiegò che Israele «sta facendo il lavoro sporco per noi». L’incubo che oggi lo tormenta è la fine della pax americana. Per lui l’Occidente, già regolatore del pianeta, è ridotto a espressione geografica. Quel che Merz non può né vuole ammettere è che la Germania ha perso il primato in Europa. Ma non per colpa sua.

Facile puntare il dito contro questa scialba figura, incapace di governare il suo stesso partito. Primo cancelliere che riesce a non farsi eleggere dal Parlamento al primo scrutinio, non ne ha azzeccata una, tanto che alcuni ne pronosticano la caduta anticipata. Primo cancelliere a essere sconfitto in un Consiglio europeo — già dominio di Angela Merkel — su una questione da lui battezzata decisiva per la «sovranità europea» quale l’uso dei fondi russi immobilizzati all’estero per aiutare l’Ucraina. Talmente debole nella sua Cdu da farsi bruciare il candidato alla presidenza della Fondazione Adenauer, molto più di un think tank di partito, sconfitto da Annegret Kramp-Karrenbauerla donna che Merkel avrebbe voluto le succedesse alla cancelleria.

Merz è il dito. La luna è la fine degli ottant’anni di esenzione dalla storia della Germania. Perno della famiglia europea inquadrata nell’Alleanza atlantica a guida americana. Durante la guerra fredda, quale semiprotettorato a stelle e strisce all’insegna del motto «americani dentro, russi fuori e tedeschi sotto», nella non spontanea intesa franco-tedesca (“coppia” per i francesi, “amicizia” per i tedeschi).

Poi nei trentacinque anni di pseudo-unificazione tedesca, scambiata dai germanofobi per Grande Germania se non Quarto Reich, spesi da Berlino per affermarsi centrale nelle politiche europee, specie in ambito fiscale e monetario, ma senza bussola strategica. Approccio ben riassunto nel motto merkeliano «quando penso alla Germania penso a finestre ben chiuse».

Il sogno della Bundesrepublik vestita da Grande Svizzera è finito per sempre il 24 febbraio 2022 con l’invasione russa dell’Ucraina. Tempesta che spalanca le finestre socchiuse fra Reno e Oder mentre illumina di luce sinistra un Paese anestetizzato dalla «fine della storia». L’allora cancelliere Olaf Scholz, che gareggia con Merz per il titolo di meno autorevole governante della storia tedesca, è lesto a proclamare la «svolta epocale» (Zeitenwende).

Tre anni dopo Merz, con il solito tatto, giura che farà della Bundeswehr l’esercito più potente d’Europa, mentre la questione della bomba atomica, “europea” o nazionale, anima il dibattito pubblico. Merz rilancia una sorta di “leva volontaria” — quando il mondo è sottosopra batte l’ora degli ossimori — per richiamare i refrattari al dovere di difendere la patria. Rieducazione da quasi zero, stante il grado di delegittimazione dello strumento militare nel Paese che perse due guerre mondiali si è imposto un pacifismo senza (quasi) se né ma.

Per Merz la Germania oggi «non è ancora in guerra ma non è più in pace». Dunque tra due sedie. Postura in sé scomoda. Angosciosa. Con la fine della pace sono cadute certezze e abitudini introiettate da tre generazioni di tedeschi: il benessere economico è minacciato dalla crisi dell’industria, specie l’automobilistica (non se ne esce in fretta e furia producendo panzer), dalla forzosa (vedi Nord Stream 2) rinuncia al gas russo e dalla perdita di quote importanti nel mercato cinese.

La transustanziazione da orgogliosa formica in cicala fiscale, sostenuta dai notevoli margini fiscali accumulati anche a spese dell’Eurozona, è il marchio del pragmatismo di una classe dirigente finora attenta a dipingere di vernice etica la sua politica economica. E segnala la difficoltà di adattare una leadership europea figlia del bel tempo alle tempeste d’acciaio.

Tradotta in italiano, questa è la fine del “vincolo esterno”, ossia della nostra fede nella volontà altrui di educarci alla virtù. La tentazione di galleggiare è forte. Peccato che la nostra barca non sia calafatata per queste onde.


Associazione Magistrati della Corte dei Conti: “Oggi si scrive una pagina buia per tutti i cittadini”


(ANSA) – ROMA, 27 DIC – “Oggi si scrive una pagina buia per tutti i cittadini: il Senato della Repubblica ha approvato la riforma della Corte dei conti, magistratura chiamata dalla Costituzione a garantire che le risorse pubbliche siano destinate ai servizi alla collettività e non siano sprecate, per imperizia o corruzione.

Si tratta di una scelta che segna un passo indietro nella tutela dei bilanci pubblici e inaugura una fase in cui il principio di responsabilità nella gestione del denaro dei cittadini risulta sensibilmente indebolito”. Così l’Associazione Magistrati della Corte dei Conti.

“Da oggi – prosegue l’Associazione magistrati della Corte dei Conti – in presenza di grave colpa, il danno arrecato alle finanze pubbliche sarà risarcibile solo entro il limite massimo del 30% del pregiudizio accertato. La parte restante non verrà recuperata e resterà a carico della collettività”.     

“Ulteriori forti preoccupazioni – proseguono i magistrati – suscitano l’introduzione di meccanismi di esonero automatico dalla responsabilità, legati al silenzio della Corte dei conti in sede di controllo di legittimità o di parere. In questo modo, l’assenza di una pronuncia esplicita della Magistratura contabile rischia di trasformarsi in una giustificazione automatica, piegando tali funzioni a logiche di esclusione della responsabilità piuttosto che di miglioramento dei servizi.

La riforma incide negativamente sui principi di legalità, responsabilità e buon andamento dell’amministrazione, sanciti dalla Costituzione, e solleva un tema centrale di equità: le risorse pubbliche appartengono a tutti e la loro tutela richiede forme di responsabilità effettive e credibili”.  

 “Una maggiore efficienza dell’amministrazione non si ottiene riducendo il ruolo della Magistratura contabile, ma valorizzando il presidio indipendente e imparziale a garanzia del corretto utilizzo del denaro pubblico”, conclude l’Associazione.


Quanto è stata attendibile Meloni nel 2025? Il 70% delle sue dichiarazioni è risultato impreciso


È il bilancio sulle parole della presidente del Consiglio fatto da Pagella Politica: meno di un terzo delle sue frasi quest’anno è risultato verosimile

Quanto è stata attendibile Meloni nel 2025? Il 70% delle sue dichiarazioni è risultato impreciso

(repubblica.it) – Centonovanta dichiarazioni nel 2025. Che portano a quasi 400 le affermazioni della premier e leader di Fratelli d’Italia, Giorgia Meloni, sottoposte a fact-checking dall’inizio del suo mandato alla guida del governo. È il bilancio sull’attendibilità della presidente del Consiglio fatto da Pagella Politica: meno di un terzo delle sue dichiarazioni verificate quest’anno è risultato pienamente attendibile.

Le dichiarazioni analizzate sono state divise in: attendibili, ossia quelle corrette o con lievi omissioni; imprecise che contengono errori o tralasciano dettagli rilevanti; e, infine, quelle poco o per nulla attendibili che sono in gran parte o del tutto scorrette.

Quanto è stata attendibile Meloni nel 2025

Le dichiarazioni attendibili sono state 59, pari al 31,1 per cento del totale. Quelle imprecise sono state 66, il 34,7 per cento, mentre 65, cioè il 34,2 per cento, sono risultate “poco o per nulla attendibili”. In sintesi, quasi il 70 per cento delle dichiarazioni di Giorgia Meloni verificate da Pagella Politica presenta imprecisioni o problemi più seri di attendibilità.

L’analisi consente di capire come e quanto spesso, nelle dichiarazioni più rilevanti emergano errori, imprecisioni o ricostruzioni fuorvianti dei fatti. E i risultati del 2025 sono sostanzialmente in linea con quelli dell’anno scorso, riporta pagella Politica, e con l’andamento registrato nelle dichiarazioni di Meloni nei primi anni alla guida del governo.

Nei contesti istituzionali

Nel corso del 2025 la premier è risultata più attendibile nei contesti istituzionali, come i discorsi ufficiali e gli interventi in Parlamento, dove le affermazioni sono in genere più misurate ma dove sono, comunque, emersi errori e imprecisioni.

Negli eventi di partito

Il livello di accuratezza peggiora durante eventi di partito e nelle interviste. In questi contesti, le sue parole sono più spesso enfatizzate e orientate a valorizzare l’azione del governo, con ricostruzioni dei fatti talvolta parziali o non pienamente supportate dai dati disponibili.

Pnrr e politica estera

Nel tempo, nelle dichiarazioni di Meloni si sono consolidati alcuni filoni ricorrenti usati per ribadire i presunti successi del governo su diversi fronti, come i risultati sul fronte del mercato del lavoro o della realizzazione del Piano nazionale di ripresa e resilienza (Pnrr). Nel 2025, a questi temi si è affiancato anche il riferimento alla politica estera e alla situazione in Medio Oriente, ambito in cui alcune frasi della premier sono risultate sovrastimate o formulate in modo non del tutto aderente ai fatti, sempre come riporta l’analisi fatta da Pagella Politica.


Corte dei Conti, ok definitivo del Senato alla riforma che riduce il risarcimento per danno erariale


Il provvedimento espande il controllo preventivo sugli atti e fornisce agli amministratori uno “scudo” di fatto per quel che accade dopo. Secondo la maggioranza così si contrasta la “paura della firma”. Pd: “Pericolosa deresponsabilizzazione dei pubblici amministratori, è vendetta per la bocciatura del Ponte”. M5s: “Gli uomini di potere non risponderanno pienamente dei danni causati”

Corte dei Conti, ok definitivo del Senato alla riforma che riduce il risarcimento per danno erariale. Opposizioni: “Via libera all’illegalità, pagheranno i cittadini”

(ilfattoquotidiano.it) – Via libera del Senato con 93 voti a favore, 51 no e cinque astenuti al disegno di legge Foti, la discussa riforma della Corte dei conti approvata in prima lettura dalla Camera lo scorso aprile. I magistrati contabili la contestano duramente perché espande in maniera abnorme l’ambito del controllo preventivo degli atti e fornisce agli amministratori uno “scudo” di fatto per quel che accade dopo. Non solo: il risarcimento erariale, quello dovuto da funzionari e amministratori che causano un danno economico allo Stato, viene limitato senza eccezioni al 30% del danno accertato o due annualità di stipendio. Insomma, “viene trasformato in una sanzione limitata” e il resto lo pagheranno “i cittadini con le tasse“, ribadisce in un’intervista a La Stampa Donato Centrone, presidente dell’Associazione magistrati della Corte dei Conti, che parla di provvedimento “frettoloso” e paventa anche il rischio di ingolfamento nel caso i Comuni decidano di inviare alla Corte gli atti attuativi del Pnrr chiedendo il visto preventivo.

Respinta con 99 voti contrari, 49 favorevoli e un astenuto la proposta di questione pregiudiziale al ddl presentata dalle opposizioni, secondo cui il provvedimento vuol limitare i controlli sugli sprechi e le scorrettezze degli amministratori pubblici ed è una “rivalsa” contro la Corte per la recente bocciatura del procedimento governativo sul Ponte sullo Stretto. “Si impone al Parlamento di votare in tutta fretta questa riforma perché il 31 dicembre scade lo scudo erariale”, ha ricordato il senatore dem Walter Verini nel suo intervento in Aula. “Il sospetto è che Governo e maggioranza vogliano soltanto esercitare qualche forma di vendetta e di sottomissione verso una magistratura che – compiendo il suo dovere – ha segnalato pesanti irregolarità sul Ponte sullo Stretto di Messina e sul Centro per migranti in Albania, emblemi dei tanti flop di questo Governo”.

Cosa prevede la riforma

Il ddl rende strutturale lo scudo erariale introdotto durante il Covid nel 2020 e finora prorogato fino a tutto il 2025. Poi c’è la riforma vera e propria. La prima parte, che entrerà subito in vigore, modifica le funzioni della Corte introducendo il doppio tetto al risarcimento per responsabilità amministrativa. In sostanza, l’ammontare del risarcimento per l’amministratore condannato per danno erariale calcolato dal giudice contabile dovrà essere risarcito nella misura massima del 30% del pregiudizio accertato e comunque non oltre due annualità di stipendio lordo. Viene poi ampliato il controllo preventivo sugli atti, introducendo un controllo preventivo “a chiamata” su quelli individuati dalle amministrazioni. Insomma: il dirigente avrà tre opzioni. Potrà chiedere un parere alla sezione di controllo della Corte, che avrà 30 giorni di tempo per rispondere pena lo scattare di una sorta di silenzio assenso: il parere si intenderà favorevole e il richiedente sarà esente da qualsiasi responsabilità. In alternativa il dirigente potrà decidere di sottoporre l’atto al controllo preventivo della magistratura contabile. Anche in questo caso, se la risposta non arriva entro trenta giorni, il richiedente viene esentato da ogni responsabilità. Infine, se il dirigente non interloquisce con la Corte e adotta un atto illegittimo, viene indagato e condannato per danno erariale.
La seconda parte della riforma andrà invece attuata con decreti delegati e inciderà sull’organizzazione della Corte e sui poteri del procuratore generale. Sul fronte organizzativo, verranno accorpate le sezioni centrali regionali, i cui magistrati dovranno svolgere sia funzioni di controllo che giurisdizionali e consultive. Infine si introdurrà anche per la magistratura contabile la separazione per funzioni di magistrati requirenti e giudicanti e si aumenteranno i poteri del procuratore generale, anche quelli sui procuratori regionali.

La maggioranza: “Mette gli amministratori al riparo dalla paura”.

Secondo il governo le nuove norme puntano a contrastare la cosiddetta “paura della firma” da parte degli amministratori pubblici. Per Fratelli d’Italia si tratta di una “una riforma necessaria“, che “introduce il principio che il controllo sia doveroso, ma debba basarsi su fatti e non su mere presunzioni”. La Lega dal canto suo sostiene che “fornisce chiarezza a chi opera nella pubblica amministrazione, rendendo prevedibili gli eventuali effetti dannosi collegati all’esercizio di un potere amministrativo”.

Pd e M5s: “Pericolosa deresponsabilizzazione”

L’opposizione protesta: per il Partito democratico, il provvedimento “nei fatti afferma una sostanziale irresponsabilità della pubblica amministrazione” e “scardina il principio della responsabilità dei pubblici amministratori in relazione agli atti che arrecano un danno erariale”. L’effetto? “Una pericolosa deresponsabilizzazione dei pubblici amministratori, in un Paese in cui la qualità della burocrazia non rappresenta un volano per lo sviluppo”. Per il presidente dei senatori del Pd Francesco Boccia, intervenuto in aula durante il dibattito, la riforma “rende più difficile perseguire gli illeciti erariali. Riduce drasticamente la responsabilità per colpa grave, introduce veri e propri salvacondotti preventivi e limita persino il risarcimento del danno. Il messaggio è chiaro: meno controlli, meno responsabilità. Non è una riforma per tutelare le risorse pubbliche, è una riforma per proteggere chi governa dalle conseguenze delle proprie scelte”. Il problema della cosiddetta paura della firma c’è, dice il dem, “ma qui viene usata come foglia di fico. Questa legge non aiuta i funzionari onesti: deresponsabilizza soprattutto gli organi politici, la cui buona fede viene addirittura presunta per legge. Se un atto è vistato, o se scatta il silenzio-assenso, la responsabilità praticamente scompare. Questa legge fa esattamente il contrario di ciò che chiede l’Europa. L’UE pretende controlli rigorosi, progressivi, responsabilità chiare. Qui invece si introduce il silenzio-assenso sul controllo di legittimità e lo si trasforma in uno scudo contro la colpa grave. È un corto circuito pericoloso, soprattutto su Pnrr e grandi opere: meno controllo oggi significa più danni e più contenziosi domani”.

La limitazione della responsabilità erariale anche per i casi di colpa grave, unita al fatto che la prescrizione inizierà a decorrere, anche nel caso di occultamento doloso del fatto, nel momento della commissione del fatto e non nel momento della scoperta, per i dem “manifesta la palese irragionevolezza di queste norme, che certamente non supereranno il vaglio di costituzionalità“. Secondo il Pd è come se “si incentivasse il colpevole ad occultare il fatto causa di danno erariale, da un lato, mentre la previsione di una riduzione della responsabilità contabile per il singolo al 30% del pregiudizio accertato si sostanzia in una enorme deresponsabilizzazione dei pubblici amministratori che scaricano sulla collettività il restante danno erariale“.

Contrario anche il M5s, secondo il quale il “si introduce una riforma che contraddice pienamente un principio cardine dello Stato di diritto, per cui la legge è uguale per tutti”. Per il partito guidato da Giuseppe Conte, “l’introduzione della possibilità di richiedere un parere preventivo alla Corte dei conti, unito all’introduzione di un meccanismo di silenzio-assenso, nei fatti rappresenta un via libera per tutte le illegalità“. “Il provvedimento – evidenziano quindi i pentastellati – non aggiunge risorse economiche per incrementare l’organico della Corte, che pertanto sarà ingolfata da richieste di pareri preventivi che non riuscirà ad evadere, con ciò alimentando il meccanismo del silenzio-assenso”. Infine viene sottolineato dal M5s che “la disparità di trattamento sotto il profilo della responsabilità introdotta dal provvedimento rappresenta un grave vulnus al principio di uguaglianza. La paura della firma, infatti, è propria di tutti i professionisti, si pensi ai medici o agli avvocati: i cittadini cioè rispondono sempre e comunque delle proprie azioni, mentre, con il disegno di legge, si afferma nuovamente il principio che gli uomini di potere non rispondono pienamente dei danni causati, secondo un fil rouge che lega tutti i provvedimenti di questo Governo, a partire dall’abolizione del reato di abuso di ufficio“.

Italia viva si asterrà. “Ancora una volta governo privilegia la strada dello scontro, del non ascolto delle opposizioni, della chiusura oltranzista a qualsiasi miglioramento del testo”, ha detto in aula Dafne Musolino (Iv). “E alla fine produce un testo che presenta molti aspetti critici su cui credo che il vaglio di costituzionalità non sarà favorevole come voi prospettate”.

Corte dei Conti, Salvini al Senato vota per limitare i poteri dei giudici (che hanno bocciato il Ponte sullo Stretto)

Il leader della Lega a sorpresa si è presentato a Palazzo Madama e ha detto “sì” al disegno di legge Foti che riduce i controlli e introduce uno scudo erariale per i politici

Corte dei Conti, Salvini al Senato vota per limitare i poteri dei giudici (che hanno bocciato il Ponte sullo Stretto)

(di Giacomo Salvini – ilfattoquotidiano.it) – Un passaggio rapido. Per salutare i suoi senatori, poi i colleghi di governo – tra cui il sottosegretario alla presidenza del Consiglio Alfredo Mantovano – e infine votare. Per far passare la riforma che limita i poteri della Corte dei Conti, proprio l’ente costituzionale che a fine ottobre ha stoppato la delibera del Cipess sul Ponte sullo Stretto di Messina. Il leader della Lega Matteo Salvini sabato mattina, poco dopo l’ora di pranzo, si è presentato nell’aula del Senato per votare “sì” al disegno di legge che porta la firma del collega di governo Tommaso Foti (Fratelli d’Italia) che limita i poteri di controllo e successivi dei giudici contabili e riduce lo scudo erariale al 30% per gli amministratori pubblici, oltre a presumere la loro “buona fede”.

La decisione del governo di approvare il 27 dicembre la riforma è legata al fatto che il 31 scade lo scudo erariale per gli amministratori, ma punta anche a dare un segnale ai giudici in vista della riforma sulla separazione delle carriere. Lo aveva già spiegato la premier Giorgia Meloni il 29 ottobre quando la Corte dei Conti aveva bocciato il progetto del Ponte sullo Stretto: “L’ennesima invasione di campo dei giudici: non ci fermeranno”, aveva detto la presidente del Consiglio. Anche Salvini dopo quella decisione era andato all’attacco: “La decisione della Corte dei Conti è un grave danno per il Paese e appare una scelta politica più che un sereno giudizio tecnico. In attesa delle motivazioni, chiarisco subito che non mi sono fermato quando dovevo difendere i confini e non mi fermerò ora”.

Sabato mattina così si è presentato in aula per votare, nonostante la sua presenza a Palazzo Madama sia piuttosto inusuale anche in caso di votazioni importanti. Insieme a lui c’erano altri colleghi di governo: i ministri Anna Maria Bernini, Paolo Zangrillo, Nello Musumeci e Roberto Calderoli, oltre ai sottosegretari Claudio Durigon, Francesco Paolo Sisto e Patrizio La Pietra. Il testo è passato con 93 sì, 51 no e 5 astenuti. Al termine del voto il sottosegretario alla presidenza del Consiglio Mantovano, uno degli ispiratori del disegno di legge, si è presentato di fronte alle telecamere e ha detto che il voto sulla Corte dei Conti non è una “vendetta per la delibera sul Ponte: il disegno di legge è stato presentato due anni fa, è arrivato al Senato a marzo ed è stato approvato oggi. Mi sembra una forzatura”.


Il compito che ci spetta


(Andrea Zhok) – In ogni momento storico ci sono molte cause degne, alcune cause urgenti, ma una causa cruciale, una ragione inderogabile per mobilitarsi.

Nell’epoca e nel luogo che ci è capitato di abitare questo movente cruciale ed inderogabile dev’essere il rifiuto della guerra.

Rifiutare la guerra è qualcosa di molto più complesso e strutturato di un generico pacifismo, di uno “stato d’animo” irenico. Ci possono essere molte forme di guerra, talvolta esistono anche guerre necessarie, ma nel contesto in cui viviamo l’evocazione della guerra è un atto gratuito e motivato da ragioni accuratamente dissimulate, in effetti un atto criminale.

L’attuale insistente strategia che fomenta uno stato di guerra in Europa non ha, ovviamente, nulla a che fare con la realtà di un’esigenza difensiva. Ciò si mostra sia nel fatto che la minaccia di una guerra di conquista russa dell’Europa è una sciocchezza fuori dal mondo, sia nel modo in cui le presunte esigenze difensive sono gestite.

Che la Russia non abbia né l’interesse né la capacità di conquistare l’Europa è un’ovvietà per chiunque non si sia bevuto il cervello (o continui a leggere la stampa di regime): la Russia con i suoi 17 milioni di kmq è più di quattro volte l’UE, ma è abitata da soli 145 milioni di abitanti, un terzo degli abitanti dell’UE. Il principale problema storico della Russia è tenere insieme il suo impero con una popolazione relativamente esigua, non certo sovraestendersi acquisendo nuove terre abitate da popolazioni ostili. È peraltro lo stato con la maggiore dotazione di risorse naturali al mondo, dunque supporre che vada alla ricerca di nuove risorse è ridicolo.

Il modo di impostare la presunta strategia difensiva europea è inoltre palesemente insensata sul piano tecnico, giacché non parte da un’analisi degli scenari di guerra plausibili e dalle esigenze specifiche da soddisfare sul piano tecnologico e militare, ma parte da un budget. Ciò che preme ai governi europei è infatti stabilire quanti soldi potranno estrarre dalle tasche dei propri cittadini, non quali mirate esigenze difensive il proprio paese richieda.

Ma quando si parla di guerra oggi bisogna comprendere bene come si stratifichi la pulsione bellica. Essa opera su tre livelli distinti, che possono presentarsi congiuntamente o separatamente.

1) Il primo livello è quello proposto retoricamente come primario. Esso consiste nella rappresentazione del nemico come pericolo incombente e nel fomentare una disposizione bellicosa nella propria cittadinanza. Non passa giorno che i giornali di tutta Europa non diano il loro pio contributo all’isteria bellicista. Il meccanismo mentale è noto e perseguito senza remore; sanno che forza di ripetere le stesse narrazioni manipolative, queste gradatamente aumentano di plausibilità psicologica in fasce sempre più ampie della popolazione. Bisogna presentare a getto continuo eventi ordinari come minacce straordinarie, bisogna insinuare nella popolazione il dubbio di essere già subdolamente sotto attacco da parte del nemico, e bisogna avviare passi sempre più decisi in direzione di una preparazione materiale alla guerra. In epoca di guerra ibrida e tecnologica è facile sfruttare l’opacità dei sistemi che abitiamo per insinuare il sospetto che un black-out o un bug informatico siano opera del nemico, e che tutto ciò richiede “risposte” acconce (o attacchi preventivi).

Non è detto che le classi dirigenti europee desiderino davvero la guerra, ma questo meccanismo di preparazione e provocazione combinate tende spontaneamente all’escalation e se non fermato in tempo è destinato senza scampo a sfociare in un conflitto armato diretto.

2) Il secondo livello è dato dalla funzione di sorveglianza e controllo sulla popolazione che l’atmosfera bellica impone. Questo è uno degli aspetti più gradevoli e affascinanti per chi detiene il potere, in quanto cancella gli orpelli dello stato di diritto senza sembrare che tale cancellazione avvenga. L’esecutivo subordina legislativo e giudiziario nel nome della “ragion di stato”, e nel nome del “bene supremo” della pubblica incolumità apre la strada ad ogni arbitrio. I recenti casi di Jacques Baud e Nathalie Yamb sono solo la punta dell’iceberg. Il sogno bagnato del potere di tutti i tempi, cioè un potere esercitato senza limiti e senza responsabilità, diviene finalmente plausibile.

3) Il terzo livello è quello originario e che consente a tutti gli altri di istanziarsi. Quando si parla di “ragion di stato”, ovviamente lo “stato” in questione non è più “res publica”, ma “res privata”. Ciò che muove l’apparato statale neoliberale a richiamare la “ragion di stato” non sono motivazioni – discutibili, ma dignitose – come la gloria patria o il benessere collettivo, ma la rispondenza alle lobby economiche del momento. Così come una pandemia è il momento giusto per consegnare l’agenda politica alle lobby farmaceutiche, similmente una guerra ai confini d’Europa è un’occasione d’oro per consegnare l’agenda politica alle lobby dell’industria bellica.

Questi tre livelli con i loro rispettivi orizzonti minano alla radice ogni forma di vita per i cittadini europei. Al minimo, si ottiene di riconvertire spesa pubblica in commesse private, di trasformare servizi ospedalieri, pensioni e pubblica istruzione in cespiti economici per gli oligarchi della finanza occidentale. In seconda istanza si stabilizza il potere entro una cerchia autoperpetuantesi, che sorveglia, censura e sanziona in forme arbitrarie, garantendosi così di non essere sfidabile da alcun contropotere. In prospettiva predispone il terreno per un conflitto sul campo, conflitto che gli oligarchi della finanza desiderano in forma circoscritta e controllata, ma che – come già avvenuto in passato – una volta iniziato nessuno è davvero in grado di circoscrivere e controllare.

Oggi, per tutti i cittadini italiani ed europei, opporsi in ogni forma legalmente percorribile all’odierna spinta bellicista è un obbligo morale, un’esigenza non sindacabile, un valore non negoziabile.


La casta è sempre la casta: il governo ha preso i contribuenti per fessi


La Corte dei conti e lo «sconto» del condominio. Una norma simil-condominio anche per la Corte. Le poche volte in cui i giudici della Corte dei Conti dovessero condannare un amministratore pubblico a risarcire il danno erariale causato da un suo atto, costui non pagherebbe più del 30% del danno. Il resto a carico dei contribuenti

(di Luigi Ferrarella – corriere.it) – Perché nel condominio no e nel Condominio invece sì? A furor di popolo condominiale, imbufalito dall’etichetta di fesso appiccicatagli dalla proposta di legge che agli inquilini in regola voleva far pagare i debiti non saldati ai fornitori dai coinquilini morosi, giorni fa Fratelli d’Italia ha dovuto rinnegarla. Eppure oggi il Senato sta per approvare in via definitiva — nella riforma della Corte dei Conti fortemente voluta dalla maggioranza di governo — una norma ancor più onerosa per tutti gli italiani: in base alla quale, le poche volte in cui i giudici della Corte dei Conti dovessero condannare un amministratore pubblico a risarcire il danno erariale causato da un suo atto, costui non pagherebbe più del 30% del danno, «e comunque» — congiunzione magica — al massimo due anni di stipendio: norma degna di quella abortita sul condominio, visto che nel Condominio, cioè in quello spazio comune che è la tutela delle risorse pubbliche alimentate dalle tasse, al posto dell’amministratore pubblico graziato dal tetto di legge saranno dunque tutti i contribuenti a dover mettere mano al portafoglio per saldare il restante 70% del danno erariale da lui causato.

Con l’ulteriore iniquità — nel Condominio — dell’altra nuova norma che automaticamente presume sempre la «buona fede» dei politici allorché i loro atti siano firmati o proposti o vistati dai tecnici. Cioè quasi sempre, visto che quasi sempre gli atti di un politico hanno la firma o il visto di un tecnico: un po’ come se, nelle scale del condominio, alcuni privilegiati fossero esentati dal pagare i danni delle loro condotte tutte le volte che il portiere non gli avesse detto esplicitamente che quella certa cosa non si poteva fare.
In più la legge, nel fissare la prescrizione del danno erariale a soli 5 anni, li fa decorrere dalla data del danno e non dalla scoperta (di solito molto successiva): e ciò anche se l’amministratore l’ha occultato dolosamente, sol che abbia avuto l’astuzia di farlo non con «condotta attiva» ma con silenzi furbi, omissioni, reticenze. Norme, per il governo, volte a togliere a chi amministra la «paura della firma»: ancora? Ma non era la scusa già usata per abrogare l’abuso d’ufficio?


Meloni è come Berlusconi, solo che lui voleva cambiare la Carta per i propri interessi


BINDI, ‘MELONI È COME BERLUSCONI, IL NO AL REFERENDUM PER SALVARE LA CARTA’

(ANSA) – “Una magistratura autonoma e indipendente da qualunque potere è una garanzia per i nostri diritti e le nostre libertà perché vigila sul rispetto della legge da parte di tutti, compresi i politici”.

Lo afferma, in un’intervista a Il Fatto Quotidiano, Rosy Bindi, ex ministra del Pd. “Sono le dichiarazioni di Meloni e di Nordio – aggiunge – che definiscono questa riforma un riequilibrio tra i poteri. Ma in Costituzione questo equilibrio è perfetto, quindi chi lo vuol toccare lo fa nell’interesse dell’esecutivo. Il Guardasigilli, infatti, dice che quando sarà al governo anche Schlein si avvantaggerà della riforma”.

“Questa riforma – prosegue Bindi – tende a rompere la comune cultura della giurisdizione separando le carriere, la formazione dei giudici e persino i Csm, trasformando i pubblici ministeri in una casta specializzata nell’accusa. Come cittadina ho tutto l’interesse che il pm non diventi un super poliziotto, non sia meno magistrato del giudice che emetterà la sentenza.

Si afferma di voler togliere potere ai pm, ma in realtà si dà loro un super potere che prima o poi verrà sottoposto a un altro controllo, che non può che essere quello politico o governativo. Tutto questo finisce per sollevare il potere della politica dal rispetto della legge.

È il capovolgimento del disegno della nostra Carta. Il loro intento è cambiare questa Costituzione che non hanno votato e ostacolato per quasi 80 anni. Questo è un punto di incontro con la battaglia che fu di Berlusconi. Solo che lui voleva cambiare la Carta per tutelare i propri interessi, questi perché hanno una visione opposta”.

Perché vogliono anticipare la data del referendum? “Confidano nel fatto che la stragrande maggioranza degli italiani non conosce il contenuto reale della riforma e vogliono impedirci di informare” va avanti l’esponente dem. È un referendum contro il governo? “No, è un referendum per la Costituzione. È Meloni che continua a ripetere che questa riforma è nel suo programma. C’è chi vorrebbe che fosse un referendum su Schlein” conclude Bindi.

PARODI, ‘VOGLIONO ALLENTARE I CONTROLLI SUL POTERE POLITICO, ACCUSE GRATUITE CONTRO ME’

(ANSA) – “Condividiamo da mesi le preoccupazioni dei colleghi della Corte dei Conti. Ed io penso che sta emergendo una verità, sotto la coltre degli slogan: in questo momento è in gioco il principio dell’equilibrio tra poteri dello Stato. E l’allentamento delle funzioni di controllo sul potere politico”.

Lo afferma, in un’intervista a La Repubblica, Cesare Parodi, presidente dell’Anm. Cosa la preoccupa, presidente? “Il grado di aggressività – aggiunge -, gli schizzi gratuiti. Credo che ciascuno dovrebbe essere libero di poter esporre i suoi argomenti senza subire accuse gratuite: e infatti il nostro no, fin dal primo momento, è stato spiegato e motivato. I cittadini hanno bisogno di capire per poter scegliere consapevolmente: qui parliamo del loro diritto alla giustizia e delle loro garanzie, non dei nostri ‘privilegi'”.

Alla domanda se anche lui è convinto che il sì porti avanti una battaglia contro le toghe, Parodi risponde: “Non parlo di tutti, naturalmente, ma il messaggio che passa è proprio quello: e invece insisterò sempre, anche negli incontri, sul fatto che dobbiamo riflettere sul danno che si fa alla Costituzione.

Chi chiede il sì – prosegue – vuole rafforzare il potere politico a danno di quello dei giudici che esercitano il controllo. Tutto il resto, dividere i pm dai giudici, è fuffa. Il Guardasigilli è stato molto sincero quando ha detto alla segretaria Schlein: questa riforma converrà anche a voi. Ha ragione: converrà a chiunque è al governo. E poi turba, confesso, una certa aggressività”.


I nuovi mercanti del tempio


(Giancarlo Selmi) – Sono un Cristiano Comunista. Lo dico perché è un argomento natalizio. So che verrò inondato di messaggi che diranno che le due cose siano inconciliabili. Invece no. Sapete di quale auspicio mi accontenterei in occasione di questo Natale e che si avverasse nel prossimo vicino anno? Ve lo dico subito: della messa in pratica della parola di Cristo. Nulla potrebbe migliorare questo mondo più di quella splendida ideologia. Pensateci. D’altra parte tutti si dichiarano cristiani, a partire dalla nostra pessima presidente del consiglio, ma cristiani lo sono veramente poco.

Basterebbe che lo fossero veramente. Ma non lo sono. Perché fanno esattamente il contrario di quello che voleva il più grande rivoluzionario della storia. Quello che cacciò i mercanti dal Tempio. Quello che chiamò a sé i bambini. Quello che, per primo predicò il principio dell’uguaglianza di tutti gli uomini. Uguali di fronte a Dio, però quale autorità terrena può essere più in alto di un Dio? Ed essere uguali non è forse la base del più elementare concetto di equità? La distribuzione della ricchezza non è forse propedeutica alla uguaglianza?

Fare gli interessi di chi ha già molto a scapito di chi ha nulla, non è forse contrario a ciò che predicava Cristo? Aiutare lo sfruttamento di un lavoratore per aumentare la ricchezza di chi lo sfrutta, cos’ha a che fare con gli insegnamenti di Gesù? Cos’hanno insegnato i Vangeli ai quali dicono essere fedeli, alla nostra attuale classe dirigente? Cosa è più lontano dal Vangelo della religione neoliberista? Nulla. Perfino i miracoli narrati dal Vangelo parlano di redistribuzione della ricchezza. Qual è la traduzione che dà della “moltiplicazione dei pani e dei pesci” la “cristiana” Meloni?

Non dovrebbero permettersi di citare Cristo. Non è “la difesa del presepe” che gridano la Sardone e la Ceccardi a farle diventare autenticamente cristiane. La sacra famiglia era una famiglia di migranti. La Sardone li avrebbe fatti fuori. Nei tre partiti al governo di insegnamenti cristiani c’è nulla, c’è molto egoismo e molta affezione alla guerra, all’accumulazione di ricchezze e al sopruso, anche sulla giustizia, blanda con i forti e severissima con i deboli. La Meloni e la sua armata Brancaleone sono la precisa riproposizione dei sacerdoti che fecero crocifiggere Cristo. Sono i nuovi mercanti del tempio.

Meloni è cristiana quanto siano intelligenti i suoi vicepresidenti. Auguro a me, a voi tutti, alla intera umanità, un mondo costruito sugli autentici valori cristiani. Non sulla chiesa, sulle sue ricchezze, su chi si riempie la bocca in maniera sacrilega con il nome di Gesù, ma sui valori che questo uomo o Dio, come piace a ognuno definirlo, ha predicato. Basterebbe essere solidali, rifiutare armi e guerra, essere aperti alle differenze, aiutare e accogliere. In pratica tutto quello che è odiato da Meloni con la sua sprovveduta, grezza e ignorante compagnia.

PS: devo aggiungere una cosa. Salvini mi ha rotto il caxxo con i suoi rosari, Meloni con i suoi richiami alla cristianità. Usano il nome del mio Cristo che non è il loro. Il mio nacque in una grotta, figlio di un falegname, il loro è un fichetto che odia i neri, i poveri, le diversità e ama le ville milionarie. Ancora di più se comprate a metà prezzo.


La destra crea il deserto politico e lo chiama legalità


Agitando la bandiera della “sicurezza”, il governo fa nelle città il vuoto politico, cancellando non solo luoghi, ma comunità. Con altrettanta durezza, colpisce i movimenti dei giovani e giovanissimi, quelli che cercano di risvegliare le coscienze su urgenze come il cambiamento climatico o il genocidio a Gaza

(Giorgia Serughetti – editorialedomani.it) – Fanno un deserto e lo chiamano legalità. Lo sgombero del centro sociale Askatasuna a Torino, che segue di pochi mesi quello del Leoncavallo a Milano, e i prossimi annunciati ministero dell’Interno in tutta Italia, sono il volto più visibile e cruento di un disegno di potere che ha per obiettivo non solo le città come spazi di relazioni, vita collettiva e conflitti, ma l’idea stessa di cittadinanza come dispositivo di appartenenza, partecipazione, emancipazione.

Nell’anno che abbiamo alle spalle, una destra forte con i deboli e debole con i forti ha reso sempre più manifesto il desiderio di ridurre al silenzio ogni voce dissenziente, di azzerare ogni sussulto di resistenza, di demolire ciò che resta della storia e l’attualità di movimenti sociali di opposizione alla guerra, alla violenza dei confini, alla distruzione ambientale, allo sfruttamento economico.

Se il “decreto Sicurezza”, approvato lo scorso giugno, ha dato veste giuridica alla strategia di repressione del dissenso del governo guidato da Giorgia Meloni, la pratica degli sgomberi e delle intimidazioni verso attiviste e attivisti ha generato un clima di aperta ostilità a ogni espressione di espressione di conflittualità sociale.

Parti di una storia

I centri sociali di cui si minaccia la definitiva sparizione non sono stati e non sono semplici «occupazioni abusive» o «situazioni di illegalità», come piace descriverli al ministro Matteo Piantedosi, ma parti di una storia e punti di una cartografia di soggetti che fanno cultura fuori dai circuiti del consumo culturale, che praticano la solidarietà e il mutuo sostegno laddove non arrivano i servizi di welfare, e naturalmente fanno politica, in un tempo in cui gli spazi, per la politica, sono sempre meno, o non ci sono più.

Ora, agitando la bandiera della “sicurezza”, il governo fa nelle città il vuoto politico, cancellando non solo luoghi, ma comunità. Con altrettanta durezza, colpisce i movimenti dei giovani e giovanissimi, quelli che cercano di risvegliare le coscienze su urgenze come il cambiamento climatico o il genocidio a Gaza.

«Democrazia passiva»

Tutto questo avviene in un contesto come quello italiano in cui la partecipazione politica è già ridotta al lumicino. I dati dell’Istat mostrano un calo vistoso, negli ultimi vent’anni, dell’interesse per la politica e dell’impegno attivo, soprattutto tra i più giovani.

Il disimpegno si traduce anche nei numeri sempre più allarmanti dell’astensione. Come scrivono Paolo Natale, Luciano Fasano e Roberto Biorcio nel libro Schede Bianche (Luiss University Press), quella che va configurandosi è una «democrazia passiva», con il non-voto come «fenomeno generalizzato, in grado di investire trasversalmente diversi gruppi e categorie sociali», inclusi «i settori più attivi di una società». Se sempre più persone si astengono è perché cresce l’indifferenza alla politica, accompagnata dalla sfiducia nella sua capacità di produrre cambiamento.

L’interesse e il senso di efficacia per la politica non cominciano né finiscono, ovviamente, negli spazi sociali auto-organizzati. Chiamano in causa, come minimo, la condizione dei partiti e dei corpi intermedi. Ma quando le esperienze di partecipazione politica e sociale che non passa dai canali tradizionali vengono ridotti al silenzio, l’allarme dovrebbe suonare per tutte e tutti, per chiunque abbia a cuore la salute della democrazia.

Ridurre all’apatia

Perché questa politica della legalità non è una risposta alla crisi delle forme e dei luoghi della cittadinanza. Ne è, piuttosto, una causa, laddove separa la difesa della legalità da obiettivi di giustizia sociale, ovvero mette il rispetto cieco della legge davanti ai principi dell’eguaglianza, dei diritti fondamentali, della cura delle persone.

Il governo attuale non è né il primo né l’unico ad aver usato la leva della legalità contro i più deboli, anziché contro i più forti. Ma sembra questo il primo a inquadrare simili politiche in un disegno scoperto di riduzione della cittadinanza all’apatia. A voler produrre attivamente un deserto del disimpegno dove forme sempre più verticali di potere possano avanzare incontrastate.


Medici introvabili, disertati i concorsi per il Pronto soccorso


Il 17% dei posti resta vacante, ma la percentuale sale al 47% per i reparti di medicina d’urgenza e al 60% per anatomia patologica. In aumento anche chi va via dall’Italia: dal 2020 oltre 5 mila professionisti

Medici introvabili, disertati i concorsi per il Pronto soccorso

(PAOLO RUSSO – lastampa.it) – I concorsi medici che finiscono deserti sono il primo segnale di una fragilità che rischia di trasformare una criticità gestibile in una falla strutturale del Servizio sanitario nazionale. Non si tratta soltanto di graduatorie con pochi idonei o rinunce in ultima battuta: sempre più bandi – soprattutto per Pronto soccorso, anestesia, urgenti e specialità usuranti – non raccolgono candidature sufficienti. È un fenomeno che sta crescendo con l’allentamento delle restrizioni al turnover e che potrebbe aggravare quella carenza di camici bianchi che oggi, pur non essendo ancora allarmante, è già sotto osservazione dai manager sanitari.

Nel corso del 2025 su 15.283 posti messi a bando dalle Regioni per varie specialità mediche 2.569, pari a circa il 17%, sono rimasti vacanti. Ma i camici bianchi. Si tengono alla larga soprattutto dai settori nevralgici e al tempo stesso usuranti del nostro sistema sanitario. Nella medicina di emergenza e urgenza, quella che deve cavarsela nel girone dantesco dei pronto soccorso d’Italia, su 976 posti disponibili, solo 537 sono stati assegnati, con circa il 47 % dei posti vacanti. Ma ci si tiene ala larga anche da anatomia patologica, radioterapia e discipline di laboratorio, specialità che i certi casi hanno oltre il 60% di posti non assegnati.

In Valle d’Aosta il 56% dei concorsi medici banditi sono andati deserti; al Cardarelli di Napoli un concorso per dirigenti di Pronto soccorso non ha registrato neppure un candidato; in Piemonte bando per cinque Pronto soccorso senza partecipanti; idem per il posto di dirigente del Serd (il servizio per i tossicodipendenti) a Trento e per i due posti da nefrologo alla Asl di Vercelli; a Rovigo nessuno per un posto da anestesista a tempo indeterminato; in diverse Asl del Nord-Ovest i bandi per ginecologia, ortopedia e urologia si chiudono nel nulla. È la punta di un iceberg che gli ospedali già percepiscono sulla loro pelle ogni giorno.

Una componente importante è poi la mobilità internazionale. Negli ultimi anni circa mille medici italiani ogni anno hanno richiesto i certificati per trasferirsi e lavorare all’estero, secondo stime della Federazione nazionale degli Ordini dei medici – un numero che è una costante, non un picco episodico. Altre fonti associative parlano di oltre 5.000 medici italiani e 1.000 infermieri che negli ultimi cinque anni hanno presentato richieste di trasferimento fuori dai confini nazionali, con mète che vanno dall’Europa settentrionale agli Emirati Arabi. Una fuga che non è solo statistica, ma impatta sugli organici locali, in particolare nei reparti più stressati e nel territorio.

Questa mobilità si somma a un altro problema: l’imbuto formativo. Il numero programmato all’ingresso di Medicina, le lunghe attese per le specializzazioni e la scarsa attrattività di alcune branche rallentano l’ingresso stabile di giovani medici nel mercato del lavoro. Secondo un’indagine del sindacato medico Anaao Assomed, anche molti concorsi di specializzazione restano senza assegnazione: nel 2024 non è stato attribuito il 25% delle borse di specializzazione, mentre per medicina d’emergenza-urgenza è stata assegnata meno di una borsa su tre.

Percentuali molto alte di posti non coperti si rilevano per microbiologia, patologia clinica, radiologia, medicina nucleare.

Ma a rischiare la desertificazione sono soprattutto gli studi dei medici di famiglia. Nel 2024 su 2.623 borse di studio disponibili, infatti, sono solo 2.240 i candidati che si sono fatti avanti, lasciando vuoto il 15% dei posti disponibili con punte nelle Marche (881 candidati per 155 posti), Toscana (150 presenti per 3200 posti), Veneto (186 aspiranti medici di base per 212 posti disponibili).

I numeri raccolti da Istat e Agenas raccontano di una grande fuga dei medici di famiglia, che dagli oltre 46mila del 2002 ha portato 42.426 medici nel 2019, 41.707 nel 2020, 40.250 l’anno successivo per arrivare da qui al 2025 a contarne solo 36.628, qualcosa come diecimila in meno in 12 anni, durante i quali la popolazione sarà pure leggermente diminuita ma è anche invecchiata. E sono proprio gli anziani a fare più spesso visita agli ambulatori dei camici bianchi sul territorio. Il problema è che già oggi la maggior parte di loro ha oltre 25 anni di servizio e il ricambio generazionale non è in vista all’orizzonte. Anzi, secondo l’Enpam, l’ente previdenziale dei dottori, i giovani formati da qui al 2031 copriranno solo la metà dei 20mila medici di famiglia destinati ad andare in pensione, visto che oltre il 50% di loro ha già più di 60 anni.

In questo contesto la sfida è doppia. Da un lato c’è la gestione del turnover e delle pensioni di massa che si avvicinano – nel 2022, un quarto dei medici di famiglia e ospedalieri aveva già superato i 60 anni – con prospettive di uscite significative nei prossimi dieci anni. Dall’altro c’è la capacità di attrarre e trattenere professionisti sanitari qualificati, in un mercato europeo dove la domanda è diffusa e i salari e le condizioni di lavoro spesso più vantaggiosi. Senza contromosse valide non solo quella infermieristica, ma anche l’emergenza medica è destinata ad esplodere.


Quel “Buon Natale ai terroristi” e il favore alla galassia jihadista


L’Islam radicale è la conseguenza di regimi corrotti, che Donald aiuta per interesse

Quel “Buon Natale ai terroristi” e il favore alla galassia jihadista

(Domenico Quirico – lastampa.it) – Lo stile innanzitutto, il grado di insolenza: quello dei commenti con cui Trump impreziosisce le sue bislacche «operazioni» e i suoi abbagli più incresciosi. Dovremo prestarvi attenzione, non sono dettagli di ridicolo volgarismo presidenziale. Indicano, fanno capire, svelano un «modus proce-dendi». Sono quasi un manifesto politico. Più che a Teddy Roosevelt, pioniere dell’imperialismo, un tipaccio che suggeriva di girare con un bastone per essere convincenti, rimandano alla prosa dei solisti del mitra. Leggiamo: «Oggi abbiamo inflitto legnate perfette… avevo avvertito che l’avrei fatta pagare cara e hanno pagato carissimo… buon Natale anche ai terroristi morti…». E voilà: albero di Natale, bombe e pace in Nigeria: la decima o l’undicesima, si è perso il conto.

I nigeriani hanno dunque scoperto che questo presidente americano ha deciso di occuparsi di loro come aveva promesso: a cannonate. Le chiese evangeliche che in Nigeria hanno palanche e influenza, realtà più magra e incresciosa, e soprattutto in America votano Trump, esultano: lo hanno convinto che lì è in atto un genocidio contro i cristiani.

Un concetto che rientra nelle sue rozze semplificazioni. Così ha lanciato alcuni missili, sempre molto avvolti dal mistero, si svicola su bersagli (luoghi aperti, foreste?) e risultati, contro lo «stato islamico dell’Africa dell’ovest», jihadismo stile Isis che ha preso il posto dei primitivi Boko Haram convertiti a redditizie delinquenze comuni. La guerra al terrorismo è sempre di moda, una riserva di pretesti quasi inesauribile, si chiude un occhio anzi due. Il governo nigeriano ha annunciato che una volta tanto era stato avvertito delle bombe, precedute da preliminari all’ingrosso, minacce e taglio dei visti per gli Stati Uniti, che ne hanno ammorbidito i dubbi. Senza troppa enfasi ha aggiunto che collabora con chiunque alla lotta «contro la minaccia terrorista». Ci mancherebbe. Non filtra grande entusiasmo per il manesco alleato….

La situazione della Nigeria, purtroppo, è molto più complicata di quella presa di mira dal bricolage missilistico di Trump. La Nigeria è divisa in due, un sud a maggioranza cristiana; e il nord musulmano dove ci sono guerra odio e rancore. I jihadisti ne sono una parte, non il tutto. Il califfato qui conta migliaia di combattenti, è una guerra santa che vuole amministrare, insediarsi, diventare permanente e che per questo annuncia a popolazioni dimenticate o maltrattate dal potere centrale cibo, kalashnikov e possibilità di vendetta. L’islam radicale non è mai la causa, è sempre una conseguenza di regimi violenti corrotti, cooperative di manigoldi che sfruttano le popolazioni in combutta con vecchi e nuovi colonialismi. Ritratto perfetto della verminosa democrazia nigeriana.

Forse Trump avrebbe dovuto dedicare ai suoi boss, spasmodicamente aggrappati ai braccioli delle loro petrolifere poltrone, i suoi missili liberatori. I jihadisti captano come rabdomanti dove la loro predicazione violenta può attecchire ed esportano jihad localistiche, modellate sulla realtà di disperazioni autoctone. La Nigeria è uno di questi luoghi di missione, uno dei più fertili. Trump ha offerto loro, con stolta ignoranza, un nuovo efficace argomento di propaganda.

Ma non sono loro i soli responsabili dei 60 mila morti e sei milioni di profughi che si contano dal 2010. Le vittime sono purtroppo divise tra cristiani e musulmani. E’ una eredità secolare, da una parte ci sono le genti di Allah, dall’altra i cristiani e gli animisti, guasti gli uni e gli altri per l’astio e il fiele. Da quando la «sharia», la legge islamica, è entrata in vigore in una dozzina di stati del Nord si accumulano storie che bisogna iscrivere nel libro nero delle convulsioni della intolleranza.

A sud c’è il petrolio che da ricchezza e potere, e i notabili musulmani gridano al furto, alla emarginazione. Hanno scoperto così politicamente le armi del fondamentalismo. I cristiani dapprima hanno subìto. Poi anche loro si sono armati, non mancano di gente egualmente feroce e determinata che sa stare loro a petto. E si scambiano colpi selvaggi.

Ma se il nord est appassisce di jihadismo il nord ovest vive il far west forse perfino più sanguinario di bande criminali. Il centro invece è sconvolto dalle faide tra gli allevatori, musulmani in maggioranza, e i contadini cristiani. Anche qui moschee e chiese ardono come fiammiferi, reciproci regolamenti di conti accumulano le memorie, ma la ragione non è la fede fanatica, ma l’ancestrale mai risolta battaglia per la terra, i pascoli e l’uso della acqua. I colori del «genocidio dei cristiani» caro a Trump, come si vede, si complicano.

Il governo, inefficiente e corrotto, mette tutto sotto l’etichetta dei «banditi», un modo per confondere le acque e assolversi dalle responsabilità politiche. I «banditi» dilagano nei villaggi e uccidono e senza chiedere prima alle vittime la loro religione. In vaste zone alle frontiere con Niger e Benin le bande, senza etichette islamiste, hanno di fatto sostituito lo Stato. I sequestri diventano notizia ormai solo quando le vittime sono scolaresche soprattutto di ragazze e bambine. Il denaro è il solo imperativo categorico. Difficile che i missili di natale abbiano creato loro problemi. Nella miseria generale fiorisce una economia di guerra in cui ingrassano jihadisti, funzionari corrotti, generali, mercanti che riforniscono i santuari dei banditi e dei ribelli.

briganti di frontiera si sono trasformati in uno Stato parallelo. Il lievito sono stati i conflitti terrieri tra contadini Houssa e comunità nomadi, soprattutto Peul. Entrambi hanno formato gruppi di autodifesa. L’esercito esce dalle caserme solo per contare i morti. Le milizie nello stato di Katsina in una ventina di distretti per disperazione hanno firmato la pace con le gang accettando di pagare loro le tasse per non essere molestati.

La Nigeria è dunque una potenziale Somalia con 140 milioni di abitanti e due milioni di barili di greggio al giorno, a sud ci si batte per l’oro nero, a nord ci si scanna per la fede, ma anche per la terra e l’ammontare di un ricatto. Dove l’unica negritude è quella del dolore e della sofferenza e tutti gli afro-ottimismi vengono a morire miseramente. L’Africa che muore sì, ma per suicidio.


Se la destra si scopre senza anima


Una volta tanto anche nello sparutissimo manipolo di pensatori dell’intellighenzia post-missina qualcuno ha il coraggio di gridare che, almeno finora, la corazzata Potëmkin meloniana è stata una boiata pazzesca

Roma, 23 dicembre: Giorgia Meloni

(di Massimo Giannini – repubblica.it) – Sia lode ai Marcello Veneziani, ai Franco Cardini, ai Giordano Bruno Guerri. Finalmente, anche a destra, qualcuno scuote l’albero. Intendiamoci, parliamo di “spelacchio”, l’abetino poverello che fatica a germogliare nella tronfia rive droite dove da tre anni e mezzo riecheggiano solo i triti dettami del tardo Ventennio: la donna sola al comando, credere obbedire combattere, dio patria famiglia, il complotto dei soliti comunisti, chi non è con me è contro di me, e via delirando. Ma vivaddio, una volta tanto anche nello sparutissimo manipolo di pensatori dell’intellighenzia post-missina qualcuno ha il coraggio di gridare che, almeno finora, la corazzata Potëmkin meloniana è stata una boiata pazzesca.

Giorgia ha fatto un capolavoro: nel 2013 parte da via della Scrofa con un misero 1,4%, nove anni dopo entra a palazzo Chigi con il 26,6. Ma cos’è cambiato in Italia da quel trionfale 25 settembre 2022? Cos’è rimasto della grande “rivoluzione conservatrice” sognata e promessa dai nipotini di Almirante e sintetizzata nelle mitiche tesi di Trieste? In che cosa si sono tradotti la «filosofia dell’identità» e lo «spirito nazionale», la «nuova sovranità monetaria» e il «valore dei nostri giovani»? Insomma, dov’è la vera, nuova «egemonia culturale» di questa destra al potere, esaltata e appagata solo dall’averlo raggiunto?

Veneziani ha il merito di aver posto su La Verità queste domande, che nella casamatta meloniana sanno di apostasia. A un governo autocratico — che smercia qualunque patacca per «evento storico», dall’oro di Bankitalia al popolo alla cucina tricolore patrimonio dell’Unesco — non puoi rimproverare «solo vaghi annunci, tanta fuffa, un po’ di retorica comiziale e qualche ipocrisia».

A un partito-setta — che mantiene una vocazione clanica e minoritaria mentre si spaccia per «partito della Nazione» — non puoi non saper indicare «qualcosa di rilevante che dica al Paese “da qui è passata la destra, sovranista, nazionale, patriottica, popolare, conservatrice” o quello che volete voi». E agli improbabili ma irriducibili maître à penser nati a Colle Oppio e cresciuti a pane e Codreanu — che pensano di fare «egemonia gramsciana» con una mostra sul futurismo e un’opa su Pasolini — non puoi dire «sul piano delle idee, della cultura e degli orientamenti pubblici e perfino televisivi, eccetto l’inchino al governo, tutto è rimasto come prima».

Se fai tutto questo, non sei un intellettuale onesto: sei solo un traditore o un ricattatore. Spari sul quartier generale perché speri che qualcuno ti ci faccia entrare. Questo risponde a Veneziani il competente ministro della Cultura, che lo rimprovera di nemichettismo: «Sversa su di noi la bile nera di cui trabocca il suo animo colmo di cieco rimpianto». La solita circonlocuzione barocca del divo Giuli, per dire che l’ex amico Marcello rosica perché voleva la sua poltrona al Collegio Romano.

E per il resto, vae victis!: guai a tutti quelli che sui giornali-parenti osano salire sul carro del perdente. Tipo Mario Giordano, che da spirito libero scrive «Veneziani è colpevole di non aver leccato gli stivali di Giuli. A chi il leccaculo? A noi! Anche questo in fondo è un segnale di decadimento della destra al potere…». Impossibile dargli torto.

E ancora più impossibile è dar torto a Franco Cardini, che in un’intervista a Repubblica, a proposito del lavoro culturale di FdI, parla di «encefalogramma piatto» e aggiunge «non c’è nemmeno una rivista culturale, quando hanno dei soprassalti fanno le mostre su D’Annunzio o su Tolkien, che conoscono anche i maestri di Vigevano e le casalinghe di Voghera, per dimostrare che la cultura la fanno anche loro, ma francamente è un po’ ridicolo».

Roma, 23 dicembre: la cerimonia degli auguri natalizi ai dipendenti nel cortile di palazzo Chigi

Le cose stanno esattamente così. Se rimettiamo insieme le parole e le opere della premier e della sua milizia, qual è la svolta culturale che segna il cambio d’epoca? La “Ducia Maior”: qualche frasetta sciolta di Roger Scruton in Parlamento, qualche citazione a caso di Thomas Eliot al meeting di Rimini. I “gerarchi minori”: qualche intemerata su Peppa Pig da Mollicone, qualche pièce teatrale di Mellone.

Per il resto, fuffa ideologica e poltronificio. Riproduzione su vasta scala della paccottiglia trumpiana (Italia first e sostituzione etnica, sovversivismo dell’élite e sovranismo bianco, ateismo devoto e familismo immorale). Occupazione manu militari della Rai e del circuito-cinema, dei teatri stabili e degli enti lirici.

A rifondare la “nuova Italia” non bastano una rassegna sul Signore degli anelli o un concerto di Baglioni al Senato. Il catalogo neo-nazi di Passaggio al bosco con i testi di Mussolini e di Junio Valerio Borghese o il pantheon posticcio di Atreju con D’Annunzio e Charlie KirkCarlo Conti che dispensa primizie sanremesi o Gigi Buffon che sparge delizie sulla commander in chief.

L’unica ossessione della destra è il nemico a sinistra. E la sua unica missione è la purga che ne cancella gli “idoli”. Perché solo questo di tanta speme oggi le resta: l’occhiuta sorveglianza di Giampaolo Rossi a Viale Mazzini, la cieca resistenza di Beatrice Venezi alla Fenice. E come ricorda Fabrizio Roncone sul Corriere della Sera, già nel 2020 Veneziani dettava a Panorama la sua profezia: «Oltre a Giorgia, cosa c’è di notevole nel suo partito? C’è una classe dirigente adeguata, a parte vecchie glorie e giovani cognati?». Per poi concludere: «La sinistra ha un’idea dell’egemonia, e sa come praticarla. La destra ha solo un’idea militare». Era vero allora, pare ancora più vero oggi.

Nonostante le disfatte elettorali, la rive gauche è ancora popolata di scrittori e attori, registi e opinionisti. Ma con due differenze fondamentali rispetto all’altra sponda. La prima è che nessuno li alleva: non c’è più il Pci di Berlinguer, che organizzava gli stati generali della cultura convocando intellettuali di ogni ordine e grado. La seconda è che nessuno li criminalizza: se di qua sono di casa la critica distruttiva al Pd e la satira abrasiva sul campo largo, di là non capita mai nulla di simile.

Meloni e i suoi Fratelli possono fare o dire qualunque nefandezza ma nessuno attizza mai un po’ di sano “fuoco amico”. E se uno solo osa, come Veneziani, fa subito scandalo. Persino Giuliano Ferrara si adonta, deprecando il “nannimorettismo” a destra. Rimane da sciogliere solo l’ultimo dubbio sul senso del j’accuse.

Qual è la vera colpa, nella mancata trasformazione del Paese? Quella di non aver compiuto la vera svolta “centrista e governista” (creando una forza europeista e non “occidentalista”, repubblicana e riformatrice, costituzionale e liberale)? Oppure è quella di aver dismesso la postura “estremista e radicale” degli anni ruggenti (rinunciando alla rottura con l’Europa, agli spot contro le accise dal benzinaio e agli strilli sui blocchi navali nei salotti tv)?

Se è la prima — come ci sarebbe ancora bisogno, a dispetto della falsa Belle époque del Cavaliere — allora è giusto contestare Meloni e pretendere un’operazione-verità. Se è la seconda — come purtroppo suggerisce lo spirito del tempo, da Trump a Milei, da Orbán a Netanyahu — allora è meglio tenersi la Meloni di oggi. Piagata dall’ambiguità, piegata dalla realtà.