Ho visitato il sito di Passaggio al Bosco per dare un’occhiata al catalogo. Grafica da Foro Italico, omosessualità legionaria, e pochi autori di rilievo. Si trova di meglio nelle case editrici mainstream

(di Ottavio Cappellani – mowmag.com) – Come tanti altri lettori, non avevo mai sentito parlare di Passaggio al Bosco, così ho deciso di dare un’occhiata al sito di questa casa editrice che tanto ha fatto discutere e tanti litigi ha causato in queta edizione di Più Libri Più Liberi. Non è stato facile: il sito è tornato più o meno praticabile oggi. Fino a ieri, evidentemente, il server che lo ospita non era in grado di gestire questo flusso anomalo di visite, e per prima cosa mi appare un’avvertenza che recita: “Info dal magazzino. A causa delle centinaia di ordini pervenuti, l’evasione degli stessi richiederà 48/72 ore più del solito”: complimentoni al boicottaggio!
In home page, i primi quattro titoli che compaiono sotto la dicitura Bestsellers (nota: le parole straniere in italiano si scrivono sempre al singolare, quindi dovrebbe andare via quella “s”, e non si capisce perché non usare la dicitura “i più venduti”: state tanto a parlare di identità nazionale e poi “bestsellers”, col sibilo finale). Il più venduto in assoluto, tanto da essere “esaurito”, è “L’ultima raffica” di Antonio Guerin (che a me sembrava uno pseudonimo, dato “Il Guerrin Meschino”, titolo di un’opera cavalleresca del 1410 di Andrea da Barberino, da cui prese il nome anche “Il Guerin Sportivo”, per sottolineare l’indole battagliera del giornale) ed è “il racconto, tormentato e commovente, di una pagina di storia della guerra civile. È la cronaca romanzata dell’eroica resistenza degli ultimi fascisti: un pugno di giovani volontari delle Brigate Nere, tra i quattordici e i diciannove anni, chiamati a presidiare un casolare tra le montagne del Nord Italia. Una storia di coraggio e di abnegazione che lascia ammutoliti, dove la vita e la morte si mescolano al senso dell’onore e al rispetto della parola data, all’amor di Patria e alla spartana volontà di donare se stessi”. Immagino che tutti conosciate i libri di Sven Hassel, una saga di romanzi di guerra i cui protagonisti sono nazisti, che cominciò con il bestseller “Maledetti da Dio” e che sono pubblicati da Rizzoli. Magari, chi cerca romanzi d’armi e di battaglie narrate da un punto di vista tedesco, potrebbe preferire “Nelle tempeste d’acciaio” di Ernst Jünger: «Un insopportabile lezzo di cadaveri si levava da quei ruderi, perché i primi bombardamenti avevano sorpreso gli abitanti nelle loro case, seppellendone un gran numero sotto le macerie prima ancora che avessero avuto il tempo di allontanarsi e di mettersi in salvo. Una bambina giaceva davanti a una porta in un lago di sangue».
Altro titolo che campeggia tra i bestseller(s) è “Psicologia Oscura – Sesso e Seduzione”. L’autore si fa chiamare “Diventa Semidio” (Diventa, nome; Semidio, cognome) e dalla descrizione sembra, questo sì, “Cinquanta sfumature di grigio” venuto maluccio.

Abbiamo ancora: “La Via degli Uomini”, di Jack Donovan, che (fonte Wikipedia, ma probabilmente Wikipedia fa parte del complottone per annientare l’uomo vero che non deve chiedere mai – magari un consensino ci vorrebbe, che dite – e che si spruzza il Denim) è stato in vari momenti suprematista bianco, per la privazione dei diritti delle donne (hai capito), è stato affiliato ai Lupi di Vinland, associazione neopagana norrena. Ovviamente gli piace fare ficchi ficchi con altri uomini, ma ha voluto ribaltare il concetto di gay, nel libro “Androphilia: A Manifesto: Rejecting the Gay Identity, Reclaiming Masculinity”; insomma, lui non è gay ma è amico dei maschi. Ha lavorato nei gay club come ballerino, ha scritto di argomenti legati al satanismo (immagino come traslitterazione moderna della vikinghitudine), si è definito “tribalista maschile” (molto ficchi ficchi) e ha promosso una versione della supremazia maschile che si concentra sul suo odio per l’“effeminatezza”, il femminismo e la debolezza, insomma tutta quella estetica un po’ legionaria, un po’ Foro Italico (più nel senso di foro che nel senso di italico) che ben conosciamo, ma che infine, voglio dire, sono gli operai sudati muscolosi, e i poliziottoni e gli indiani… insomma è un Village People. La prefazione è di Francesco Borgonovo. Olè.
Si finisce la rassegna dei bestsellers con “L’inganno antirazzista”, solito libro contro il multiculturalismo che ucciderebbe l’identità dei popoli (cose che, essendo siciliano, mi interessano poco: qui siamo tutti un po’ imbastarditi).

Vabbè, questo, accompagnato da una grafica sempre molto Foro Italico–legionaria, dovrebbe essere un po’ il “mainstream” della casa editrice: nostalgici guerriglieri che ricordano al bar quando erano in guerra e come erano battaglieri e feroci; culturisti che con la scusa della “tribù” e dell’antifemminismo giocano alla cavallina tra loro (anche se loro sostengono – legittimamente – che giocare alla cavallina tra maschi è una maniera per tornare alle vere radici dell’identità maschia e guerriera – suppongo); un po’ di Mister Gray che sottomette Anastasia; un po’ identità italica pura DOC, DOCG e pure DOP.
Niente che potesse interessarmi davvero.
Così ho fatto un giro nelle numerose collane, dove si fa dall’arte battagliera a quella guerrigliera urbana: sport, molto sport, così ti viene il corpo sano intorno alla mente sana; vari riti del solstizio, inni al sole, tuniche, tunichette, falò, spiriti vari della terra, tradizioni e certo molte radici, ritorni e controritorni, il tutto sotto l’egida di questo nome “Passaggio al Bosco”, che altro non è che il titolo di un libro di Ernst Jünger, pubblicato da Adelphi con il titolo “Trattato del Ribelle”.
Ecco, saliamo un po’ di livello. Diciamo che non ho trovato nulla che potesse completare la lista degli autori che conosco bene, e che ho trovato tranquillamente in case editrici molto meno right oriented. Carl Schmitt l’ho letto in Adelphi e in edizioni Il Mulino. Martin Heidegger viene pubblicato ovunque. Ernst Jünger anche. Gottfried Benn molto in Adelphi, Mircea Eliade molto in Bollati Boringhieri, e anche Jaca Book, e qualche Edizioni Mediterranee. Ezra Pound – andiamo veloce – Louis-Ferdinand Céline, Julius Evola, René Guénon, Emil Cioran, Georges Bataille, persino Knut Hamsun si trovano editati e pubblicati in case editrici non schierate, o addirittura schierate a sinistra. Ecco, dopo quest’oretta trascorsa a passeggiare nel boschetto villoso di “Passaggio al Bosco”, sono rimasto con due impressioni.
La prima – certo, posso sbagliarmi – è che Zerocalcare legge solo fumetti. La seconda è che “Passaggio al Bosco” sia un po’ una Adelphi che non ce l’ha fatta.
Questa mattina i giornali governativi esaltano la Meloni perché ha incontrato Zelensky e questo la renderebbe “centrale nella politica internazionale e nella diplomazia”.

(Alessandro Di Battista) – Questa mattina i giornali governativi esaltano la Meloni perché ha incontrato Zelensky e questo la renderebbe “centrale nella politica internazionale e nella diplomazia”. Siamo alle comiche. Come se incontrare Zelensky, ora debolissimo, fosse un segno di forza. La verità è che Meloni non ha mai toccato palla in questi anni sulla guerra in Ucraina e questa è una colpa che si porterà dietro per sempre.
È aiutata dal fatto che pochissimi politici e giornalisti le ricordano le sue immense responsabilità. Proprio per il rapporto storico che il nostro Paese ha sempre avuto con l’URSS prima e con la Russia poi, l’Italia avrebbe dovuto immediatamente scegliere la linea neutrale e proporsi come mediatrice nella guerra in Ucraina. L’Italia, lo ricordo, faceva affari con l’URSS anche quando il mondo era diviso in blocchi. Enrico Mattei, a parole elogiato dalla Meloni, comprava gas dai sovietici quando l’Armata Rossa invadeva Budapest o quando Mosca annunciava la costruzione del Muro di Berlino. Gianni Agnelli, il simbolo del capitalismo italiano, faceva affari su affari con Mosca mentre le guardie sovietiche sparavano ai tedeschi che cercavano di scavalcare il Muro. L’Italia era allora infinitamente più autonoma e sovrana di quella attuale. E la cosa ridicola è che questo governo di camerieri viene definito sovranista.
Nel maggio del 1966 venne firmato a Mosca un accordo tra Aleksandr Tarasov, ministro dell’industria automobilistica dell’URSS, e Vittorio Valletta, presidente della Fiat, per la realizzazione di un immenso stabilimento automobilistico a Togliatti, una città russa che si trova lungo il Volga. Il 2 febbraio del 1967, Nikolaj Viktorovič Podgornyj, Presidente del Presidium del Soviet Supremo dell’URSS, in visita ufficiale in Italia, visitò lo stabilimento Fiat di Mirafiori accompagnato da Andreotti, all’epoca ministro dell’Industria, e da Giusto Tolloy, ministro per il Commercio con l’estero. Venne accolto calorosamente dall’Avvocato Agnelli che volle ribadire la solidità delle relazioni industriali tra l’Italia e l’URSS. E gli affari proseguirono anche quando, a seguito della Primavera di Praga, i carri armati del Patto di Varsavia entrarono a Praga per sedare le sacrosante richieste di libertà dei giovani cecoslovacchi. Alcuni mesi dopo, un giovane studente cecoslovacco, Jan Palach, si diede fuoco per protestare contro l’occupazione sovietica del Paese. Ecco, mentre avveniva tutto questo, l’Italia faceva affari con Mosca.
Queste relazioni, solide, vantaggiose per entrambi, capaci di resistere anche ai venti più tragici della Storia, avrebbero dovuto spingere i governanti italiani a portare avanti una linea del tutto diversa da quella sostenuta nei primi anni di guerra da Biden e Ursula von der Leyen.
Ma prima Draghi e poi la Meloni non hanno fatto altro che ubbidire agli ordini NATO e UE, esponendo l’Italia ai contraccolpi economici ed energetici e al rischio di una sconfitta in Ucraina che la Meloni forse oggi ha capito che potrebbe trasformarsi in disfatta.
Oggi, soltanto oggi, e solo perché Trump ha compreso la realtà, la Meloni prova a smarcarsi da Bruxelles. Ma è la stessa Meloni che ha pubblicamente “scommesso sulla vittoria di Zelensky” decine di volte, che ha armato Kiev senza dire agli italiani cosa stessimo inviando. È la stessa Meloni che ha accettato di smettere di comprare gas russo e di sostituirlo con il gas liquido americano. È la stessa Meloni che, il 20 marzo del 2024, disse queste parole ridicole: “Putin durante il G20 sosteneva una tesi del tipo: noi vorremmo la pace ma gli altri non la vogliono, e gli ho risposto: è molto facile, ritiri le truppe e avrà la pace come lei ha voluto la guerra”. Avete letto bene. Nel marzo del 2024 sosteneva che c’era un modo per ottenere la pace: il ritiro di Mosca.
Ieri ha parlato con Zelensky di “concessioni dolorose”. Capito sì? Una delle artefici della sconfitta UE in Ucraina oggi suggerisce a Zelensky di cedere perché vuole il bacetto sulla fronte da Trump dopo aver ottenuto, come sempre grazie alla vile ubbidienza, quello di Biden.
La Meloni in questi anni non ha fatto nulla a parte ubbidire. Non ha mai avuto una linea propria. Quando la Casa Bianca sosteneva Kiev con armi e centinaia di miliardi lei stava dalla parte della Casa Bianca. Adesso che alla Casa Bianca c’è un presidente che per affarismo, amore per Putin, realismo e chissà, anche perché ha capito che la situazione potrebbe davvero degenerare, spinge per un negoziato, lei sta con la Casa Bianca. Ma vi dico questo: se le elezioni le avesse vinte la Harris (e grazie a Dio non le ha vinte lei) la Meloni oggi ubbidirebbe alla Harris come ha fatto a Biden, della quale la Harris era vicepresidente.
“Ora, questo tiranno solo non è necessario combatterlo, né abbatterlo. Si dissolve da sé, purché il Paese non accetti di essergli asservito. Non si tratta di togliergli qualcosa, ma di non dargli nulla”, scrive Étienne de La Boétie nel Discorso sulla servitù volontaria. Sono convinto che se l’Italia si fosse comportata davvero in maniera autonoma, davvero in maniera sovrana, non solo si sarebbe portata dietro altri Paesi UE che boccheggiano per via della guerra Russia-NATO in Ucraina, ma che alla fine la stessa Casa Bianca avrebbe accettato una maggiore indipendenza decisionale dell’Italia. Certo, la nostra sovranità è ancora limitata, ma siamo diventati colonia USA più per pavidità propria che per pressioni altrui. E la Meloni, la regina del finto sovranismo, è uno dei massimi artefici di questa fine ingloriosa del nostro Paese. E in tal senso è anche comprensibile che Trump tratti l’UE da serva, perché i servi vanno trattati da servi se preferiscono, per carriere personali, servire nazioni straniere piuttosto che i loro popoli.

(di Kaspar Hauser – il manifesto) – Il centrodestra si è incartato. Sulla legge elettorale la maggioranza si è ficcata in un cul de sac, da cui ha difficoltà a uscire, ma esorcizza questa situazione facendo trapelare ipotesi, nessuna delle quali le consente di risolvere l’impasse.
Dopo le Regionali del 23 e 24 novembre in Veneto, Puglia e Campania, finalmente il plenipotenziario di Fratelli d’Italia, Giovanni Donzelli, ha ufficializzato l’intenzione di modificare l’attuale sistema elettorale.
La motivazione ufficiale è che con il Rosatellum nessuno sarebbe in grado di vincere le elezioni politiche, alla luce del fatto che ora tutto il centrosinistra è unito e quindi sarebbe concorrenziale con il centrodestra.
Il voto in Puglia e Campania confermava quello che l’Ufficio studi dei gruppi di Fd’I aveva già scritto a febbraio sulla base dei risultati delle europee del 2024: il centrosinistra unito vincerebbe tutti i collegi uninominali dalla Linea Gotica in giù, oltre a quelli delle grandi città del Nord ed avrebbe la maggioranza parlamentare.
Di qui, come ha scritto il nostro giornale, l’idea di eliminare i collegi uninominali e puntare a un sistema in cui gli elettori siano in prima battuta chiamati non a eleggere senatori e deputati, bensì a scegliere il presidente del Consiglio, anzi il capo del governo.
Giorgia Meloni è convinta della propria popolarità ed è sicura su questo piano di battere qualsiasi altro o altra concorrente del centrosinistra, si chiamino Elly Schlein, Giuseppe Conte o altri aspiranti. Di qui il modello fatto trapelare a febbraio e confermato da Donzelli che imita quello delle regionali, il Tatarellum: proporzionale con premio alla coalizione vincente che supera una soglia (40, o 42%); e di qui l’idea del nome del candidato premier sulla scheda.
Incostituzionale, hanno rilevato diversi costituzionalisti. Il che implicherebbe presentare al presidente Mattarella un testo per lui impossibile da promulgare. Una guerra col Quirinale con conseguente crisi istituzionale? I recenti attacchi del capogruppo di Fd’I, Galeazzo Bignami, a un collaboratore del presidente, spiato nelle sue conversazioni private al ristorante, è interpretabile come un campanello d’allarme.
Ma ecco il piano B suggerito dal presidente del Senato Ignazio La Russa: nome del capo della coalizione allegato alle liste al momento del loro deposito, come il Porcellum. Il nome di Meloni sulla scheda, ha detto La Russa, potrebbe indurre alcuni elettori a non barrare il simbolo di Fd’I, facendo perdere voti di lista ed eletti.
Una guerra con il Quirinale ci sarebbe tuttavia anche se la nuova formula non prevedesse il nome del candidato premier sulla scheda, ma avesse un altro elemento palesemente incostituzionale, su cui ha ragionato finora il centrodestra prima dell’attuale impasse: l’attribuzione del premio di maggioranza nazionale anche per il Senato.
Mattarella non darebbe l’assenso laddove Ciampi lo negò nel 2005 con il Porcellum, che prevedeva infatti premi su base regionale. Ma questa soluzione, non garantendo a nessuno la vittoria, smonterebbe la scusa enunciata da Donzelli (la certezza di un vincitore) per modificare il Rosatellum.
E altrettanto contrario alla Carta sarebbe un altro punto: attribuire il premio attingendo non dai […] listoni nazionali, come faceva il Tatarellum nelle Regioni. La sentenza 1 del 2014 della Consulta, che bocciò il Porcellum, dichiarò illegittime proprio i listoni, che non consentono al cittadino di scegliere il parlamentare e perfino di conoscere esattamente i candidati reali.
Tanto è vero che la maggior parte delle Regioni ha abrogato dal proprio sistema elettorale questo meccanismo.

(Guendalina Middei – lindipendente.online) – 89 anni fa ci lasciava Luigi Pirandello, una delle voci più originali, appassionate e inquietanti del Novecento italiano. Fin da ragazza m’innamorai delle sue novelle, del suo umorismo e della sua capacità di capire, e di mettere nero su bianco, le infinite contraddizioni dell’animo umano. Quante volte ci sentiamo spaesati, confusi, e non riusciamo a trovare un punto d’incontro tra ciò che siamo e ciò che sembriamo? Tra ciò crediamo di essere e come ci vedono gli altri, come capita ad Angelo Moscarda, il protagonista di quel geniale racconto che si chiama Uno, nessuno e centomila? «Gliel’insegno io come si fa», dice Ciampa alla signora Beatrice ne Il berretto a Sonagli, «Basta che lei si metta a gridare in faccia a tutti la verità. Nessuno ci crede, e tutti la prendono per pazza!». Geniale, no?
Quanta verità è contenuta in queste parole! Le persone sincere e autentiche, in un mondo che ha fatto dell’ipocrisia un vanto e delle formalità un’abitudine, passano spesso per pazze. E chi non ha mai desiderato di prendere un treno e sparire, ricominciare daccapo, reinventarsi da zero per iniziare una nuova vita? Questo è quello che fa Mattia Pascal, che arriva a fingere la propria morte pur di scappare da una vita che lo stava soffocando. Insomma la genialità di Pirandello non si discute.
Se oggi lo ricordiamo, è perché seppe smantellare le maschere che l’uomo indossa e mostrarci la spaventosa leggerezza con cui un’intera identità può sgretolarsi in un attimo. Una moglie capisce che il marito che conosceva non è mai esistito. Un gruppo di personaggi irrompe su un palcoscenico senza sapere più dove finisca la finzione e inizi la vita. Un marito geloso finge di avere un amante per salvare la dignità; un uomo decide di morire per scherzo e finisce per perdere se stesso: questi sono le trame dei suoi racconti più famosi, storie che ci mostrano cosa accade quando la forma smette di reggere l’urto della realtà.

Ma per capire l’opera di Pirandello occorre fare un passo indietro. Le tragedie familiari e personali e la sua terra d’origine, la Sicilia, formarono quella sua sensibilità così attenta a cogliere le contraddizioni dell’uomo e della vita e così insofferente nei confronti di tutto ciò che è menzogna.
Pirandello proveniva da una famiglia che faceva fortuna nelle zolfare: il suo era un destino già scritto di lavoro e buonsenso borghese. Ma lui rifiutò presto quella via, attratto invece dalle lettere e dagli studi umanistici. Era nato ad Agrigento, in quella che era in tutto e per tutto la periferia culturale e geografica del Regno, una terra che sapeva di vento, sole e zolfo, che era una miscela esplosiva di fatalismo e teatralità e dove il sole, l’autentico sovrano della Sicilia, dominava incontrastato.
Ed è proprio lì, in quel mondo in cui l’apparenza contava più dei desideri e la reputazione valeva più della felicità, che si formò lo sguardo di Pirandello: uno sguardo capace di cogliere la crepa dietro ogni gesto, il non detto dietro ogni parola. Se l’Ottocento aveva raccontato l’uomo come soggetto dotato di volontà, il Novecento pirandelliano apre una stagione diversa: quella in cui l’io si frammenta e si moltiplica. La borghesia italiana, con le sue formalità rigide e i suoi salotti pieni di convenzioni, gli offriva un catalogo inesauribile di ruoli: il marito rispettabile, la moglie devota, la figlia perbene. Ma bastava grattare appena quella superficie per far emergere gelosie feroci, frustrazioni, desideri indicibili. Ed è quello che sperimentò in prima persona, sulla sua stessa pelle per così dire.
Nel 1894 un giovane Luigi Pirandello sposa la bella Antonietta Portulano, una siciliana dai focosi occhi scuri e lo sguardo malinconico. Si tratta, come si usava all’epoca, di un matrimonio combinato, voluto dal padre di Pirandello, Don Stefano e il padre di Antonietta. I due sposi novelli hanno avuto poco tempo per conoscersi, non sanno quasi nulla l’uno dell’altra, ma a dispetto di un inizio poco promettente, la loro unione nei primi anni di matrimonio sembra felice.
Nel giro di poco tempo hanno due figli, Lietta e Fausto; si trasferiscono a Roma e nella capitale vivono sereni. Nel 1903 però accade il disastro: un tracollo economico si abbatte su Pirandello e la sua famiglia, quando a causa di un allagamento perdono una miniera di zolfo su cui avevano investito tutto ciò che possedevano. Quella disgrazia minò la salute psichica di Antonietta. Quando Pirandello tornò a casa, trovò la moglie, che aveva letto della disgrazia in una lettera del suocero, in uno stato quasi catatonico. Da quel momento la vita di Pirandello si tramutò in un inferno.
Antonietta divenne gelosa, in modo parossistico, del marito. È convinta che il marito la tradisca, ed è gelosa di qualsiasi donna si avvicini a Pirandello: conoscenti, allieve, semplici estranee che incrociano il suo sguardo in strada. Basta anche soltanto un saluto per innescare una violentissima ira. Più passano gli anni, più la paranoia di Antonietta peggiora: non appena Pirandello rientra a casa, lo assale con le sue grida; lo spia, fruga tra le sue carte, di notte resta sveglia a fissarlo nel buio.
«Ho la moglie, caro Ugo,» confessa al suo amico Ugo Ojetti, «da molti anni pazza. E la pazzia di mia moglie sono io». Pirandello limita al minimo le uscite nel mondo esterno, si getta a capofitto nel suo lavoro, pur di non dare alla moglie il minimo pretesto per ingelosirsi.
Ma non serve a nulla. Alla fine Antonietta, smarritasi sempre più nella follia, diventa gelosa anche della figlia. La accusa di volerla avvelenare e di aver avuto rapporti incestuosi con suo padre. Distrutta da queste accuse e dall’odio della madre, Lietta prova a togliersi la vita. Si salva per miracolo, ma ormai il clima familiare è distrutto. Antonietta è divenuta ormai completamente ingestibile, e sono costretti a farla internare in una casa di cura sulla Nomentana. Una storia tristissima che in parte affonda le sue radici in quella cultura della gelosia che aveva spinto la madre di Antonietta a morire di parto pur di non farsi toccare da un uomo, anche se medico, e non scatenare così la gelosia del marito. Questa era la mentalità di molti italiani e di molte italiane agli inizi del Novecento.
Quando Antonietta viene internata, Pirandello non si libera; il suo ricordo lo tormenta e lui trasforma la sua tragedia personale in arte. Il suo teatro diventa laboratorio di esperimenti psicologici, di identità scomposte e ricomposte, di uomini che non sanno più chi sono. Ecco come e perché nacquero personaggi come Mattia Pascal, Angelo Moscarda, Enrico IV: figure che inciampano nella propria vita come chi, camminando distratto, sbatte contro uno specchio e non riconosce più il proprio riflesso.
C’è un elemento che attraversa tutta la sua opera: la follia. Ma non solo la follia spettacolarizzata, quella che irrompe nell’Enrico IV che finge di essere pazzo, ma la follia quotidiana, sotterranea, quella che ci accompagna tutti i giorni senza che nessuno se ne accorga. L’interesse di Pirandello per la follia era un modo per denunciare ciò che nella società dell’epoca non funzionava: l’ipocrisia dei ruoli, la rigidità delle convenzioni sociali, la pretesa che gli esseri umani siano monoliti coerenti.

L’eredità più scomoda di Pirandello è un’idea, l’idea che ognuno di noi è almeno tre persone: quella che crede di essere, quella che vede negli specchi e quella che gli altri si inventano guardandoci. Convivono tutte, si disturbano, si sovrappongono, si sabotano tra loro. E i suoi personaggi non fanno a meno di domandarsi: «Chi sono, quando nessuno mi guarda?»
Gli anni Dieci e Venti sono per Pirandello anche anni di crescente notorietà. È in questa fase che l’Italia cambia pelle, scossa dalla guerra e delusa dai governi liberali. Molti intellettuali, Pirandello incluso, guardano al fascismo come a una forza ordinatrice in un paese in cui tutto sembra franare.
La contraddizione è evidente: un uomo che ha passato la vita a smascherare i meccanismi del potere si innamora proprio della maschera più rigida. Ma anche qui emerge la verità più pirandelliana di tutte: nessuno è immune dalle seduzioni del proprio tempo. Nel 1921 va in scena Sei personaggi in cerca d’autore, accolto prima con scandalo e poi con ammirazione in tutta Europa. Seguono anni di tournée e di trionfi. È l’epoca in cui Pirandello diventa Pirandello: e poi ancora il Nobel, la fama, il riconoscimento internazionale. Eppure nel 1929 confessa Marta Abba: «Mi guardano come un uomo che ha un ruolo. Io voglio essere guardato come sono quando ti scrivo: uno che non sa chi è fino in fondo».
Ed è per questo che ancora oggi disturberebbe chiunque abbia costruito la propria esistenza su un ruolo ben stirato: l’uomo di successo, la donna realizzata, il professionista in ordine. Pirandello non avrebbe creduto a nessuno di loro. Avrebbe osservato e sarebbe andato alla ricerca del tremito sotto la superficie. Avrebbe insistito per mostrarci la precarietà delle maschere che ci affanniamo a indossare, e che possono sì darci un ruolo, ma non bastano a definirci e a dare senso, significato e valore a chi siamo e cosa vogliamo.
Pirandello si spegne a Roma, il 10 dicembre del 1936. Nelle sue disposizioni testamentarie chiese di essere sepolto senza cerimonie solenni o cortei pubblici. Il regime avrebbe voluto celebrare la sua morte con un addio grandioso, ma Pirandello si oppose e la sua volontà prevalse. Ebbe un commiato sobrio, semplice, quasi dimesso rispetto alla sua fama, ma che rispecchiò in pieno la sua idea di esistenza: nuda, essenziale, priva di maschere.
Per il presidente M5S “l’Europa ha puntato sulla vittoria militare di Kiev, ora è disorientata”. Magi (+Eu): “Affermazioni inaccettabili e irresponsabili”

(repubblica.it) – “Il governo italiano insieme ai governi europei hanno fallito puntando sulla scommessa militare della vittoria dell’Ucraina sulla Russia” a “colpi di invii di armi e di spese militari”. Lo ha detto il leader del M5S Giuseppe Conte a margine di una conferenza stampa alla Camera.

Zelensky si fida di Meloni? “Prendo atto – ha aggiunto Conte – L’Europa è completamente disorientata, avevano solo una linea, la vittoria militare sulla Russia, hanno scommesso su questo e adesso non hanno nessuna alternativa. Quindi lasciamo che a condurre il negoziato siano gli Stati Uniti”.

“Da un lato” in Europa “alcuni vorrebbero continuare una guerra per procura ma non riescono neppure a trovare per finanziarla; dall’altro c’è invece chi come Giorgia Meloni rimane nel mezzo, silente, cercando di capire quale sarà la soluzione migliore per rivendicare di aver contribuito a quella soluzione”, rimarca Conte.
“Le affermazioni di Giuseppe Conte, che vuole lasciare fare a Trump, sono inaccettabili e irresponsabili: non è vero che l’Europa ha puntato sulla vittoria, non si tratta di una scommessa sull’esito di una partita di calcio, ma di sostenere la resistenza di un paese ai confini dell’Unione europea invaso militarmente da una potenza come la Russia. Non riguarda solo l’Ucriana, ma il futuro della sicurezza dell’intera Europa”. Lo ha detto il Segretario di +Europa, Riccardo Magi intervenendo a L’Aria Che Tira su La7.
A New Delhi il comitato intergovernativo ha detto sì. Una prima volta storica: finora erano state riconosciute pratiche gastronomiche singole, mai un insieme nazionale. Ma attenzione, quello che si premia non sono piatti e ricette, ma un modo di stare a tavola, di cucinare, di riconoscersi, di pensare al cibo

(di Eleonora Cozzella – repubblica.it) – Se la carbonara avesse le gambe oggi salterebbe di gioia. Alle 10.44 ora italiana, a New Delhi, il Comitato intergovernativo dell’Unesco ha detto sì: la cucina italiana entra ufficialmente nella lista del patrimonio culturale immateriale dell’umanità. Non un piatto, non il disciplinare di un prodotto, ma un modo di stare a tavola, di cucinare, di riconoscersi, di pensare al cibo.
È una prima volta storica: finora l’Unesco aveva riconosciuto singole specialità e pratiche gastronomiche – dal pasto gastronomicofrancese alla cucina del Michoacán, dal washoku giapponese al kimchi coreano, fino al borscht ucraino – ma mai l’intera cucina di un Paese. Oggi, insieme alla Dieta mediterranea, all’arte dei pizzaiuoli napoletani, alla cerca e cavatura del tartufo, alla viticoltura ad alberello di Pantelleria e ai paesaggi vitivinicoli di Langhe, Roero e Monferrato, entra in lista tutto l’insieme che potremmo dire teorico pratico: la cucina italiana nel suo complesso, con le sue infinite varianti regionali e familiari.
La candidatura, si sa, non è nata ieri. Il dossier “La cucina italiana, tra sostenibilità e diversità bioculturale” è stato curato dall’Ufficio Unesco del Ministero della Cultura e redatto dal giurista Pier Luigi Petrillo con il coordinamento scientifico dello storico dell’alimentazione Massimo Montanari, a capo di un comitato di esperti.
Sul fronte istituzionale i promotori principali sono stati il Masaf e il Ministero della Cultura, affiancati da un tessuto di soggetti che la cucina italiana la studiano e la praticano da decenni: l’Accademia Italiana della Cucina, la Fondazione Casa Artusi (custode della “cucina di casa italiana”), la rivista La Cucina Italiana, che con la direttrice Maddalena Fossati nel 2019 ha acceso la scintilla della candidatura, e poi Anci, Slow Food, Federazione Italiana Cuochi.
Nel dossier non c’è un piatto feticcio, c’è un’idea: la “cucina degli affetti”. Una pratica quotidiana tessuta di saperi, gesti, rituali condivisi; la scelta delle materie prime, il rispetto delle stagioni, l’uso creativo degli avanzi, la biodiversità come condimento invisibile. È il pranzo della domenica, il ragù vegliato a sobollire per ore, la tovaglia candida che si stende per apparecchiare e si ritira bella macchiata di sugo alla fine (magari dopo caffè e ammazza-caffè), è la mano che passa il pane, ma che non passa il sale (porta male!).
Gli estensori insistono su una parola chiave: mosaico. La cucina italiana è descritta come un insieme di cucine locali, comunitarie, famigliari, che non si lasciano ridurre a una gerarchia di piatti “più veri degli altri”, ma dialogano tra loro e con il mondo. Nel mosaico entrano i pomodori arrivati dalle Americhe, la pasta secca passata per vie arabe e mediterranee, le contaminazioni delle comunità italiane all’estero. L’idea di fondo è chiara: non si sta candidando un monumento, ma un organismo vivente, in continua evoluzione, con ricette e pratiche non cristallizzate, ma che cambiano nel tempo.
Con il voto di oggi l’Unesco riconosce questo organismo come patrimonio da salvaguardare. Attenzione: non è un marchio di superiorità – non esistono cucine “più patrimonio” di altre – né un bollino commerciale da appiccicare sulle confezioni. È un impegno. In base alla Convenzione del 2003, l’Italia dovrà inventariare e proteggere questa pratica culturale insieme alle comunità che la tengono viva: famiglie, cuochi, produttori, associazioni. Vuol dire sostenere ricerca, educazione alimentare, progetti nelle scuole, musei del gusto, archivi della memoria culinaria. Vuol dire, ogni sei anni, presentare un rapporto all’Unesco su come stiamo trasmettendo questa eredità alle generazioni future.
Sul piano simbolico, il riconoscimento dice al mondo che la nostra identità passa anche dalla tavola. Sul piano concreto, diventa uno strumento in più nella battaglia contro l’Italian sounding: di fronte a un gombonzola o a un falso aceto balsamico, ci sarà anche l’ombrello di un patrimonio riconosciuto a livello internazionale, oltre alle (già fondamentali) tutele Dop e Igp.
La cucina degli affetti, però, non esisterebbe senza chi la quotidianità la trasforma in gesto professionale, in racconto, in responsabilità. Non stupisce che Massimo Bottura, da anni ambasciatore del gusto italiano nel mondo, oggi parli di “giornata storica” ai quotidiani come il Washington Post che lo intervistano per il pubblico internazionale e alle telecamere di Rai Uno, ospite di Antonella Clerici. “Viaggio tantissimo, le vedo le altre cucine, e posso assicurare che la nostra non ha pari nel mondo. È la somma di centinaia di micro-cucine, ma ovunque, che sia un cuoco o una rezdora, si preparano cibi con un amore che non ha rivali. La somma di tutti questi riti collettivi è la cucina italiana”.
Sul versante più pop ecco Barbieri: “Se la cucina italiana merita il riconoscimento Unesco? Sì, certo. Abbiamo lottato una vita per arrivare qua. Non ci sono paragoni al mondo. Se negli Usa vuoi avere successo devi aprire un ristorante italiano. Mangi bene, con chef ben preparati. I loro ristoranti sono pieni, le prenotazioni si fanno mesi prima. La contaminazione c’è sempre stata”. “Il riconoscimento non è un traguardo ma un punto di partenza – prosegue lo chef Giorgio Locatelli – Per il Paese cambierà molto. È il momento di far diventare la cucina italiana un patrimonio. È una cucina che rappresenta differenti metodi, storie, una cucina che è stata come una Cenerentola e piano piano ha conosciuto la sua potenza e con questo riconoscimento lasciamo che si mischi con altre cucine e con l’arte del quotidiano di altre nazioni”.
Insomma, la cucina italiana esiste perché esistono comunità che la praticano. Ma attenzione, Massimo Montanari docet. Il presidente del comitato scientifico della candidatura sottolinea che questo risultato non si festeggia per rivendicare una supremazia ma per ringraziare le molte culture che, nei secoli, hanno plasmato il nostro modo di mangiare, e proporre al mondo un modello fondato su interculturalità, libertà in cucina, multiculturalismo gastronomico.
Tradotto: non è un via libera al “noi contro gli altri”, ma un invito a riconoscere che l’italianità è sempre stata un gioco di scambi. Il rischio opposto è cristallizzare la cucina in una cartolina per turisti, congelare la tradizione in un fermo immagine. Qui la responsabilità non è dell’Unesco, ma nostra: dipenderà da come useremo questo sigillo nelle politiche culturali, nel turismo, nella ristorazione. E adesso? Da oggi in poi la cucina italiana non sarà più solo quella cosa che tutti dicono di amare: sarà anche un impegno scritto nero su bianco. Va letta non come un trionfo da cantare a colpi di “siamo i migliori”, ma come un promemoria collettivo.
Promemoria che la biodiversità non è una parola trendy ma il motivo per cui un piatto di cicoria ripassata e uno di risotto ai bruscandoli non raccontano lo stesso paesaggio. Che la “cucina degli affetti” non è solo nostalgia, ma la possibilità di usare il pasto come strumento di inclusione, educazione, cura. Che difendere questo patrimonio significa occuparsi di chi lo rende possibile: agricoltori, pescatori, casari, artigiani, cuochi, ma anche famiglie che continuano a tirare una sfoglia, magari storta, sul tavolo di casa.
Oggi, 10 dicembre, molti stapperanno una bottiglia “per festeggiare l’Unesco”. La proposta è anche di brinderei a qualcosa che al contempo è più semplice e più difficile: la promessa di continuare a meritarselo. A continuare a sporcare tovaglie, a passare il pane, a litigare (civilmente) sulla carbonara senza panna ma poi a dividerla. Perché da oggi la cucina italiana è patrimonio dell’umanità. Ma, prima di tutto, resta patrimonio di chi, ogni giorno, si mette a tavola.

(di Francesca Chiri – ANSA) – La nuova egemonia della destra di governo passerà attraverso l’ironia, la vera arma tagliente in grado davvero, e da sempre, di azzerare il nemico. “Non siamo quelli dell’amichettismo, ma chi ci accusa fa parte del nemichettismo, che stasera coniamo come termine da cucire addosso a tutti quelli che ci accusano di fare cultura liberamente” dice Alessandro Giuli, arrivato ad Atreju per partecipare ad un dibattito organizzato per fare quantomeno scalpore: Pasolini e Mishima, due simboli del Novecento, due poeti da sempre considerati icona di una cultura riconducibile ad opposte sponde politiche.
Ma tra Pier Paolo Pasolini e Yukio Mishima “ci sono molti più punti in comune di quanto si possa immaginare” esordisce il ministro della Cultura che, oltre alla “maschera tragica” e alla “poetica del gesto esemplare” incarnata dai due poeti sottolinea quanto entrambi abbiano “praticato nella scrittura la più grande libertà”. Insomma, di fronte alle accuse nei confronti di chi intende praticare ancora il gioco degli steccati culturali e “se proprio dobbiamo trovare un aggettivo, ironico o autoironico è quello che definisce meglio colui che è aperto alla vita e al confronto e non è un lugubre nemichettista: nemico giurato della bellezza”.
E se poi l’ironia non dovesse bastare a vincere il nemico, allora, c’è sempre la tradizione popolare che corre in aiuto: “Agli attacchi della sinistra rispondiamo con un detto arabo: i cani abbaiano, la carovana passa” sintetizza il ministro che dopo il dibattito su Pasolini e Mishima con la ministra della Famiglia Eugenia Roccella e con il presidente della Commissione Cultura della Camera, Federico Mollicone, si concede un passaggio alla radio di Atreju dove, tra l’altro, torna ad intonare “Albachiara” di Vasco Rossi anche se, confessa poi, avrebbe questa volta voluto dedicare un altro brano di Vasco alla figlia: Brava Giulia.
E se ad Atreju si scomodano due grandi della letteratura mondiale declinati all’insegna della “più grande libertà”, non poteva mancare il confronto con le recenti polemiche a Più libri più liberi. “Noi qui ad Atreju parliamo di tutto, mentre a Più Libri Più Liberi non si può accettare un piccolo editore di destra.
Altro che egemonia, oggi c’è paura degli intellettuali di sinistra di uscire dalla comfort zone e dare un’occhiata a quello che c’è dall’altra parte” ironizza Roccella che sorride di fronte alle paure egemoniche da sconfiggere: “io non ho mai creduto ad una egemonia culturale di sinistra”, e comunque “oggi non c’è più: c’è un piccolissimo potere spaventato”. Pasolini, dice, sarebbe stato felice di parlare ad Atreju: “io ho sempre ricordato di Pasolini l’incredibile curiosità, cosa che sembra mancare completamente agli intellettuali di sinistra della nuova generazione”.
Anche Mollicone alza le spalle: “la sinistra se ne deve fare una ragione perché qui ad Atreju troverà sempre il confronto tra personaggi apparentemente lontanissimi, troverà sempre la libertà e il pluralismo”.

(di Antonio Pitoni – lanotiziagiornale.it) – Gli evasori fiscali già si fregano le mani. Dopo tre anni di condoni e rottamazioni, al grido di pace fiscale, non poteva mancare l’ennesimo e attesissimo innalzamento al tetto dei pagamenti in contanti. Che in forza di un emendamento alla manovra, presentato da Fratelli d’Italia e benedetto dal governo, salirà a 10mila euro. Limite per altro già elevato da mille (limite imposto dal governo Draghi) a 5mila con la Legge di Bilancio di due anni fa.
Il miglior regalo di Natale che i professionisti del nero potessero desiderare. Anche se la norma, spacciata per un disincentivo all’uso del cash, è congegnata per salvare almeno le apparenze. Si prevede infatti una tassa da 500 euro sui pagamenti da 5001 a 10mila euro. Ma, di fatto, l’alternativa è lampante: sborsare il balzello o versare l’intero importo, peraltro non tracciabile, completamente in nero? Si accettano scommesse. Almeno che non si pensi ad un sistema di monitoraggio reale da parte dell’Agenzia delle entrare per evitare un altro canale di evasione fiscale, non è difficile prevedere come vada a finire.
E neppure la scusa di allineare l’Italia alla normativa europea per giustificare l’ultima trovata delle destre regge più di tanto. Perché se è vero che le disposizioni comunitarie fissano a 10mila euro il tetto massimo alle transazioni in contanti in chiave antiriciclaggio, non vieta d’altra parte di portarlo ad un livello più basso. Cosa auspicabile in un Paese come l’Italia, dove l’evasione fiscale sottrae all’erario oltre 100 miliardi l’anno. E persino Bankitalia, in una pubblicazione dal titolo Pecunia olet del 2021, mise in guardia “sul nesso di causalità” esistente “tra utilizzo del contante e incidenza dell’economia sommersa”, ricordando che “quest’ultima sarebbe cresciuta anche a seguito dell’innalzamento della soglia di uso del contante da 1.000 a 3.000 euro, in vigore dal 2016”, per volere del governo Renzi, “con l’obiettivo di sostenere la domanda”.
Sentenziando che “le restrizioni all’uso del contante possono essere efficaci nel contrasto all’evasione fiscale”. Ma in un Paese in cui un italiano su due non versa un euro di Irpef, non è difficile intuire chi sarà a beneficiare dell’emendamento. Contanti saluti ai contribuenti onesti. Cornuti e mazziati.

(di Michele Serra – repubblica.it) – La Crimea è «circondata dall’oceano sui quattro lati», dice Trump. Forse l’Atlantico, forse il Pacifico, forse il vago luogo della Terra nel quale gli americani incolti collocano, tutta quanta, la non-America, un resto del mondo immeritevole di approfondimento. Insulso e a volte dannoso.
Non che non esistano anche europei incolti, non che alcuni di loro non siano approdati, tra gli applausi, a posizioni di potere: ma insomma, l’aspettativa sarebbe che un capo di governo, nonché del governo più potente del mondo, almeno per fare finta di essere all’altezza del ruolo, prima di parlare di Crimea, o di Ucraina, o di quant’altro, trascorresse una manciata di secondi su Google Maps. Ma no, nemmeno quello. Nemmeno la fatica di verificare, con fatica quasi nulla, che la Crimea è una penisola dell’Ucraina affacciata su Mar Nero e Mar d’Azov.
Lo scrupolo di sapere di che cosa si sta parlando minaccia di diventare antico, obsoleto, come i centrini da tavolo e i bicchieri da cognac. Si parla a vanvera, si parla per parlare, chi se ne frega di quel pur vago interesse per i fatti che si chiamò — prima di Trump — cultura. Che non è erudizione, non è ostentazione di conoscenza, è molto banalmente curiosità del mondo. Chi vuole conoscere, può almeno provarci. Chi se ne frega (per esempio Trump) se ne frega.
Poi dice che sei antiamericano. Ma quella mancanza di pensiero e di rispetto, delle quali Trump è il campione di ogni epoca (John Wayne, al confronto, era Spinoza), quello spensierato provincialismo secondo il quale America è tutto, il resto è niente, come fai a far finta che non siano quello che sono? Come fai a fare finta che sia normale che un uomo che, tra pochi altri, ha nelle mani il futuro dell’umanità, non sappia nemmeno cliccare “Crimea”, e leggere ciò che appare? O almeno guardare le figure?
L’ex premier dei Paesi Bassi e ora ai vertici della Nato pareva mesi fa irraggiungibile col suo peana a Trump. Poi è arrivato il presidente della Fifa…

(Gian Antonio Stella – corriere.it) – «Humile e riverentemente inchinato à terra dinanzi à i vostri santissimi e stigmatizzati i piedi…». Il segretario della Nato Mark Rutte e il presidente della Fifa Gianni Infantino tengano nota: per arrampicarsi fino alle vette dello Slurp Planetario potrebbe essere loro utile rileggere la dedica che il servilissimo padre cappuccino F. Valerio Venetiano riservò nel frontespizio del suo «Prato Fiorito di varii essempi nei quali si tratta e ragiona delle virtù Christiane, e Religiose perfezioni…» al «Patriarca e Serafico Padre Francesco Santissimo» edito a Venezia nel Seicento. Un capolavoro.
Certo, l’ex premier dei Paesi Bassi ai vertici dell’Alleanza atlantica pareva mesi fa irraggiungibile col suo peana a Trump: «Caro Donald, grazie per la tua azione decisiva e straordinaria in Iran, nessun altro avrebbe osato farla. Ora siamo tutti più sicuri. E stai volando verso un altro grande successo all’Aia. Riuscirai in qualcosa che nessun presidente Usa era riuscito a ottenere in decenni. L’Europa pagherà in grande misura, com’è giusto, e sarà una tua vittoria». Apparecchiata la torta, davanti alle perplessità di chi non capiva tanta adulazione, ci aveva piazzato la ciliegina: «Trump per noi è come un papà che talvolta deve alzare la voce per farsi sentire». Al che l’altro gongolò: «Si vede che Mark mi è affezionato. Sono il suo paparino».
Pareva fatta, per il ruolo di Primo Maggiordomo alla White House quando è spuntato fuori Gianni Infantino. Il quale, deciso a correggere l’Accademia di Stoccolma sul mancato Nobel per la pace e incurante delle critiche di mezzo mondo («I giocatori rischiano multe e divieti da parte della FIFA per aver esposto messaggi politici, l’organismo di governo del calcio aveva da tempo proclamato la neutralità politica», ha scritto Al-Jazeera) ha voluto omaggiare il presidente Usa col primo Peace Prize «a nome dei miliardi di amanti del calcio nel mondo». Una «bellissima medaglia che potete portare ovunque». Rutte-Infantino: uno a uno, palla al centro. La sfida tra i due, ora, sarà battere Alberto Tucceri, l’ex sindaco del borgo abruzzese di Cerchio (1.529 anime) autore del bestseller Il sindaco santo. L’uomo che cambiò la storia del suo paese, finito nell’olimpo dei lacchè per come accolse anni fa il ministro Remo Gaspari in visita al paesello: «Gaspari! Soave creatura, bontà di sacrificio e amore! Ti chiamerò sempre con tenero slancio…». Altro che Donald!

(di Milena Gabanelli e Simona Ravizza – corriere.it) – È vero che dal 2026 potremo fare esami in farmacia a carico del Servizio sanitario nazionale? La domanda è inevitabile perché, con il Disegno di Legge di Bilancio 2026 approvato dal Consiglio dei ministri, cambia in modo definitivo il ruolo delle farmacie. L’articolo 68 le riconosce come «strutture eroganti prestazioni sanitarie» con «servizi stabilmente integrati nel Ssn» (qui). Significa che potranno offrire in maniera strutturale servizi sanitari finora attivati solo in via sperimentale o con progetti locali (qui). Parallelamente raddoppiano i fondi pubblici destinati a rimborsare questi servizi: 50 milioni l’anno. Il governo presenta la novità come un ampliamento dell’offerta sanitaria, più comodo per i cittadini e utile a ridurre le liste d’attesa (qui). Tradotto: tutto quello che finora abbiamo pagato per lo più di tasca nostra entrerà nell’ambito del servizio pubblico? È utile capire come funziona nella pratica, e cosa comporta per ciascuno di noi.
Tutto comincia da quando invece che pungerti il dito a casa per controllare glicemia, colesterolo, trigliceridi, creatinina o transaminasi, puoi andare a farlo in farmacia. È il 2010 (governo Berlusconi IV): le farmacie sono autorizzate a eseguire esami di autocontrollo, pensati soprattutto per chi ha difficoltà a farli da solo; possono anche raccogliere urine e feci, misurare pressione e saturazione, effettuare la spirometria (legge-quadro n. 69/2009 art. 11 qui, decreto legislativo del 3 ottobre 2009 n. 153 qui, decreto 16 dicembre 2010 qui art. 1, 2 e 3; qui Dataroom 20 maggio 2024).
La differenza rispetto a un laboratorio di analisi è netta: lì i macchinari vengono controllati ogni mattina e i risultati degli esami sono verificati anche tramite controlli incrociati con altri laboratori (qui pag. 8). In farmacia no. Per questo i test pungidito possono avere margini di imprecisione piuttosto elevati (qui Dataroom del 24 febbraio 2025) tant’è che viene rilasciato solo un «attestato di esito che non è un referto e non vale come diagnosi» (qui punto 2 b). Un dettaglio che in alcune circostanze può fare la differenza, ma che la maggior parte dei cittadini ignora, nella convinzione che gli esiti siano equiparabili a quelli del Servizio sanitario, anche se non ne troveranno mai traccia nel fascicolo sanitario elettronico. Sta di fatto che questi esami sono sempre restati prestazioni a pagamento e senza necessità di ricetta.
Nel 2018 (governo Gentiloni) parte una sperimentazione che introduce prestazioni rimborsabili dal Servizio sanitario (qui art. 1 commi dal 403 al 406 bis). I fondi crescono insieme alle Regioni coinvolte. 2018: 6 milioni per 3 Regioni (Piemonte, Lazio, Puglia); 2019: 12 milioni per 6 Regioni (si aggiungono Lombardia, Emilia-Romagna, Sicilia), 2020: 18 milioni per 9 Regioni (con Veneto, Umbria, Campania) (qui).
Dal 2021 (governo Conte II) la sperimentazione diventa nazionale: tutte le Regioni a statuto ordinario più la Sicilia ricevono 25,3 milioni annui fino al 2024 (qui art. 461 ter). Il 26 marzo di quello stesso anno, a parità di fondi, il governo Meloni amplia il perimetro: le prestazioni erogabili dalle farmacie non devono più limitarsi agli esami di autocontrollo, che comunque restano a pagamento (qui art. 23 e-sexies). Gli Ordini dei farmacisti parlano di «nuova era» (qui)
Le farmacie possono eseguire infatti, e stavolta a carico del Ssn, esami di telemedicina – elettrocardiogramma, holter pressorio e cardiaco – con referti redatti a distanza da un medico, che può essere anche lo stesso che lavora in un ospedale pubblico; possono somministrare tutte le vaccinazioni per gli over-12 (oltre a quelle già disponibili per Covid e influenza); consegnare farmaci e dispositivi necessari ai pazienti in assistenza domiciliare, residenziale e semi-residenziale; effettuare tamponi diagnostici salivari e orofaringei, compresi i test per il contrasto all’antibiotico-resistenza richiesti dal medico o dal pediatra. Si tratta di servizi che molte farmacie già effettuavano a pagamento, ma ora riconosciuti e rimborsabili dal Ssn su prescrizione del medico di famiglia. Per esempio la Lombardia con la deliberan. XII/2405 del 28 maggio 2024 avvia la telemedicina in farmacia per i pazienti cardiopatici: chi ha problemi di cuore può eseguire l’elettrocardiogramma e l’holter a carico del Ssn con una prescrizione su ricetta bianca del proprio medico nella quale deve essere chiaramente indicato il servizio di telemedicina a cui il paziente deve sottoporsi e lo può fare fino a tre volte (qui). L’Emilia Romagna fa partire la sperimentazione il 23 dicembre 2024, per gli stessi tre esami, ma con ricetta elettronica che vale anche per i pazienti non cardiopatici (qui). Lo stesso nel Lazio dove la delibera è del 23 giugno 2025 (qui).
Dal 2018 al 2024, su un totale di 111,9 milioni di euro a disposizione, le farmacie ne spendono 104,4 con una differenza enorme da Regione a Regione. La Campania ne ha spesi il 163%, il Veneto il 145%, la Calabria il 131%, l’Umbria il 116%, Liguria e Piemonte 99%, Basilicata e Marche 93%. A seguire: Lazio 84%, Abruzzo 83%, Puglia 82%, Lombardia 73%, Toscana 72%, Sicilia 47%, Emilia-Romagna 44% (dati Federfarma). Dove il servizio è più usato, i soldi finiscono prima.
Ora, con la Legge di bilancio 2026, il governo trasforma a tutti gli effetti le 19.997 farmacie italiane in presidi del Servizio sanitario nazionale.
Qui succede qualcosa che chi entra in farmacia ancora una volta non sa. Nella bozza del 20 ottobre 2025 c’è un vincolo: per offrire prestazioni sanitarie, le farmacie devono rispettare gli stessi requisiti degli ambulatori (20 ottobre 2025 qui art. 67 commi 1 e 2 pag. 51). Significa locali separati, attrezzature certificate e controllate, direttore sanitario, verifiche di qualità interne ed esterne, ispezioni regionali (qui legge 30 dicembre 1992, n. 502, art. 8-ter per autorizzazione art. 8-quater comma 4 da C in avanti per accreditamento).
Due giorni dopo, nella versione ufficiale del 22 ottobre, quel vincolo scompare (qui art. 68). Le farmacie diventano dunque presìdi sanitari senza dover garantire gli obblighi previsti per un qualsiasi ambulatorio pubblico o privato. Tutto è rinviato a successive linee guida del ministero della Salute. È una scelta politica del governo Meloni, sostenuta anche dal peso della categoria, ben rappresentata in Parlamento dai farmacisti Roberto Bagnasco, Carlo Maccari, Marta Schifone e soprattutto Marcello Gemmato, potentissimo sottosegretario FdI alla Salute (qui).
A questo punto il cittadino può capire che in farmacia farà a carico del Ssn anche gli esami pungidito, che possono avere margini di errore intorno al 20%, e invece si sentirà rispondere che deve ancora pagare. L’elettrocardiogramma e gli holter vengono refertati a distanza da un cardiologo spesso del Servizio sanitario nazionale, lo stesso che non ha tempo di visitare di persona (ma evidentemente lo trova per fare una diagnosi a distanza). Ma soprattutto c’è il rischio concreto di dover pagare anche nel caso in cui il plafond dei 50 milioni si esaurisca. E il plafond si esaurirà in fretta visto che il Servizio sanitario rimborsa alle farmacie cifre più alte rispetto a quelle del tariffario pubblico. Infatti se prediamo come riferimento la media nazionale possiamo vedere che l’elettrocardiogramma è pagato 11,60 euro nella struttura pubblica del Ssn (cod. 89.52 qui) , ma la farmacia ne riceverà 28,50.
• Holter cardiaco: 61,95 euro Ssn (cod. 89.50 qui) – 63,14 farmacia
• Holter pressorio: 41,30 euro Ssn (cod. 89.61.1 qui) – 50,04 farmacia
• Spirometria semplice: 24 euro Ssn (cod 89.61.1 qui) – 34,34 farmacia
• Emoglobina glicata: 4,70 euro Ssn (cod. 90.28.1 qui) – 18,30 farmacia
• Colesterolo: 4,75 euro Ssn (cod. 90.13.C, 90.14.1 e 90.14.3 qui) – 25,03 in farmacia con lo «screening di ipercolesterolemia».
Non è difficile intuire che la volontà sia quella di spianare sempre di più la strada ai privati.
dataroom@corriere.it
L’ex pugile audito alla Camera, così come il conduttore De Martino. L’attore domani ad Atreju sul palco insieme ad Arianna Meloni

(Simone Alliva – editorialedomani.it) – Succede tutto in pochi giorni, come se qualcuno avesse aperto il sipario. Mercoledì 3 dicembre ha attraversato i corridoi della Camera Simone Ruzzi, alias Cicalone, ex pugile, youtuber, “difensore” delle periferie romane, chiamato in audizione parlamentare davanti alla Commissione che indaga il degrado urbano.
«Come ha detto qui», ha detto orgoglioso presentandosi ai deputati dopo i ringraziamenti di rito. Dove «qui» sta per Alessandro Battilocchio, presidente della Commissione, parlamentare di Forza Italia che lo aveva appena descritto come «esperto conoscitore delle periferie, un narratore delle periferie».
Quasi una scena cinematografica. Cicalone si è rivolto ai presenti senza cambiare tono rispetto ai suoi video su YouTube. Ha raccontato come ha affrontato fisicamente i borseggiatori della metro di Roma proponendo soluzioni. Deputati estasiati. Il Cinque stelle Antonia Iaria, dandogli del tu, non è riuscito a trattenersi: «Ti seguo dai primi video. Un veicolo di informazione molto importante». «Un lavoro meritorio di denuncia» per Marco Perissa di FdI che in romanesco lo ha accolto: «Buon pomeriggio, Simone. Va a finì che so io che non t’esprimo solidarietà. T’hanno dovuto menà, ma hai messo d’accordo tutti».
Sei giorni dopo, il 9 dicembre, la politica ha “cambiato canale”. La commissione Femminicidio ha convocato Stefano De Martino, ex ballerino, conduttore di TeleMeloni, per discutere di violenza di genere online. Il presentatore di Affari Tuoi ha attraversato il palazzo con i parlamentari che, di nascosto, gli chiedevano selfie.
Di Martino invitato non come esperto ma come vittima, dopo la pubblicazione online di un video intimo con la compagna Caroline Tronelli, rubato dalle immagini del sistema di video sorveglianza della loro casa, che ha portato la procura di Roma ad aprire un’inchiesta per revenge porn. Per i dati sensibili, la tutela dell’audito e la privacy, l’audizione rimarrà secretata.
Intanto Atreju, la festa di Fratelli d’Italia, si prepara a ospitare l’attore Roul Bova che, giovedì 11 dicembre, insieme ad Arianna Meloni parlerà di deepfake, reputazione digitale, odio sui social. Con lui Francesca Barra, Laura Bononcini, Fabio Ferrari e Valerio De Gioia. Attori, influencer, conduttori, creator. Tre fatti. Tutti legati in qualche alla contaminazione tra la politica e il mondo dello spettacolo. Un confine che Silvio Berlusconi, a ben vedere, aveva già superato negli anni Novanta.
Un processo che Massimiliano Panarari, sociologo politico e professore della comunicazione all’Università di Modena e Reggio Emilia, spiega così: «Possiamo prendere come alfa di questo processo Berlusconi, con lui la mediatizzazione diventa integrale. Pensiamo alla logica mediale tipica del medium dominante dell’epoca quella che Umberto Eco chiamava “la neo-televisione”. Lì si trasferisce la politica in una chiave di grande adesione, non solo medium come cassa di risonanza ma la politica adatta i suoi contenuti al medium che la veicola».
Il mondo è cambiato intanto: «Si è consumata la politica razionale della modernità. L’organizzazione politica è in crisi: del volontariato, dei militanti e il mercato elettorale più volatile». Così la politica si affida ai social e a protagonisti che producono like: «Raoul Bova per il gossip per via della separazione, Stefano De Martino popolarissimo su TeleMeloni ma anche sui social per la violazione che ha subito, queste figure che possono diventare dei testimonial, secondo una dinamica tipica della politica che punta a parassitare la celebrity altrui».
Ma non solo. In questo nuovo tempo la piattaforma è sovrana, l’uno vale uno. Da qui il tentativo di scardinare le strutture di partito, di ignorare le competenze: «Un elemento tipico nei tempi del neo-populismo: l’esperire quel processo di crisi degli esperti o anche di contestazione degli specialisti. L’essere una figura pubblica, oggetto di un consenso, giustifica e autorizza automaticamente a portare delle opinioni. Questa è una destra neo-populista che ha attaccato dall’opposizione il sistema di competenze come establishment per anni, promuovendo saperi alternativi».
«C’è poi un altro elemento» individua Panarari «l’essere vittime che diventa possibilità di esprimere opinione. Come nel caso di De Martino. C’è la dinamica dell’“emozionalizzazione”, cioè la trasformazione dall’opinione pubblica della modernità alla emozione pubblica della post modernità. Si è titolati, non a fornire pareri neutri in quanto tecnici, ma portare la propria esperienza di vita e poter coinvolgere emotivamente i destinatari». E così le Commissioni parlamentari diventano un po’ talk show, le feste di partito un po’ festival di inizio stagione, i politici un po’ conduttori e un po’ spettatori. Non è uno scandalo, non è una rivoluzione. È un linguaggio nuovo che entra dove prima non era previsto.
Non sostenuta dagli Usa, vista con sospetto dalla maggioranza politica dell’Ue, la premier rischia l’irrilevanza politica per sé e per l’Italia. Indebolirebbe l’Ue in questa fase cruciale nella quale è indispensabile alzare il tiro decisionale. In una Unione indebolita anche il nostro paese sarà inevitabilmente più debole sulla scena europea e mondiale. E certamente meno sovrano

(Gianfranco Pasquino – editorialedomani.it) – La diplomazia è anche un esercizio, spesso acrobatico, di equilibrismo. Ma è vero che la politica estera di un paese che sia media potenza deve essere improntata alla ricerca degli equilibri, di volta in volta preferibili, tenendo nel massimo conto le alleanze, gli impegni presi, le promesse fatte agli elettori e, non da ultimo, le posizioni ideali del proprio partito.
Fin dall’inizio della sua esperienza di governo, Giorgia Meloni ha dimostrato di avere consapevolezza del fascio di problemi che il suo esplicito, mai nascosto, sovranismo implicava nei rapporti con gli Stati-membri dell’Unione europea e con la Commissione, motore delle iniziative e attività.
Pur rimanendo con la testa fuori dalla maggioranza che ha espresso e sostiene la Commissione è spesso riuscita a mettere piede nelle decisioni che contano. Lo ha fatto ridefinendo, ridimensionando il suo sovranismo senza tagliare i ponti con i partiti populisti al governo in Ungheria e in Slovacchia o all’opposizione, in particolare in Spagna. Però, la risposta alle furibonde e maleducate critiche all’Ue formulate in un documento di strategia del National Security Council degli Usa e alla profezia, quasi un augurio di smembramento dell’Unione, non può essere quella di un delicato pontiere.
Quel ponte, già traballante, fra Usa e Unione, Trump e i suoi collaboratori lo hanno distrutto. Non casualmente e non per una infelice e cattiva scelta delle parole, ma perché da tempo nutrivano astio per la costruzione di una unione di Stati che, secondo loro, si facevano/fanno proteggere militarmente senza pagare il conto, in maniera furba e egoistica, non più accettabile.
La presidente del Consiglio italiana non ha condiviso le risposte severe e preoccupate dei maggiori leader europei. Ancora una volta il suo invito a cercare di capire il punto di vista di Trump è molto ambiguo, potendo essere interpretato come sostegno alla posizione del presidente appare come un indebolimento preventivo delle risposte che l’Unione riuscirà ad approntare e dare. Per di più la reazione di Meloni ha lo sguardo molto corto. Non vede che le elezioni americane di metà mandato nel novembre 2026 potrebbero già trasformare il presidente in carica, se i repubblicani perdessero la maggioranza in una o entrambe le Camere, in un’anatra zoppa, comunque già non rieleggibile nel 2028.
Non dovrebbe essere difficile neanche per i dirigenti politici che non sappiano ragionare sul lungo periodo, come fanno gli statisti, cogliere la volatilità della situazione. I molto eventuali vantaggi derivanti da un rapporto privilegiato con l‘attuale presidente dovrebbero essere valutati alla luce degli inconvenienti e delle critiche che causeranno nei rapporti con gli stati-membri dell’Unione europea. Quegli ipotetici vantaggi non contemplano affatto una crescita di prestigio per il governo Meloni e per la Nazione Italia, anzi sono vantaggi limitati, di breve periodo, effimeri. Da un momento all’altro possono rivelare la contraddizione congenita e insanabile del sovranismo.
Se ciascun governante antepone e impone il suo interesse nazionale, lo Stato più forte vincerà cosicché il sovranismo Maga è regolarmente destinato ad avere la meglio su qualsiasi concorrente solitario. Qui sta l’altra contraddizione del sovranismo che intenda sfruttare vantaggi dalla sua tanto orgogliosa quanto presunta autonomia. Non sostenuta dagli Usa, vista con sospetto dalla maggioranza partitica e politica dell’Unione europea, Giorgia Meloni rischia l’irrilevanza politica per sé e per l’Italia. Indebolirebbe l’Ue in questa fase cruciale nella quale è indispensabile alzare il tiro decisionale e migliorare il coordinamento politico in senso federalista, l’esatto contrario di qualsivoglia sovranismo.
In una Unione indebolita anche l’Italia sarà inevitabilmente più debole sulla scena europea e mondiale, certamente meno sovrana.
Bandiere, spiriti guerrieri e democrazie militarizzate
(di Fq) – •Draghi e zar. “L’Europa è fuori da un negoziato che la ignora bellamente. Riesce al più a giocare di rimessa, guadagnando sprazzi di tempo e cercando di limitare i danni di una pace, che nei termini attuali significherebbe solo la sottomissione di Kiev allo Zar e la fine di ogni illusione sulla nostra chance di vivere sovrani e sicuri nei prossimi decenni. (…) Invece di dire che faremo whatever it takes per sconfiggere Putin, l’Europa ripete che Putin deve essere sconfitto. (…) È giunto il tempo di un distacco ragionato ‘teso a minimizzare il danno che gli Stati Uniti a guida Maga sono in grado di infliggere all’Europa’. (…) E dobbiamo farlo nella difesa, costruendo un’alternativa europea con il finanziamento comune delle nostre capacità militari strategiche. È un buon inizio il successo di Safe, la linea di credito dell’Ue da 150 miliardi di euro per investimenti nella difesa di gruppi di almeno due Paesi. Ma è solo un bonsai. Non dobbiamo per forza farlo tutti. Draghi sostiene giustamente che possono iniziare a farlo gruppi di Paesi volenterosi, come Germania, Francia, Polonia, Italia e anche il Regno Unito”.
Paolo Valentino
(Corriere della Sera)
•Bandierine, bandierine. “Our Flag. The Flag of Freedom. #EU”
Roberto Burioni
(Su X, repostando Enrico Letta)
•Churchill e coccodrilli. “Perché la solidarietà nei confronti della popolazione civile ucraina in Europa va scemando? Lasciamo da parte i filoputiniani di casa nostra, siano essi pagati col denaro russo oppure vecchi stalinisti incartapecoriti ma incalliti, sono comunque inqualificabili. (…) Vedi, l’Ucraina, più ancora che la tragedia di Gaza, ci riguarda da vicino, ci convoca, ci interpella in prima persona. Ed è per questo motivo che in tanti, in troppi girano la testa, non vogliono vedere, si chiamano fuori. Sperano, come disse Churchill molti anni fa, che dando in pasto l’Ucraina al coccodrillo russo, non mangi noi, o forse ci mangi per ultimi. Ma se noi lo facessimo, sarebbe una bancarotta morale di proporzioni epocali”.
Antonio Scurati
(Che tempo che fa, Nove)
•Ricordiamoci che dobbiamo morire. “È difficile immaginare qualcuno così pazzo da desiderare la guerra. Ma la questione è un’altra: in ottant’anni di pace, s’è persa la memoria del dolore e questo rende più probabile nuovo dolore (…). Non sappiamo oggi se l’Ucraina sarà il fiammifero d’una santabarbara continentale. Ma, di fronte all’obiettivo russo nemmeno troppo celato di risospingere una Nato ‘addomesticata’ ai confini pre-1997, chiudere gli occhi è puerile. Non possiamo fare altro se non difendere, tra autocrazie armate, ciò che siamo diventati in questi ottant’anni. E se Trump, di concerto con Putin, cancellerà l’Occidente, dovremo fortificare un altro spazio per preservare le democrazie liberali: quello spazio non può essere che l’Europa”.
Goffredo Buccini
(Corriere della Sera)
•Armarli conviene. “All’Europa costerebbe meno finanziare la resistenza di Kiev, mettendola in grado di respingere i russi fino ai confini del 2022, piuttosto che gestire gli effetti di una vittoria anche parziale del Cremlino in Ucraina, perché porterebbe al disfacimento del Paese.
Gianluca Di Feo
(Repubblica)
Tra la sfida di Trump all’Unione e la pressione interna di Salvini, che si propone come l’Orban italiano, le leader di FdI prende tempo e pattina sul ghiaccio

(Flavia Perina – lastampa.it) – Il cortocircuito si manifesta mentre Volodymyr Zelensky entra a Palazzo Chigi e in contemporanea le agenzie segnalano l’ultima intervista di Donald Trump a Politico. Il presidente Usa paragona il leader di Kiev al P. T. Barnum, il re degli spettacoli da circo, un venditore di fumo ineguagliabile che «ha convinto il disonesto Joe Biden a dargli 350 miliardi di dollari» finiti in cenere, visto «che il 25 per cento del suo Paese è scomparso». Insomma, Zelensky come un piazzista e chi lo ha ascoltato (e lo ascolta) come un illuso o peggio il complice di una guerra inutile. E tuttavia mai come adesso Meloni e il presidente ucraino avevano bisogno di una pubblica stretta di mano. Zelensky deve tenere Meloni nel fronte degli alleati europei, gli serve che faccia massa critica anche perché è consapevole che Washington la giudica un’amica.
Per Meloni è importante ribadire un ruolo di primo piano, ma anche confermare la vicinanza a Kiev nonostante gli evidenti problemi di questa fase. Le serve per motivi internazionali, per mantenere un ruolo nella frenetica azione diplomatica dell’Unione, ma soprattutto per rilucidare un valore che nelle ultime settimane è apparso un po’ appannato: la coerenza, elemento fondante del racconto della destra di governo.
Mai come adesso quel valore e quel racconto appaiono a rischio, perché lacerati da due scelte entrate all’improvviso in conflitto: l’amicizia assoluta con l’America e il sostegno alla resistenza di Kiev. Per tutta la presidenza Biden le due linee di condotta sono andate di pari passo, l’una ha generato e rafforzato l’altra. Essere amici di Kiev, dare armi a Kiev, sanzionare la Russia, denunciarne i crimini di guerra, equivaleva a ribadire ogni giorno la relazione speciale con gli Usa. Oggi lo schema è rovesciato. Armare, nutrire, sostenere l’Ucraina nella ricerca di una pace giusta significa scontentare la Casa Bianca, al punto che la premier si è tenuta lontana da ogni giudizio sulla revisione europea del piano del presidente Trump, che ha tagliato i capitoli più palesemente punitivi per l’Ucraina. Come reagirà Trump alla controproposta? Nel dubbio, meglio prendere tempo.
Il problema è anche interno, perché Matteo Salvini stavolta potrebbe fare sul serio. La pubblicazione della nuova strategia di Sicurezza messa a punto da Washington lo ha ringalluzzito. Le critiche degli Usa all’Europa, la pioggia di dichiarazioni contro i suoi leader deboli e irresoluti, la dichiarata intenzione di sostenere i partiti sovranisti del Vecchio Continente e gli entusiasti applausi di Mosca al cambio di passo hanno riacceso le aspirazioni leaderistiche del Capitano. Proporsi come il Viktor Orban italiano, rispolverare il sovranismo muscolare dei bei tempi, presentarsi come l’uomo che, in virtù delle sue antiche relazioni, meglio può interpretare l’avvicinamento Usa alle istanze russe. Un’occasione fantastica per lui, un guaio di prima grandezza per il governo.

Così, le dichiarazioni assai sorvegliate del dopo-vertice confermano la sensazione che la premier italiana stia pattinando sul ghiaccio, esercizio nel quale peraltro è campionessa. Il presidente ucraino ringrazia per il «ruolo attivo dell’Italia nel processo di pace», esprime «gratitudine per il pacchetto di assistenza energetica», esalta il sostegno «alle famiglie ucraine, al nostro popolo, ai bambini», e insomma: nessun cenno ai temi-tabù, alle armi, alle speranze di una svolta per l’utilizzo dei 210 miliardi di beni russi bloccati dall’Europa. Sono argomenti che il governo italiano non può affrontare, non in questo momento. E anche la correzione del piano di pace americano è rimasta appesa a una frase alquanto generica: Meloni, dice Zelensky, è stata informata, «coordiniamo gli sforzi», ma niente di più.
La giornata del cortocircuito, così, si conclude con un flash della premier che ribadisce l’importanza «dell’unità di vedute tra i partner di Usa ed Europa». È la formula che definiva l’Occidente di una volta, bene-rifugio di una destra che spera ancora di poter restare in equilibrio tra due Continenti sempre più lontani.

Può durare ancora un po’, ma entro dicembre si dovrà definire il decreto Ucraina (quello sulle forniture militari), e in tempi brevi decidere se utilizzare il pacchetto di 14 miliardi del pacchetto europeo Safe, e prima o poi si dovrà pur dare un giudizio sulla veemenza antieuropea dell’amministrazione Usa (siamo d’accordo o no? ), sull’esistenza di una guerra ibrida russa contro l’Unione (ci crediamo o no? ), sulla difesa comune dei Ventisette (la vogliamo costruire o no?). Restare in mezzo al guado diventa ogni giorno più difficile, e forse anche rischioso per il castello di relazioni e credibilità messo insieme con tanta fatica.
Il gioco Usa è sempre sporco, eppure noi ci roviniamo da soli

(di Daniela Ranieri) – Ma veramente qualcuno credeva che a Trump potessero interessare il Donbass e la Crimea? Che alla Casa Bianca qualcuno potesse credere alla frottola del “c’è un aggressore e un aggredito”, all’Ucraina che “difende anche la democrazia europea difendendo sé stessa”? Qualcuno ancora crede che interessassero a Biden? A malapena i due anziani sapranno dove si trova Kiev sulla cartina. Adesso forse è chiaro anche ai più fanatici tra i bellicisti a oltranza che l’Ucraina, col suo popolo eterogeneo, era solo una pedina dello sporco gioco degli americani in Europa.
Trump, come già altre volte, ha solo esplicitato quello che gli altri presidenti americani, sedicenti democratici, dissimulavano dietro coltri di perbenismo e finta bontà: gli Usa considerano l’Unione europea un mero strumento burocratico per tenere a bada i mercati della provincia occidentale e non farli confliggere con quello imperiale; un simulacro, nato dopo la ricostruzione (saremo sempre in debito per il piano Marshall), per intortare i cittadini europei con la favoletta della pace e dei valori superiori della liberal-democrazia. Con il documento che delinea la Strategia di sicurezza nazionale, Trump ha reso palese l’obiettivo degli Usa: disunire i 27 paesi dell’Unione Europea, che in realtà avrebbero dovuto iniziare a smettere di credere a Babbo Natale già dalla Brexit, a favore di un’ondata sovranista e autarchica che li renda più deboli sul piano economico e militare. L’Ue aveva già rinunciato alla dignità scegliendo di appoggiare lo scellerato progetto della Nato a guida Usa di muovere guerra alla Russia usando l’Ucraina, un Paese oggi distrutto, con 6 milioni di emigrati, una generazione falcidiata sul campo, una classe dirigente decimata dalla corruzione, un presidente delegittimato a cui resta solo di obbedire a ciò che Trump e Putin decideranno per lui. La Disunione Europea, dopo aver acconsentito a dare il 5% del suo (nostro) Prodotto Interno Lordo alla Nato e di ingrassare l’industria delle armi, soprattutto americane, a scapito dello Stato sociale (un’invenzione europea), sta progettando di mandare i figli delle sue patrie al macello, ciò che completerà la sua parabola nella Storia.
Intanto i giornali padronali si sgolano: “Putin minaccia l’Europa”; quando Putin ha detto l’esatto contrario: “Non abbiamo intenzione di andare in guerra con l’Europa. Ma se l’Europa volesse combattere contro di noi, saremmo pronti fin da subito”. Putin ha detto l’ovvio: cari europei, visto che vi state riarmando allo spasimo e state insufflando i vostri popoli di retorica bellicista, anche se essi sono refrattari a fare la guerra a un Paese che non è loro nemico, sappiate che, se proprio volete, ci troverete pronti” (al contrario dell’Italia, come confessò il ministro Crosetto).
Meloni, che ha preso i voti promettendo guerra alle potenze sovranazionali, ubbidisce a Trump perché ciò le consente di fingersi coerente (“siamo sempre stati per la sovranità nazionale, non europea”), in realtà autodenunciandosi quale capo di un governo-colonia. Il ministro della Guerra italiano, già mercante di armi, fa la colomba: non istituiremo proprio una leva volontaria, come in Francia (Macron, distruttore di welfare e pensioni, promette ai “volontari” 800 euro lordi per 10 mesi) e in Germania (dove, se i volontari saranno pochi, si ricorrerà ai proscritti, come fosse in vigore la legge marziale); si tratta di una “riserva selezionata e meccanismi per attirare le persone, incentivi economici”; una cinica mossa che affonda il coltello nella disuguaglianza di classe che domina l’Occidente, giacché si sa che in assenza di un lavoro dignitoso, ed escludendo la carriera ecclesiastica come in epoca feudale, saranno i giovani poveri a dover accettare lo stipendio da militari, e allora, non potendo essere dignitosamente lavoratori “salariati” come sognarono i nostri padri, saranno a tutti gli effetti soldati.

(di Michele Serra – relupplica.it) – Sei per la pace o sei per la libertà? In un continente che, negli ultimi ottant’anni, ha avuto entrambe, ha goduto di entrambe, la domanda sembra abbastanza bizzarra. Penalizzante, oltre che illogica: da quando pace e libertà sono alternative l’una all’altra? Perché mai dovrei scegliere? Me le tengo tutte e due.
Eppure, con le dovute sfumature intermedie, è proprio questa la domanda che paralizza, soprattutto in Italia, il “che fare” riguardo al futuro dell’Europa: come se difendere la democrazia, con le sue garanzie, fosse un impiccio ideologico sulla strada della pace, e lavorare per la pace, con i suoi compromessi, fosse un cedimento alla doppia e incombente minaccia autocratica che, da Est e da Ovest, dichiara inimicizia e disprezzo per l’Unione.
Quella domanda è ricattatoria. Sottintende che rispondere “libertà” voglia dire alimentare la guerra quasi per un capriccio ideologico, e rispondere “pace” significhi rivelarsi imbelli e svendere al nemico, insieme alle porzioni di Ucraina già addentate, anche la democrazia. Ma il fatto che il campo progressista italiano (o come lo vogliamo chiamare), da quando l’elezione di Trump e i suoi successivi atti politici hanno reso lampante, tranne che ai più ottusi e ai più illusi, la fine dell’atlantismo, non sia in grado di fare dell’Europa e dell’europeismo una bandiera comune; non sia in grado di dire che pace e libertà sono entrambe condizioni costitutive del progetto europeo; non sia in grado di convocare una piazza unitaria; non sia in grado di dire quattro parole in croce che, a nome di tutti, stabiliscano che il sovra-nazionalismo europeista è per sua natura l’alternativa democratica al nazionalismo russo, al nazionalismo americano e al nazionalismo dei sovranisti europei: dimostra che quel ricatto, almeno fino a qui, funziona. È insuperato. Irrisolto. Con l’aggravante, micidiale, che è un ricatto auto-generato dall’opposizione stessa. Nessuno come la sinistra è in grado di sconfiggere la sinistra.
E dire che il dilemma tra riarmo e disarmo è una trappola ideologica da rifiutare ab ovo: l’Europa è già armata fino ai denti, in quella sproporzionata, abnorme quantità distruttiva che è conseguenza del duello atomico tra americani e russi e della Guerra Fredda; ma lo è con armi non sue, irta di missili in massima parte non suoi. Lo è in quanto, militarmente parlando, ex territorio d’oltremare degli Stati Uniti d’America. Beh, non è più così, e anzi è stato così ben oltre il necessario, fuori tempo massimo, nel senso che appare perfino comprensibile che l’America, ottant’anni dopo la Seconda Guerra e trentacinque dopo la caduta del Muro, non voglia più pagare l’ombrello atomico per noi europei. Mettersi nei panni degli altri è sempre la più difficile delle operazioni: ma voi paghereste per generazioni la tranquillità e la sicurezza di altri popoli?
Quanto tempo deve ancora passare prima che non solamente i governanti europei, anche le forze politiche e le opinioni pubbliche dei diversi Paesi ne prendano atto e comincino a discutere seriamente, operativamente sul da farsi? Perché, per esempio, i nipotini di quelli che volevano buttare a mare le basi americane non capiscono che questo, finalmente, è il momento, e che per farlo non serve “riarmo”, serve una difesa comune che sarebbe, probabilmente, meno costosa di quanto i singoli Stati già spendono oggi, adesso, ora, secondo la regola del massimo sforzo e minimo rendimento?
Al governo siedono tre partiti che, sulla politica internazionale, sono ben più divisi di quelli all’opposizione. Grosso modo: un terzo (Meloni e i suoi) è con Trump, un terzo (Salvini e i suoi) con Putin, solo un terzo, Forza Italia, si professa europeista. Ma il potere, evidentemente, è un collante formidabile, e la destra non sembra versata per l’introspezione. Si accontenta di vivere e possibilmente di comandare. Ed ecco il miracolo di un campo governativo che in caso di guerra non saprebbe che pesci pigliare, ma si guarda bene dal dirlo, perché dicendolo si dissolverebbe in un lampo, Salvini con il colbacco, Meloni con il cappello da cowboy e Tajani che bussa a Strasburgo sperando che gli aprano; e un’opposizione che anche tacendo resta divisa su un tema, quello del futuro europeo, che è con tutta probabilità il più importante non solo per le nuove generazioni, anche per quelle oggi sulla scena. Noi, insomma.
Parecchi lettori e anche qualche esponente politico mi ha scritto, in queste ore: perché non proviamo a replicare la manifestazione europeista del 15 marzo scorso a Roma, nella quale pace e libertà erano fianco a fianco, e fu un successo nonostante la sua composizione molto plurale (o forse: proprio per la sua composizione molto plurale, da Calenda a Fratoianni)? La risposta è semplice: perché tocca alla politica, oggi più di ieri, organizzarla. Come fu evidente allora, e ancora più evidente oggi, l’opinione pubblica europeista esiste, esistono gli europei (che sono un passo avanti rispetto agli europeisti: sono l’applicazione pratica dell’idea di Europa Unita). Ma la loro rappresentanza politica, a livello di massa (il solo che conta, che pesa, che cambia il corso delle cose) non è ancora riuscita a mettere insieme pace e libertà in modo che siano la stessa speranza e lo stesso progetto.