L’intervista di Giorgia Meloni da Enrico Mentana ci ha fatto venire in mente un film che esiste solo nei meme: Barbenheimer, un mix tra Barbie e Oppenheimer. Così, ecco quattro consigli per affrontare con stile e luminosità l’esplosione di un ordigno nucleare
(di Ottavio Cappellani – mowmag.com) – Giorgia Meloni ed Enrico Mentana, viviamo nell’epoca della superficie, per cui vorrei commentare l’intervista andata in onda ieri su La7, in maniera “superficiale”, ricordando però che è nella “superficie” che abitano le metafore. Così la “skin care”, la cura della pelle, vale sia per le interviste televisive che in caso di esplosione di ordigno nucleare: danni alla pelle diretti e danni alla pelle derivanti dal fall out. Tutto molto Barbienheimer. Ma comunque, l’intervista di Mentana alla Meloni era smunta. Forse Mentana era così contento di avere fatto la doppia (Schlein e Meloni) che avrà pensato che il risultato lo aveva portato a casa e bòn, non si è impegnato più di tanto.
Giorgia, dal canto suo, sembrava un po’ stanca, ma forse è il colore appastellato che sparava o forse, come tutti, è un po’ esaurita perché sta andando in giro per comprare i regali di Natale, oppure ancora era un effetto voluto tipo “sono Giorgia, sono una donna, sono cristiana e devo pure venire da Mentana con tutte le faccende che ho da fare a casa”, trasmettendo così il messaggio, che funziona, “ma guarda te cosa mi tocca fare”, e se non si è messa particolarmente in tiro è perché era già andata alla prima del documentario di Tornatore su Brunello Cucinelli, quello che vende le sciarpe a più di 500 euro (e poi ci credo che parla di azienda felice, sai le risate che si fanno) e sono pochissimi quelli tra gli elettori che, risparmiando sulla spesa alla Lidl, se la potranno permettere per queste feste: insomma sembra una scelta azzeccata quella dell’immagine del premier (al maschile) quanto il più vicino possibile a quella dell’elettore (in questi giorni abbiamo tutti un po’ quella faccia come a dire: “Ci mancavi solo tu”).
Però i commenti in rete, dato l’affetto che in tanti provano per Giorgia, erano tutti del tipo: “Uh come è sbattuta”, mentre i più maligni sfruttavano l’effetto Tartaro-Giuli per fare commenti poco eleganti sulla tenuta dello smalto del suo sorriso. Alessandro Giuli, infatti, durante la fiera Più Libri Più Liberi ha rilasciato un’intervista su non si sa cosa perché tutti sono rimasti ipnotizzati dal colore dei denti, una sorta di buco nero della cultura. Probabilmente l’effetto era voluto: Alessandro Giuli, come ogni buon italiano, fuma il sigaro Toscano e — non lo so esattamente il perché — i fumatori di Toscano, a farsi la pulizia dei denti, non ci vogliono andare; probabilmente il dente fumé è, tipo, uno status symbol patriottico, non saprei.
Comunque Giuli è maschio, l’omo ha da puzza’, porta gli stivaloni ed è anche giusto che sappia di cuoio, tabacco e sudore di cavallo (una volta era di questo che doveva sapere il vero gentiluomo).
Ma Giorgia non fuma italico. Come abbiamo scritto il (al maschile) premier fuma le Vogue e quindi non si può fare passare il colore un po’ spento del sorriso (io non l’ho visto così “spento” e macchiato, lo hanno visto gli altri che sono maliziosi) come il dente opacizzato perché che fuma l’N80 (gloriosa, ma non la producono più) o l’Esportazione senza filtro (micidiale ma col pacchettino piccino picciò), considerando che anche le MS sono state vendute alla British Tobacco.

Per cui ecco dei consigli “care” economici, alla portata di tutte le tasche, in maniera da conservare la vicinanza con l’elettorato che non arriva a fine mese.
Viso. Ho cercato crema economica per il viso e il sito di Vogue (come le sigarette che Lei fuma) mi ha proposto la CeraVe Healing Ointment perché è economica e la usa anche la Emily Ratajkowski, ma ho visto il prezzo: siamo sui 50 euro, e con l’economia di guerra alla quale ci staremmo appropinquando, io Le consiglierei la buona, cara (nel senso di affetto, non di prezzo), vecchia Nivea, addirittura nella versione “universale” a 3,90. La vendono anche in Russia e, pare, sia la più adoperata in Siberia.
Denti. Certo, l’igienista dentale di uno studio medico dentistico resta la scelta migliore. Ma anche questa opzione sembra un po’ cara rispetto alle economie familiari che, ci dicono molti studi di settore, stanno sempre più rinunciando alle spese mediche se vogliono fare mangiare i figli. Per sbiancare i denti a casa si consiglia un lavaggio con spazzolino, bicarbonato di sodio (0,99 centesimi alla scatola) e succo di limone: ne basta mezzo, circa 5 centesimi a limone all’origine (li pagano poco, i produttori, rispetto alle vendite al dettaglio, forse è un problema che andrebbe affrontato, più che dell’origine dei vari frutti e ortaggi se patriottici o meno). Per il tartaro, invece (glielo hanno notato, i maliziosi, tra i denti inferiori), lavaggi con bicarbonato e sale grosso.
Capelli. Tanto successo ha avuto il suo “half up hair” (capelli metà raccolti e metà sciolti), che sono il corrispettivo tricologico della cosiddetta “guerra ibrida” durante le sue trasferte americane, dove probabilmente e giustamente Ella era influenzata dalla moda del Potere Americano che non ammette eccezioni: “Io sono di Potere e sono Figo e Tu No”, società americana nella quale sono i poveri cristi degli elettori a dovere assomigliare ai potenti e non il contrario. Potrebbe anche riprenderlo: un elastico, alla fine, è alla portata di tutte le tasche. Al posto dello shampoo può usare l’aceto di mele, anche se alla Lidl e all’Eurospin si trovano shampoo a pochi centesimi.
Labbra. I maliziosi le hanno notate un po’ secche e screpolate. A me non pareva proprio. Ma comunque. Ovviamente io lascerei perdere rossetti appanterati, trattamenti labbra rinvigorenti e filleranti. Creme che promettono gommoni sui quali solcare il mediterraneo nella speranza di una vita migliore. Io, se Ella permette, mi butterei sul classico e intramontabile burro di cacao Labello, costo poco più di due euro. Sì, non è italiano ma tedesco e c’è il rischio che Zerocalcare non vada in farmacia perché la Labello fu fondata nel 1909. Però Massimo Cacciari ha detto che tu, un burro di cacao, per combatterlo, devi prima provarlo.
Sa, io sono tra quelli del Grande Boh. Non ho capito come sia possibile che all’improvviso sembra che siamo lì lì per assistere alla Terza Guerra Mondiale e non ne abbiamo assolutamente capito il perché. Gli enunciati di principio, teorici e astratti, non ci soddisfano. Non per criticarla, ma sinceramente perché, data la situazione, vorremmo almeno capire.
Così come quando Lei ha sostenuto che occorre un’azione “deterrente” europea, e non “appaltata” agli americani, per evitare brutte sorprese in futuro. Mi chiedo: che deterrenza possiamo mettere in atto noi europei contro la Russia se non quella atomica? E mettere in piedi una deterrenza europea nei confronti della Russia non vuol dire passare dall’“appalto” americano a quello “francese”, unica nazione, la Francia, a possedere arsenale nucleare? Perché se non ci armiamo nuclearmente, finisce che facciamo la deterrenza ai russi coi soldatini di piombo.
Lo sa che per attuare una vera deterrenza dovremmo incominciare anche noi italiani un piano per dotarci di bombe nucleari, con la responsabilità che ne deriva di nuclearizzare ed essere nuclearizzati? Vuole cominciare un piano atomico per l’Italia o l’atomica deve essere sempre “appaltata”? Mi sembra che tali questioni non siano state affrontate da Mentana.
In ogni caso, meglio farci trovare belli, così almeno, quando ci si squaglierà la faccia, potremmo dire: ma che peccato!
Torino, i Salesiani stoppano l’evento su democrazia e guerra con Alessandro Barbero, Angelo D’Orsi, Luciano Canfora e Carlo Rovelli. Lo storico barese: «Censura stupida e volgare». La nota dell’Oratorio Salesiano San Francesco di Sales dopo le polemiche sull’annullamento dell’evento, organizzato dal Circolo Arci della Poderosa

(di Mattia Aimola – corriere.it) – «Alla luce dell’identità del Teatro e dei criteri con cui vengono accolte le iniziative culturali, è stato ritenuto opportuno non procedere con lo svolgimento dell’evento». Così l’Oratorio Salesiano San Francesco di Sales spiega oggi, sabato 6 dicembre in una nota, lo stop allo svolgimento nel Teatro Grande Valdocco di Torino della conferenza «Democrazia in tempo di guerra», prevista il 9 dicembre, a cui avrebbero dovuto partecipare, tra gli altri, il professor Angelo D’Orsi e lo storico Alessandro Barbero, e ancora Luciano Canfora e Carlo Rovelli.
Dopo le polemiche sull’annullamento dell’evento, organizzato dal Circolo Arci della Poderosa, i salesiani precisano che «la decisione non esprime alcuna valutazione sui temi». Meno di un mese fa il Polo del ‘900, sempre a Torino, aveva annullato un analogo evento con D’Orsi e il giornalista Vincenzo Lorusso.
«È una cosa stupida e volgare, una censura». Il professor Luciano Canfora commenta così la decisione dell’Oratorio Salesiano San Francesco di Sales di annullare la conferenza Democrazia in tempo di guerra. Tra gli ospiti invitati figurava anche lui, tra i più autorevoli storici italiani. «È una cosa stupida come la levata di scudi contro la fiera di Roma. Una volgarità che a Torino si ripete per la seconda volta, dopo il caso del Polo del ’900. In quell’occasione ci fu una catena di comando per cui Picerno chiama il sindaco di Torino e l’incontro sulla russofobia non si fa. Passano alcuni giorni e ora si ricade nella stessa volgarità». Canfora, che avrebbe partecipato alla conferenza insieme ad Angelo D’Orsi, Alessandro Barbero e Carlo Rovelli, insiste sulla necessità di preservare lo spazio del dibattito: «Sono forme pre-culturali di eludere la discussione, che forse è l’unica forma civile. Se la smettessimo di fare giochi di censura, forse vivremo un po’ meglio». E rievoca perfino la storia romana per spiegare come la censura sia un meccanismo antico e, a suo giudizio, sempre fallimentare: «Tacito racconta che sotto Tiberio vennero bruciati libri di storia. Eppure quei libri furono recuperati ed editi. La censura è essenzialmente stupida».
«L’Oratorio Salesiano San Francesco di Sales comunica che l’iniziativa Democrazia in tempo di guerra, prevista presso il Teatro Grande Valdocco il 9 dicembre 2025, non si svolgerà». Questo si legge nella nota in merito all’annullamento dell’evento. «Il Teatro Grande Valdocco – si legge ancora – è inserito in un contesto educativo animato dal carisma di San Giovanni Bosco, la cui tradizione pone al centro la crescita integrale dei giovani, la promozione di ambienti sereni e accoglienti e la valorizzazione di percorsi culturali fondati sull’incontro diretto, sul dialogo personale e sulla responsabilità educativa. Gli spazi salesiani sono concepiti come ambienti formativi, nei quali le proposte culturali sono chiamate a favorire partecipazione, prossimità e modalità di confronto chiare e contestualizzate. Alla luce dell’identità del Teatro e dei criteri con cui vengono accolte le iniziative culturali, è stato ritenuto opportuno non procedere con lo svolgimento dell’evento. La decisione non esprime alcuna valutazione sui temi o sulle opinioni collegate all’iniziativa, ma riguarda esclusivamente l’utilizzo degli spazi in relazione alla loro missione educativa e comunitaria, che richiede modalità organizzative e comunicative coerenti con la vita e la finalità degli ambienti salesiani. Rimaniamo disponibili a valutare, in forme e contesti più adeguati, future proposte che possano collocarsi in armonia con la vocazione culturale ed educativa del Teatro Grande Valdocco. L’Oratorio Salesiano ha esercitato la facoltà di recesso della scrittura privata per prestazione di servizi di natura spettacolistica sottoscritta in data 30 novembre 2025».
Il presidente del CPAC: “È casa sua e non possiamo presentarci senza il suo consenso, con la partecipazione fisica della presidente del Consiglio sul palco”

(Paolo Mastrolilli – repubblica.it) – WASHINGTON – «La prossima conferenza all’estero vorremmo organizzarla in Italia, magari già l’anno prossimo. Per riuscirci però abbiamo bisogno di due cose: l’appoggio convinto della premier Giorgia Meloni, e i finanziamenti».
Matt Schlapp si aggira per i corridoi del Kennedy Center, dove è venuto per assistere al sorteggio dei Mondiali di calcio, ma uno come lui è sempre impegnato a fare networking. È il presidente della Conservative Political Action Conference, lobby conservatrice e trumpiana più potente degli Stati Uniti. Ogni anno organizza una grande conferenza dove il capo della Casa Bianca è sempre l’ospite d’onore, più tutti i leader del movimento Maga. Nel 2026 la terrà a Dallas in marzo, ma intanto già guarda al futuro, compresa l’idea suggerita dallo stesso Trump di ospitare questo appuntamento annuale nella sua nuova ballroom alla Casa Bianca, appena saranno completati i lavori in corso. Giorgia Meloni ha partecipato a questo evento in varie occasioni, prima di diventare premier, quando si stava accreditando nel mondo conservatore americano, con cui ormai ha stabilito un rapporto assai più solido del leader leghista Salvini.

Cpac organizza le sue conferenze anche all’estero, per promuovere ovunque l’agenda sovranista, in linea con la nuova Strategia per la sicurezza nazionale appena pubblicata dall’amministrazione Trump, che attacca duramente l’Europa e lascia capire come l’obiettivo di fondo sia demolire l’Unione basata a Bruxelles. L’ultimo evento internazionale è in Argentina, dove il presidente Milei è stato appena salvato dalla bancarotta grazie ad un prestito americano da 20 miliardi di dollari. In Europa finora la sede preferita è stata Budapest, per ovvie affinità elettive col premier Viktor Orbán, anche lui da sempre spina nel fianco della Ue. Schlapp però sogna il nostro Paese perché rappresenterebbe un salto di qualità nella conquista del continente.
Volete andare in Italia subito, magari il prossimo anno?
«Certo, ci stiamo ragionando da tempo. Chi non vuole andare in Italia, qualunque sia il motivo? È un Paese meraviglioso, con una grande storia».
Quando?
«Appena possibile. Per farlo però si devono creare le condizioni giuste».
Quali sono?
«La prima, indispensabile, è il sostegno della premier Meloni. Ovviamente è casa sua e non possiamo presentarci senza il suo consenso. Oltre alla partecipazione fisica della presidente del Consiglio alla conferenza, però, avremmo bisogno anche del suo convinto appoggio politico per quello che intendiamo fare sul palco, per l’agenda. Questa è la prima condizione irrinunciabile, a cui stiamo lavorando da tempo».
E la seconda?
«I finanziamenti. Le nostre conferenze sono costose e abbiamo bisogno di aiuto. Negli Stati Uniti per le aziende private è abbastanza usuale sponsorizzare simili eventi, ma in Italia no, le compagnie tendono a restare fuori dalla politica».
Così però mette Meloni in imbarazzo, perché se dice no fa uno sgarbo a voi, ma se dice sì rischia di farlo a Bruxelles.
«Il suo sostegno politico è imprescindibile».
Da Conte a Fini, dalla riforma della giustizia a Raul Bova, parte la kermesse di FdI. Arianna Meloni: «Grande emozione»

(ANTONIO BRAVETTI – lastampa.it) – «Non vi siete divertiti? Che dovevamo fa’, ce dovevamo mena’?». Sorriso sornione e un po’ di romanesco. Roberto Gualtieri passeggia tra gli stand di Atreju accompagnato da Giovanni Donzelli. «Lì c’è Babbo Natale – gli dice Donzelli – magari gli vuoi chiedere qualcosa…». Gualtieri ha appena parlato dal palco, un saluto istituzionale, da sindaco, si è preso pure qualche applauso. Nel retropalco un breve saluto con Arianna Meloni. «Che c’è, volevate le botte?».
Dopo un anno al Circo Massimo, la sagra politica della destra italiana torna ad apparecchiarsi nei giardini di Castel Sant’Angelo, risistemati nel frattempo coi soldi del Giubileo. Due anni fa qui arrivò Elon Musk: il miliardario che ora spara contro l’Unione europea si presentò col figlio algoritmo in spalla, X Æ A-XII. Fu l’edizione scombussolata dall’apparizione di Andrea Giambruno, il compagno di Meloni mollato da poco via social.
Porchetta e arrosticini, birre e vin brulé. Presepi e folletti, la pista di pattinaggio sul ghiaccio dove ondeggia Lucio Malan e, poco più in là, la figlia di Galeazzo Bignami. Donzelli porta Gualtieri davanti al “Bullometro” , dove i Fratelli d’Italia danno «i voti alle parole d’odio della sinistra». Un grosso muro con gli «insulti» di Maurizio Landini, Francesca Albanese, Maria Elena Boschi, Adelmo Cervi e anche il cantante rock Brian Molko.
Foto e citazioni incriminate, giudicate secondo «originalità» e «livore». Landini e Boschi si beccano un 10 in livore per aver detto che «Giorgia Meloni è una cortigiana» e che «c’è un posto speciale all’inferno per le donne che non aiutano le donne».
Dalla parte opposta del “Bullometro” ci sono “Le egemonie che ci piacciono” , il pantheon di FdI. Guglielmo Marconi, Gabriele D’Annunzio, Ettore Majorana. Dai classici ai nuovi acquisti: Pier Paolo Pasolini accanto a Charlie Kirk. Si potrebbe obiettare. «Pasolini era il Kirk degli anni Settanta – giura Federico Mollicone – lo stesso coraggio di confrontarsi con chi non era come lui».
«C’è un medico?», grida qualcuno. Appena il tempo di tagliare il nastro, che un uomo sviene sulle scale che scendono ai giardini. Il primo a soccorrerlo è Guido Liris. Aquilano, senatore di FdI e medico. La politica al servizio dei cittadini. Poi spazio ai paramedici.
Quest’anno Atreju durerà dieci giorni, la più lunga di sempre. In attesa di Giorgia Meloni, che chiuderà domenica 14, l’affluenza di pubblico e politici è già alta. Deputate e deputati, senatori e senatrici di ogni dove d’Italia, che di solito lavorano dal martedì al giovedì, hanno rinunciato persino al ponte dell’Immacolata per esser qui. Tira più il castello del Parlamento.
S’intravedono il ministro Urso e la ministra Roccella, il sottosegretario Delmastro che si fa fotografare sorridente sotto la foto di Landini. Nei prossimi giorni pop e politica. Un palco per Abu Mazen come per Raoul Bova e Arianna Meloni a parlare di odio social. Il mondo dello spettacolo rappresentato da Carlo Conti, Mara Venier ed Ezio Greggio. Quello dello sport dal ct del volley maschile Ferdinando De Giorgi. Ma non è che qualcuno viene pagato? «Nessun ospite ha mai preso o prende un euro per venire ad Atreju. A chi in passato ci ha chiesto soldi abbiamo detto no, grazie».
Parola di Francesco Filini, che ogni anno alla conferenza stampa di presentazione della kermesse legge il programma tutto d’un fiato, pagine e pagine zeppe di nomi, un salmo senza fine. «È il nostro momento corazzata Potëmkin», lo canzonano.
Il buio rende ancora più luminoso il gigantesco albero di Natale, il mega orsacchiotto e la grande stella cometa. Gli altoparlanti diffondono radio Atreju: «Voglio dedicare “Unica” di Antonello Venditti a Giorgia Meloni». Paola Concia, trent’anni tra Pci e Pd, è presentata come «la femminista che ha mandato in tilt la sinistra». Eccola: «Per me è la prima volta ad Atreju. Mi sono divertita ad andare in giro per la festa con Delmastro, mi ha anche offerto uno spritz, forse era per drogarmi…», scherza. «Quando Meloni è diventata presidente del Consiglio il Pd ha avuto la necessità di contrapporle una donna giovane, come Elly Schlein. Quindi – sorride – Giorgia Meloni ha fatto bene anche alla sinistra».

(di MICHELE SERRA – repubblica.it) – La scalata di Netflix a Warner Bros, non ancora ratificata, sembra fatta apposta per farci capire se nel capitalismo del terzo millennio l’antitrust e la lotta ai monopoli sia ancora un fattore attivo oppure solo un cascame novecentesco. Ovvero se il capitalismo sia ancora disposto ad ammettere regole o non ne conosca al di fuori della legge del più forte che fagocita il più debole.
Vedremo come si pronunceranno in proposito gli enti regolatori degli Stati Uniti – ammesso che Trump non ficchi pure loro, a male parole, nel novero degli enti inutili che si impicciano di cose che non li riguardano. Nell’attesa, fa una certa impressione ricordare che, nei dintorni della caduta del Muro e del disastro dell’economia pianificata di Stato, legioni di ottimisti pronosticarono che il trionfo mondiale del liberismo (allora in piena sintonia con la globalizzazione) avrebbe prodotto, a pioggia, un contagio virtuoso, e un moltiplicarsi febbrile dello spirito imprenditoriale. Fu la stagione (breve) degli yuppies, degli impiegatini che si atteggiavano a manager, in uno sforzo simulatorio di “capitalismo popolare” che si rivelò ben presto, anche prima della grande crisi del 2008, molto differente da quanto promesso, o ingenuamente immaginato.
Il rattrappirsi del ceto medio, la crescita vertiginosa degli oligopoli della tecnologia e della distribuzione commerciale, sono invece lo sbocco visibile e tangibile del neoliberismo: e non assomigliano alle premesse dei suoi propagandisti di allora. L’idea di un possibile quasi-monopolio anche nella produzione dell’immaginario sorprende, dunque, quanto scoprire che la volpe è entrata nel pollaio. Ci era già entrata da un bel pezzo.

(di Lucio Caracciolo – repubblica.it) – America e Italia abitano mondi diversi. O noi ci adattiamo a quello americano o veniamo espulsi dalla lista dei paesi d’interesse del capocordata. Con noi, tutti gli europei che secondo la strategia di sicurezza nazionale varata da Trump stanno cancellando la loro stessa civiltà. Il messaggio non potrebbe essere più chiaro: fine dell’Europa americana perché l’America deve concentrarsi su sé stessa. Sanzione di un disimpegno annunciato. Graduale ma inesorabile. Destinato ad accelerarsi, Trump o non Trump. Allo scadere dell’ottantesimo anno di semiprotettorato a stelle e strisce, noi italiani e altri europei siamo invitati a varcare la linea d’ombra che separa l’adolescenza dalla maturità geopolitica. Mamma America non può né vuole salvare il mondo perché deve salvarsi la vita. Per tornare grande deve scaricare parte della zavorra imperiale. E se noi non ci allineiamo saremo parte di quella parte.
La parola d’ordine di Trump è tornare al common sense: l’America nazione fra le nazioni, che come tutte le altre si fa gli affari suoi, con la differenza che si considera prima fra i non pari. Rinuncia a redimere il mondo, a cambiare i regimi altrui disperdendo potenza, credibilità e amor proprio in guerrette senza senso. Il nemico non è la Cina, tantomeno la Russia.È il morbo liberal che ha favorito l’immigrazione senza freni, ha diffuso una forma radicale di politicamente corretto (woke), ha deindustrializzato il paese con la follia della globalizzazione. La priorità è cambiare il proprio regime in senso autoritario. Tutto il resto, competizione con la Cina per l’Indo-Pacifico compresa, viene dopo. L’Unione Europea non conta. Benvenute invece le nazioni europee disposte a difendersi con i propri mezzi, utili a risparmiare forze e denari americani. E a ristabilizzare i rapporti con la Russia, che l’America considera reintegrabile nel sistema continentale. Anche per evitare che a integrarla sia la Cina.
L’Italia non è citata. Fra gli europei, si evoca la Germania, in senso critico, si allude alla Francia che si illude di battere la Russia. Non manca scappellata di prammatica a Inghilterra e Irlanda. Ma Washington non intende abbandonare l’Europa, che “rimane vitale per gli Stati Uniti”. Per questo “vogliamo lavorare con paesi allineati che intendono restaurare la loro antica grandezza”. Difficile immaginare che Trump si rivolga a Roma. Probabile che intenda Parigi, Londra e Berlino. Decisivo che li degradi da alleati ad allineati potenziali. Eccoci al punto per noi dolentissimo. La Nato non è né sarà più la Nato. Non che gli americani vogliano sgombrare le basi che hanno nel Vecchio Continente, a partire da quelle sul suolo tedesco e italiano. Evidente però l’intenzione di ridurre le forze per riconcentrarle nell’Indo-Pacifico. E in casa, per combattere il “nemico di dentro” — gli americani antiamericani secondo Trump. Logico se si considera che la Russia non sia più il Nemico, ma una potenza da trattare con “impegno diplomatico” per “mitigare il rischio di un conflitto con gli Stati europei”. E se non si intende spendere un dollaro in più per la ricostruzione dell’Ucraina, del cui destino Trump si lava le mani dando a Biden la colpa di averlo compromesso. Fondamentale l’impegno a “prevenire l’espansione della Nato quale alleanza in espansione perpetua”, così dichiarando insensata la ragione per cui l’Ucraina si difende dall’invasione russa. Altro che Ue: l’Europa deve operare “come un gruppo di nazioni sovrane allineate”. Questa rivoluzione geopolitica ci coglie impreparati. E imbarazza il governo. Già divisi, l’approccio di Trump contribuisce a metterci gli uni contro o senza gli altri. Nel momento in cui il capocordata allenta la corda, inverte il percorso e lascia pendere la minaccia di tagliarla, far finta di nulla e aggrapparci al nostro Olimpo immaginario fatto di diritto internazionale, Nazioni Unite, Unione Europea e Alleanza Atlantica, significa slittare nell’irrilevanza. Lusso che non ci possiamo permettere mentre la Russia sta finendo di finire l’Ucraina, la Cina installa le sue stazioni di polizia sul territorio nazionale, la Turchia si piazza dirimpetto allo Stivale e i nostri riferimenti europei — Germania e Francia — sono molto più interessati a competere fra loro che a considerarci. Insomma: vogliamo allinearci all’America? E se non lo vogliamo, quale alternativa? Il mondo non sta ad aspettarci. È irresponsabile giocare agli eterni adolescenti. Abbiamo, per necessità, l’opportunità di stabilire una nostra strategia di sicurezza nazionale basata sulla realtà. Occasione per rinnovare la nostra repubblica. Per ridare senso alla politica, prima che lo perda del tutto. E con esso la sua legittimità.

(Dott. Paolo Caruso) – Giuseppe Cavo Dragone, da ammiraglio della NATO, ha fatto sapere che un attacco ibrido su Mosca è possibile. La cosa non è caduta nel vuoto ma ha molto irritato il Cremlino, che, per bocca dello stesso Putin, ha fatto sapere che la Russia è pronta alla guerra totale contro la Nato e l’ Europa. Ma la NATO non comprende anche gli USA come partner maggiore? Trump che ne pensa della questione? Ha deciso davvero di disinteressarsi della UE lasciandola, come ha detto, al suo destino e a rischio perdita sua civiltà. In periodo elettorale ci aveva raccontato la favola che avrebbe risolto in una settimana la fine del conflitto in Ucraina. Ora si arrende alla evidenza dei fatti con parole poco sibilline: ” È un casino! “. Visto l’ attuale scenario quindi si può affermare che ancora una volta sarà un Natale sotto le bombe, perché Putin quando c’è da trattare alza la posta. Zelensky da parte sua si trova in un cul di sacco infatti o accetta diplomaticamente sotto la supervisione americana le condizioni richieste dal sedicente Zar e la perdita delle repubbliche del Donbass o queste saranno prese con la forza. Si fa forte il dittatore sulla debolezza, più o meno manifesta, dell’Europa che con le sanzioni alla Russia si trova in una economia di guerra con gravi ripercussioni sulla stabilità dei governi. A causa dei Sovranisti anche nostrani ( Salvini e Meloni docet ), la UE non riesce a parlare all’ unisono e a essere polo di riferimento. L’ Ungheria di Orban di fatto risente fortemente dell’ influenza russa mentre l’ Europa stoltamente illude Zelensky di una improbabile vittoria. Sarà una Pace allora a qualunque prezzo? La Pace di Trump e Putin sarà comunque dolorosa e non potrà di sicuro essere ” giusta ” agli occhi degli sconfitti. Bastava accettare pochi mesi dopo l’ inizio della guerra la tregua proposta da Erdogan per limitare le richieste di Putin. Ora i 28 punti di Trump cercano di mettere fine alla guerra cercando un compromesso con la Russia. Nonostante le evidenti difficoltà, i bellicisti europei tentano di boicottare questo primo abbozzo di pace. La UE non è per niente apprezzata dai due capi, il Tycoon e lo Zar, Il disprezzo che li accomuna è rivolto verso chi dissente. Del resto gli affari sono affari. Sono queste le guide dei popoli che ci meritiamo? Quale dunque “regalo” a Natale? Il capriccio schizoide di due che si ritengono i padroni della Terra, e possono dettare il bello e il cattivo tempo impunemente.

(Giancarlo Selmi) – “L’opposizione non è unita”. È il mantra del giornalismo italiano. Non solo di quello di destra, ma di tutto. Di chi, deontologicamente, dovrebbe informare ma che, invece, si occupa di “orientare”. Ed è un’affermazione solidamente comica. Molti di quei giornalisti che ripetono il suddetto mantra sono di area PD. Il mantra lo ripetono perché il terribile cattivone Giuseppe Conte non si allinea al pensiero unico che vorrebbe la guerra e il riarmo come fattori ineludibili.
Il grande equivoco, o meglio, la grande pigliata per il culo è il ripetere l’esistenza di un governo e di un’opposizione. Se veramente esistesse e non fosse un tragico teatrino, quale invece è, esclusa l’unica vera opposizione esistente, quella di Conte e del movimento, si dovrebbero ascoltare tesi e antitesi. Dovrebbero esistere narrazioni differenti fra chi governa e chi si oppone, ma, chiedo, è veramente così? A me non pare affatto. Il padre di tutti i temi, il riarmo, le posizioni che riguardano la politica estera, con l’esclusione del solo Conte, vedono tutti uniti appassionatamente in una corrispondenza di amorosi sensi.
Rimproverano Conte e il Movimento, di disorganicità con le posizioni di questa strana opposizione rappresentata in gran parte dal PD, non si accorgono che sia lo stesso PD ad avere un paio di migliaia di posizioni. Gran parte del PD ha le stesse posizioni di Meloni & compagnia. Un’altra parte, la migliore, no. il PD è un contenitore del tutto e del suo contrario. C’è una parte sana, indubitabilmente, ma è pieno di vecchie cianfrusaglie democristiane, neocon e guerrafondai ubbidienti alle logiche dei produttori di morte, di sionazi e di evoluzioni del pensiero di destra neoliberista.
Schlein definisce questa accozzaglia “vocazione plurale”. Non è così, questa è solo una definizione simpatica. Il PD contiene al suo interno l’intero arco parlamentare: dalle posizioni più di destra possibili a quelle più di sinistra possibili. Il PD è governo e opposizione insieme, cosa diavolo c’entra Conte? Mentre Salvini compra una casa da 674 mq in un quartiere “bene”, pagandola la metà del prezzo di mercato e nessuno, a parte Leonardo Donno, oppone un bah, Delrio presenta un emendamento che vuole sanzionare chi critica i suoi amici si
nazisti (e nel PD su questo si stanno scannando) e Fassino i si
nazisti li abbraccia e li loda.
Niente è peggio di Meloni, certamente, ma prima di parlare di “opposizione disunita” non sarebbe il caso di parlare della multipolarità, per non dire cose peggiori, del partito di Schlein? Non sarebbe il caso di chiedere a Delrio e Fassino cosa li distingue da Gasparri? Non sarebbe il caso di chiedere a Schlein di mettersi d’accordo con sé stessa? Non sarebbe il caso di inviare un pacco dono a Forza Italia con dentro Delrio, Fassino, Guerini, Picierno e tutta la truppa renziana? Non sarebbe forse e finalmente un elemento di chiarezza per chi ha rinunciato al voto?
Questo è il problema della costruzione di un fronte di opposizione, altro che Conte.
Il commento sul Fatto sulla relatrice Onu «toccata da inaspettata e insperata popolarità». E la sua replica

(Alessandro D’Amato – open.online) – Il 4 dicembre scorso Antonio Padellaro aveva scritto sul Fatto Quotidiano un commento in cui criticava il Partito Democratico su Francesca Albanese. E aveva scritto che alla relatrice speciale dell’Onu sulla Palestina, «forse perché toccata da inaspettata e insperata popolarità, capita di straparlare». Citando i casi di Liliana Segre o del sindaco di Reggio Emilia. Oggi Albanese in una lettera al quotidiano risponde a Padellaro. «Non credo di “straparlare”: esprimo ciò che penso, rendendomi disponibile a rispondere a giornalisti di tutto il mondo ogni giorno, tra continue conferenze e un delicato lavoro di inchiesta che da tre anni mi porta a confrontarmi con istituzioni, accademie e società civile dei cinque continenti. Le mie posizioni sono il frutto di studio, esperienza sul campo e un mandato Onu che non si improvvisa», esordisce.
Poi Albanese passa a parlare di quello che ha detto su La Stampa: «Non ho mai – MAI – auspicato violenza contro chicchessia (come potrei io che da una vita mi batto contro la violenza in tutte le sue forme?), né inteso che ciò che è accaduto servisse da “avvertimento” ai giornalisti, come qualcuno ha fantasiosamente suggerito, pontificando sulla parola “monito” e sul virgolettato trasfigurato ad arte all’interno del quale è stato fatto circolare». E spiega: «Il mio richiamo era, ed è, alla necessità di riflettere sul diffuso clima di imprecisione, superficialità e violenza verbale ed epistemica consolidatosi in Italia, di cui la copertura mediatica della Palestina è esempio. Un clima da cui tutti dovremmo difenderci, ciascuno facendo il proprio lavoro con rigore».
Albanese poi dice che la sua presunta “popolarità inaspettata e forse insperata” non è motivo di giubilo: «Ne farei, anzi, molto volentieri a meno, dato che è il frutto dell’essere divenuta testimone – quasi oculare – di un genocidio, e delle persecuzioni seguite alle denunce che il mio ruolo mi impone di formulare. Trovo infatti che l’attuale rumore attorno alla mia persona stia servendo a continuare a ignorare i crimini incessanti di Israele e, insieme, a non raccontare la straordinaria presa di coscienza che sta attraversando l’Italia».
Infine, conclude così: «La ringrazio comunque per aver posto la questione con misura. Il confronto civile resta essenziale, soprattutto ora, mentre la libertà di parola si restringe e mentre, altrove, si muore per raccontare la verità. Io continuerò a fare il mio lavoro, con rigore e senza infingimenti, come si addice a chi cerca di servire il diritto, incurante dell’opportunità del momento».

(dagospia.com) – Se, come dice Giorgia Meloni, Donald Trump sveglia l’Europa, c’è bisogno che qualcuno svegli Mentana. Perché non ha ribattuto alla demagoga trumpiana chiedendole per quale motivo ha rimandato a gennaio il piano Purl per gli aiuti a Kiev? Se, sulla scia delle farneticazioni di Trump, Meloni vuole un’Ue unita e forte che “si difenda da se”; bene, ci può far sapere perché si oppone alla riforma Salva-Stati (Mes), si oppone a dar vita a un organismo di Difesa Europea, si oppone alla rimozione del diritto di veto in Consiglio Europeo, che blocca ogni decisione determinante per un cambio di passo dell’Unione?
Se in queste interviste con il premier o con i leader si impongono domande prefabbricate, l’intervistatore può scegliere tra due opzioni: la prima è ribattere squadernando fatti e dichiarazioni che smontano le risposte, la seconda è accontentarsi di annuire facendo da spalla all’intervistato. Mentana ha scelto la seconda: si è travestito da asta reggi-microfono.
La fornitura di missili Jassm (Lockheed Martin) per 258 milioni di euro è l’ultima tranche di una lunga serie di acquisti per rafforzare la difesa nazionale e fronteggiare i rischi legati all’invasione russa dell’Ucraina

(di Giuseppe Sarcina – corriere.it) – La civiltà europea sarà pure «a rischio di estinzione», come si legge nel documento sulla Strategia di sicurezza nazionale, pubblicato venerdì 5 dicembre dalla Casa Bianca. Ma, intanto, l’industria militare americana moltiplica gli affari con i Paesi del Vecchio continente. Tra questi c’è anche l’Italia.
Sempre ieri una nota ufficiale del Dipartimento di Stato informa che è stata autorizzata la «possibile vendita» al governo Meloni di 100 missili aria-superficie Jassm (Joint Air-to-Surface Standoff) per un valore di 301 milioni di dollari, circa 258 milioni di euro. Sono ordigni, si legge ancora nel comunicato degli americani, che «aumentaranno la capacità di fare fronte alle attuali e future minacce» fornendo sistemi in grado di colpire anche obiettivi a lunga distanza. I missili potranno essere montati anche sui caccia F-35, «ma non solo».
Il Dipartimento di Stato specifica che questa vendita «non altererà gli equilibri nella regione». Come dire: è un rafforzamento delle capacità di difesa di «un alleato» importante della Nato, ma non va inteso come una minaccia per la Russia.
I missili, dunque, si legge ancora nel comunicato del Dipartimento di Stato, saranno assegnate alle forze armate italiane. In teoria, quindi, non hanno nulla a che fare con le esigenze dell’Ucraina, nè con il meccanismo di raccolta fondi promosso dalla Nato (il Purl) per acquistare armi Usa e girarle a Kiev. Tuttavia, poiché il governo italiano non ha mai diffuso il dettaglio delle consegne all’Ucraina, non si può escludere del tutto che queste, come altre armi, possano andare a rimpiazzare ordigni spediti a Zelensky. Anche se è un’ipotesi poco accreditata. Il contratto verrà gestito dalla Lockheed Martin, il principale gruppo dell’industria militare americana, capofila, tra l’altro del progetto F-35.
Praticamente da sempre gli Stati Uniti vendono armi a un gran numero di alleati o di partner nel mondo, seguendo una procedura che intreccia business e valutazioni geopolitiche. Il presidente sceglie a chi è possibile vendere; il Dipartimento di Stato autorizza le richieste, caso per caso; il Pentagono provvede a eseguirle nel concreto, ordinando le armi alle industrie Usa; il Congresso ratifica l’autorizzazione finale.
Da quando Donald Trump è tornato alla Casa Bianca, il flusso di ordinativi non si è per nulla attenuato. Anzi, il leader americano considera un suo successo personale la vendita di mezzi bellici un po’ in tutto il mondo. Sempre ieri, il Dipartimento di Stato ha dato il via libera a due consistenti ordinativi per la Danimarca: un sistema di difesa aereo integrato dal valore di 3 miliardi di dollari e una fornitura di missili per altri 750 milioni di dollari. Nella lista di ieri figurano poi consegne anche per il Libano (90 milioni) e la Corea del Sud (118 milioni).
E’ interessante notare come gli slogan e gli attacchi di Trump contro alcuni Paesi non precludono il corso del business. Il 4 dicembre, giusto per fare un esempio, il Dipartimento di Stato ha dato luce verde a un contratto per ben 2,68 miliardi di dollari con il Canada, così bistrattato da Trump.
I rapporti con l’Italia si inseriscono in questo contesto. Il 16 giugno scorso, il Dipartimento di Stato aveva autorizzato un altro accordo per la consegna di 75 sistemi di difesa missilistica a medio raggio di varie tipologie, per un valore di 211 milioni di dollari, 181 milioni di euro.
Da un esame approfondito delle carte pubblicate dal Pentagono emerge che negli ultimi due anni l’Italia ha ottenuto otto forniture di armi. Nel dettaglio, le autorizzazioni vanno dal 15 febbraio 2024 al 5 dicembre 2025, per un valore complessivo di 2,64 miliardi di dollari, circa 2,27 miliardi di euro al cambio attuale.
Dai registri non risulta quando siano state avanzate queste richieste. E il nostro ministero della Difesa non ha reso pubbliche queste informazioni. In genere, però, trascorrono circa sei mesi, un anno, dal momento della domanda presentata da un Paese alla risposta del Dipartimento di Stato Usa. Si può, dunque, ragionevolmente presumere che l’accelerazione sia stata decisa dal governo Meloni, in seguito all’invasione russa dell’Ucraina. Ancora una volta, va sottolineato come il governo italiano non abbia mai diffuso la lista dei mezzi donati a Kiev. Di nuovo: non si può escludere del tutto che una parte delle armi comprate in Usa sia finita poi in Ucraina oppure se, più verosimilmente, sia servita per rimpiazzare altro materiale, già usato, spedito a Zelensky.
Del resto, nell’archivio del Pentagono risultano solo altre tre vendite di armi all’Italia nel lungo periodo di allarme relativo, che va dal 19 novembre 2009 al 15 dicembre 2020: missili, aerei, droni per un valore di 692 milioni di dollari, 594,2 milioni di euro.

(Andrea Zhok) – Qualche parola supplementare in coda alla roboante sceneggiata antifascista presso la kermesse libraria “Più libri, più liberi”.
A quanto ho visto riportato, molti espositori hanno coperto i loro stand per protesta contro la presenza dell’editore di estrema destra “Passaggio al bosco”.
Questo intrepido gesto antifascista merita un breve commento.
1) Tra le ragioni più profonde del discredito storico del fascismo c’è l’aver avuto la pretesa di somministrare soltanto verità di regime, di aver censurato libri e informazioni alternative, e di aver in questo modo condotto in forma sonnambulica il popolo italiano ad un conflitto catastrofico (di cui ancora paghiamo lo scotto).
Trovo significativo che oggi le stesse istanze provengano dalle bancarelle dei progressisti.
2) Quando parliamo di “sorveglianza democratica”, bisogna osservare un semplice, ma importante, fatto di natura semiotica.
Se qualcuno mi dicesse che bisogna sorvegliare la distribuzione di film che glorificano la guerra, la violenza, il sadismo, la perversione, ecc., potrei pensarci.
Personalmente preferisco che circoli qualunque cosa – persino la spazzatura autocelebrativa a stelle e strisce che incarna quanto sopra – perché credo che essere esposti a messaggi diversi comunque rafforzi.
Ma qui chi vuole che vi sia un controllo ha dei buoni argomenti, perché un contenuto audiovisivo ha un certo potere di autoimposizione sul fruitore.
Ma quando parliamo di libri e non di film, qui il discorso è tutt’altro e del tutto chiaro. Una delle ragioni per cui ho sempre amato i libri (e nel mio piccolo cerco anche di produrne) è che i libri non hanno nessuna capacità di ipnotizzarti, di imporsi subliminalmente alla tua coscienza, di avere la meglio su di te quando sei stanco, di sopraffarti.
Queste sono cose che può fare un film, una trasmissione televisiva, ma mai un libro.
Un libro è materialmente una collezione di segnini neri su sfondo chiaro, che per SIGNIFICARE devono essere animati da uno sforzo del lettore. Appena il lettore smette di attuare uno sforzo di immaginazione, appena smette di tentare di entrare in sintonia con quanto legge, il testo immediatamente smette di parlare.
Perciò l’esercizio mentale che viene svolto su un libro è sempre un esercizio all’attività e alla vigilanza critica, persino quando il libro è di pessima qualità. Un libro dev’essere acceso e tenuto in moto dalla tua mente, altrimenti è inerte. Un libro, qualunque libro, quale che ne sia il contenuto, è intrinsecamente un ente non violento.
Un libro non ti attacca alla gola; nessuno è mai stato sopraffatto da un libro; e nessuno, garantito, è passato da sincero democratico a nazista per aver letto, per dire, il Mein Kampf. (Eventualmente leggerlo è istruttivo per capire come il nazismo con tutta evidenza non si sia imposto per la lucidità argomentativa del Fuehrer.)
3) Trovo infine curioso come per alcuni gruppi sociali viga il terrore dell’esposizione ad idee malvagie. Esse vengono concepite come un contagio virale, qualcosa da cui bisogna preservarsi con un bel lockdown.
(Trovo in ciò più che un’analogia con eventi recenti, anche perché i soggetti coinvolti in questo atteggiamento sono ampiamente sovrapponibili.)
Ma se di principio, di fronte ad un virus sconosciuto, si può capire il timore che le proprie difese immunitarie non siano all’altezza, di fronte ad un libro, se le tue difese immunitarie sono così basse da temere il contagio e la sopraffazione, forse dovresti smettere proprio, perché leggere non fa per te.
La cosa importante da capire è che chi è incline a pensare in questi termini può anche essere convinto di essere uno squisito democratico, ma in verità è intimamente avverso ed estraneo all’essenza stessa della democrazia. Lo spirito democratico ha fiducia nel confronto, mentre queste “Guardie di Ferro” dell’antifascismo sono terrorizzate da ogni confronto, da ogni esposizione ad idee estranee.
E la ragione di fondo è semplice: le loro difese immunitarie spirituali sono azzerate.
Si tratta di gente che da tempo non crede in nulla, gente che da tempo dubita che si possa distinguere tra verità e retorica, tra riflessione e sofisma, tra logica ed eristica. Essendo essi stessi seduti su una pila di idee stantie, incartapecorite, svuotate, proiettano la propria fragilità all’esterno e non vogliono in nessun modo correre il rischio di essere esposti al contagio di idee davvero estranee, perché anche un’ideuzza di modesta virulenza potrebbe ucciderne le esangui convinzioni.

(di Jonathan Lemire – The Atlantic) – Per un decennio, i comizi di Donald Trump sono stati intrecciati alla sua identità politica. Le sue grandi folle erano il modo in cui inizialmente aveva costretto i media e il Partito Repubblicano a prenderlo sul serio, e gli fornivano un riscontro in tempo reale.
Ma sono passati molti mesi dall’ultima volta che Trump ha organizzato un vero comizio in stile campagna elettorale. Ha optato invece per viaggi all’estero, partite di golf nei suoi club privati e cene con amici facoltosi, leader d’impresa e grandi donatori.
Oltre ai comizi, Trump ha drasticamente ridotto discorsi, eventi pubblici e viaggi interni rispetto al primo anno del suo primo mandato. E questa mancanza di contatto regolare con gli elettori ha alimentato un crescente timore tra i repubblicani e gli alleati della Casa Bianca: che Trump sia troppo isolato e sia diventato fuori dal mondo rispetto a ciò che il pubblico desidera dal suo presidente.
Ogni presidente, naturalmente, deve fare i conti con il rischio di vivere in una bolla, isolato dalle richieste del suo ruolo e dalle straordinarie esigenze di sicurezza legate all’incarico. Ma nel suo ritorno alla presidenza quest’anno, Trump raramente ha attraversato il Paese andando altrove che nei suoi club.
Inoltre, vive in una sorta di silo informativo, guardando canali via cavo dell’estrema destra come One America News Network e Newsmax insieme a Fox News. Anche il suo consumo di social media si è ristretto: invece di stare sull’app un tempo chiamata Twitter, dove occasionalmente intercettava opinioni contrarie, ora pubblica esclusivamente su Truth Social, che possiede e dove è circondato da adulanti. E il personale della sua Casa Bianca, questa volta composto in larga parte da veri credenti e yes-men (e poche yes-women), non fa che rafforzare la camera dell’eco.
Chi gli sta attorno, e tutto ciò che lui vede in TV e sul telefono, gli sta dicendo che ha ragione. Ma sondaggio dopo sondaggio suggerisce che gli americani credono che ora Trump stia sbagliando e abbia perso di vista ciò che lo ha portato all’elezione.
Ho analizzato l’agenda dei viaggi di Trump dall’autunno del 2017, il primo anno del suo primo mandato, e l’ho confrontata con quella di quest’autunno, e sono rimasto sorpreso dal calo.
All’epoca, viaggiava per il Paese più di una dozzina di volte tra settembre e novembre per parlare ai lavoratori del settore energetico in North Dakota, raccogliere sostegno in Alabama per un candidato al Senato, ed esporre direttamente la sua agenda ai sostenitori. Nello stesso periodo di quest’anno, ha viaggiato a malapena.
Quest’autunno è uscito dall’area metropolitana di Washington, dal suo club del New Jersey e dalla Florida, dove si trova Mar-a-Lago, solo cinque volte. Quattro di questi viaggi interni erano a New York, inclusi tre per trascorrere del tempo con amici ricchi in lussuose tribune di eventi sportivi. L’altro viaggio era per partecipare a riunioni delle Nazioni Unite, ma è rimasto solo una notte, contro le cinque del 2017. Il quinto viaggio è stato in Arizona, per partecipare al memoriale di Charlie Kirk.
Anche l’unico ambito in cui Trump ha aumentato i viaggi lo ha allontanato dagli americani; quest’autunno ha fatto tre viaggi internazionali, contro uno solo otto anni fa.
Alcuni dei suoi sostenitori più fedeli del MAGA, come Laura Loomer e Stephen Bannon, lo hanno esortato a frenare il girovagare per il mondo e concentrarsi sui problemi interni. Marjorie Taylor Greene ha dichiarato che “vorrebbe vedere l’Air Force One parcheggiato e fermo a casa” (in seguito ha rinnegato il suo sostegno a Trump e ha annunciato le dimissioni dal Congresso). La mancanza di viaggi negli Stati Uniti, temono alcuni alleati, ha compromesso il suo fiuto politico.
I repubblicani vogliono che Trump, anche con numeri nei sondaggi bassi, torni in viaggio nel 2026 per convincere gli elettori che tendono a presentarsi solo per lui a sostenere altri repubblicani. (Il GOP subì pesanti perdite alle prime elezioni di metà mandato di Trump, nel 2018.) Trump è molto preoccupato per le elezioni di metà mandato; sa che se i democratici conquistassero uno dei rami del Congresso, avrebbero in mano il potere di emettere citazioni e paralizzerebbero la sua amministrazione con indagini. Ma il ruolo che avrà nelle campagne dell’anno prossimo resta incerto.
La portavoce della Casa Bianca, Karoline Leavitt, mi ha detto che anche quando Trump ha viaggiato all’estero, il suo “obiettivo è stato ottenere accordi per gli americani a casa.” E ha aggiunto che ha intenzione di “essere là fuori attivamente a fare campagna per i candidati repubblicani prima delle loro vittorie nelle elezioni di metà mandato del prossimo autunno.”
Dal 2015, Trump afferma di aver tenuto più di 900 comizi, rendendoli gli eventi simbolo di quest’era della politica americana. Ha continuato a farli persino nel pieno della pandemia, nel 2020, e in seguito al tentato assassinio dello scorso luglio a un comizio a Butler, in Pennsylvania.
Il suo ultimo comizio elettorale si è tenuto a Grand Rapids, Michigan, nelle prime ore del Giorno delle Elezioni. Lì, Trump si è rivolto a pochi stretti collaboratori e ha detto, con un misto di tristezza e sollievo, che pensava sarebbe stato il suo ultimo, mi ha detto una persona che ha ascoltato le sue parole. Alcuni mesi dopo, in aprile, Trump ha organizzato un evento più piccolo, simile a un comizio, sempre in Michigan, per celebrare i 100 giorni in carica. Ma i comizi roboanti per cui è noto si sono fermati.
Non è l’unico modo in cui si è isolato. In questo mandato, ci sono pochissime voci all’interno della Casa Bianca in grado di dirgli di no o di riportarlo sui binari. E questo è voluto.
All’inizio del suo primo mandato, Trump aveva composto la sua squadra con un mix di veterani di precedenti amministrazioni repubblicane e figure dell’establishment del GOP, che moderavano alcuni dei suoi impulsi più estremi. Ma Trump mal sopportava quegli argini.
Nel 2025, si è circondato di facilitatori—non figure come John Kelly, Rex Tillerson e James Mattis. Trump si fida dei suoi istinti e indica la sua storica rielezione come prova che è il suo miglior consigliere. La sua capo di gabinetto, Susie Wiles, ha chiarito che non vede il suo ruolo come quello di contenere il presidente. Inoltre, non c’è un leader repubblicano dall’altra parte di Pennsylvania Avenue che possa interpretare il ruolo di Mitch McConnell nel bilanciare il potere di Trump.
E sebbene Trump continui a chiamare i suoi vecchi amici a New York, lo fa meno frequentemente rispetto al suo primo mandato, mi ha detto una persona informata sulle telefonate, privando il presidente di un riscontro sincero da parte di persone che lo conoscono da decenni e potrebbero non essere d’accordo con lui su ogni questione. Al contrario, la sua attenzione è rivolta ai magnati e ai miliardari con cui spesso ha cenato alla Casa Bianca e a Mar-a-Lago, che vogliono qualcosa da lui e gli dicono ciò che vuole sentirsi dire.
Trump rimane nella camera dell’eco del MAGA anche quando è solo nella residenza della Casa Bianca o nella sala da pranzo privata adiacente allo Studio Ovale. Sì, occasionalmente guarda MSNOW o CNN, ma i suoi televisori sono quasi sempre sintonizzati su Fox News, OAN e Newsmax, che praticamente non trasmettono mai notizie negative sul presidente. (Fox non ha nemmeno mandato in onda la recente conferenza stampa con le vittime di Epstein.) Lo stesso vale per il suo telefono: Truth Social fornisce un flusso di elogi da parte di devoti ammiratori, oltre a contenuti generati dall’IA e altri post provocatori che fanno leva sugli istinti politici più basilari del presidente.
Nemmeno due settimane fa, Trump ha amplificato un post che diceva “IMPICCATELI LO FAREBBE GEORGE WASHINGTON!!” mentre chiedeva che venissero presentate accuse di sedizione contro sei parlamentari democratici che avevano creato un video esortando i membri delle forze armate a ignorare ordini illegali. Poco dopo, Trump ha pubblicato un suo appello all’esecuzione dei parlamentari. Ancora una volta, le speranze dei repubblicani che Trump si concentrasse sui temi cari agli elettori sono rimaste disattese.
Vitali per elettronica, fonti rinnovabili e armamenti, Pechino usa il monopolio su questi minerali come leva nel confronto economico con Usa ed Europa. Ma il problema è la nostra dipendenza dalle forniture a basso costo

(di Giulio Alibrandi – tpi.it) – Sono presenti negli smartphone, nelle batterie, negli schermi televisivi e nei veicoli elettrici. Ma anche nei motori dei jet, nei sistemi radar e nei missili. Definite “critiche” o “essenziali” per diversi settori strategici, le terre rare sono ritenute da molti esperti uno dei principali punti deboli delle economie occidentali nello scontro con la Cina.
Pechino, secondo l’Agenzia internazionale per l’energia, estrae il 50 per cento delle terre rare del mondo ma ne raffina più del 75 per cento. Una supremazia che ha assegnato a Pechino un quasi monopolio nella fornitura dei materiali, come i magneti, realizzati con questi 17 elementi, fino a renderli una delle pedine di scambio per la Cina nella guerra commerciale scatenata da Donald Trump.
Supremazia globale
Questo predominio non è tanto il risultato dalla disponibilità di terre rare nel sottosuolo ma del vantaggio tecnologico acquisito nell’estrazione e nella raffinazione, attività considerate dai Paesi acquirenti troppo costose e sporche. Per questo i Paesi occidentali hanno progressivamente abbandonato le produzioni legate a questi elementi, che, a dispetto del nome, sono tutt’altro che rari in natura. Piuttosto la difficoltà negli ultimi anni è stata quella di reperire produttori su larga scala indipendenti dalla Cina, che ha accumulato competenze altamente specializzate nella lavorazione dei materiali usati per poi realizzare magneti particolarmente potenti e resistenti al calore, impiegati nelle auto elettriche, nelle turbine eoliche e nei dispositivi elettronici.
Già negli scorsi anni Pechino ha utilizzato la leva delle terre rare per bloccare le forniture durante periodi di tensione con i Paesi acquirenti. La prima volta risale al 2010, quando Pechino aveva limitato le spedizioni verso il Giappone a seguito di un caso internazionale legato all’arresto del capitano cinese di un peschereccio.
Nel 2023 la Cina ha formalizzato il blocco all’export di tecnologie per l’estrazione e la separazione delle terre rare, oltre che delle tecnologie per la produzione dei relativi magneti, dopo aver per anni scoraggiato questo tipo di esportazioni. Un provvedimento giustificato con la tutela della sicurezza nazionale e dell’interesse pubblico, che mirava a difendere il vantaggio acquisito dall’industria cinese in un momento di tensione con l’Occidente.
L’intervento più significativo della Repubblica popolare cinese risale però allo scorso aprile quando ha imposto restrizioni all’esportazione di materiali relativi a sette terre rare (samario, gadolinio, terbio, disprosio, lutezio, scandio e ittrio), a cui ne ha aggiunti altri cinque a ottobre (olmio, erbio, tulio, europio e itterbio), e diversi magneti permanenti a esse associati.
Come parte delle misure adottate in risposta ai dazi del “Liberation Day” di Donald Trump, Pechino ha introdotto una nuova procedura , chiedendo ai clienti stranieri di dotarsi di licenze per l’esportazione. Un meccanismo che ha portato a procedure notevolmente rallentate per l’acquisto di terre rare, causando disagi in settori strategici come quello automobilistico, della difesa e della tecnologia, con un calo del 75 per cento delle esportazioni di magneti permanenti.
Nonostante gli appelli trasversali a rimpatriare la produzione di terre rare, alcuni commentatori rimangono scettici sulla reale centralità di questi elementi. La questione, in base a questo punto di vista, non dovrebbe essere tanto quello dell’importanza delle terre rare e dei cosiddetti “minerali critici”, quanto quella della dipendenza dei produttori occidentali da forniture a basso costo.
Questione di prezzo
In termini strettamente monetari la rilevanza di questi materiali non è evidente. Nel 2024 gli Stati Uniti hanno importato solamente 170 milioni di dollari di terre rare, un ventesimo di quanto ha speso nello stesso anno per l’importazione di avocado (3,4 miliardi), mentre nello stesso anno il valore per l’Unione Europea era di 101 milioni di euro. A citare questo esempio è Javier Blas, commentatore di Bloomberg che si occupa di energia e materie prime, secondo il quale è sbagliato considerare questi materiali “critici”, tali cioè che la loro scarsità possa produrre effetti disastrosi su un’intera economia. Questo perché, in caso di una nuova sospensione delle forniture di terre rare, i disagi sarebbero sempre limitati ad alcuni settori dell’economia, che si troverebbero ad affrontare prezzi più alti. Sarebbe quindi il caso di parlare di materiali che provocano solo qualche «grattacapo». Il problema reale delle terre rare, secondo Blas, è che «costano troppo poco» offrendo un mercato poco redditizio per chi deve competere con la Cina. La soluzione è nell’innovazione, per trovare soluzioni tecnologiche alternative come già avvenuto in passato: «lasciate che i prezzi aumentino e l’offerta arriverà». Anche Andy Home, che scrive del mercato dei metalli per Reuters, propone la «distruzione della domanda» come soluzione al problema. I produttori di automobili dovrebbero, secondo Home, tornare a valutare alternative alle terre rare nella progettazione dei loro motori, privando le aziende cinesi della domanda per i materiali realizzati con terre rare. Una strada percorsa già in passato dopo il boom dei prezzi seguito alle prime restrizioni imposte dalla Cina nel 2010.
All’epoca diversi produttori di veicoli elettrici e ibridi avevano ridotto l’utilizzo di terre rare nei propri mezzi. Tra questi Renault, che era arrivata a sviluppare un motore privo di magneti permanenti per il suo modello ZOE. La tendenza era confermata dai numeri: secondo le stime di Adamas Intelligence, la quota di veicoli elettrici con motori privi di terre rare era aumentata da meno dell’1 per cento nel 2010 al 12 per cento nel 2017. Poi, con il calo dei prezzi, le terre rare sono tornate in voga, tanto che circa il 97 per cento di tutti i veicoli elettrici venduti ogni anno dal 2017 usano motori con terre rare.
Filiere strategiche
In attesa di innovazioni future, o di scelte diverse a livello politico, il tema continua ad avere un’importanza primaria sul piano geopolitico ed è stato al centro di intense trattative tra la Cina e i Paesi occidentali. Dopo l’incontro a fine ottobre tra Trump e Xi Jinping, Pechino si è impegnata a sospendere le ultime restrizioni introdotte a ottobre. Non è la prima intesa raggiunta negli ultimi mesi, in cui Pechino aveva già acconsentito a riprendere le esportazioni in cambio di alcune concessioni sugli scambi commerciali, senza che gli ostacoli alle esportazioni fossero mai del tutto eliminati. In particolare questo ultimo via libera non si è esteso ai produttori di armamenti occidentali a cui Pechino sta continuando a limitare le forniture di terre rare. Una disputa che, osserva il Wall Street Journal, mette in evidenza come le filiere militari statunitensi dipendano anche dalla Cina. Finora le aziende occidentali hanno faticato a replicare tecnologie avanzate, come quelle che rendono le aziende cinesi altamente competitive nell’estrazione con solventi, a causa di preoccupazioni ambientali ma anche della minore efficacia dell’intervento pubblico.
Il braccio di ferro sta quindi spingendo i Paesi occidentali a prendere in considerazione nuovi approcci. Uno dei vincitori di questa corsa al “reshoring” è indubbiamente MP Materials, un’azienda di Las Vegas che a luglio si è aggiunta al ristretto novero delle aziende private che hanno ricevuto un investimento diretto dal governo statunitense.
Il caso MP
Con una somma di 400 milioni di dollari il Pentagono è infatti diventato il principale azionista dell’azienda che gestisce l’unica miniera di terre rare degli Stati Uniti. Si tratta del sito di Mountain Pass, in California, sede negli anni ’70 e ’80 della più grande miniera di terre rare al mondo, che la forte concorrenza cinese, e il conseguente crollo dei prezzi, hanno portato alla chiusura nel 2002. Uno dei creditori dell’azienda a cui apparteneva la miniera, nel frattempo fallita, ha deciso di puntare sul rilancio del sito, arrivando poi a fondare MP Materials nel 2017. La speranza di James Litinsky era di cavalcare l’ascesa di Tesla e la crescente domanda di materiali per realizzare veicoli elettrici. Ma la concorrenza cinese, e il crollo dei prezzi delle materie prime, hanno ancora una volta complicato tutto, trascinando al ribasso le azioni della società, che hanno perso il 70 per cento del proprio valore tra il 2021 e il 2024. Con le tensioni degli ultimi mesi c’è stata però una svolta, tanto che da inizio anno il titolo ha guadagnato più del 200 per cento, con un balzo del 48 per cento dopo la notizia dell’accordo con il Pentagono.
Con l’investimento annunciato il 10 luglio il dipartimento della Difesa statunitense ha rilevato una quota del 15 per cento nella società, diventandone il principale azionista. Un tipo di interventismo a cui negli ultimi decenni a cui si è assistito solamente quando si è trattato di salvare di aziende di importanza sistemica, come durante la crisi del 2008, o, come in questo caso, per sostenere lo sviluppo di tecnologie ritenute cruciali per gli interessi nazionali.
Lo sfruttamento di Mountain Pass non sembra di per sé in grado di risolvere il problema delle terre rare negli Stati Uniti, dato che nella miniera sono presenti principalmente terre rare leggere e solo in misura minore terre rare pesanti, fondamentali per la produzione di magneti permanenti. L’aspetto più significativo dell’accordo sembra essere piuttosto nelle garanzie offerte dal governo statunitense, che promettono di cambiare il volto al settore. L’elemento centrale è la fissazione di un prezzo minimo per 10 anni dell’ossido di neodimio e praseodimio, usato nella produzione di magneti permanenti a loro volta impiegati nella produzione di motori elettrici e di turbine eoliche. Il prezzo di 110 dollari al chilo, è quasi il doppio di quello di mercato di circa 60 dollari, garantendo che l’azienda non subirà perdite in caso di un’improvvisa impennata dell’offerta di minerali.
La società cesserà inoltre di vendere a Shenghe, una società partecipata dallo stato cinese da cui MP lo scorso anno ha generato la maggior parte dei suoi ricavi, che detiene anche una quota minoritaria della stessa MP. Infine il dipartimento della Difesa garantirà per 10 anni l’acquisto di tutti i magneti prodotti in un nuovo impianto, chiamato 10X, che dovrà entrare in funzione a partire dal 2028, con un finanziamento di un 1 miliardo di dollari da JPMorgan e Goldman Sachs e l’obiettivo di portare la capacità di produzione di magneti della società a 10.000 tonnellate all’anno. Pochi giorni dopo l’annuncio, anche un colosso come Apple ha dichiarato che pagherà in anticipo 200 milioni di dollari per acquistare i magneti di MP Materials, che saranno utilizzati negli iPhone e nei suoi computer, con consegna a partire dal 2027.
La concorrenza di chi?
Questo livello di interventismo ha provocato più di qualche malumore tra i concorrenti all’interno del settore, da cui sono trapelate accuse al governo statunitense di voler distorcere il mercato e di inseguire il modello cinese. Un timore è che, grazie alle garanzie straordinarie offerte a MP, l’azienda avrà maggiore margine per fare proposte a ribasso, sbaragliando la concorrenza. Ma rimane la consapevolezza della necessità dell’intervento pubblico, anche se richiama l’approccio del principale partito comunista al mondo. «Sosteniamo costi maggiori e abbiamo un costo del capitale maggiore», ha dichiarato Neal Froneman, amministratore delegato del colosso minerario Sibanye-Stillwater, che prima dell’accordo aveva invocato in un’intervista al Financial Times l’adozione di un prezzo minimo, per sostenere investimenti che altrimenti non sarebbe possibile affrontare. «C’è bisogno di una qualche forma di sostegno per renderci competitivi, perché il modello è quello di un sistema capitalista occidentale. Gli azionisti pretendono rendimenti».
I partiti di maggioranza hanno deciso di creare un comitato unico per la campagna referendaria. Per la presidenza si pensa all’ex direttore del Giornale, ma anche a Cassese e Zanon. Nel Pd invece regna il terrore: nessun comitato per il No. I dem vanno al traino dell’Anm

(Ermes Antonucci – ilfoglio.it) – Impensieriti da alcuni sondaggi che riducono la forbice tra favorevoli e contrari, i partiti della maggioranza (su input di Fratelli d’Italia) hanno deciso di promuovere la creazione di un comitato unico del centrodestra per il Sì al referendum sulla giustizia. La caccia al testimonial è iniziata. Il sogno è Sabino Cassese, ma l’ex giudice della Corte costituzionale non sarebbe intenzionato a scendere in campo in prima persona. Un altro profilo quotato è quello di Nicolò Zanon, anche lui ex giudice della Consulta. Ma si fa spazio anche il nome di Alessandro Sallusti, fino al mese scorso alla guida del Giornale. A sinistra il Pd vive nel terrore: i dirigenti non se la sentono di istituire un comitato per il No per la paura della sconfitta. I dem vanno al traino dell’Anm. La rappresentazione plastica della subordinazione dell’opposizione alle toghe.
La decisione di istituire un comitato unico per il Sì al referendum è stata presa dai vertici dei partiti di maggioranza nel corso di una riunione tenutasi martedì nella sede romana di Fratelli d’Italia. Presenti Arianna Meloni (responsabile della segreteria politica e del tesseramento di FdI), Giovanni Donzelli (responsabile organizzazione di FdI), Galeazzo Bignami (capogruppo alla Camera di FdI), Enrico Costa e Pierantonio Zanettin (responsabili dei comitati per il Sì di Forza Italia, che lavoreranno insieme a Giorgio Mulè, nominato coordinatore della campagna referendaria), la deputata Simonetta Matone (Lega) e Gaetano Scalise (responsabile giustizia di Noi moderati). La creazione del comitato non rappresenta una retromarcia di Palazzo Chigi rispetto al proposito di non politicizzare l’appuntamento referendario: il comitato per il Sì, pur promosso dalle segreterie dei partiti di centrodestra, coordinerà la sua azione con quella degli altri comitati nati nel frattempo (il “Comitato per il sì” dell’Unione camere penali; “SìSepara”, istituito dalla Fondazione Einaudi; “Cittadini per il sì”, presieduto dalla senatrice Francesca Scopelliti, ex compagna di Enzo Tortora; il comitato “Giuliano Vassalli”, promosso da Stefania Craxi), e soprattutto non avrà alla sua guida un esponente di partito o politico.
Il sogno proibito, come detto, è Sabino Cassese, capace di unire autorevolezza ed efficacia comunicativa, ma avrebbe già fatto sapere di non voler fare campagna referendaria in prima persona, ancor di più se sotto l’ombrello partitico. Un altro nome di rilievo avanzato nel corso del vertice è quello di Nicolò Zanon, giudice costituzionale fino al novembre 2023. I magistrati in servizio favorevoli alla riforma non mancano, ma sono pochissimi quelli disponibili a esporsi (anche a causa del peso ancora esercitato dalle correnti, vere vittime dell’eventuale vittoria del Sì). A quanto risulta al Foglio, nella discussione è spuntato a sorpresa anche il nome di Alessandro Sallusti, che ha lasciato la guida del Giornale a fine novembre. Nei prossimi mesi Sallusti si dedicherà alla preparazione di uno spettacolo teatrale che debutterà a fine gennaio, ma anche – altra sorpresa – alla scrittura di un terzo libro con Luca Palamara incentrato sulle degenerazioni della magistratura e delle sue correnti, dopo il successo avuto con “Il sistema”.
A sinistra invece regna il terrore. Nel Partito democratico, Elly Schlein e gli altri alti dirigenti non sarebbero convinti dell’idea di istituire un comitato per il No, scelta che poi sarebbe coerente con il voto contrario alla riforma costituzionale espresso in Parlamento, per gli effetti che questo comporterebbe in caso di sconfitta al referendum. L’ennesima manifestazione di tanatosi: fingersi morti, come gli opossum, di fronte a una “minaccia” (se così può essere concepita l’idea stessa del fare politica, cioè portare avanti le proprie convinzioni pur con l’eventualità che queste poi si rivelino non maggioritarie).
D’altra parte, tra i dem è palpabile un certo imbarazzo, dal momento che la riforma della separazione delle carriere è stata proposta in passato da autorevoli esponenti proprio del centrosinistra: da Giuliano Vassalli ai parlamentari del Pds nella Bicamerale D’Alema, fino ad arrivare alla mozione Martina del 2019. Insomma, nel caso in cui il Pd istituisse un comitato per il No sarebbe difficile pensare di affidarne la gestione alla responsabile del partito, Debora Serracchiani, che nel 2019 fu tra i firmatari della mozione Martina che prevedeva espressamente la separazione delle carriere tra pm e giudici. In questo contesto, paradossalmente nel centrosinistra i più attivi sono quelli favorevoli alla riforma: il 12 gennaio a Firenze si terrà un evento dal titolo “La sinistra per il Sì”, che vedrà la partecipazione di volti storici del Pd, come Enrico Morando, Marco Boato, Giovanni Pellegrino, Cesare Salvi, Stefano Ceccanti, Anna Paola Concia.
Il principale partito di opposizione rischia così di presentarsi al referendum al traino dell’Associazione nazionale magistrati, che invece sta investendo moltissime risorse per finanziare le iniziative del suo comitato per il No. Uno scenario che decreterebbe la definitiva, surreale soggezione del Pd alla magistratura associata.