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AI e droni, a Gaza si è combattuta la prima guerra robotica della storia


Yaron Sarig, responsabile delle ricerche tecnologiche del Ministero della Difesa israeliano, ha fornito le prime informazioni sull’impiego di armi guidate dall’intelligenza artificiale durante le operazioni contro Hamas nella Striscia. In un video ha mostrato alcuni dei sistemi usati come bulldozers senza uomini alla guida

AI e droni, a Gaza si è combattuta la prima guerra robotica della storia

(di Gianluca Di Feo – repubblica.it) – Una guerra disumana, letteralmente: “Quella di Gaza è stata la prima guerra robotica della Storia”. Così l’ha definita Yaron Sarig, responsabile delle ricerche tecnologiche del Ministero della Difesa israeliano. Lo ha fatto all’Università di Tel Aviv durante la Defence Tech Week, tenendo una conferenza intitolata: “Robot e intelligenza artificiale: dalla teoria al campo di battaglia”. Sarig ha fornito le prime informazioni sull’impiego di armi guidate dall’AI durante le operazioni contro Hamas nella Striscia, spiegando che sono state frutto di “vent’anni di ricerche”. In un video ha mostrato alcuni dei sistemi usati durante la campagna a Gaza: bulldozers e veicoli blindati M113 senza uomini alla guida, oltre a piccoli veicoli a otto ruote motrici, alcuni dei quali dotati di mitragliatrice.

L’orchestra degli automi

Sono solo una parte della falange di automi schierati dalle Israeli Defence Forces per penetrare nei centri abitati palestinesi durante la lunga e devastante operazione nella Striscia. Quello che Sarig ha sottolineato non è il ruolo dei singoli robot, quanto la capacità di farli agire tutti insieme “come un’orchestra”. Squadre di M113 senza equipaggio che si coordinavano per aprire una strada all’interno di una zona abitata; mezzi ruotati telecomandati che rifornivano di cibo e munizioni i reparti appostati in basi fortificate all’interno delle città. “Abbiamo visto questi assetti operare in praticamente tutti i reparti”, ha spiegato Sarig, sottolineando che sono in grado di agire anche dove le coordinate Gps vengono azzerate dalle contromisure e che dispongono di “un certo numero di sensori di nuovo tipo”.

Controllo totale sulla Striscia

Questa onnipresenza dei robot è stata agevolata dal flusso colossale di dati raccolti dagli israeliani grazie a “decine di migliaia di ore di volo” dei droni in aria e “migliaia di ore di attività“ di macchine autonome presenti sul terreno. Molti analisti ritengono che sia proprio la capacità di gestire in sciame i sistemi unmanned il settore in cui Israele ha una superiorità rispetto a qualsiasi altro Paese. Gli ucraini e in misura minore i russi hanno impiegato droni volanti e terrestri in manovre combinate, oltre a sviluppare coppie di mezzi che interagiscono tra cielo e suolo. Ma riescono a farlo solo in spazi ristretti e per periodi limitati. A Gaza invece la falange delle macchine autonome è stata sempre in azione, garantendo il controllo della Striscia pure nelle zone dove i soldati e i tank non riuscivano a penetrare. Questo ha ridotto i rischi per i militari in carne e ossa, che hanno affidato ai droni qualsiasi attività pericolosa. Si è visto pure nei filmati dell’uccisione del capo di Hamas, Yahya Sinwar: il terrorista ferito – e non riconosciuto – è stato avvicinato da un quadricottero, contro cui ha tirato un bastone, e poi ammazzato sparando una cannonata.

L’esercito dell’AI

Sarig non ha parlato di alcuni episodi emersi durante il conflitto, come l’uso degli M113 robotizzati e imbottiti di esplosivo per far saltare in aria interi isolati di Gaza City durante l’ultima fase della guerra. Il responsabile del ministero della Difesa ha anticipato altri sviluppi: “Siamo solo all’inizio di questa rivoluzione. Nei prossimi anni, spinti dalle necessità operative, espanderemo in maniera significativa le nostre capacità operative. I robot serviranno come ponte decisivo verso il mondo dell’intelligenza artificiale che, guardando al futuro, sarà integrata in ogni armamento e nelle dotazioni di ogni soldato”. Nella stessa conferenza il generale Oren Giber, responsabile del direttorato del ministero della Difesa che si occupa di mezzi corazzati ha presentato quali saranno i carri armati israeliani del 2030: ogni tank sarà accompagnato da un gregario-robot, che potrà anche lanciare piccoli droni volanti e combattere sincronizzandosi con il resto delle forze.

Le unità Bina e Sphera

La scorsa settimana Israele ha annunciato la nascita di una nuova branca del ministero della Difesa che dovrà gestire tutte le iniziative nel campo dell’AI: è stata chiamata Bina, il termine ebraico per intelligence, e avrà alle dipendenze le strutture già esistenti. Il generale Aviad Dagan, capo della rete di comunicazione e cyber, ha detto che l’obiettivo è costruire una “macchina efficiente” per i decenni a venire: “Trasformerà un tank in cento carri armati, un soldato in cento combattenti”. La testata online Ynet ha spiegato che è stata creata anche un’unità segreta chiamata Sphera che si occupa di comunicazioni strategiche ma ha assorbito il reparto incaricato delle contromisure elettroniche che hanno fermato un quarto dei droni lanciati contro Israele negli ultimi due anni. Un altro raggruppamento – la Manpower Building Division – condurrà i processi di preparazione delle forze, incluse le collaborazioni digitali all’interno delle IDF e dell’industria nazionale e internazionale. Tutte queste trasformazioni organizzative sono basate soprattutto sull’esperienza della guerra contro l’Iran, mentre non viene fatta menzione dei bombardamenti su Gaza.

Le stragi decise dai software

Nei due mesi immediatamente successivi ai massacri jihadisti del 7 ottobre 2023, l’utilizzo di sistemi di intelligenza artificiale da parte delle IDF per individuare e localizzare i membri di Hamas è stato rivelato da più inchieste giornalistiche israeliane e statunitensi che hanno messo in luce una serie di gravissimi errori, sia nell’accertare il ruolo di singole persone nell’organigramma della formazione terroristica sia nel valutare il numero di civili che sarebbero stati messi a rischio dagli attacchi aerei. Questi software avrebbero contribuito a uccidere 15 mila palestinesi entro il 25 novembre 2023, un quarto di quelli ammazzati nei successivi 21 mesi stando ai dati del ministero della Salute di Hamas. L’impiego degli algoritmi per decidere chi colpire e per calcolare i civili presenti nell’area è stato successivamente ridotto, rafforzando le verifiche affidate a personale dell’intelligence. Il ritmo dei bombardamenti è statisticamente diminuito: il risultato finale – 65 mila morti e 165 mila feriti – resta terrificante.


Trump ha sedotto i poveri per dare ai ricchi


(di Edward Luce – il Financial Times) – Musk e Trump sono destinati a restare vicini. In quanto principale broligarch d’America, Musk è troppo scintillante perché Trump lo ignori a lungo.

Musk può flirtare con un terzo partito, denunciare la sconsideratezza fiscale di Trump e persino sostenere che Trump abbia ragioni personali per sopprimere i file Epstein, ma il figliol prodigo può sempre trovare la via del ritorno.

Hanno troppi nemici in comune. Lo stesso vale per Trump e il resto della “broligarchia”. Quando gli storici valuteranno quest’era del populismo americano, i plutocrati della Silicon Valley saranno quasi certamente considerati i suoi vincitori.

La base operaia di Trump sembra iniziare a capirlo. Sebbene ora dica di volerle rilanciare, il presidente USA ha praticamente smesso di tenere comizi MAGA. Eppure, non passa giorno senza che sia in qualche modo appartato con uno dei suoi alleati della Silicon Valley.

Oltre a Musk, David Sacks, lo zar dell’AI della Casa Bianca, e Jensen Huang, CEO di Nvidia, sono raramente lontani dallo Studio Ovale. Ottengono ciò che vogliono. Trump prevede di emettere un ordine esecutivo che vieti ai 50 Stati americani di regolamentare l’AI.

Ci dovrebbe essere una sola norma nazionale e nient’altro, dice. Poiché non c’è alcuna prospettiva di regolamentazioni federali serie, le aziende dell’AI continueranno ad avere carta bianca.

La corsa all’oro dell’AI ha sostenuto la crescita statunitense, quasi la metà della quale quest’anno è derivata dall’alimentare i modelli linguistici di grandi dimensioni. Ma non sta andando a genio all’elettore medio.

Una profonda diffidenza verso l’AI è uno dei pochi temi che unisce elettori repubblicani e democratici.

Alcuni americani attribuiscono correttamente l’aumento delle bollette elettriche all’impatto dei data center energivori dell’AI. Molti temono che l’AI li priverà di lavoro e reddito.

Più l’AI si infiltra nella vita delle persone, più sarà difficile dare la colpa agli immigrati per le loro disgrazie. La distante Europa offre un capro espiatorio ancora più debole. Il costo della cattura di Trump da parte della Silicon Valley si riflette nel calo dei suoi indici di gradimento.

Se Trump seguisse il mercato, si concentrerebbe sul costo della vita. È ciò che ha trainato le vittorie democratiche nelle elezioni intermedie dello scorso mese e potrebbe essere decisivo per le elezioni di metà mandato del prossimo novembre.

Eppure Trump continua a liquidare la crisi dell’accessibilità come fake news. Avvicinandosi al suo 80º compleanno, la sua capacità di leggere l’opinione pubblica sembra diminuire.

Un numero crescente di repubblicani ora si sente in grado di opporglisi. Il ritiro di Marjorie Taylor Greene dal Congresso è un modo per evitare il treno elettorale che vede arrivare. La sua mossa è stata anche una candidatura al futuro del movimento MAGA, che contrapporrà sempre più la base ai broligarchs.

La base ha più persone, ma sarebbe comunque intelligente puntare sui broligarchs. Con fugaci eccezioni rooseveltiane, l’odissea capitalista americana riguarda i proprietari del capitale che trovano modi per mettere gli svantaggiati del lavoro gli uni contro gli altri. Le linee di faglia sono razziali e culturali.

Data la potenza delle piattaforme tecnologiche nel trasformare le divisioni sociali in armi, le probabilità che continuino a riuscirci sono alte. La base MAGA ha creduto a Trump quando ha promesso di abbassare i prezzi e di inaugurare una nuova età dell’oro. Chi può dire che non continuerà a cascarci? Gli effetti delle guerre tariffarie di Trump hanno colpito i loro bilanci familiari, ma hanno lasciato Big Tech largamente indenne.

Eppure i baroni predoni americani del XXI secolo offrono un bersaglio politico irresistibile. Dopo essere stati i promotori della Silicon Valley sin dai tempi di Bill Clinton, i democratici stanno vivendo un rimorso latente.

Invece di essere una meteora politica, Zohran Mamdani, il nuovo sindaco di New York, sembra più un possibile apripista. Anche i centristi, come James Carville, il responsabile della campagna “è l’economia, stupido” di Clinton, suonano radicali. “È tempo che i democratici abbraccino una piattaforma ampia, aggressiva, non edulcorata, senza scuse e del tutto inequivocabile di pura rabbia economica”, ha scritto Carville sul New York Times. “Questa è la nostra unica via d’uscita dall’abisso.”

L’Europa, nel frattempo, ha ricevuto tutti gli avvertimenti. Negli Stati Uniti, Trump ha lasciato ai broligarchs campo libero. Dall’altra parte dell’Atlantico, vedono solo ostacoli da eliminare.


Trump vuole un diritto internazionale su misura


(ANSA) – WASHINGTON, 10 DIC – L’amministrazione Trump vuole che la Corte penale internazionale (Cpi) modifichi il suo documento fondativo per garantire che non indaghi sul presidente repubblicano e sui suoi alti funzionari, minacciando altrimenti nuove sanzioni contro la corte: lo scrive la Reuters citando un dirigente del governo Usa.

Se la corte non darà seguito a questa richiesta e ad altre due – interrompere le indagini sui leader israeliani per la guerra di Gaza e porre formalmente fine a una precedente indagine sui militari Usa per le loro azioni in Afghanistan – Washington potrebbe penalizzare ulteriori funzionari della Cpi e sanzionare la corte stessa.

Sanzionare la corte rappresenterebbe un’escalation significativa della campagna statunitense contro la corte, che è stata a lungo criticata da funzionari statunitensi, sia repubblicani sia democratici, i quali sostengono che la corte violi la sovranità degli Stati Uniti.

La fonte ha detto che Washington ha comunicato le sue richieste ai membri della Cpi, alcuni dei quali sono alleati degli Stati Uniti, e le ha rese note anche alla corte. Gli Stati Uniti non sono parte dello Statuto di Roma che ha istituito la Cpi nel 2002 come tribunale di ultima istanza, con il potere di perseguire anche i capi di Stato.


Corruzione, una piaga mai sanata…


(Dott. Paolo Caruso) – Ieri 9 dicembre è stata celebrata la giornata internazionale contro la corruzione, ricorrenza annuale voluta dalle Nazioni Unite dal 31 ottobre 2003 per sensibilizzare la società sulla importanza di combattere questo fenomeno. Questa piaga molto diffusa mina le Istituzioni e i valori della democrazia, i valori etici e della giustizia, provocando serie minacce alla stabilità e alla sicurezza sociale. Infatti permette alla criminalità organizzata, a personaggi legati al Potere e a certa imprenditoria di lucrare e di distorcere il mercato, violando i diritti umani, erodendo la qualità della vita. Quest’anno l’ apposita graduatoria internazionale della corruzione vede l’ Italia scivolare di dieci posizioni, al cinquantaduesimo posto su centoottanta. Libera ha censito da notizie di stampa 96 casi di corruzione e concussione nei primi undici mesi del 2025, con un incremento sensibile rispetto allo scorso anno. Un quadro allarmante che interessa l’ Italia intera da nord a sud.
Corruzione e evasione rappresentano il modus operandi di una società perversa come quella dell’italica gente, le due facce illegali della stessa “moneta”. Un tarlo che a poco a poco ha logorato il telaio socioeconomico della Nazione, alterando le stesse regole del vivere civile. Un vero e proprio cancro la cui capillarità è diventata oggi un vero problema sociale. L’evasione fiscale (100 miliardi di euro l’ anno sottratti al fisco) e la corruzione (in maniera più subdola) sono aumentate notevolmente nel corso degli anni e nulla o poco è stato fatto per ridurre il fenomeno. Anzi con la “Schiforma” Cartabia e con la riforma Nordio si sono favoriti tali episodi. Opportunità corruttive che hanno permesso di depredare sempre più soldi alla collettività a favore di insospettabili “maneggioni”. A volte le classi imprenditoriali che dovrebbero rappresentare gli interessi e le fondamenta di crescita economica di una Nazione sono le prime ad attuare fenomeni corruttivi cercando di accaparrarsi più facilmente appalti nella pubblica amministrazione. Un sistema perverso che porta spesso a stringere accordi con le mafie. Basterebbe che l’ attuale politica del “fare” invece di strombazzare a destra e a manca terapie miracolose per la risoluzione definitiva di questa piaga sociale, attuasse finalmente riforme efficaci in grado di contrastare la corruzione, l’evasione in tutte le sue componenti, “economia sommersa” e “riciclaggio”, che si potrebbe porre la parola fine a questo sistema che incoraggia e continua a privilegiare politici, imprenditori e malavitosi.


Ratatà


(Giancarlo Selmi) – “Donne sull’orlo di una crisi di nervi”. Il titolo di un bel film di Pedro Almodovar. Da oggi, ma non solo, categoria alla quale andrebbe assegnata la Ridens Panella. Perché, francamente, dopo aver visto lo spettacolo offerto oggi dalla sua trasmissione ma, soprattutto, il suo atteggiamento, fra risate che definire sguaiate pare tutt’altro che un’esagerazione e squallidi, rivoltanti e violentissimi attacchi, peraltro in assenza, a Giuseppe Conte e all’intera comunità del Movimento 5 Stelle, il sospetto che fosse in preda a una crisi di nervi, è forte.

Fra ironie tutt’altro che sottili, non ne è capace, e accuse di vario tipo mosse in collaborazione con il pessimo Goffredo Buccini e il sempre più comico (involontariamente) Senaldi, in una sorta di compromesso storico fra un fascio, un democristiano di destra e una fervente sostenitrice di una inesistente, oltre che pseudo, sinistra un tanto all’etto di caviale. I tre appassionatamente uniti dal disprezzo verso chi non la pensa come loro. E questa volta non si è salvato neppure l’elettorato del Movimento 5 Stelle, dileggiato e offeso.

L’elettore, quindi anch’io, paragonato a quello della lega, con un’approssimazione, una leggerezza e una più che evidente ignoranza. Secondo la tesi di Buccini e della Ridens Panella, tesi sottolineata e confermata non solo dagli assentimenti, ma anche dalle inutili e volgari risate di quest’ultima, il sottoscritto, insieme a chiunque voti il Movimento, sarebbe vicino e somigliante a un elettore della Lega. Mi chiedo fino a quando a un giornalista televisivo verrà consentito di offendere e di mortificare in questo modo.

Oggi si è veramente toccato il fondo. Posso capire l’innamoramento della Ridens per la guerra, anche quello per uno dei principali guerrafondai; posso capire che lei voglia manipolare e portare sulle sue posizioni i telespettatori perché così la pensa, così prende il bonifico, così gli sarà stato ordinato, ma ridicolizzare in quel modo, umiliare in quel modo, la passione, le idee, le convinzioni di una comunità politica intera, fatta di milioni di persone pensanti, sottolineo pensanti, è un’operazione tanto squallida, tanto di retroguardia, quanto fascista. Andrebbe querelata.

Il gabinetto di guerra di oggi ha prodotto intolleranza, dualismo, manicheismo e una totale mancanza di rispetto. Negli studi di Tagadà la guerra è cominciata, ma non solo ai russi, la guerra è stata dichiarata alla pace, al pacifismo e a chi non la pensa come la ridente conduttrice. Le consiglio di cambiare il nome della trasmissione da Tagadà a Ratatà, sarebbe un titolo molto più azzeccato.


In pochi giorni due scandali sanitari: finirà mai il mercimonio dei pazienti?


(Domenico De Felice, Medico) – Ci risiamo. In due giorni due scandali enormi nella sanità a distanza di 600 chilometri. Un comune denominatore: la mancanza di controlli adeguati sulle prestazioni sanitarie, pubbliche e private. Un sistema senza fine in cui il paziente non è l’unico beffato, per l’assistenza medica confusa con il guadagno, ma anche il Sistema Sanitario Nazionale viene utilizzato per “deviare” verso il privato ed il cittadino, se paziente, ci casca due volte nella stessa falla.

Partiamo da Milano e dal fiore all’occhiello del gruppo San Donato, il privato accreditato più grande ed influente d’Italia con capitali anche arabi. Al San Raffaele è stata usata una cooperativa di infermieri al terzo piano nella zona della medicina di cure intensive senza esperienza clinica con conseguenti elevati rischi per il paziente. La scelta è stata del nuovo, ma già allontanato, amministratore delegato posto solo a maggio ai vertici della struttura. Come si può far scegliere professioni mediche ad una persona che conosce, forse, solo ruoli amministrativi e di guadagno per l’azienda?

Ora parliamo di Roma e di un caso forse ancora peggiore. Un primario di un ospedale pubblico è stato arrestato in flagranza di reato mentre riceve da un imprenditore 3.000 euro in contanti ma gliene vengono contestati 700.000 fra soldi, auto di lusso, affitti, vacanze da sogno e contratti di lavoro per la sua compagna, medico specializzanda.

In questo caso venivano “sfruttati” pazienti nefropatici convogliati, dopo il ricovero ospedaliero, verso dialisi in strutture private con cui – secondo le accuse – il primario aveva instaurato un vero e proprio do ut des, ben sapendo che le nuove linee guida consigliano per il paziente di organizzare a domicilio questo importante tempo da dedicare alla pulizia del sangue fonte di vita. In Europa circa il 35% dei dializzati esegue la dialisi a domicilio confronto a circa il 9% italiano con evidente risparmio del Sistema Sanitario nazionale e degli infermieri che possono essere destinati ad altro.

Ma finché medici che si devono vergognare di esserlo continueranno a rimanere impuniti, fra lunghezze burocratiche della magistratura e deficienze degli ordini dei medici, non abbiamo possibilità. Passerà del tempo, si dimenticherà, nessuna punizione adeguata verrà inflitta per il mercimonio dei pazienti che diventono oggetti, non soggetti, tutto fino alla prossima volta. Senza fine.


Il governo tutto “ordine e disciplina” ha fatto incazzare anche… le forze dell’ordine


La delusione delle forze dell’ordine. Andranno in pensione più tardi. Sei mesi in più dal 2028: il governo dice no alla richiesta di stop dei sindacati del comparto sicurezza. Malumori anche su stipendi e organici. Silp Cgil: “Occasione persa”

INCONTRO A PALAZZO CHIGI TRA GOVERNO E SINDACATI DEL COMPARTO SICUREZZA

(di Valentina Conte – repubblica.it) – ROMA – Non è solo la Cgil a dire che l’incontro di ieri tra il governo e i sindacati del comparto sicurezza è stato «un’occasione persa, solo promesse». Tutte le sigle – ben 46 in rappresentanza di forze armate, polizia di Stato, carabinieri, guardia di finanza, polizia penitenziaria e vigili del fuoco, per un confronto durato quasi quattro ore a Palazzo Chigi – concordano su un punto: no ai sei mesi in più per andare in pensione dal 2028. E chiedono al ministro dell’Economia Giancarlo Giorgetti, presente al tavolo insieme ai ministri Piantedosi e Zangrillo, di cancellare la norma in manovra. La risposta su questa e altre richieste è stata negativa.

In pensione più tardi dal 2028: sei mesi in più

Il rifiuto sull’articolo 42, che porta l’età pensionabile in alto anche per chi lavora in strada, ha unito sigle tradizionalmente distanti tra loro. «Non è tollerabile che a chi ha servito lo Stato per trent’anni venga riservata una pensione da indigente», attacca il Coisp, sindacato vicino all’area Fratelli d’Italia. «L’aumento è in spregio alla specificità della divisa prevista dalla legge 183 del 2010», incalza il Sap, collocato in area Lega. Il Siulp, di area centrodestra, si unisce criticando l’assenza di impegni concreti. Mentre Silp Cgil, contrario alla manovra in più punti, definisce l’incontro «un nulla di fatto» e annuncia che i poliziotti, liberi dal servizio, aderiranno allo sciopero generale di venerdì 12.

Oltre alla pensione, il fronte delle critiche si allarga su straordinari non pagatiindennità ferme a 8 euro al giorno per l’ordine pubblico e organici carenti. «È urgente sbloccare i pagamenti del lavoro straordinario del 2024 e 2025», dice ancora il Coisp. Il Sap chiede «il ripianamento degli organici carenti di circa 10mila unità» e contesta «spese di missione tassate nonostante siano anticipate di tasca propria dagli operatori».

Per i vigili del fuoco, la Cisl Fns rivendica l’aumento delle risorse e la tutela della salute dopo l’allarme sulla presenza di sostanze cancerogene Pfas nei dispositivi di protezione. Altra richiesta emersa, quella di separare tavoli e regole negoziali tra sicurezza e difesa, sia per funzioni differenti sia per evitare che le logiche militari prevalgano sulle carriere e sulle previdenze delle forze civili. «Non si può trattare con lo stesso approccio comparti con missioni e ordinamenti profondamente diversi», avvertono i sindacati di polizia, vigili del fuoco e penitenziaria.

Le non risposte del governo

Sul fronte delle risorse, il governo rivendica i fondi aggiuntivi già stanziati dalle manovre precedenti. E che «nuovi spazi potranno aprirsi solo dopo la chiusura della procedura europea per deficit eccessivo». Cita il decreto Anticipi, che copre straordinari e un semestre di arretrato contrattuale. Ricorda le 2mila assunzioni nella polizia penitenziaria e il piano da 11mila posti nelle carceri entro il 2027. Ma sulla previdenza dedicata e sull’aumento dell’età pensionabile, chiusura netta. Il governo non modifica la linea della manovra. E quindi mezzo anno in più dal 2028.


Dentro Passaggio al Bosco: tra maschi tribali in tunica con lo spacco e i tacchi, legionari…


Ho visitato il sito di Passaggio al Bosco per dare un’occhiata al catalogo. Grafica da Foro Italico, omosessualità legionaria, e pochi autori di rilievo. Si trova di meglio nelle case editrici mainstream

(di Ottavio Cappellani – mowmag.com) – Come tanti altri lettori, non avevo mai sentito parlare di Passaggio al Bosco, così ho deciso di dare un’occhiata al sito di questa casa editrice che tanto ha fatto discutere e tanti litigi ha causato in queta edizione di Più Libri Più Liberi. Non è stato facile: il sito è tornato più o meno praticabile oggi. Fino a ieri, evidentemente, il server che lo ospita non era in grado di gestire questo flusso anomalo di visite, e per prima cosa mi appare un’avvertenza che recita: “Info dal magazzino. A causa delle centinaia di ordini pervenuti, l’evasione degli stessi richiederà 48/72 ore più del solito”: complimentoni al boicottaggio!
In home page, i primi quattro titoli che compaiono sotto la dicitura Bestsellers (nota: le parole straniere in italiano si scrivono sempre al singolare, quindi dovrebbe andare via quella “s”, e non si capisce perché non usare la dicitura “i più venduti”: state tanto a parlare di identità nazionale e poi “bestsellers”, col sibilo finale). Il più venduto in assoluto, tanto da essere “esaurito”, è “L’ultima raffica” di Antonio Guerin (che a me sembrava uno pseudonimo, dato “Il Guerrin Meschino”, titolo di un’opera cavalleresca del 1410 di Andrea da Barberino, da cui prese il nome anche “Il Guerin Sportivo”, per sottolineare l’indole battagliera del giornale) ed è “il racconto, tormentato e commovente, di una pagina di storia della guerra civile. È la cronaca romanzata dell’eroica resistenza degli ultimi fascisti: un pugno di giovani volontari delle Brigate Nere, tra i quattordici e i diciannove anni, chiamati a presidiare un casolare tra le montagne del Nord Italia. Una storia di coraggio e di abnegazione che lascia ammutoliti, dove la vita e la morte si mescolano al senso dell’onore e al rispetto della parola data, all’amor di Patria e alla spartana volontà di donare se stessi”. Immagino che tutti conosciate i libri di Sven Hassel, una saga di romanzi di guerra i cui protagonisti sono nazisti, che cominciò con il bestseller “Maledetti da Dio” e che sono pubblicati da Rizzoli. Magari, chi cerca romanzi d’armi e di battaglie narrate da un punto di vista tedesco, potrebbe preferire “Nelle tempeste d’acciaio” di Ernst Jünger: «Un insopportabile lezzo di cadaveri si levava da quei ruderi, perché i primi bombardamenti avevano sorpreso gli abitanti nelle loro case, seppellendone un gran numero sotto le macerie prima ancora che avessero avuto il tempo di allontanarsi e di mettersi in salvo. Una bambina giaceva davanti a una porta in un lago di sangue».
Altro titolo che campeggia tra i bestseller(s) è “Psicologia Oscura – Sesso e Seduzione”. L’autore si fa chiamare “Diventa Semidio” (Diventa, nome; Semidio, cognome) e dalla descrizione sembra, questo sì, “Cinquanta sfumature di grigio” venuto maluccio.

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Jack Donovan

Abbiamo ancora: “La Via degli Uomini”, di Jack Donovan, che (fonte Wikipedia, ma probabilmente Wikipedia fa parte del complottone per annientare l’uomo vero che non deve chiedere mai – magari un consensino ci vorrebbe, che dite – e che si spruzza il Denim) è stato in vari momenti suprematista bianco, per la privazione dei diritti delle donne (hai capito), è stato affiliato ai Lupi di Vinland, associazione neopagana norrena. Ovviamente gli piace fare ficchi ficchi con altri uomini, ma ha voluto ribaltare il concetto di gay, nel libro “Androphilia: A Manifesto: Rejecting the Gay Identity, Reclaiming Masculinity”; insomma, lui non è gay ma è amico dei maschi. Ha lavorato nei gay club come ballerino, ha scritto di argomenti legati al satanismo (immagino come traslitterazione moderna della vikinghitudine), si è definito “tribalista maschile” (molto ficchi ficchi) e ha promosso una versione della supremazia maschile che si concentra sul suo odio per l’“effeminatezza”, il femminismo e la debolezza, insomma tutta quella estetica un po’ legionaria, un po’ Foro Italico (più nel senso di foro che nel senso di italico) che ben conosciamo, ma che infine, voglio dire, sono gli operai sudati muscolosi, e i poliziottoni e gli indiani… insomma è un Village People. La prefazione è di Francesco Borgonovo. Olè.
Si finisce la rassegna dei bestsellers con “L’inganno antirazzista”, solito libro contro il multiculturalismo che ucciderebbe l’identità dei popoli (cose che, essendo siciliano, mi interessano poco: qui siamo tutti un po’ imbastarditi).

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La via degli uomini, di Jack Donovan, con la prefazione di Francesco Borgonovo

Vabbè, questo, accompagnato da una grafica sempre molto Foro Italico–legionaria, dovrebbe essere un po’ il “mainstream” della casa editrice: nostalgici guerriglieri che ricordano al bar quando erano in guerra e come erano battaglieri e feroci; culturisti che con la scusa della “tribù” e dell’antifemminismo giocano alla cavallina tra loro (anche se loro sostengono – legittimamente – che giocare alla cavallina tra maschi è una maniera per tornare alle vere radici dell’identità maschia e guerriera – suppongo); un po’ di Mister Gray che sottomette Anastasia; un po’ identità italica pura DOC, DOCG e pure DOP.
Niente che potesse interessarmi davvero.
Così ho fatto un giro nelle numerose collane, dove si fa dall’arte battagliera a quella guerrigliera urbana: sport, molto sport, così ti viene il corpo sano intorno alla mente sana; vari riti del solstizio, inni al sole, tuniche, tunichette, falò, spiriti vari della terra, tradizioni e certo molte radici, ritorni e controritorni, il tutto sotto l’egida di questo nome “Passaggio al Bosco”, che altro non è che il titolo di un libro di Ernst Jünger, pubblicato da Adelphi con il titolo “Trattato del Ribelle”.
Ecco, saliamo un po’ di livello. Diciamo che non ho trovato nulla che potesse completare la lista degli autori che conosco bene, e che ho trovato tranquillamente in case editrici molto meno right oriented. Carl Schmitt l’ho letto in Adelphi e in edizioni Il Mulino. Martin Heidegger viene pubblicato ovunque. Ernst Jünger anche. Gottfried Benn molto in Adelphi, Mircea Eliade molto in Bollati Boringhieri, e anche Jaca Book, e qualche Edizioni Mediterranee. Ezra Pound – andiamo veloce – Louis-Ferdinand Céline, Julius Evola, René Guénon, Emil Cioran, Georges Bataille, persino Knut Hamsun si trovano editati e pubblicati in case editrici non schierate, o addirittura schierate a sinistra. Ecco, dopo quest’oretta trascorsa a passeggiare nel boschetto villoso di “Passaggio al Bosco”, sono rimasto con due impressioni.
La prima – certo, posso sbagliarmi – è che Zerocalcare legge solo fumetti. La seconda è che “Passaggio al Bosco” sia un po’ una Adelphi che non ce l’ha fatta.


Servilismo meloniano


Questa mattina i giornali governativi esaltano la Meloni perché ha incontrato Zelensky e questo la renderebbe “centrale nella politica internazionale e nella diplomazia”.

(Alessandro Di Battista) – Questa mattina i giornali governativi esaltano la Meloni perché ha incontrato Zelensky e questo la renderebbe “centrale nella politica internazionale e nella diplomazia”. Siamo alle comiche. Come se incontrare Zelensky, ora debolissimo, fosse un segno di forza. La verità è che Meloni non ha mai toccato palla in questi anni sulla guerra in Ucraina e questa è una colpa che si porterà dietro per sempre.

È aiutata dal fatto che pochissimi politici e giornalisti le ricordano le sue immense responsabilità. Proprio per il rapporto storico che il nostro Paese ha sempre avuto con l’URSS prima e con la Russia poi, l’Italia avrebbe dovuto immediatamente scegliere la linea neutrale e proporsi come mediatrice nella guerra in Ucraina. L’Italia, lo ricordo, faceva affari con l’URSS anche quando il mondo era diviso in blocchi. Enrico Mattei, a parole elogiato dalla Meloni, comprava gas dai sovietici quando l’Armata Rossa invadeva Budapest o quando Mosca annunciava la costruzione del Muro di Berlino. Gianni Agnelli, il simbolo del capitalismo italiano, faceva affari su affari con Mosca mentre le guardie sovietiche sparavano ai tedeschi che cercavano di scavalcare il Muro. L’Italia era allora infinitamente più autonoma e sovrana di quella attuale. E la cosa ridicola è che questo governo di camerieri viene definito sovranista.

Nel maggio del 1966 venne firmato a Mosca un accordo tra Aleksandr Tarasov, ministro dell’industria automobilistica dell’URSS, e Vittorio Valletta, presidente della Fiat, per la realizzazione di un immenso stabilimento automobilistico a Togliatti, una città russa che si trova lungo il Volga. Il 2 febbraio del 1967, Nikolaj Viktorovič Podgornyj, Presidente del Presidium del Soviet Supremo dell’URSS, in visita ufficiale in Italia, visitò lo stabilimento Fiat di Mirafiori accompagnato da Andreotti, all’epoca ministro dell’Industria, e da Giusto Tolloy, ministro per il Commercio con l’estero. Venne accolto calorosamente dall’Avvocato Agnelli che volle ribadire la solidità delle relazioni industriali tra l’Italia e l’URSS. E gli affari proseguirono anche quando, a seguito della Primavera di Praga, i carri armati del Patto di Varsavia entrarono a Praga per sedare le sacrosante richieste di libertà dei giovani cecoslovacchi. Alcuni mesi dopo, un giovane studente cecoslovacco, Jan Palach, si diede fuoco per protestare contro l’occupazione sovietica del Paese. Ecco, mentre avveniva tutto questo, l’Italia faceva affari con Mosca.

Queste relazioni, solide, vantaggiose per entrambi, capaci di resistere anche ai venti più tragici della Storia, avrebbero dovuto spingere i governanti italiani a portare avanti una linea del tutto diversa da quella sostenuta nei primi anni di guerra da Biden e Ursula von der Leyen.

Ma prima Draghi e poi la Meloni non hanno fatto altro che ubbidire agli ordini NATO e UE, esponendo l’Italia ai contraccolpi economici ed energetici e al rischio di una sconfitta in Ucraina che la Meloni forse oggi ha capito che potrebbe trasformarsi in disfatta.

Oggi, soltanto oggi, e solo perché Trump ha compreso la realtà, la Meloni prova a smarcarsi da Bruxelles. Ma è la stessa Meloni che ha pubblicamente “scommesso sulla vittoria di Zelensky” decine di volte, che ha armato Kiev senza dire agli italiani cosa stessimo inviando. È la stessa Meloni che ha accettato di smettere di comprare gas russo e di sostituirlo con il gas liquido americano. È la stessa Meloni che, il 20 marzo del 2024, disse queste parole ridicole: “Putin durante il G20 sosteneva una tesi del tipo: noi vorremmo la pace ma gli altri non la vogliono, e gli ho risposto: è molto facile, ritiri le truppe e avrà la pace come lei ha voluto la guerra”. Avete letto bene. Nel marzo del 2024 sosteneva che c’era un modo per ottenere la pace: il ritiro di Mosca.

Ieri ha parlato con Zelensky di “concessioni dolorose”. Capito sì? Una delle artefici della sconfitta UE in Ucraina oggi suggerisce a Zelensky di cedere perché vuole il bacetto sulla fronte da Trump dopo aver ottenuto, come sempre grazie alla vile ubbidienza, quello di Biden.

La Meloni in questi anni non ha fatto nulla a parte ubbidire. Non ha mai avuto una linea propria. Quando la Casa Bianca sosteneva Kiev con armi e centinaia di miliardi lei stava dalla parte della Casa Bianca. Adesso che alla Casa Bianca c’è un presidente che per affarismo, amore per Putin, realismo e chissà, anche perché ha capito che la situazione potrebbe davvero degenerare, spinge per un negoziato, lei sta con la Casa Bianca. Ma vi dico questo: se le elezioni le avesse vinte la Harris (e grazie a Dio non le ha vinte lei) la Meloni oggi ubbidirebbe alla Harris come ha fatto a Biden, della quale la Harris era vicepresidente.

“Ora, questo tiranno solo non è necessario combatterlo, né abbatterlo. Si dissolve da sé, purché il Paese non accetti di essergli asservito. Non si tratta di togliergli qualcosa, ma di non dargli nulla”, scrive Étienne de La Boétie nel Discorso sulla servitù volontaria. Sono convinto che se l’Italia si fosse comportata davvero in maniera autonoma, davvero in maniera sovrana, non solo si sarebbe portata dietro altri Paesi UE che boccheggiano per via della guerra Russia-NATO in Ucraina, ma che alla fine la stessa Casa Bianca avrebbe accettato una maggiore indipendenza decisionale dell’Italia. Certo, la nostra sovranità è ancora limitata, ma siamo diventati colonia USA più per pavidità propria che per pressioni altrui. E la Meloni, la regina del finto sovranismo, è uno dei massimi artefici di questa fine ingloriosa del nostro Paese. E in tal senso è anche comprensibile che Trump tratti l’UE da serva, perché i servi vanno trattati da servi se preferiscono, per carriere personali, servire nazioni straniere piuttosto che i loro popoli.


La destra s’è incartata sulla legge elettorale


(di Kaspar Hauser – il manifesto) – Il centrodestra si è incartato. Sulla legge elettorale la maggioranza si è ficcata in un cul de sac, da cui ha difficoltà a uscire, ma esorcizza questa situazione facendo trapelare ipotesi, nessuna delle quali le consente di risolvere l’impasse.

Dopo le Regionali del 23 e 24 novembre in Veneto, Puglia e Campania, finalmente il plenipotenziario di Fratelli d’Italia, Giovanni Donzelli, ha ufficializzato l’intenzione di modificare l’attuale sistema elettorale.

La motivazione ufficiale è che con il Rosatellum nessuno sarebbe in grado di vincere le elezioni politiche, alla luce del fatto che ora tutto il centrosinistra è unito e quindi sarebbe concorrenziale con il centrodestra.

Il voto in Puglia e Campania confermava quello che l’Ufficio studi dei gruppi di Fd’I aveva già scritto a febbraio sulla base dei risultati delle europee del 2024: il centrosinistra unito vincerebbe tutti i collegi uninominali dalla Linea Gotica in giù, oltre a quelli delle grandi città del Nord ed avrebbe la maggioranza parlamentare.

Di qui, come ha scritto il nostro giornale, l’idea di eliminare i collegi uninominali e puntare a un sistema in cui gli elettori siano in prima battuta chiamati non a eleggere senatori e deputati, bensì a scegliere il presidente del Consiglio, anzi il capo del governo.

Giorgia Meloni  è convinta della propria popolarità ed è sicura su questo piano di battere qualsiasi altro o altra concorrente del centrosinistra, si chiamino Elly Schlein, Giuseppe Conte o altri aspiranti. Di qui il modello fatto trapelare a febbraio e confermato da Donzelli che imita quello delle regionali, il Tatarellum: proporzionale con premio alla coalizione vincente che supera una soglia (40, o 42%); e di qui l’idea del nome del candidato premier sulla scheda.

Incostituzionale, hanno rilevato diversi costituzionalisti. Il che implicherebbe presentare al presidente Mattarella un testo per lui impossibile da promulgare. Una guerra col Quirinale con conseguente crisi istituzionale? I recenti attacchi del capogruppo di Fd’I, Galeazzo Bignami, a un collaboratore del presidente, spiato nelle sue conversazioni private al ristorante, è interpretabile come un campanello d’allarme.

Ma ecco il piano B suggerito dal presidente del Senato Ignazio La Russa: nome del capo della coalizione allegato alle liste al momento del loro deposito, come il Porcellum. Il nome di Meloni sulla scheda, ha detto La Russa, potrebbe indurre alcuni elettori a non barrare il simbolo di Fd’I, facendo perdere voti di lista ed eletti.

Una guerra con il Quirinale ci sarebbe tuttavia anche se la nuova formula non prevedesse il nome del candidato premier sulla scheda, ma avesse un altro elemento palesemente incostituzionale, su cui ha ragionato finora il centrodestra prima dell’attuale impasse: l’attribuzione del premio di maggioranza nazionale anche per il Senato.

Mattarella non darebbe l’assenso laddove Ciampi lo negò nel 2005 con il Porcellum, che prevedeva infatti premi su base regionale. Ma questa soluzione, non garantendo a nessuno la vittoria, smonterebbe la scusa enunciata da Donzelli (la certezza di un vincitore) per modificare il Rosatellum.

E altrettanto contrario alla Carta sarebbe un altro punto: attribuire il premio attingendo non dai […] listoni nazionali, come faceva il Tatarellum nelle Regioni. La sentenza 1 del 2014 della Consulta, che bocciò il Porcellum, dichiarò illegittime proprio i listoni, che non consentono al cittadino di scegliere il parlamentare e perfino di conoscere esattamente i candidati reali.

Tanto è vero che la maggior parte delle Regioni ha abrogato dal proprio sistema elettorale questo meccanismo.


Perché Luigi Pirandello è stato un gigante della letteratura italiana


(Guendalina Middei – lindipendente.online) – 89 anni fa ci lasciava Luigi Pirandello, una delle voci più originali, appassionate e inquietanti del Novecento italiano. Fin da ragazza m’innamorai delle sue novelle, del suo umorismo e della sua capacità di capire, e di mettere nero su bianco, le infinite contraddizioni dell’animo umano. Quante volte ci sentiamo spaesati, confusi, e non riusciamo a trovare un punto d’incontro tra ciò che siamo e ciò che sembriamo? Tra ciò crediamo di essere e come ci vedono gli altri, come capita ad Angelo Moscarda, il protagonista di quel geniale racconto che si chiama Uno, nessuno e centomila? «Gliel’insegno io come si fa», dice Ciampa alla signora Beatrice ne Il berretto a Sonagli, «Basta che lei si metta a gridare in faccia a tutti la verità. Nessuno ci crede, e tutti la prendono per pazza!». Geniale, no?

Quanta verità è contenuta in queste parole! Le persone sincere e autentiche, in un mondo che ha fatto dell’ipocrisia un vanto e delle formalità un’abitudine, passano spesso per pazze. E chi non ha mai desiderato di prendere un treno e sparire, ricominciare daccapo, reinventarsi da zero per iniziare una nuova vita? Questo è quello che fa Mattia Pascal, che arriva a fingere la propria morte pur di scappare da una vita che lo stava soffocando. Insomma la genialità di Pirandello non si discute. 

Se oggi lo ricordiamo, è perché seppe smantellare le maschere che l’uomo indossa e mostrarci la spaventosa leggerezza con cui un’intera identità può sgretolarsi in un attimo.  Una moglie capisce che il marito che conosceva non è mai esistito. Un gruppo di personaggi irrompe su un palcoscenico senza sapere più dove finisca la finzione e inizi la vita. Un marito geloso finge di avere un amante per salvare la dignità; un uomo decide di morire per scherzo e finisce per perdere se stesso: questi sono le trame dei suoi racconti più famosi, storie che ci mostrano cosa accade quando la forma smette di reggere l’urto della realtà. 

Luigi Pirandello nel 1932

Ma per capire l’opera di Pirandello occorre fare un passo indietro. Le tragedie familiari e personali e la sua terra d’origine, la Sicilia, formarono quella sua sensibilità così attenta a cogliere le contraddizioni dell’uomo e della vita e così insofferente nei confronti di tutto ciò che è menzogna. 

Pirandello proveniva da una famiglia che faceva fortuna nelle zolfare: il suo era un destino già scritto di lavoro e buonsenso borghese. Ma lui rifiutò presto quella via, attratto invece dalle lettere e dagli studi umanistici. Era nato ad Agrigento, in quella che era in tutto e per tutto la periferia culturale e geografica del Regno, una terra che sapeva di vento, sole e zolfo, che era una miscela esplosiva di fatalismo e teatralità e dove il sole, l’autentico sovrano della Sicilia, dominava incontrastato.

Ed è proprio lì, in quel mondo in cui l’apparenza contava più dei desideri e la reputazione valeva più della felicità, che si formò lo sguardo di Pirandello: uno sguardo capace di cogliere la crepa dietro ogni gesto, il non detto dietro ogni parola. Se l’Ottocento aveva raccontato l’uomo come soggetto dotato di volontà, il Novecento pirandelliano apre una stagione diversa: quella in cui l’io si frammenta e si moltiplica. La borghesia italiana, con le sue formalità rigide e i suoi salotti pieni di convenzioni, gli offriva un catalogo inesauribile di ruoli: il marito rispettabile, la moglie devota, la figlia perbene. Ma bastava grattare appena quella superficie per far emergere gelosie feroci, frustrazioni, desideri indicibili. Ed è quello che sperimentò in prima persona, sulla sua stessa pelle per così dire.

Nel 1894 un giovane Luigi Pirandello sposa la bella Antonietta Portulano, una siciliana dai focosi occhi scuri e lo sguardo malinconico. Si tratta, come si usava all’epoca, di un matrimonio combinato, voluto dal padre di Pirandello, Don Stefano e il padre di Antonietta. I due sposi novelli hanno avuto poco tempo per conoscersi, non sanno quasi nulla l’uno dell’altra, ma a dispetto di un inizio poco promettente, la loro unione nei primi anni di matrimonio sembra felice

Nel giro di poco tempo hanno due figli, Lietta e Fausto; si trasferiscono a Roma e nella capitale vivono sereni. Nel 1903 però accade il disastro: un tracollo economico si abbatte su Pirandello e la sua famiglia, quando a causa di un allagamento perdono una miniera di zolfo su cui avevano investito tutto ciò che possedevano. Quella disgrazia minò la salute psichica di Antonietta. Quando Pirandello tornò a casa, trovò la moglie, che aveva letto della disgrazia in una lettera del suocero, in uno stato quasi catatonico. Da quel momento la vita di Pirandello si tramutò in un inferno.

Antonietta divenne gelosa, in modo parossistico, del marito. È convinta che il marito la tradisca, ed è gelosa di qualsiasi donna si avvicini a Pirandello: conoscenti, allieve, semplici estranee che incrociano il suo sguardo in strada. Basta anche soltanto un saluto per innescare una violentissima ira. Più passano gli anni, più la paranoia di Antonietta peggiora: non appena Pirandello rientra a casa, lo assale con le sue grida; lo spia, fruga tra le sue carte, di notte resta sveglia a fissarlo nel buio. 

«Ho la moglie, caro Ugo,» confessa al suo amico Ugo Ojetti, «da molti anni pazza. E la pazzia di mia moglie sono io». Pirandello limita al minimo le uscite nel mondo esterno, si getta a capofitto nel suo lavoro, pur di non dare alla moglie il minimo pretesto per ingelosirsi. 

Ma non serve a nulla. Alla fine Antonietta, smarritasi sempre più nella follia, diventa gelosa anche della figlia. La accusa di volerla avvelenare e di aver avuto rapporti incestuosi con suo padre. Distrutta da queste accuse e dall’odio della madre, Lietta prova a togliersi la vita. Si salva per miracolo, ma ormai il clima familiare è distrutto. Antonietta è divenuta ormai completamente ingestibile, e sono costretti a farla internare in una casa di cura sulla Nomentana. Una storia tristissima che in parte affonda le sue radici in quella cultura della gelosia che aveva spinto la madre di Antonietta a morire di parto pur di non farsi toccare da un uomo, anche se medico, e non scatenare così la gelosia del marito. Questa era la mentalità di molti italiani e di molte italiane agli inizi del Novecento. 

Quando Antonietta viene internata, Pirandello non si libera; il suo ricordo lo tormenta e lui trasforma la sua tragedia personale in arte. Il suo teatro diventa laboratorio di esperimenti psicologici, di identità scomposte e ricomposte, di uomini che non sanno più chi sono. Ecco come e perché nacquero personaggi come Mattia Pascal, Angelo Moscarda, Enrico IV: figure che inciampano nella propria vita come chi, camminando distratto, sbatte contro uno specchio e non riconosce più il proprio riflesso.

C’è un elemento che attraversa tutta la sua opera: la follia. Ma non solo la follia spettacolarizzata, quella che irrompe nell’Enrico IV che finge di essere pazzo, ma la follia quotidiana, sotterranea, quella che ci accompagna tutti i giorni senza che nessuno se ne accorga. L’interesse di Pirandello per la follia era un modo per denunciare ciò che nella società dell’epoca non funzionava: l’ipocrisia dei ruoli, la rigidità delle convenzioni sociali, la pretesa che gli esseri umani siano monoliti coerenti.

Pirandello in tourné (1925)

L’eredità più scomoda di Pirandello è un’idea, l’idea che ognuno di noi è almeno tre persone: quella che crede di essere, quella che vede negli specchi e quella che gli altri si inventano guardandoci. Convivono tutte, si disturbano, si sovrappongono, si sabotano tra loro. E i suoi personaggi non fanno a meno di domandarsi: «Chi sono, quando nessuno mi guarda?»

Gli anni Dieci e Venti sono per Pirandello anche anni di crescente notorietà. È in questa fase che l’Italia cambia pelle, scossa dalla guerra e delusa dai governi liberali. Molti intellettuali, Pirandello incluso, guardano al fascismo come a una forza ordinatrice in un paese in cui tutto sembra franare. 

La contraddizione è evidente: un uomo che ha passato la vita a smascherare i meccanismi del potere si innamora proprio della maschera più rigida. Ma anche qui emerge la verità più pirandelliana di tutte: nessuno è immune dalle seduzioni del proprio tempo. Nel 1921 va in scena Sei personaggi in cerca d’autore, accolto prima con scandalo e poi con ammirazione in tutta Europa. Seguono anni di tournée e di trionfi. È l’epoca in cui Pirandello diventa Pirandello: e poi ancora il Nobel, la fama, il riconoscimento internazionale. Eppure nel 1929 confessa Marta Abba: «Mi guardano come un uomo che ha un ruolo. Io voglio essere guardato come sono quando ti scrivo: uno che non sa chi è fino in fondo». 

Ed è per questo che ancora oggi disturberebbe chiunque abbia costruito la propria esistenza su un ruolo ben stirato: l’uomo di successo, la donna realizzata, il professionista in ordine. Pirandello non avrebbe creduto a nessuno di loro. Avrebbe osservato e sarebbe andato alla ricerca del tremito sotto la superficie. Avrebbe insistito per mostrarci la precarietà delle maschere che ci affanniamo a indossare, e che possono sì darci un ruolo, ma non bastano a definirci e a dare senso, significato e valore a chi siamo e cosa vogliamo.

Pirandello si spegne a Roma, il 10 dicembre del 1936. Nelle sue disposizioni testamentarie chiese di essere sepolto senza cerimonie solenni o cortei pubblici. Il regime avrebbe voluto celebrare la sua morte con un addio grandioso, ma Pirandello si oppose e la sua volontà prevalse. Ebbe un commiato sobrio, semplice, quasi dimesso rispetto alla sua fama, ma che rispecchiò in pieno la sua idea di esistenza: nuda, essenziale, priva di maschere.


Ucraina, Conte: “Governo e Ue hanno fallito, lasciamo che gli Usa conducano il negoziato”


Per il presidente M5S “l’Europa ha puntato sulla vittoria militare di Kiev, ora è disorientata”. Magi (+Eu): “Affermazioni inaccettabili e irresponsabili”

(repubblica.it) – “Il governo italiano insieme ai governi europei hanno fallito puntando sulla scommessa militare della vittoria dell’Ucraina sulla Russia” a “colpi di invii di armi e di spese militari”. Lo ha detto il leader del M5S Giuseppe Conte a margine di una conferenza stampa alla Camera.

Zelensky si fida di Meloni? “Prendo atto – ha aggiunto Conte – L’Europa è completamente disorientata, avevano solo una linea, la vittoria militare sulla Russia, hanno scommesso su questo e adesso non hanno nessuna alternativa. Quindi lasciamo che a condurre il negoziato siano gli Stati Uniti”.

“Da un lato” in Europa “alcuni vorrebbero continuare una guerra per procura ma non riescono neppure a trovare per finanziarla; dall’altro c’è invece chi come Giorgia Meloni rimane nel mezzo, silente, cercando di capire quale sarà la soluzione migliore per rivendicare di aver contribuito a quella soluzione”, rimarca Conte.

“Le affermazioni di Giuseppe Conte, che vuole lasciare fare a Trump, sono inaccettabili e irresponsabili: non è vero che l’Europa ha puntato sulla vittoria, non si tratta di una scommessa sull’esito di una partita di calcio, ma di sostenere la resistenza di un paese ai confini dell’Unione europea invaso militarmente da una potenza come la Russia. Non riguarda solo l’Ucriana, ma il futuro della sicurezza dell’intera Europa”. Lo ha detto il Segretario di +Europa, Riccardo Magi intervenendo a L’Aria Che Tira su La7.


La cucina italiana diventa Patrimonio immateriale dell’Unesco


A New Delhi il comitato intergovernativo ha detto sì. Una prima volta storica: finora erano state riconosciute pratiche gastronomiche singole, mai un insieme nazionale. Ma attenzione, quello che si premia non sono piatti e ricette, ma un modo di stare a tavola, di cucinare, di riconoscersi, di pensare al cibo

Cucina italiana, è fatta: diventa Patrimonio immateriale dell’Unesco

(di Eleonora Cozzella – repubblica.it) – Se la carbonara avesse le gambe oggi salterebbe di gioia. Alle 10.44 ora italiana, a New Delhi, il Comitato intergovernativo dell’Unesco ha detto sì: la cucina italiana entra ufficialmente nella lista del patrimonio culturale immateriale dell’umanità. Non un piatto, non il disciplinare di un prodotto, ma un modo di stare a tavola, di cucinare, di riconoscersi, di pensare al cibo.

È una prima volta storica: finora l’Unesco aveva riconosciuto singole specialità e pratiche gastronomiche – dal pasto gastronomicofrancese alla cucina del Michoacán, dal washoku giapponese al kimchi coreano, fino al borscht ucraino – ma mai l’intera cucina di un Paese. Oggi, insieme alla Dieta mediterranea, all’arte dei pizzaiuoli napoletani, alla cerca e cavatura del tartufo, alla viticoltura ad alberello di Pantelleria e ai paesaggi vitivinicoli di Langhe, Roero e Monferrato, entra in lista tutto l’insieme che potremmo dire teorico pratico: la cucina italiana nel suo complesso, con le sue infinite varianti regionali e familiari.

La candidatura, si sa, non è nata ieri. Il dossier “La cucina italiana, tra sostenibilità e diversità bioculturale” è stato curato dall’Ufficio Unesco del Ministero della Cultura e redatto dal giurista Pier Luigi Petrillo con il coordinamento scientifico dello storico dell’alimentazione Massimo Montanari, a capo di un comitato di esperti.

Sul fronte istituzionale i promotori principali sono stati il Masaf e il Ministero della Cultura, affiancati da un tessuto di soggetti che la cucina italiana la studiano e la praticano da decenni: l’Accademia Italiana della Cucina, la Fondazione Casa Artusi (custode della “cucina di casa italiana”), la rivista La Cucina Italiana, che con la direttrice Maddalena Fossati nel 2019 ha acceso la scintilla della candidatura, e poi Anci, Slow Food, Federazione Italiana Cuochi.

Nel dossier non c’è un piatto feticcio, c’è un’idea: la “cucina degli affetti”. Una pratica quotidiana tessuta di saperi, gesti, rituali condivisi; la scelta delle materie prime, il rispetto delle stagioni, l’uso creativo degli avanzi, la biodiversità come condimento invisibile. È il pranzo della domenica, il ragù vegliato a sobollire per ore, la tovaglia candida che si stende per apparecchiare e si ritira bella macchiata di sugo alla fine (magari dopo caffè e ammazza-caffè), è la mano che passa il pane, ma che non passa il sale (porta male!).

Gli estensori insistono su una parola chiavemosaico. La cucina italiana è descritta come un insieme di cucine locali, comunitarie, famigliari, che non si lasciano ridurre a una gerarchia di piatti “più veri degli altri”, ma dialogano tra loro e con il mondo. Nel mosaico entrano i pomodori arrivati dalle Americhe, la pasta secca passata per vie arabe e mediterranee, le contaminazioni delle comunità italiane all’estero. L’idea di fondo è chiara: non si sta candidando un monumento, ma un organismo vivente, in continua evoluzione, con ricette e pratiche non cristallizzate, ma che cambiano nel tempo.

Con il voto di oggi l’Unesco riconosce questo organismo come patrimonio da salvaguardare. Attenzione: non è un marchio di superiorità – non esistono cucine “più patrimonio” di altre – né un bollino commerciale da appiccicare sulle confezioni. È un impegno. In base alla Convenzione del 2003, l’Italia dovrà inventariare e proteggere questa pratica culturale insieme alle comunità che la tengono viva: famiglie, cuochi, produttori, associazioni. Vuol dire sostenere ricerca, educazione alimentare, progetti nelle scuole, musei del gusto, archivi della memoria culinaria. Vuol dire, ogni sei anni, presentare un rapporto all’Unesco su come stiamo trasmettendo questa eredità alle generazioni future.

Sul piano simbolico, il riconoscimento dice al mondo che la nostra identità passa anche dalla tavola. Sul piano concreto, diventa uno strumento in più nella battaglia contro l’Italian sounding: di fronte a un gombonzola o a un falso aceto balsamico, ci sarà anche l’ombrello di un patrimonio riconosciuto a livello internazionale, oltre alle (già fondamentali) tutele Dop e Igp.

La cucina degli affetti, però, non esisterebbe senza chi la quotidianità la trasforma in gesto professionale, in racconto, in responsabilità. Non stupisce che Massimo Bottura, da anni ambasciatore del gusto italiano nel mondo, oggi parli di “giornata storica” ai quotidiani come il Washington Post che lo intervistano per il pubblico internazionale e alle telecamere di Rai Uno, ospite di Antonella Clerici. “Viaggio tantissimo, le vedo le altre cucine, e posso assicurare che la nostra non ha pari nel mondo. È la somma di centinaia di micro-cucine, ma ovunque, che sia un cuoco o una rezdora, si preparano cibi con un amore che non ha rivali. La somma di tutti questi riti collettivi è la cucina italiana”.

Sul versante più pop ecco Barbieri: “Se la cucina italiana merita il riconoscimento Unesco? Sì, certo. Abbiamo lottato una vita per arrivare qua. Non ci sono paragoni al mondo. Se negli Usa vuoi avere successo devi aprire un ristorante italiano. Mangi bene, con chef ben preparati. I loro ristoranti sono pieni, le prenotazioni si fanno mesi prima. La contaminazione c’è sempre stata”. “Il riconoscimento non è un traguardo ma un punto di partenza – prosegue lo chef Giorgio Locatelli – Per il Paese cambierà molto. È il momento di far diventare la cucina italiana un patrimonio. È una cucina che rappresenta differenti metodi, storie, una cucina che è stata come una Cenerentola e piano piano ha conosciuto la sua potenza e con questo riconoscimento lasciamo che si mischi con altre cucine e con l’arte del quotidiano di altre nazioni”.

Insomma, la cucina italiana esiste perché esistono comunità che la praticano. Ma attenzione, Massimo Montanari docet. Il presidente del comitato scientifico della candidatura sottolinea che questo risultato non si festeggia per rivendicare una supremazia ma per ringraziare le molte culture che, nei secoli, hanno plasmato il nostro modo di mangiare, e proporre al mondo un modello fondato su interculturalità, libertà in cucina, multiculturalismo gastronomico.

Tradotto: non è un via libera al “noi contro gli altri”, ma un invito a riconoscere che l’italianità è sempre stata un gioco di scambi. Il rischio opposto è cristallizzare la cucina in una cartolina per turisti, congelare la tradizione in un fermo immagine. Qui la responsabilità non è dell’Unesco, ma nostra: dipenderà da come useremo questo sigillo nelle politiche culturali, nel turismo, nella ristorazione. E adesso? Da oggi in poi la cucina italiana non sarà più solo quella cosa che tutti dicono di amare: sarà anche un impegno scritto nero su bianco. Va letta non come un trionfo da cantare a colpi di “siamo i migliori”, ma come un promemoria collettivo.

Promemoria che la biodiversità non è una parola trendy ma il motivo per cui un piatto di cicoria ripassata e uno di risotto ai bruscandoli non raccontano lo stesso paesaggio. Che la “cucina degli affetti” non è solo nostalgia, ma la possibilità di usare il pasto come strumento di inclusione, educazione, cura. Che difendere questo patrimonio significa occuparsi di chi lo rende possibile: agricoltori, pescatori, casari, artigiani, cuochi, ma anche famiglie che continuano a tirare una sfoglia, magari storta, sul tavolo di casa.

Oggi, 10 dicembre, molti stapperanno una bottiglia “per festeggiare l’Unesco”. La proposta è anche di brinderei a qualcosa che al contempo è più semplice e più difficile: la promessa di continuare a meritarselo. A continuare a sporcare tovaglie, a passare il pane, a litigare (civilmente) sulla carbonara senza panna ma poi a dividerla. Perché da oggi la cucina italiana è patrimonio dell’umanità. Ma, prima di tutto, resta patrimonio di chi, ogni giorno, si mette a tavola.


“Chi ci accusa fa parte del nemicchettismo”: Giuli ad Atreju rifila una nuova supercazzola


(di Francesca Chiri – ANSA) – La nuova egemonia della destra di governo passerà attraverso l’ironia, la vera arma tagliente in grado davvero, e da sempre, di azzerare il nemico. “Non siamo quelli dell’amichettismo, ma chi ci accusa fa parte del nemichettismo, che stasera coniamo come termine da cucire addosso a tutti quelli che ci accusano di fare cultura liberamente” dice Alessandro Giuli, arrivato ad Atreju per partecipare ad un dibattito organizzato per fare quantomeno scalpore: Pasolini e Mishima, due simboli del Novecento, due poeti da sempre considerati icona di una cultura riconducibile ad opposte sponde politiche.   

Ma tra Pier Paolo Pasolini e Yukio Mishima “ci sono molti più punti in comune di quanto si possa immaginare” esordisce il ministro della Cultura che, oltre alla “maschera tragica” e alla “poetica del gesto esemplare” incarnata dai due poeti sottolinea quanto entrambi abbiano “praticato nella scrittura la più grande libertà”. Insomma, di fronte alle accuse nei confronti di chi intende praticare ancora il gioco degli steccati culturali e “se proprio dobbiamo trovare un aggettivo, ironico o autoironico è quello che definisce meglio colui che è aperto alla vita e al confronto e non è un lugubre nemichettista: nemico giurato della bellezza”.   

E se poi l’ironia non dovesse bastare a vincere il nemico, allora, c’è sempre la tradizione popolare che corre in aiuto: “Agli attacchi della sinistra rispondiamo con un detto arabo: i cani abbaiano, la carovana passa” sintetizza il ministro che dopo il dibattito su Pasolini e Mishima con la ministra della Famiglia Eugenia Roccella e con il presidente della Commissione Cultura della Camera, Federico Mollicone, si concede un passaggio alla radio di Atreju dove, tra l’altro, torna ad intonare “Albachiara” di Vasco Rossi anche se, confessa poi, avrebbe questa volta voluto dedicare un altro brano di Vasco alla figlia: Brava Giulia.   

E se ad Atreju si scomodano due grandi della letteratura mondiale declinati all’insegna della “più grande libertà”, non poteva mancare il confronto con le recenti polemiche a Più libri più liberi. “Noi qui ad Atreju parliamo di tutto, mentre a Più Libri Più Liberi non si può accettare un piccolo editore di destra.

Altro che egemonia, oggi c’è paura degli intellettuali di sinistra di uscire dalla comfort zone e dare un’occhiata a quello che c’è dall’altra parte” ironizza Roccella che sorride di fronte alle paure egemoniche da sconfiggere: “io non ho mai creduto ad una egemonia culturale di sinistra”, e comunque “oggi non c’è più: c’è un piccolissimo potere spaventato”. Pasolini, dice, sarebbe stato felice di parlare ad Atreju: “io ho sempre ricordato di Pasolini l’incredibile curiosità, cosa che sembra mancare completamente agli intellettuali di sinistra della nuova generazione”.

Anche Mollicone alza le spalle: “la sinistra se ne deve fare una ragione perché qui ad Atreju troverà sempre il confronto tra personaggi apparentemente lontanissimi, troverà sempre la libertà e il pluralismo”.


Contanti saluti


Contanti saluti

(di Antonio Pitoni – lanotiziagiornale.it) – Gli evasori fiscali già si fregano le mani. Dopo tre anni di condoni e rottamazioni, al grido di pace fiscale, non poteva mancare l’ennesimo e attesissimo innalzamento al tetto dei pagamenti in contanti. Che in forza di un emendamento alla manovra, presentato da Fratelli d’Italia e benedetto dal governo, salirà a 10mila euro. Limite per altro già elevato da mille (limite imposto dal governo Draghi) a 5mila con la Legge di Bilancio di due anni fa.

Il miglior regalo di Natale che i professionisti del nero potessero desiderare. Anche se la norma, spacciata per un disincentivo all’uso del cash, è congegnata per salvare almeno le apparenze. Si prevede infatti una tassa da 500 euro sui pagamenti da 5001 a 10mila euro. Ma, di fatto, l’alternativa è lampante: sborsare il balzello o versare l’intero importo, peraltro non tracciabile, completamente in nero? Si accettano scommesse. Almeno che non si pensi ad un sistema di monitoraggio reale da parte dell’Agenzia delle entrare per evitare un altro canale di evasione fiscale, non è difficile prevedere come vada a finire.

E neppure la scusa di allineare l’Italia alla normativa europea per giustificare l’ultima trovata delle destre regge più di tanto. Perché se è vero che le disposizioni comunitarie fissano a 10mila euro il tetto massimo alle transazioni in contanti in chiave antiriciclaggio, non vieta d’altra parte di portarlo ad un livello più basso. Cosa auspicabile in un Paese come l’Italia, dove l’evasione fiscale sottrae all’erario oltre 100 miliardi l’anno. E persino Bankitalia, in una pubblicazione dal titolo Pecunia olet del 2021, mise in guardia “sul nesso di causalità” esistente “tra utilizzo del contante e incidenza dell’economia sommersa”, ricordando che “quest’ultima sarebbe cresciuta anche a seguito dell’innalzamento della soglia di uso del contante da 1.000 a 3.000 euro, in vigore dal 2016”, per volere del governo Renzi, “con l’obiettivo di sostenere la domanda”.

Sentenziando che “le restrizioni all’uso del contante possono essere efficaci nel contrasto all’evasione fiscale”. Ma in un Paese in cui un italiano su due non versa un euro di Irpef, non è difficile intuire chi sarà a beneficiare dell’emendamento. Contanti saluti ai contribuenti onesti. Cornuti e mazziati.