
(Dott. Paolo Caruso) – Ventotto i punti nel piano Trump al tavolo dei colloqui a Ginevra che vedranno riuniti Usa, Ucraina, UE. Li detta Trump, che si dice stanco di questa guerra, e questo non può che farci sperare. Gli scandali in Ucraina, le distruzioni e la perdita di ulteriori territori che ormai sembrano inarrestabili, la morte di civili che si fa ogni giorno sempre più insopportabile all’ animo umano, pare abbiano determinato una accelerazione dei tempi per arrivare ad un accordo equilibrato. Del resto a Trump serve in primis staccare Putin dall’ abbraccio con il leader cinese e contenderlo ai Brics. Nell’ intesa si parla poi di accordi economici, sbilanciati in corso di pace a favore della Russia, cooperazione su settori strategici ( energia, risorse naturali, intelligenza artificiale, estrazione di metalli di terre rare nell’ Artico ). Pare che il piano di Trump sia stato scritto con suggerimenti russi. A questo punto il prezzo lo pagherebbe l’ Ucraina e l’ Europa. L’Ucraina potrebbe non accettare la totale resa, ma farebbe arrabbiare il Bisonte americano, che quella pace la vuole per intestarsela, perché programma di propaganda elettorale e un modo per adombrare i tanti scheletri presenti nel suo armadio. Sarà – a suo dire – la “nona”, al pari della Sinfonia di Beethoven, che però non riuscì a scrivere la decima. Trump andrà oltre. Diceva l’ imperatore Tiberio: “Mi odino, purché mi temano”, e i muscoli “alla Mastro lindo” Trump li mostra tutti ma solo ai deboli, perché con i potenti si fanno affari. I continui cambiamenti di umore lunatico, lascia il mondo in cronica sospensione e anche a Ginevra l’ ondivago Tycoon non si smentisce con le parole ” La mia offerta non è definitiva”. Cosa resterà dell’Ucraina? L’ ultimatum la lascia di fronte una scelta difficoltosa e amara, rinunciare alla “dignità ” con le centinaia di migliaia di morti caduti per non lasciarsi sopraffare o non contare più “sull’ alleato americano” (sic!). A Trump non importa se l’Unione Europea resterà con il cerino in mano. Non ha fatto mai mistero di non considerarla, ritenendola inutile e cercando al suo interno “cavalli di Troia” per poterla disintegrare. Importa a Trump intestarsi un’altra – a suo dire – personale vittoria. Gli interessano affari economici suoi personali, a dispetto dei valori e di ideali di libertà e d’auto-determinazione dei popoli. Nel disorientamento generale, confusa è anche la NATO, accusata giustamente da Papa Francesco di essere andata ad abbaiare ai confini della Russia e quindi corresponsabile della guerra. Saltato il tavolo delle trattative a Istanbul, mesi dopo l’ invasione, per opera soprattutto del Premier britannico, Boris Johnson, convinto insieme alla UE di poter mettere all’ angolo Putin, la voglia di una tregua con l’ inasprirsi della guerra è venuta meno. Ora che le lusinghe di vittoria si sono dissolte e le minacce del nucleare potrebbero concretizzarsi senza l’ appoggio delle armi americane, sarebbe il caso di lasciar perdere, sedersi seriamente ad un tavolo di trattative considerando le immani distruzioni del Paese, mettendo a tacere le voglie belliciste della pavida Europa, e attuando il famoso detto ” meglio perdere che straperdere”.
Da quando il 20 gennaio scorso Trump si è insediato alla Casa Bianca tutto il mondo pende da Lui e Lui si presenta, anche se umorale, arbitro dei destini dei popoli. E Putin attende….. mentre il Tycoon trionfante e impettito crede di sfidare il mondo.
MELONI, DA TRUMP HO TROVATO DISPONIBILITÃ

(ANSA) – “Ho trovato disponibilità da parte del presidente degli Stati Uniti Trump. Abbiamo avuto una telefonata abbastanza lunga anche con il presidente della Finlandia Stubb.
Il lavoro dei nostri sherpa a Ginevra segue questo intendimento”. Lo ha detto la presidente del Consiglio Giorgia Meloni in conferenza stampa a Johannesburg alla fine del G20.
MELONI, NO A CONTROPROPOSTA, LAVORIAMO SU QUELLA DI TRUMP
(ANSA) – “Il tema non è lavorare su una totale controproposta, ci sono molti punti condivisibili, ha senso lavorare sulla proposta che c’è”. Lo ha detto la presidente del Consiglio Giorgia Meloni in conferenza stampa a Johannesburg alla fine del G20, rispondendo a una domanda sull’ipotesi di controproposta europea al piano di pace di Donald Trump.
MELONI, NEL PIANO PUNTI DA DISCUTERE E ALTRI MOLTO POSITIVI
(ANSA) – “Ci sono nel piano americano alcuni punti che devono essere oggetto di discussione, come quelli sui territori, sul finanziamento della ricostruzione o sull’esercito ucraino.
Ci sono punti molto positivi, come le garanzie di sicurezza con il coinvolgimento degli Stati Uniti, una proposta che riprende una proposta italiana”. Lo ha detto la presidente del Consiglio Giorgia Meloni in conferenza stampa a Johannesburg alla fine del G20
MELONI, TUTTI IMPEGNATI PER UNA PROPOSTA PER UCRAINA SOVRANA
(ANSA) – “Penso si possa fare un lavoro positivo, siamo tutti impegnati per arrivare a una proposta che serve per avere pace, un’Ucraina indipendente e sovrana e per la sicurezza dell’Europa”. Lo ha detto la presidente del Consiglio Giorgia Meloni in conferenza stampa a Johannesburg alla fine del G20.
MELONI, MOSCA DIA SEGNALE E NON BOMBARDI INFRASTRUTTURE
(ANSA) – “Penso che sarebbe una buona cosa, e ne abbiamo parlato nella telefonata con il presidente Trump, capire se si riesce a ottenere almeno cessate il fuoco temporaneo sulle infrastrutture strategiche e civili che russi continuano a bombardare.
Anche i russi devono dare un segnale concreto di voler arrivare alla pace”. Lo ha detto la presidente del Consiglio Giorgia Meloni in conferenza stampa a Johannesburg alla fine del G20.
MELONI, PROVA DI MATURITÃ PER L’EUROPA, DIA CONTRIBUTO AL PIANO
(ANSA) – “Molte delle questioni inserite nel piano riguardano e necessitano dell’Europa per essere realizzate, sul tema delle garanzie di sicurezza, della ricostruzione, dell’accesso dell’Ucraina all’Ue.
Possiamo discutere di tutto ma non penso sia utile in questa fase andare in questi dettagli ma guardare all’obiettivo perché la fase è delicata.
à una prova di maturità per l’Europa, per mostrare che può fare la differenza con proposte che possano far fare passi avanti: siamo tutti d’accordo a fare questo lavoro, capire dove si può dare un contributo per arrivare al punto”. Lo ha detto la presidente del Consiglio Giorgia Meloni in conferenza stampa a Johannesburg alla fine del G20.
MELONI,GAROFANI? HO CHIARITO TUTTA QUESTIONE CON MATTARELLA
(ANSA) – “Ho parlato direttamente con il presidente della Repubblica, ho chiarito tutta la questione.
Approfitto per ribadire l’ottimo rapporto che da sempre ho con il presidente Mattarella. Non penso sia il caso di tornare su questa vicenda”. Lo ha detto la presidente del Consiglio Giorgia Meloni in conferenza stampa a Johannesburg alla fine del G20.
MELONI, NON STIAMO ADERENDO AL PURL MA NON C’Ã DEADLINE
(ANSA) – “Sul Purl non abbiamo una deadline, lavoriamo per priorità . Adesso stiamo lavorando per un nuovo pacchetto di aiuti. Ad ora non stiamo aderendo, poi vedremo ma non ci siamo dati una deadline”. Lo ha detto la presidente del Consiglio Giorgia Meloni in conferenza stampa a Johannesburg alla fine del G20, rispondendo a una domanda sul meccanismo di acquisto di armamenti americani da girare a Kiev. .
Da Sangiuliano a Giuli: i tre anni di impicci e pasticci al ministero della Cultura. Lâultimo caso, lâaddio del capo ufficio stampa dellâattuale responsabile del dicastero. Da anni uno scandalo via lâaltro

(di Filippo Ceccarelli – repubblica.it) – E meno male che dovevano cambiare la narrazione, smuovere la cappa culturale, rivendicare lâidentità nazionale, promuovere la contro-egemonia, costruire un nuovo immaginario. Per quanto in Italia abbondino i chiacchieroni, ci si poteva perfino preoccupare di quei progetti, dietro ai quali non di rado si scorgeva un che di implicitamente minatorio, un tono e un piglio che dietro lâalta missione patriottica tradiva nuove brame e antichi risentimenti.
Ed eccoci qui invece a dar conto dellâennesimo impiccetto consumatosi a via del Collegio romano, le dimissioni del portavoce del ministro pizzicato col sorcio in bocca a coltivare interessi elettorali in atti dâufficio, niente che abbia a che fare con la Cultura, ma ormai è questo che passa lâex convento dei gesuiti: gelosie, capricci, ripicche, allontanamenti, riavvicinamenti, bizzarrie, soffiate ai giornalisti, lettere anonime, conflitti dâinteresse, telefonate registrate e chat delatorie a rischio di sequestro investigativo.

Dal Dante liceale (âFatti non fosteâ, eccetera) invocato a ogni piè sospinto da Gennaro Sangiuliano aka Genny Delon, al pensiero solare e supercazzolante con scappellamento a destra di Alessandro Giuli, il ministro Basettoni, pare sconveniente scendere al nutrito repertorio di vicende scabrose registrate dalle cronache in questi tre anni.
Sennonché procedere resta pur sempre un dovere civico e dunque, sommariamente e con riserva di qualche dimenticanza: multiplo caso Sgarbi, immenso caso Sangiuliano, fulmineo caso Gilioli, conseguente caso Spano con addentellati, varie ed eventuali. Quindi lite inutilmente dissimulata Giuli–Borgonzoni con inesorabili diramazioni a Cinecittà e relativa sovraesposizione di ulteriori ed esuberanti addetti stampa, per giungere ai sinuosi movimenti del silente, ma fattivo sottosegretario Mazzi cui si deve la geniale orchestrazione del caso Fenice-Colabianchi-Venezi.
E qui, almeno fino a ieri, il triste e stucchevole elenco poteva dirsi concluso, lasciando semmai alla vana malizia di osservatori nullafacenti il compito di trastullarsi su altri fantastici micro-episodi della vita culturale della Nazione. Tipo lâinusitata tarantella sviluppatasi tra la Rai e il San Carlo di Napoli per liberare lâuna e incautamente riempire lâaltro con il dottor Fuortes; o la nomina a manager degli shop museali del gestore di un autonoleggio di Frosinone; oppure lâindispensabile ritorno dei gladiatori al Colosseo; o anche la meditazione ministeriale il 25 aprile dinanzi al cippo che ricorda la battaglia di Canne, cui è seguito il bacio compensatorio alla tomba di Matteotti; senza ovviamente trascurare, dulcis in fundo, lâancora misterioso destino delle chiavi dâoro della Città di Pompei.
Ora, un poâ tutto questo dipenderà dai tempi esagerati dellâodierna vita pubblica; un altro poâ sarà colpa della puzzetta sotto il naso dei radical chic che, per paura di perdere i loro privilegi mainstream, disprezzano i grandi sforzi dei patrioti nel valorizzare lâorgoglio italiano.
E tuttavia, anche respingendo la tentazione di addebitare tale caos a radici autoritarie, impreparazione di base, gaglioffaggine istituzionale e incapacità di distinguere tra governo e comando, ecco, detto chiaro chiaro il sospetto è che sia Sangiuliano che Giuli, nonostante ogni pomposa apparenza, amino molto più loro stessi che la Cultura. E comunque quel ministero che sembra un ibrido tra Temptation Island e Il gabinetto del dottor Caligari.
Ormai separata dalle sue antiche e silenziose accompagnatrici (lâistruzione, la ricerca, lâispirazione, la memoria), sempre più la Cultura, dea oltraggiata, si è ridotta a merce, pretesto, spot, brand, marketing, packaging, broadcasting, illusione e Grandi Eventi da consumare e dimenticare. Giuli, che conosce la mitologia, forse sa anche quali guai comporta offendere quel tipo di divinità .
Amici, Sport e Salute: lâappalto allâex socio della madre di Meloni. Nel servizio âFratelli di sportâ anche un affidamento diretto allâimprenditore con cui la mamma e la migliore amica della premier avevano fatto una plusvalenza dâoro, come svelato da Domani Â

(Enrica Riera – editorialedomani.it) – Interessi personali, favori di partito, affidamenti senza gara. Propaganda, potere e affari. Cosa câè dentro il âbraccioâ del governo nel mondo dello sport? Come viene amministrata Sport e Salute, la società partecipata dal Tesoro, creata nel 2018 dal ministro Giancarlo Giorgetti, che gestisce circa mezzo miliardo di contributi lâanno?
Ne parlerà Report nella puntata che andrà in onda domenica sera su Rai3. Nel servizio âFratelli di sportâ, firmato da Carlo Tecce e Lorenzo Vendemiale, viene acceso un faro sulla spa, diventata(come raccontato anche da questo giornale) lo strumento che il governo Meloni sta usando per controllare lo sport e alimentare il suo consenso. In che modo? Anzitutto «scegliendo persone â dice il deputato del Pd intervistato dalla trasmissione, Mauro Berruto â che sono estremamente vicine al cerchio molto ristretto della premier».
Ne sarebbe prova pure quanto avvenuto nel centro sportivo di Caivano, inaugurato in pompa magna dal governo con lâobiettivo dichiarato di voler rigenerare le periferie. Nel centro ha trovato lavoro anche un vecchio amico di Giorgia Meloni, Daniele Quinzi, già candida. Più in particolare, lo scorso anno Sport e Salute ha installato per il periodo natalizio una pista di pattinaggio nella struttura intitolata a Pino Daniele per la cifra di 90mila euro. Così la direzione Sport Community della spa lâha affidata senza gara allâazienda FattoreQ, che è appunto la società di Quinzi. E cioè dellâimprenditore e attivista di Fratelli dâItalia.
Il legame tra Quinzi e la presidente del Consiglio, come già raccontato da Domani, è profondo: in passato, lâimprenditore è stato in affari con la mamma della premier, Anna Paratore, nella gestione del locale B-place: un lounge bar nel quartiere Eur. Lo gestiva la Raffaello Eventi di Davide Solari e Lorenzo Renzi, due noti imprenditori nel settore della ristorazione, con simpatie di destra, tra gli azionisti anche Quinzi, appunto.
Tra il 2012 e il 2016, in società entrano con una quota del 20 per cento Paratore e Milka Di Nunzio, amica fidata della premier e sua mandataria elettorale alle Comunali di Roma quando la premier si candidò sindaca di Roma.
Ed è proprio nellâanno del voto che la mandataria e la madre di Meloni vendono le loro quote sempre agli imprenditori da cui le avevano acquisite pochi anni prima: unâoperazione, svelata da questo giornale, che ha portato nelle casse delle due donne legatissime a Meloni una plusvalenza di quasi 90mila euro, nonostante i bilanci della società non fossero così floridi da spiegare una tale prezzo di vendita delle azioni. Oggi Di Nunzio è al governo come consigliera del ministro Abodi. Quinzi invece ha ottenuto alcuni affidamenti diretti da Sport e Salute.
Lâamministratore delegato di Sport e Salute, Diego Nepi, alla domanda di Report sullâaffidamento a Quinzi, ha risposto che non ci vede «niente di particolare se sono tutte società o persone che sono in grado non solo di poter lavorare, ma lavorare bene, lavorare tanto». Sulla questione di opportunità , però, visti gli affari del passato con la madre di Meloni, nessuno commento.
Proprio Nepi, storico dirigente della società gradito a Giorgetti, ad agosto 2023, con il rinnovo dei vertici di Sport e Salute, viene promosso come ad. Ma soprattutto diventa presidente il costruttore Marco Mezzaroma: cognato di Claudio Lotito e tra gli amici intimi della presidente del Consiglio al punto da partecipare alle sue vacanze estive in Puglia. Nella società câè anche un altro componente del cerchio magico meloniano: Giuseppe De Mita, figlio dellâex segretario Dc e presidente del Consiglio Ciriaco, amico dello stesso Mezzaroma.
La modalità con cui è entrato in Sport e Salute De Mita è indicativa dei criteri usati per la selezione: prima con una piccola consulenza da 39mila euro attraverso la sua società Lasim; poi, da gennaio, assunto come dirigente a oltre 200mila euro di stipendio, al termine di una selezione pubblica aperta in piena estate e molto chiacchierata.
De Mita jr, grande amico e soprattutto testimone di nozze del presidente Mezzaroma, nel suo primo matrimonio con lâex ministra Mara Carfagna. I due in passato sono stati anche soci, nellâinvestimento in una delle più belle piazze del mondo, quella del Pantheon, dove la loro società Bidiemme gestiva alcuni bed&breakfast.
Ma non è finita. Nella società pubblica dello sport hanno avuto una consulenza pure Manuela Di Centa, olimpionica di sci di fondo ed ex deputata di Forza Italia, Elena Proietti, segretaria del ministro Giuli. E poi: Bruno Campanile, vicepresidente Asi, cioè lâente presieduto dal sottosegretario Barbaro, e la figlia Elena; Luigi Mastrangelo, pallavolista già responsabile Sport della Lega di Salvini; Riccardo Andriani, avvocato del Secolo dâItalia; Beppe Incocciati, consigliere di Tajani a Palazzo Chigi.
Così Sport e Salute è diventata Sport e poltrone.

(ANNA FOA – lastampa.it) – Stiamo ogni giorno di più interrogandoci sulla democrazia, su cosa la definisca, su come si sia trasformata a partire dalla seconda metà del Novecento, quando si è affermata sulle rovine della guerra e delle dittature, sul suo declino o forse sulla sua morte imminente, da troppi profetizzata. Era per tutti, almeno per chi come noi viveva in un continente come lâEuropa, al sicuro nelle nostre tiepide case, un dato scontato, acquisito, e pensavamo che non sarebbe mai tramontata. Dico un continente, ma dovrei dire la nostra parte, quella occidentale, del continente, perché nella parte orientale invece imperversavano mancanza di libertà , processi, gulag, invasioni, come nellâUngheria del 1956 o nella Praga del 1968. E anche in Occidente, come non ricordare la Spagna di Franco, il Portogallo di Salazar, la Grecia dei colonnelli? No, era davvero piccola la parte dellâEuropa in cui potevamo farci forti della nostra storia passata, richiamare Locke e Kant, la Rivoluzione francese e la lotta contro il nazifascismo, fin dimenticare i nostri crimini coloniali.
Ma la democrazia non resta tranquilla nel suo nido privilegiato, ha bisogno di essere difesa, riedificata ad ogni cambiamento, rinnovata. I nazionalismi, i populismi, ne sono il peggior nemico. Ed ecco oggi il gran parlare che se ne fa, il bisogno di capire cosa effettivamente sia, quale ne sia stata lâorigine. Quali i suoi rapporti con le guerre, negli anni in cui un paese dittatoriale come la Russia attacca un paese vicino per distruggerne la libertà . Quali i suoi rapporti con quella Europa senza confini che stiamo cercando faticosamente di rendere più forte e viva, unâEuropa che richiede per esservi accettato alcuni criteri indispensabili, come la democrazia politica, la libertà , e perfino il rifiuto della pena di morte.
E poi lâignoranza: provate a chiedere cosa caratterizzi la democrazia, e tanti avranno unâunica risposta, il voto. Certo, la scelta popolare garantita dalle elezioni ne è una precondizione, ma molte altre ne sono le condizioni, e fra esse la libertà di parola, di coscienza, di religione, lâuguaglianza davanti alla legge, il rifiuto delle discriminazioni, la limitazione delle disuguaglianze sociali. E non tutti i paesi di questa nostra Europa hanno oggi saputo mantenersi dentro questi limiti. E fin gli Stati Uniti, lâaltra patria della democrazia e dello stesso pensiero democratico, assiste ora ad una crisi senza precedenti della sua struttura politica. E tanto sono minacciate le democrazie che si sente il bisogno di inventare altri nomi per definire il loro stato ibrido, come âdemocraturaâ.
Fra tutte queste riflessioni e queste domande, che tanto ci confortano in questa crisi ma che anche tanto ci inquietano sul nostro futuro, vorrei ricordare lâiniziativa di Gariwo, che ha creato una Carta della Democrazia e che su questo tema si interrogherà nei prossimi giorni a Milano, in presenza di studiosi dellâOccidente e dellâEst, e la proporrà ai rappresentanti della rete dei trecento giardini dei Giusti nel mondo che saranno presenti con le Nazioni Unite. Al centro del dibattito non possono non essere gli esiti della guerra della Russia contro lâUcraina e le minacce che pesano su questa nostra piccola parte dâEuropa, ma anche lâemergere della forza contro il diritto, lâattacco sempre più violento al diritto internazionale da parte degli Stati Uniti e di Israele, i nazionalismi dilaganti, i crimini contro lâumanità , i nuovi razzismi. «Dopo la fine della Seconda guerra mondiale e la caduta del Muro di Berlino sta accadendo nel mondo qualche cosa di inaspettato per chi ha creduto che i valori della democrazia, del dialogo, della pace e della nonviolenza fossero qualche cosa di garantito su cui si poteva costruire il futuro. Invece, le nuove immagini delle autocrazie del XXI secolo, che perseguitano e mettono a tacere ogni voce differente, così come il clima di odio e di contrapposizione che si percepisce sulla scena pubblica, ci fanno capire come si sta perdendo il gusto e il richiamo ai fondamenti della democrazia».
Nella nostra agenda però, non potrà esserci solo lâelaborazione di una linea meramente difensiva. Difendere la democrazia di fronte a tutte queste minacce, oggi, non può non comportare un difficile lavoro di ricostruzione, che non può venire solo dallâalto, da un rinnovamento delle istituzioni, ma deve venire anche dal basso, dai giovani che chiedono di capire e di sapere. La mancanza di una prospettiva realmente politica, non solo ancorata ai partiti, ai voti, al potere; i timori di fronte alle assunzioni di responsabilità , propri degli individui come dei governi, lâacquiescenza di fronte alle prepotenze degli Stati e dei potenti, lâignoranza e lâincultura prese a modello, tutto questo fa parte delle minacce alla democrazia, delle prospettive più angosciose sul futuro nostro e dei nostri figli. Ma forse, se le riconosciamo, siamo ancora in tempo a creare un mondo a misura degli esseri umani.

(di Michele Serra – repubblica.it) – à come se il derubato fosse invitato a dimenticare la refurtiva; e il ladro autorizzato a tenersela, e amnistiato di tutti i suoi crimini. In cambio, il derubato avrà salva la vita e dunque deve pure ringraziare la sedicente âcomunità transatlanticaâ per la sua gentile intercessione.
Questa è la pace che Trump offre a Putin e impone agli ucraini, che nessuno potrà biasimare se dovessero accettare: avere i cingoli dei carri armati alle porte di casa e vivere sotto le bombe (in buona parte su obiettivi civili) per quattro anni non è una condizione che possa essere protratta allâinfinito. La pace di Trump per lâUcraina assomiglia dunque a quella per Gaza, il più debole si arrenda, il più forte canti vittoria, poi ci penserà la ricostruzione a far brillare gli occhi della speculazione che, bontà sua, è transnazionale, non conosce frontiere, non si attarda in inutili patriottismi: dove câè da fare quattrini si va. E si pretende, per giunta, la gratitudine dei bombardati.
Le macerie sono un business formidabile, specie se chi le ha prodotte (vedi Gaza) chiede una partnership nella ricostruzione: ne ha diritto, no? Distruggendo, ha gettato le basi dei nuovi cantieri. Dunque non ci stupiremo se un giorno anche gli oligarchi russi, come Netanyahu, dovessero ricavare un vantaggio economico dalla sedicente pace: già la sospensione delle sanzioni è un bel gol a porta vuota.
Non credo ci siano stati tempi favorevoli ai deboli. Ma questo è il tempo in cui lâesultanza dei forti non ha neppure bisogno del velo dellâipocrisia. Putin tornerà a sedersi al tavolo dei vincitori. Altre domande?

(di Lucio Caracciolo – repubblica.it) – Il cosiddetto piano di pace americano per lâUcraina ne sanziona la fine quale Stato indipendente, offre alla Russia lâopportunità di spacciare per vittoria la forzosa subordinazione strategica alla Cina e agli Stati Uniti di mascherare con il tradimento del loro ex protetto un fallimento annunciato. Questa svolta coglie lâItalia altrove. Fra referendum sulle carriere dei magistrati che la politica dipinge da ordalia e sapide polemiche sulle chiacchiere a un tavolo di romanisti intorno ai notoriamente dissonanti rapporti fra Quirinale e Palazzo Chigi, sembra che la guerra alle nostre porte passi in cavalleria. Si conferma un tratto della nostra psiche collettiva: le questioni esistenziali â sì, in guerra si muore â scadono a esotiche, le meno decisive si strillano vitali. Non sappiamo quale effetto avrà lâultimatum di Trump a Zelensky. Difficilmente più di una fragile tregua negoziale. O forse lâoccasione per il presidente americano di rovesciare il tavolo e lasciare che sia il campo di battaglia a decidere. Ovvero a sancire il non troppo graduale crollo del fronte ucraino. E il conseguente rovesciamento del regime, minato dalla corruzione endemica che gli amici americani dâimprovviso riscoprono come arma di pressione contro Zelensky.
Se la guerra continua nessuno può illudersi di governarla. E tutti devono temere che possa coinvolgerli sempre meno indirettamente. Noi italiani compresi. Rischiamo di finire in un meccanismo del quale non avremo alcun controllo perché deciso altrove da chi si gioca tutto e non ha quindi alcun interesse a tener conto di noi. Siamo o almeno possiamo sembrare unâisola felice, ma non disponiamo affatto di una polizza vitalizia contro la guerra. Da popolo di pensionati contiamo su immaginarie rendite illimitate che di norma servono più gli assicuratori che gli assicurati. Nella fattispecie, poi, il garante americano ha smesso di garantire chiunque dovendo anzitutto garantire sé stesso. (Tra parentesi: era così anche prima, ma per tacito accordo che conveniva a tutti, nemici compresi, si faceva finta di nulla.) Un computo puramente ragionieristico ci conferma scadute le ragioni della nostra sicurezza.
Scaduta lâAlleanza Atlantica, forma strategica dellâimpero europeo dellâAmerica, sotto il cui ombrello abbiamo goduto dei migliori ottantâanni della nostra vita unitaria, che scontiamo irripetibili. Scaduta lâarchitettura europea, Sagrada Familia inscritta nellâOccidente strategico a guida americana, che funziona semmai al contrario: serve a palesare quindi inasprire le differenze fra i soci. Con i âvolenterosiâ apparentemente disposti a battersi fino allâultimo ucraino e convinti che Putin voglia e possa battere il record di penetrazione russa in Europa detenuto da Alessandro I (Parigi, 31 marzo 1814), contro i âfilo-russiâ (o meglio anti-ucraini, tra cui anche i polacchi già anti-russi e anti-tedeschi) e alcuni âvolenterosiâ in maschera che non vedono lâora di riaprire i rubinetti del gas moscovita. Scaduta la certezza di vivere nellâintorno relativamente tranquillo ereditato dalla guerra fredda, che abbiamo contribuito a destabilizzare con perizia degna di miglior causa, dai Balcani adriatici fino alle Libie, cedute in comodato dâuso a turchi e russi. Con lâaggiunta questa sì esistenziale delle guerre di Israele contro sé stesso, che minacciano di culminare in scontro con la Turchia â altro che Iran. Risultato: il Mar Rosso, che per noi significa accesso via Oceano Indiano allâAsia che conta, e per tale fu identificato ad Italia appena unita dal ministro degli Esteri Pasquale Stanislao Mancini (1881-85), è semichiuso a tempo indeterminato causa sfida huti.
Lâultima cosa di cui un paese in tali condizioni ha bisogno è lâallarmismo. Ma la penultima, che poi sarebbe la prima, è la coscienza della rivoluzione geopolitica in cui siamo immersi come oggetto non identificato. Per scelta propria. Quasi potessimo passare inosservati. LâItalia ha un valore non indifferente al mercato delle potenze. Potrebbe servirsene per partecipare agli scambi irregolari in corso. Oppure rassegnarsi al destino di merce al mercato altrui. Dove il prezzo non lo fissiamo noi. Se ne può parlare?
âAh, anche antropologo!â, diremmo, parafrasando la signorina Silvani con Fantozzi che sâimprovvisa poeta. Ha detto Nordio (e tenete conto che era mattina) che la violenza degli uomini […]

(di Daniela Ranieri – ilfattoquotidiano.it) – âAh, anche antropologo!â, diremmo, parafrasando la signorina Silvani con Fantozzi che sâimprovvisa poeta. Ha detto Nordio (e tenete conto che era mattina) che la violenza degli uomini sulle donne è da attribuire alla âselezione darwinianaâ, cioè alla legge del più forte, sedimentatasi nei millenni nella mentalità del maschio. Sissignore: alla faccia della separazione delle carriere, il si fa per dire ministro Nordio deve aver fatto studi suoi di paleogenetica, oltre a quelli giuridici di cui oggi si vedono i frutti, e scoperto che questa âsedimentazione è difficile da rimuovere perché⦠si è formata in millenni di sopraffazione, di superiorità â. E quindi? âQuindi anche se oggi lâuomo accetta, e deve accettare, questa assoluta parità formale e sostanziale nei confronti della donna, nel suo subconscio, nel suo codice genetico trova sempre una certa resistenzaâ. Da qui i femminicidi. Non è ributtante e deliberata vigliaccheria omicida: è il Dna che si oppone alla parità . Lâomo è omo. E qui entra in gioco Nordio col suo team di paleontologi e genetisti di via Arenula: dopo aver consigliato alle donne inseguite da uno stalker omicida di rifugiarsi in chiesa o in farmacia, dove il killer verrebbe messo in fuga da un prete che brandisce il crocifisso o da un rappresentante dellâAulin che gli legge il bugiardino â Nordio ha un piano per âstarareâ questa convinzione atavica dal cervello degli uomini: âUn poâ come fanno gli psicologi, gli ipnotisti, gli psicanalisti, quando trovano una specie di tara mentale che deriva da un trauma adolescenziale, noi dobbiamo cercare di rimuovere dalla mentalità dei maschietti (sic, ndr) questa sedimentazione millenaria di superiorità che continua a tradursi in atti di violenzaâ. Ah, vedi. Non è chiaro in cosa consisterà la procedura, se verrà affidata ad appositi specialisti o se ne occuperà direttamente Nordio, che accopperà i reprobi con un paio di spritz per poi estirpare la tara ex lege attraverso iniezioni di genoma non violento. Sarebbe più facile inserire lâeducazione alle relazioni affettive nei programmi di scuola, ma la Roccella è contraria. Certo è che se è il codice genetico a decidere, questi âmaschiettiâ sono giustificati: non è colpa loro, è il Neanderthal che ribolle in loro (a volte è solo lâalcol).
Il piano di pace a Gaza è una farsa tragicomica che diviene emblematica della politica internazionale odierna, pilotata da un Occidente in declino economico e tracollo morale che […]

(di Elena Basile – ilfattoquotidiano.it) – Il piano di pace a Gaza è una farsa tragicomica che diviene emblematica della politica internazionale odierna, pilotata da un Occidente in declino economico e tracollo morale che ha trasformato la democrazia in demagogia, il diritto in forza, la libertà di stampa e di espressione in censura sistematica del pensiero diverso. Così ritorniamo alla Società delle Nazioni e ai mandati coloniali. Gaza, avulsa dallo Stato palestinese, pur ben definito dalle risoluzioni dellâOnu, viene governata da un Consiglio di pace il cui presidente, Trump, deciderà le fasi di un improbabile autogoverno palestinese, demandato alle calende greche. Anp e arabi moderati sembrano sostenere il progetto che appare soprattutto una iniziativa plutocratica per il bene delle multinazionali.
Difficile comprendere come una forza internazionale composta di eserciti dei Paesi arabi moderati potrà mai installarsi su un territorio ancora sotto il controllo di Hamas. Lâorganizzazione ha comprensibilmente rifiutato di disarmare, data la sfiducia nei patti con Israele e la scarsa lungimiranza del piano di pace. Mentre lâaspirante al Nobel si diletta con mediazioni che sembrano scritte per un copione hollywoodiano, Netanyahu agisce, continuando a eseguire il progetto del grande Israele, seminando distruzione e morte in Palestina, rendendo il genocidio visibile e concreto per tutti coloro che hanno lâonestà di guardarlo in faccia. Le complicità occidentali non sono terminate, nonostante le denunce documentate di organi internazionali e associazioni umanitarie. LâOnu nel piano non esiste eppure il Consiglio di sicurezza lo ha approvato grazie allâastensione di Russia e Cina. Molti, a ragione, affermano che di fronte allâalternativa â mano libera a Israele per continuare la sua azione violenta e costruire lâinferno biblico di Gaza â ben venga anche il piano trumpiano. Per motivi politici Mosca e Pechino hanno avuto il loro tornaconto e hanno preferito non divenire i sabotatori dellâapparente cessate il fuoco. La diplomazia trumpiana e occidentale è divenuta un negoziato mafioso, con aut-aut governati dalla forza.
Una vera pace a Gaza dovrebbe implicare ben altro. Il rispetto da parte di Israele delle risoluzioni Onu, una forza internazionale composta da palestinesi, da arabi sunniti e sciiti, una conferenza di pace con tutti gli attori in campo inclusi Iran, Russia e Cina. Chiedetelo a uno studente di politica internazionale del primo anno universitario e vi saprà rispondere. Peccato che alti diplomatici e analisti, coccolati dai guru delle televisioni del mainstream, non vi siano invece ancora arrivati.
Allo stesso modo si pensa di negoziare con Maduro puntandogli la pistola sulla tempia. Eppure non si vedono i politici europei, troppo occupati a stigmatizzare il killer, il macellaio, lâorco Putin, minimamente sorpresi da quanto accade a Gaza o in America Latina. Sanno bene di essere i depositari del giudizio morale: tocca a loro stabilire chi sono i cattivi della Terra, cioè coloro che si oppongono ai loro interessi.
Invece il piano di pace sullâUcraina elaborato da Witkoff quando, dopo il disastro di Pokrovsk, è stato chiaro al Pentagono (ma non alle lobby delle armi europee) che lâUcraina ha definitivamente perso la guerra, contiene alcuni elementi interessanti. La neutralità di Kiev che può invece accedere allâUe (se i suoi membri lo vorranno, cosa improbabile). La fine dellâespansionismo Nato. Elezioni da un mese dal cessate il fuoco che cacceranno un governo fantoccio sotto ricatto Nato e neonazisti, nazionalisti ucraini. Fine delle sanzioni contro la Russia. Crimea e Donbass russi. Linea del fronte congelata nei territori restanti. Patto di non aggressione tra Russia, Nato, Ucraina. Esercito ucraino dimezzato. Garanzie Usa a Kiev in caso di aggressione russa, che sarebbero invalidate da unâaggressione ucraina contro la Russia. Utilizzo di 100 miliardi russi per la ricostruzione ucraina. Cooperazione Usa-Russia in Ucraina per progetti di interesse comune. Ho sempre affermato che si poteva pervenire a una vera pace soltanto se fossero state sconfessate le politiche neo conservatrici americane (ereditate oggi da Kaja Kallas e da Ursula von der Leyen, soprattutto dai popolari, liberali e finti socialisti europei, asserviti allo Stato profondo, alle lobby finanziarie e delle armi), mirate a infliggere una sconfitta storica alla Russia attraverso il buco nero dellâUcraina (come già suggerito da Brzezinski nel libro La Grande Scacchiera nel 1997), tentando un regime change e uno smantellamento della Federazione Russa. Preghiamo â per la pace in Europa, per il destino di questa Europa corrotta, per i ragazzi ucraini al fronte, per i nostri figli e nipoti â che il piano di pace (se le notizie di stampa trapelate corrispondono al vero), vada in porto.
Forse è stato un poâ prematuro definire âgiornalismo spazzaturaâ (âRepubblicaâ) lo scoop de âLa Verità â sulla voce dal sen fuggita di Francesco Saverio Garofani. Poiché, oltre […]

(di Antonio Padellaro – ilfattoquotidiano.it) – Forse è stato un poâ prematuro definire âgiornalismo spazzaturaâ (âRepubblicaâ) lo scoop de âLa Verità â sulla voce dal sen fuggita di Francesco Saverio Garofani. Poiché, oltre al fatto in sé piuttosto sfizioso (le confidenze in una tavolata dellâautorevole consigliere, dicono, molto ascoltato da Sergio Mattarella), soltanto un pregiudizio, per così dire ideologico, potrebbe impedire di constatare il gran casino che i titoli e gli articoli degli âzelanti gazzettieriâ (sempre âRepubblicaâ) hanno provocato. A cominciare dallo scontro istituzionale, en plein air, tra lâinquilino del Quirinale e la premier Giorgia Meloni. Non proprio una cosetta, anche perché di certi dissapori (per esempio sullâUcraina, con il Colle sempre più schierato per lâarmiamoci e partite e con i dubbi âtrumpianiâ, invece, di Palazzo Chigi) ora si ha una significativa evidenza.
Sarà pure un âcomplotto alla vaccinaraâ (ancora âRepubblicaâ) ordito dalla perfida destra di governo. Ma trattasi pur sempre di vaccinare piuttosto saporite visto che per giorni hanno nutrito le paginate, ancorché col ditino alzato, dei quotidiani e le copertine dei talk. Il che ci porta a una domanda per così dire laterale che riguarda lâattivarsi dei corazzieri con pennacchio e stilografica (oggi con il tablet) ogniqualvolta si osi sfiorare la sacralità quirinalesca, e ciò sin dai tempi di Giorgio Napolitano.
Nellâarte di sopire e troncare, troncare e sopire, la cosiddetta grande informazione nostrana è stata educata, si può dire, con una certa continuità . Dal ventennio fascista al ventennio democristiano, al ventennio berlusconiano, la censura imposta e lâautocensura accettata dai supremi decisori hanno rappresentato per le testate (fortunatamente non tutte) un provvidenziale alibi onde evitare grane o per mettersi a favore di vento.
Oggi, però, con una politica che suscita più risate che paura, si stenta a comprendere per quale ragione carta stampata e talk preferiscano imboscare âcerteâ notizie piuttosto che darle. Il tentato occultamento delle, perlomeno, incaute dichiarazioni di Garofani, andrebbe studiato nelle scuole di giornalismo. Come modello, appunto, di non giornalismo. Un pasticcio da cui i protagonisti escono tutti maluccio. Certamente, gli ambienti quirinaleschi, costretti a prendere sul serio ciò che allâinizio credevano di aver ridicolizzato. Ovviamente, il garrulo consigliere Garofani. E, soprattutto, una certa informazione che si considera, non si sa bene a che titolo, garante delle supreme istituzioni e per la quale la pace dellâordine spesso è più importante della verità dei fatti. Che a volte si comporta come quel frate superiore manzoniano per il quale lâessenziale è che siano salvi tutti i decori, tutti i prestigi e tutte le mezze verità .

(di Marco Travaglio – il Fatto Quotidiano) – âMarcolinooo!â, âTravagliucciooo!â. Chiamava puntualmente nellâora più impossibile, 19.30 o 20.30, quando le persone normali stanno per cenare o hanno appena cenato, mentre qui al Fatto si titola la prima pagina. Ornella voleva sempre commentare le notizie dei tg e sapere in anteprima cosâavrei scritto il giorno dopo. âMa hai visto Trump?â, âE Putin?â, âMa lâhai sentita la Meloni?â, âMi spieghi […]

(Enrica Perucchietti – lindipendente.online) – Non si tratta più di un sospetto: il sistema mediatico europeo è forgiato, selezionato, premiato o punito in base alla sua adesione ai dogmi dellâeuropeismo. A dimostrarlo, in modo inequivocabile, è il rapporto Brusselsâs Media Machine, realizzato dal giornalista e saggista Thomas Fazi per il think-tank ungherese Mathias Corvinus Collegium (MCC Brussels). Uno studio rigoroso e documentato che scoperchia lâenorme apparato con cui Commissione e Parlamento Europeo finanziano il circuito dellâinformazione con fondi europei, trasformandolo in una vera e propria macchina del consenso, e che viene pubblicato pochi mesi dopo il precedente rapporto The Euâs propaganda machine, incentrato sul ruolo delle ONG e dei centri studio come megafoni dellâimperialismo culturale della Commissione.Â
Secondo il rapporto, lâUE ha riversato negli ultimi dieci anni almeno un miliardo di euro a favore di media, agenzie di stampa, programmi giornalistici e piattaforme digitali. Una cifra che corrisponde a circa 80 milioni di euro lâanno in finanziamenti diretti, senza contare quelli indiretti, come contratti pubblicitari o di comunicazione assegnati ad agenzie di marketing, che poi ridistribuiscono i fondi ai principali organi di stampa che accettano di diffondere la narrazione europeista. Lungi dal limitarsi a sostenere il pluralismo e lâindipendenza, lâobiettivo di questo sistema appare orientato anche a plasmare lâopinione pubblica, promuovere narrazioni in favore delle politiche europee e marginalizzare le voci critiche.
La rete di finanziamento si articola in una serie di programmi chiave:
Uno degli snodi centrali è il ruolo delle agenzie di stampa, la mano nascosta che plasma la narrazione mediatica globale. Essendo fonti primarie per centinaia di media, controllarne la linea equivale a controllare il messaggio, spesso replicato alla lettera dagli altri organi di stampa. à per questo che la Commissione collabora strutturalmente con ANSA (Italia), EFE (Spagna), Lusa (Portogallo), AFP (Francia) e molte altre. La sola ANSA, ad esempio, ha partecipato ad almeno due dozzine di campagne mediatiche finanziate dallâUE.
La Commissione ha anche speso quasi 2 milioni di euro attraverso il suo programma Azioni Multimediali (a cui sono stati stanziati oltre 20 milioni di euro solo nel 2024) per la realizzazione dellâEuropean Newsroom (ENR): avviato nel 2022, il progetto ha previsto la creazione di un centro di produzione di notizie a Bruxelles, dove i corrispondenti delle âagenzieâ producono congiuntamente riassunti di notizie due volte a settimana, alimentando reciprocamente le rispettive agenzie di stampa e i canali di diffusione, offrendo così una prospettiva paneuropea sugli affari dellâUE al pubblico di tutto il continente.

Uno dei canali più significativi attraverso cui la Commissione Europea finanzia â e, quindi, indirizza â lâinformazione in Europa è il programma Journalism Partnerships, attivo dal 2021 e incardinato nel quadro del programma Creative Europe. Si tratta di una linea di finanziamento che ha messo a disposizione circa 50 milioni di euro nel periodo 2021-2027 per progetti âcollaborativiâ tra testate, reti editoriali e organizzazioni giornalistiche europee. Lâobiettivo di chiarato è «rafforzare il pluralismo e la resilienza del settore giornalistico». Tuttavia il programma premia con insistenza le proposte orientate allâintegrazione europea, alla promozione dellâagenda verde e digitale dellâUE, alla «coerenza informativa» su temi chiave come migrazioni, politiche economiche, guerra in Ucraina e contrasto allâeuroscetticismo. Diverse testate italiane partecipano attivamente ai progetti Journalism Partnerships, in consorzi transnazionali che coinvolgono media, università e ONG. à il caso, ad esempio, del gruppo GEDI (editore di Repubblica, La Stampa, HuffPost), di RAI e di piattaforme come Pagella Politica.
Il punto critico, sottolineato dal dossier di Fazi, è che questi partenariati spesso contribuiscono a standardizzare la narrazione europea, allineando linguaggio, messaggi e priorità editoriali. Il giornalismo diventa così una rete di ripetizione strutturata, dove il dissenso non viene censurato apertamente, ma disincentivato silenziosamente.
LâOsservatorio Europeo dei Media Digitali (EDMO), presentato come bastione contro le fake news e finanziato con almeno 27 milioni di euro, viene in realtà definito un sistema di filtraggio ideologico. Partecipano al progetto agenzie già coinvolte in attività promozionali per lâUE, tra cui AFP, ANP, DPA e Lusa. In Italia, partner di EDMO è il gruppo GEDI e lâemittente pubblica RAI.
Quando chi riceve fondi per fare âgiornalismoâ è anche incaricato di sorvegliare i confini del discorso accettabile e di decidere cosa è vero e cosa è falso, il rischio non è solo quello della censura: è la soppressione sistematica del dissenso, bollato come âdisinformazioneâ.
Uno dei casi più emblematici della fusione tra media e potere europeo è quello di Euronews, lâemittente televisiva paneuropea con sede a Bruxelles che venne fondata nel 1993 da una collaborazione tra le emittenti pubbliche del continente, oggi di proprietà del fondo dâinvestimenti portoghese Alpac Capital. Storicamente presentata come «la voce neutrale dellâEuropa» ma che, nel tempo, si è trasformata in una appendice comunicativa della Commissione Europea. Questâultima ha versato tra il 2015 e il 2020 circa 122 milioni di euro nelle casse del network con sede a Lione. Questi fondi hanno rappresentato fino al 60% del fatturato totale dellâemittente in certi anni, rendendo Bruxelles di fatto il suo principale finanziatore. Il paradosso è che, pur formalmente indipendente, Euronews ha stipulato un contratto di servizio pubblico con la Commissione, che le ha affidato il compito di diffondere contenuti sulle politiche e le priorità europee e di fornire copertura in tutte le lingue ufficiali dellâUE. Una funzione nobile solo in apparenza: nella realtà si traduce in una linea editoriale strutturalmente allineata allâagenda comunitaria, in cambio di fondi che ne garantiscono la sopravvivenza economica. Questo modello rappresenta una forma diretta di âpropaganda istituzionaleâ, che si regge su vincoli economici e accordi contrattuali, agendo di fatto come organo promozionale.
E le inchieste? LâUE finanzia anche il giornalismo investigativo, purché sia diretto allâesterno. Gran parte dei progetti finanziati â come IJ4EU (3 milioni), ICIJ, MediaResilience â puntano a investigare su Russia, Kazakistan, Africa, paradisi fiscali. Nessuna indagine seria su corruzione od opacità istituzionale allâinterno dellâUE, nonostante i numerosi scandali documentati al suo interno. Quello dâinchiesta appare quindi come una forma di giornalismo da incentivare ma a patto che non si occupi di quanto avviene dentro le mura del Vecchio Continente.

Il Parlamento Europeo, attraverso la sua Direzione generale della Comunicazione, ha stanziato quasi 30 milioni di euro dal 2020 per campagne mediatiche, inclusi contenuti esplicitamente autopromozionali in vista delle elezioni. Lâobiettivo è «aumentare in modo più efficace la portata verso un pubblico mirato con messaggi relativi allâattività del Parlamento Europeo», aggiungendo «legittimità alle campagne del Parlamento».

Il modello seguito da Bruxelles ricalca quello americano dello USAID, lâagenzia per lo sviluppo finita sotto la scure del governo Trump, che per decenni ha finanziato media allâestero per promuovere gli interessi geopolitici statunitensi. Non a caso, molti progetti UE allâestero (Ucraina, Balcani, Caucaso) sono orientati proprio a ârafforzare la democraziaâ attraverso il finanziamento a media e organizzazioni di stampo liberale ed europeista. Solo nel 2025 sono stati destinati 10 milioni di euro ai media ucraini. Dopo il taglio ai fondi da parte di Trump a Radio Free Europe/Radio Liberty, Bruxelles è subentrata nel ruolo di sponsor.
La macchina della propaganda europea, che si dipana tra ONG, media e accademia, «supera le aspettative del più cinico dei critici», ha spiegato a LâIndipendente Thomas Fazi, che è rimasto stupito dalla mole di finanziamenti diretti ai media. Ed è anche per questo che il rapporto sta avendo un impatto silenzioso, ma non per questo meno incisivo, sui palazzi di Bruxelles.
Il quadro delineato è chiaro: dal rapporto emerge una Commissione Europea interessata non tanto a sostenere la stampa libera, quanto a comprarne i favori, in quella che viene definita una «relazione semi-strutturale tra istituzioni europee e media mainstream». Non si tratta di intromissioni redazionali, ma di creare un rapporto di dipendenza economica, che induce automaticamente allineamento e servilismo. Un sistema si autoalimenta: i media che già mostrano simpatia per Bruxelles ricevono fondi; chi li riceve evita critiche per non perderli. Un circolo vizioso che soffoca ogni autonomia. E tutto questo, va ricordato, viene pagato con i soldi dei contribuenti. Quegli stessi cittadini che ricevono una verità confezionata su misura, in cui le testate parlano con una voce sola, ripetendo le stesse parole dâordine, gli stessi titoli, le stesse versioni fotocopia. Lâeffetto è devastante: si uccide il pluralismo, si offusca il dissenso, si trasforma il giornalismo in megafono della tecnocrazia.

Câè unâillusione persistente nel dibattito pubblico italiano: che la stampa mainstream sia libera per definizione, che i media rappresentino âil cane da guardiaâ del potere e che la neutralità sia tutelata da una presunta autorevolezza editoriale. Uno sguardo ai dati rivela unâaltra realtà . Secondo il dossier Brusselsâs Media Machine di Thomas Fazi (MCC Brussels, giugno 2025), il sistema di finanziamento UE alla stampa è tuttâaltro che secondario: si tratta di una macchina che distribuisce circa 80 milioni di euro allâanno per promuovere narrazioni pro-UE, spesso senza trasparenza per il lettore. LâItalia, da questo punto di vista, è un caso esemplare. Il rapporto evidenzia un vero e proprio sistema parallelo di finanziamento condizionato, in cui Bruxelles premia gli allineati e isola i divergenti. Si badi bene: non si tratta di piccoli editori locali bisognosi di sopravvivere in un mercato difficile, ma di colossi editoriali strutturati che ricevono fondi consistenti in cambio di una narrazione smaccatamente filoeuropeista. Il tutto senza dichiarare in modo trasparente al lettore il ruolo dellâUE nella produzione dei contenuti. Una violazione della fiducia, che richiama alla mente le modalità della propaganda e del âmarketing occultoâ.
ANSA, lâagenzia di stampa leader in Italia, è il principale vettore della narrazione europeista, per il semplice motivo che i suoi contenuti vengono rilanciati da centinaia di altre testate, locali e nazionali. Secondo i dati ufficiali analizzati da Fazi, ANSA ha ricevuto quasi 6 milioni di euro dalla Commissione Europea negli ultimi dieci anni. Nel dettaglio, lâagenzia di stampa ha beneficiato di oltre 800.000 euro dalla Commissione Europea per almeno tre progetti strutturati â Italy: Cohesion Goes Local (265.000 euro), Time4Results (270.000 euro) e The Cohesion Policy Today and Tomorrow â Italy (270.000 euro). Questi progetti, finanziati nellâambito del programma IMREG (Information Measures for the EU Cohesion Policy), hanno prodotto migliaia di contenuti multimediali su scala nazionale e locale, molti dei quali rilanciati da oltre 20 testate locali, tra cui Gazzetta del Sud, La Sicilia e La Gazzetta del Mezzogiorno. ANSA è stata coinvolta anche nel progetto FANDANGO, istituito «per individuare le notizie false e fornire una comunicazione più efficiente e verificata per tutti i cittadini europei», finanziato quasi interamente dalla Commissione Europea (attraverso il programma Horizon 2020) per un importo di quasi 3 milioni di euro.
La funzione è chiara: portare il verbo europeista nelle periferie e legare lâimmagine dellâUE a benefici concreti e tangibili. Lâinganno più grande? Nella maggior parte dei casi non è specificato che i contenuti siano stati finanziati dallâUE, né che le linee editoriali rispondano a obiettivi dettati da Bruxelles.

Anche la RAI è coinvolta in modo sistematico nel circuito dei finanziamenti europei, in particolare attraverso progetti legati allâalfabetizzazione mediatica, alla promozione dei âvalori europeiâ e alla lotta alla disinformazione. La RAI partecipa, infatti, allâhub italiano dellâEuropean Digital Media Observatory (EDMO), assieme a GEDI, Pagella Politica, Università di Roma Tor Vergata e TIM. Lâiniziativa, che rientra nel programma Digital Europe, è stata finanziata con oltre 27 milioni di euro a livello europeo, di cui una parte consistente è destinata proprio alla realizzazione di contenuti multimediali, attività formative e campagne di verifica dei fatti.
La testata La Repubblica, parte del gruppo GEDI, quotidiano di riferimento della borghesia progressista, storicamente vicino allâideologia europeista, ha ricevuto 260.000 euro per il progetto Europa, Italia, unâiniziativa editoriale volta a promuovere «una migliore comprensione dellâazione europea nei territori». Nella pratica, si tratta di articoli celebrativi dei fondi europei, dei progetti PNRR, delle sinergie tra Bruxelles e le regioni. Anche in questo caso, la trasparenza è minima: solo un piccolo logo UE sul banner del progetto, nessuna chiara indicazione che il contenuto sia frutto di una sponsorizzazione istituzionale.
à il turno di Domani, testata fondata da Carlo De Benedetti, oltre ad aver fruito di 100 mila euro dalla Commissione Europea, figura tra i media coinvolti nel progetto European Focus, finanziato con 470.000 euro per la produzione di una newsletter paneuropea volta a «rafforzare il dibattito europeo».

Che dire poi de Il Sole 24 Ore, quotidiano della Confindustria e punto di riferimento per il mondo economico e finanziario italiano? Anche qui, è difficile stabilire quanto la narrazione pro-UE sia figlia di una linea culturale autonoma e quanto, invece, sia il frutto dei finanziamenti strutturati ricevuti. Oltre ad aver beneficiato di 1,5 milioni di euro di fondi diretti europei, il progetto La politica di coesione in numeri, premiato con 290.000 euro da Bruxelles, ha portato alla pubblicazione di una lunga serie di articoli, analisi e grafici che esaltano il ruolo dellâUnione Europea nello sviluppo economico delle regioni italiane. Eppure, in nessuno di questi articoli si legge chiaramente che lâintera operazione è sponsorizzata dalla Commissione. Non câè una nota redazionale, un disclaimer, una separazione tra contenuto editoriale e comunicazione istituzionale. Il risultato? Una propaganda mascherata da informazione tecnico-finanziaria, dove lâUE appare come unica soluzione razionale ai problemi del Paese.
Da citare, inoltre, Linkiesta, partner del progetto Wounds of Europe (programma Stars4Media), in cui si racconta lâintegrazione europea attraverso podcast e longform journalism. Questo progetto fa parte delle Journalism Partnerships, unâiniziativa da 50 milioni di euro lanciata nel 2021 per promuovere «valori europei» nei contenuti editoriali.
Il rapporto di Fazi evidenzia un punto cruciale, ovvero che i fondi UE non vengono distribuiti a caso: le testate che promuovono attivamente la visione europeista ricevono finanziamenti, mentre le voci critiche vengono sistematicamente ignorate o escluse. Câè una selezione a monte, per cui accedono più facilmente ai finanziamenti le testate che già mostrano una predisposizione favorevole allâUnione Europea.
In un Paese dove la libertà di stampa è già fragile, legata a interessi editoriali, pubblicitari e politici, lâintervento dellâUE attraverso fondi selettivi ha prodotto una compressione ulteriore del pluralismo che riguarda anche il nostro Paese. I media italiani interessati da questo sistema â che pontificano sul pericolo della disinformazione on line e impartiscono lezioni di democrazia â non sono più arbitri, ma giocatori schierati, impegnati a difendere il progetto europeo per ragioni finanziarie. Lâinformazione italiana è diventata unâestensione del potere europeo, funzionale alla costruzione di un consenso artificiale, che inquina il dibattito pubblico.

Lâidea moderna di libertà di stampa affonda le sue radici nellâIlluminismo. Per i filosofi del XVIII secolo la circolazione dei giornali era il primo antidoto contro lâarbitrio del potere: uno strumento capace di alimentare il confronto, permettere la formazione dellâopinione pubblica e vigilare sullâoperato dei governanti. La stampa assunse così un ruolo politico e culturale, diventando veicolo di idee e di dibattito. In questo solco si inserisce la celebre definizione della stampa come âQuarto potereâ. Lâespressione, ispirata ai tre poteri teorizzati da Montesquieu (legislativo, esecutivo e giudiziario), sottolinea la funzione dei media come pilastro democratico aggiuntivo, capace di esercitare un controllo costante sul potere politico. La libertà di stampa, dunque, non è un privilegio, ma una necessità per ogni società democratica.
Lo sviluppo della tradizione dei media occidentali corre di pari passo con lâevoluzione della democrazia in Europa e negli Stati Uniti. Già i pensatori liberali del XVII e XIX secolo, in contrapposizione alla tradizione monarchica e al diritto divino dei re, rivendicavano la libertà di espressione come âdiritto naturaleâ dellâindividuo. In questa prospettiva, la libertà di stampa divenne parte integrante dei diritti fondamentali sanciti dallâideologia liberale.

Successivamente, altre correnti hanno sostenuto la stessa tesi su basi diverse: la libertà di espressione venne sempre più intesa come componente essenziale del contratto sociale. Jürgen Habermas, nel 1962, avrebbe concettualizzato questo spazio come âsfera pubblica borgheseâ: un luogo ideale e aperto in cui i cittadini possono esprimersi, discutere e contribuire al dibattito pubblico senza essere subordinati a logiche di potere o interessi di parte. La Rivoluzione americana e la Rivoluzione francese consolidarono questa visione, sancendo il legame tra giornalismo e democrazia. La Dichiarazione dei diritti dellâuomo e del cittadino del 1789 riconobbe, infatti, la libertà di stampa come diritto fondamentale.

Da quel momento, il giornalismo non fu più considerato soltanto cronaca dei fatti, ma spazio di critica e di partecipazione pubblica: un percorso che, nellâOttocento, portò al giornalismo politico e nel Novecento alla consacrazione del modello investigativo e di inchiesta. Nel XX secolo, infatti, il giornalismo statunitense ha codificato il ruolo del reporter come watchdog, il âcane da guardiaâ incaricato di vigilare sulle istituzioni e denunciarne gli abusi. Si tratta di un giornalismo investigativo che mira a far emergere responsabilità sistemiche e a stimolare conseguenze politiche e giudiziarie. Tra i casi storici più noti possiamo ricordare il Watergate, i Pentagon Papers e lâIran-Contra affair. Sebbene il watchdog journalism resti un presidio indispensabile per la democrazia, capace di rivelare ciò che il potere preferirebbe occultare, oggi questo paradigma vive una profonda crisi che si estende ben oltre gli Stati Uniti.
Nelle democrazie occidentali si deve constatare la trasformazione della stampa da contropotere a cassa di risonanza delle istituzioni e della tecnocrazia. Il meccanismo non si fonda tanto sulla censura diretta, quanto sullâuso sistematico del soft power: una rete di incentivi, finanziamenti, pressioni politiche ed economiche, programmi e piattaforme che orientano lâagenda mediatica e marginalizzano le voci critiche. Un ruolo centrale lo hanno i filantrocapitalisti del calibro di George Soros e Bill Gates, che attraverso le loro fondazioni indirizzano lâagenda mediatica. Secondo unâinchiesta di MintPress News, la Bill & Melinda Gates Foundation ha distribuito oltre 319 milioni di dollari a testate come CNN, BBC, The Guardian, Le Monde e Al-Jazeera, oltre che a centri di giornalismo investigativo e associazioni di categoria. La Gates Foundation ha donato in lungo e in largo a fonti accademiche, con almeno 13,6 milioni di dollari destinati alla prestigiosa rivista medica The Lancet. Persino la formazione dei reporter avviene spesso tramite borse di studio finanziate dagli stessi filantrocapitalisti, creando un sistema chiuso in cui media e giornalisti dipendono dagli stessi soggetti.

Il caso dellâUSAID, che ha usato programmi di ârafforzamento dei mediaâ come strumenti di influenza politica, mostra quanto queste dinamiche non siano eccezioni. Il risultato è una stampa che rischia di perdere la sua funzione critica, sostituita da unâinformazione certificata dallâalto e sempre più allineata ai centri di potere.
In questo scenario ricopre un ruolo fondamentale il fact checking: nato come pratica di verifica dei dati e delle fonti, si è trasformato velocemente in un sistema di certificazione della verità , che assegna bollini di attendibilità o etichette di falsità con criteri spesso opinabili e soggettivi, con effetti diretti sulla visibilità dei contenuti online. La logica che lo sostiene è paternalistica e lâobiettivo di creare una âinformazione certificataâ pone le basi per la legittimazione morale della censura.
Strutture come lâEDMO in Europa o la International Fact-Checking Network a livello globale ricevono finanziamenti da istituzioni pubbliche, fondazioni private e piattaforme digitali, con advisory board in cui siedono esponenti legati a grandi media, Big Tech e fondazioni come la Gates Foundation o la Open Society. Il caso più emblematico è NewsGuard, agenzia americana nata nel 2018 e finanziata anche dal Pentagono, che valuta i media con indici di âcredibilità â. Tra i suoi advisor figurano lâex direttore della CIA Michael Hayden e lâex segretario generale della NATO Anders Fogh Rasmussen, mentre tra gli investitori câè il colosso pubblicitario Publicis. Un meccanismo pensato per contrastare le fake news rischia così di diventare un filtro politico e commerciale dellâinformazione, penalizzando i media indipendenti e proteggendo le narrazioni mainstream.

Durante la pandemia da Covid-19, questa dinamica ha mostrato tutta la sua portata, come testimoniato dai Twitter Files e dai Facebook Files. Il fact checking non si è limitato a correggere errori, ma ha assunto la funzione di filtro preventivo: contenuti divergenti dalla narrativa ufficiale, spesso veri, compresi articoli giornalistici (come lo scoop del New York Post sul laptop di Hunter Biden) sono stati declassati, etichettati come âdisinformazioneâ o rimossi dai social. In molti casi, la stessa categoria di âfake newsâ è stata usata in modo elastico per bollare opinioni scientifiche minoritarie, ipotesi alternative o critiche politiche. Ne è scaturita una forma di âInquisizione digitaleâ: una rete di debunkers e algoritmi che, lungi dal garantire il pluralismo, ha consolidato un monologo informativo, volto a criminalizzare le voci divergenti, alimentando un clima di colpevolizzazione e di conformismo forzato.
Il potere del fact checking non sta solo nelle etichette, ma nellâeffetto sociale che produce. Etichettare un contenuto come âfalsoâ o âpericolosoâ genera isolamento per chi lo diffonde e induce altri a tacere per timore di subire la stessa delegittimazione. à la cosiddetta âspirale del silenzioâ, teoria elaborata da Elisabeth Noelle-Neumann: la percezione che unâopinione sia minoritaria porta gli individui a non esprimerla, rafforzando così lâapparente consenso attorno alla narrativa dominante. Questo meccanismo riduce lo spazio del dibattito pubblico. Invece di discutere e confrontare argomenti, la questione si chiude a monte: unâetichetta di fact checking sancisce cosa è vero e cosa è falso, trasformando la complessità in un verdetto binario.
Il giornalismo ha così smarrito la propria vocazione originaria. Non più guardiano che vigila sul potere, ma cane da compagnia che lo rassicura e lo protegge. Le redazioni, impoverite economicamente e pressate dagli sponsor, rinunciano allâinchiesta indipendente per riprodurre comunicati ufficiali o contenuti già filtrati da network istituzionali. Il fact checking, nato come strumento interno al giornalismo, è diventato invece un apparato esterno che certifica quali media e quali notizie siano legittime.
La parabola che va dallâIlluminismo allâodierno giornalismo certificato segna un arretramento democratico. In nome della lotta alla disinformazione, si sta producendo unâinformazione sempre più omogenea, che riduce il pluralismo e trasforma i media in cinghie di trasmissione delle élite. Il soft power si rivela qui più efficace della censura tradizionale: non vieta, ma orienta; non reprime, ma incentiva. In questo modo, la grande promessa della stampa come garanzia di libertà rischia di dissolversi in un paesaggio informativo disciplinato da algoritmi, fact checkers e finanziamenti istituzionali.

(ANSA) –Â Per far finire la guerra, secondo il 66% degli italiani bisogna “cercare una soluzione diplomatica, anche a costo di qualche rinuncia territoriale dell’Ucraina”, mentre per il 21% Kiev deve continuare a difendersi a oltranza. Ã quanto emerge da un sondaggio realizzato da Izi, azienda di analisi e valutazioni economiche e politiche, presentato nel corso della trasmissione l’Aria che Tira condotta da David Parenzo su La 7.
“Alla domanda su cosa pensano gli italiani del conflitto in corso tra Russia e Ucraina – viene spiegato in una nota – il 44% degli intervistati risponde che ‘la Russia è il Paese invasore senza alcuna giustificazione’, mentre per il 24,4% le responsabilità sono da attribuire a entrambi i Paesi in guerra”.
Per il 47% degli intervistati l’Italia dovrebbe aiutare l’Ucraina “solo diplomaticamente per arrivare a un cessate il fuoco” mentre per il 15,6% l’intervento deve essere “sia con un aiuto economico che con la fornitura di armi”. L’indagine è stata compiuta su 806 interviste effettuate il 19 novembre con metodologia mista CAMI/CAWI.

(ANSA) – “Come al solito molto rumore per nulla. Ho detto quello che pensano tutti e che dico da sempre, cioè che la violenza maschile nei confronti della donna va affrontata essenzialmente in termini culturali”.
Così il ministro della Giustizia, Carlo Nordio, a Stresa, tornando sulle polemiche per le sue parole di ieri sulla violenza contro le donne.
“E’ una miseria argomentativa quella di volermi attribuire a tutti i costi cose che non ho mai detto, anche se mi riconosco la dote, tra le pochissime che ho, di essere chiaro, qualche volta anche troppo”, ha aggiunto.
La violenza maschile, ha aggiunto Nordio, va affrontata “naturalmente con le leggi, la repressione e il codice rosso” ma si tratta “essenzialmente di codice culturale.
L’uomo da millenni è abituato a dominare e vorrei aggiungere che fino a cinquant’anni fa nel nostro codice abbiamo avuto niente meno del delitto d’onore, cioè un crimine che consisteva nell’impunità del marito che uccideva la moglie nel momento in cui ne scopriva l’illegittima relazione carnale”.
“Quindi un maschilismo che affonda le sue radici in modo così profondo da poter essere combattuto solo in termini culturali”, ha concluso.
Cè una famiglia che è andata a vivere, bambini compresi, in un bosco. Accade a Palmoli, in provincia di Chieti. Come in quel delizioso libro che è Il più grande uomo scimmia del […]

(di Massimo Fini – ilfattoquotidiano.it) – Cè una famiglia che è andata a vivere, bambini compresi, in un bosco. Accade a Palmoli, in provincia di Chieti. Come in quel delizioso libro che è Il più grande uomo scimmia del Pleistocene di Roy Lewis, una sorta di âanti Finiâ, lo zio Vania si rifiuta di scendere dallâalbero su cui si è rifugiato e rimprovera aspramente Edward perché si è permesso di scoprire il fuoco (il mito di Prometeo, insomma) così questa famiglia si rifiuta di essere contaminata dal mondo occidentale e, soprattutto, dalle sue regole. à una sorta di âpassare al boscoâ di jungeriana memoria. Non è un caso, credo, che la donna di questa strana famiglia sia unâaustraliana, Catherine Birminghan, che presumibilmente ha avuto contatti con gli aborigeni di quel paese che vivono secondo costumi lontanissimi da quelli occidentali. Il fenomeno si apparenta, in qualche modo, a quello degli hikikomori che si rifiutano di uscire di casa e di avere qualsiasi contatto con lâesterno. Ma in questo caso non si tratta di un singolo ma di una famiglia, minori compresi, la cui educazione è affidata ai genitori o a unâinsegnante privata molisana che fa home schooling.
In una lettera scritta dal legale della famiglia, insieme ai genitori, si sottolinea che ânon commettiamo alcun reato nei confronti dei nostri figli crescendoli in un ambiente naturale con acqua pulita, un posto caldo e sicuro dove dormire, mangiare e giocare⦠la loro crescita sociale è insieme a persone che condividono i nostri valori, mentre vivono costantemente la società attraverso gite e uscite settimanali a negozi, parchi, amici e viciniâ. Nonostante ciò, la Procura dei minorenni di LâAquila ha avviato unâinchiesta che tende a togliere la patria potestà ai genitori e ha collocato i minorenni in una casa famiglia, dove andrà anche la madre. La questione è sottilissima: entro quali limiti lo Stato può introdursi nella vita privata di un individuo, in questo caso di una famiglia? Si avverte qui, sia pur in un caso estremo, quello che ho chiamato âil vizio oscuro dellâOccidenteâ, cioè la tendenza totalitaria a omologare tutto alla nostra cultura. Il âvizioâ nasce con lo scientismo settecentesco e con la ârieducazioneâ dei âbambini selvaggiâ che erano fuggiti dalla famiglia o, per un qualche caso, avevano vissuto dalla nascita in una foresta o in un altro luogo sperduto. Precursore e vittima di questo atteggiamento fu Victor, il âfanciullo selvaggio dellâAveyronâ. Questo bimbo di dodici anni, cresciuto nella solitudine dei boschi dellâAveyron, fu, come ci avverte la relazione scientifica dellâepoca, âavvistato già nel 1797 e, più volte catturato e fuggito, ripreso definitivamente nel gennaio del 1800â. Subì vari esami da cui risultò âun essere subumano: incapace di parlare e comprendere il linguaggio degli uomini, abituato a nutrirsi di ghiande e radici, ignaro di ogni usanza civileâ. Finì, da ultimo, nelle mani dâun medico umanista, fervente ammiratore di Locke e Condillac, Jean Itard, che si propose di trasformarlo in un ragazzo normale. Dopo anni di terapie, Victor non era più un selvaggio autosufficiente, ma non era nemmeno un uomo, era un ritardato e tale rimase per tutta la vita, una povera cosa intristita e umiliata, incapace ormai di badare a se stesso, oggetto di dotti studi sulle conseguenze della âdeprivazione socio-culturaleâ, morì a quarantâanni in una dependance dellâIstituto dei sordomuti.
Ma câè un episodio più recente (1984) quello di una bimba, presumibilmente di dieci anni, trovata nella Sierra Leone dai bravi padri Saveriani. Da quel momento tutta la medicina occidentale, ma anche sovietica (âBaby Hospitalâ, così era stata atrocemente chiamata, almeno al âfanciullo selvaggioâ dellâAveyron era stata dato un nome umano, Victor) si è messa in moto per âsalvarlaâ. Il professor Caffo, neuropsichiatra infantile, ha scritto in una sua relazione: âLa bambina non può occuparsi di se stessa, ha un comportamento anomaloâ. Insomma Baby Hospital doveva essere rieducata a forza. Scrivevo, rispondendo a Caffo, in un articolo pubblicato dal Giorno del 1° marzo 1984: âLa bambina non può occuparsi di se stessa ora, prima ci riusciva benissimo. Per quanto possa sembrare paradossale, era molto più essere umano nella foresta, con le scimmie, di quanto non lo sia oggi nella cosiddetta società civile dove è solo un oggetto, un ânon-essereâ che va normalizzato a forzaâ. La necessità della bambina dâesser salvata è nata il giorno che lâhanno trovata, prima si salvava benissimo da sola. Secondo questa razionalità /irrazionalità di derivazione illuminista è meglio essere un handicappato a New York o a Mosca o a Milano che un bambino libero, anche se privo della parola, nella foresta. Non si poteva fare peggiore ingiuria a questa bimba che âcurandolaâ, diventerà nella società cosiddetta civile, una minorata e unâinfelice, quandâanche, e forse soprattutto, si facesse qualche progresso nella sua ârisocializzazioneâ. à meglio essere bimba fra le scimmie, che scimmia fra gli uomini.