Zuffe, rancori e gelosie. Così la destra litiga inseguendo il «sogno» dell’egemonia culturale. Lo scontro Veneziani-Giuli e i (pochi) intellettuali d’area

(di Fabrizio Roncone – corriere.it) – Tanto per avviare il lavoro: spedire subito un whatsapp al ministro Alessandro Giuli. Testo: «Ciao, ministro, perdona: sto scrivendo una cosa su questa baruffa con Veneziani. Credi di dover aggiungere qualcosa?» (poche ipocrisie: il ministro è stato a lungo il condirettore del Foglio e, anche adesso, ci si continua a dare del tu).
Che poi baruffa, forse, nemmeno rende tanto l’idea (Marcello Veneziani è andato giù duro sul governo e dintorni, Giuli ha risposto puntuto, su La Verità — in aiuto del filosofo/giornalista/scrittore — è allora intervenuto pure Mario Giordano e insomma bum bum! in via della Scrofa si sono ritrovati con un presepe completo di ring).
Il fatto è che una certa nuova egemonia culturale continua ad arrancare da destra tra qualche furbizia — all’ultimo festone di Atreju: «Pasolini era dei nostri!». Ma in passato avevano arruolato pure Dante, Alan Ford e Patty Pravo — più molti frizzi e lazzi: stavolta però, come vedremo, anche veri e propri scazzi, risse dialettiche piene di antichi rancori destrorsi e nuove gelosie, cui bisogna aggiungere le polemiche con il mondo del cinema, quelle intorno alla Rai, per la Rai, comprese le tremende opzioni per chiunque percorra i corridoi del Collegio Romano, sede del Mic (rinuncia, abbandono, recesso, allontanamento, congedo, licenziamento), senza che al concetto di cultura venga mai associato niente di realmente concreto (a parte una scombinata mostra sul Futurismo voluta dalla buon’anima di Jenny Sangiuliano), senza mai nessuna novità, né banale né rivoluzionaria, se si esclude la comparsa sulla scena dell’efferato talento di Beatrice Venezi, che gli orchestrali in rivolta del Teatro La Fenice chiamano, tra stupore e mortificazione, Bacchetta Nera.
Così, l’altro giorno, Veneziani se ne esce — a freddo — con un commento su La Verità. Prima, la prende larga, descrivendo con severità l’operato del governo: «Solo vaghi annunci, tanta fuffa, un po’ di retorica comiziale e qualche ipocrisia». Salva Giorgia Meloni: «C’è lei, soltanto lei, il resto è contorno e comparse». Poi prosegue spietato sul concetto di «egemonia culturale»: «Non saprei indicare qualcosa di rilevante che dica al Paese: da qui è passata la destra — sovranista, nazionale, sociale, patriottica, popolare, conservatrice o che volete voi». Quindi, punta Giuli: «Sul piano delle idee, della cultura e degli orientamenti pubblici e perfino televisivi, eccetto l’inchino al governo, tutto è rimasto come prima».

Giuli — lo avrete saputo — gli replica al volo. «Veneziani sversa su di noi bile nera di cui trabocca il suo animo colmo di cieco rimpianto…». Quindi lo punge. Succo del veleno: rimpiange di non essere al mio posto e poi ora fa il «nemichettista», ma è chiaro a tutti che spera d’essere ricompensato da Palazzo Chigi, «il nostro ex consigliere Rai in quota An, per tacer d’altro».
Roba forte.
Cosa c’è dietro?
Il tempo di rileggersi l’intervento di Giordano («Veneziani è colpevole di non aver leccato gli stivali di Giuli», che comunque gira davvero con stivali tipo Alberto Sordi nel film Il Vigile. «A chi il leccaculo? A noi! Anche questo, in fondo, è un segnale del decadimento della destra al potere»). Poi, il cellulare suona: Din Din! Ecco il whatsapp di Giuli (niente di riservato, posso rivelarvene il contenuto).
«Ciao! Ma no, per me finisce così. Però se riprendi il Passo delle oche sulla Rai di Veneziani ecc ti fai un’idea…».
Bel libro, quel Passo delle Oche (2007, Einaudi): un saggio caustico sulla destra italiana, da Almirante a Fini. Il racconto di come gli eredi del Msi avevano marciato dalle catacombe al potere. Con randellate sparse (La Russa definito «pittoresco scacciapensieri»).
Leggiamo. Pagina 101, scrive Giuli: «…Costretto dalla propria, frustrata vicenda umana a ritrarsi nel racconto delle malattie personali, Veneziani cerca a volte di colpire Fini… Di regola lo fa in nome della sua vecchia mentalità delnociana, un catto-conservatorismo appassito. Ma poi risulta sempre più autentico quando si affida all’inconcludenza, quando narra di sé e dei libri che gli ha bruciato la moglie, del randagio patologico che gli impedisce di dormire per più d’una notte nello stesso posto…». A pagina 116, il ricordo d’una conversazione privata di Veneziani, nel periodo in cui fu consigliere d’amministrazione in viale Mazzini: «Tanto in Rai non si può realizzare niente… L’unico vantaggio del mio ruolo è che ho molto tempo a disposizione per scrivere libri e i soldi per comprarmi una casa».

Sembra di poter intuire che la zuffa nasca dentro una storia di astio sedimentato. Adesso, poi, Mario Giordano infierisce: «Giuli dimentica d’essere diventato ministro solo in virtù d’una Boccia, nel senso di Maria Rosaria, che ha tolto di mezzo Sangiuliano». Tra l’altro non si sa se le sorelle Meloni, prima di arrivare a Giuli, abbiano mai chiesto a Veneziani di diventare ministro. Diciamo che la scelta, comunque, non era ampia.
L’establishment culturale, a destra, è risicato (a essere generosi). Quando Jenny uscì — pieno di dignità, va ammesso — con lo sguardo chino e una cicatrice in testa, Pietrangelo Buttafuoco era alla Biennale di Venezia, mentre Angelo Mellone era in Rai. Quanto a Giordano Bruno Guerri: era ed è considerato inaffidabile. Almeno come Veneziani. Il quale, già nel 2020, su Panorama, scrisse: «Oltre a Giorgia, cosa c’è di notevole nel suo partito? C’è una classe dirigente adeguata, a parte vecchie glorie e giovani cognati?».
È possibile, ma improbabile, che uno così, come insinua Giuli, possa sperare di essere candidato con i Fratelli. Va detto che da tempo — oggi Veneziani ha 70 anni — sembra essere in pace con carriera e potere. «Mi sento come il fu Mattia Pascal. Mi godo la mia morte civile». Aggiunse: «La sinistra ha un’idea dell’egemonia, e sa come praticarla. La destra ha un’idea militare». Credere, obbedire, combattere. «Io sono per pensare, dubitare, dibattere».
Questo, naturalmente, non gli impedisce di avere in antipatia Giuli. Uno studioso di riti religiosi. Suonatore di flauto. Ex camerata di Meridiano Zero, tra gente che menava. Ex ultrà della Roma, sempre tra gente che menava. Con una laurea in Filosofia presa tardi. E con un’aquila (si sospetta fascista) tatuata sul petto. Mentre Veneziani, che da filosofo scrive libri, sul petto porta solo i suoi adorati foulard.
Il racconto sarebbe finito qui.
Ma alle 15,58, da un numero sconosciuto, chiama una voce femminile. Farfuglia un nome, dice si sapere cose tremende di quando Veneziani era in Rai, si fa dare l’indirizzo e-mail. «Le mando tutto».
Egemonia culturale del livore.
La critica. Inadeguate e poco unite: l’accusa sui giornali e nei talk show. I sondaggi però dicono che la partita è aperta, soprattutto sui temi concreti e sociali

(Estratto dell’articolo di Salvatore Cannavò – ilfattoquotidiano.it) – C’è un tormentone che si ripete in tutti i talk show, sui giornali, alimentato da opinionisti progressisti: le opposizioni al governo Meloni sono inadeguate. Non ce la possono fare a scalzare la presidente del Consiglio che, invece, dimostra forza, solidità e stabilità. Anzi, come scriveva qualche giorno fa l’editorialista di Repubblica, Stefano Folli, “il centrodestra si mostra più compatto dell’opposizione, e non è una novità”. Affermazione surreale se si legge il seguito: “Naturalmente c’è Salvini che si distingue: paragona l’Unione europea e la sua rappresentante per la politica estera, Kallas, a Napoleone e Hitler”: un dettaglio. […] E pochi giorni prima lo scontro tra Matteo Salvini e il resto della maggioranza sulle armi all’Ucraina. Ma, agli occhi dei commentatori di casa nostra – che alimentano il 90% dell’informazione politica televisiva – il problema è solo dell’opposizione.
Ma davvero queste sono inadeguate a fronteggiare Giorgia Meloni? Se è così, lo sono certamente meno che in passato. Intanto, tutti i sondaggi le danno alla pari con la maggioranza. E poi, in pochi notano che dal 2007, atto della sua nascita, il Pd sta praticando di fatto l’opposizione per la prima volta. Appena nato, si faceva notare per definire Silvio Berlusconi “il principale esponente dello schieramento a noi avverso”, per scrollarsi di dosso l’antiberlusconismo. Figure oggi alla corte di Giorgia Meloni come Luciano Violante, garantivano all’ex Cavaliere che mai e poi mai il centrosinistra avrebbe toccato il conflitto di interessi e chi ricorda più i Fassino o i Rutelli, “dirigenti con cui non vinceremo mai?”. Quando nel 2010 Berlusconi iniziò a vacillare, il Pd ripose le proprie speranze prima in Gianfranco Fini e poi nel governo Monti formato in alleanza con… Berlusconi. È stato all’opposizione del governo Lega-M5S nel 2018, ma solo per un anno, prima di partecipare al Conte-2 e poi all’amato Draghi.
Temi concreti. Altra critica: le opposizioni non parlano di temi concreti. L’ossessione per la politichetta di palazzo è in realtà tipica dei talk-show. Mentre nel corso del dibattito parlamentare sul Consiglio europeo Giuseppe Conte ed Elly Schlein hanno esordito entrambi citando i dati sulle liste di attesa nella sanità pubblica stilati da Cittadinanzattiva. […]
Divisi all’estero. Secondo Antonio Noto, uno dei massimi sondaggisti italiani, la divisione che pesa di più in realtà è quella sulla politica estera e, dal punto di vista dell’elettorato, “colpisce di più un’opposizione che non si unisce che un governo diviso”. Anche perché il governo alla fine la sintesi la trova, mentre le opposizioni “hanno convenienza, per ragioni elettorali, a marcare le proprie distanze”. Tutti dimenticano però che la guerra in Ucraina è cominciata quando M5S e Pd sostenevano il governo Draghi trovando sempre una posizione comune. L’unità programmatica è più una esigenza degli osservatori che una difficoltà insormontabile. Si fa finta di non vedere che alle elezioni regionali Pd, M5S, Avs e addirittura Italia Viva sono riusciti a trovare l’unità in una regione, la Campania, dove sembrava impossibile. Semmai, in questo caso, si può rimproverare un’eccessiva disinvoltura.
Se si vuole offrire una lettura meno partigiana, appare chiaro che Pd e M5S cercheranno di coltivare il proprio profilo programmatico fino all’ultimo momento utile, ma alla fine troveranno un programma unitario.
Antonio Floridia, editorialista del manifesto, autore di Pd, un partito da rifare, procede per sillogismi: “Salvo istinti suicidi, tutti hanno preso atto che un accordo elettorale il più ampio possibile sarà necessario anche perché, dato decisivo, il prossimo Parlamento elegge il prossimo presidente della Repubblica”. L’unità andrà fatta su punti essenziali, perché “è impossibile ed è assurdo pretendere che le forze di opposizione concordino su tutto: ognuno presidia un segmento di elettorato e si fa finta di non capire questo dato elementare”. Dopodiché l’alleanza può sembrare inadeguata, ma “solo se si pretende che il Pd debba fare tutte le parti in commedia, centro e sinistra”. Invece il Pd “ha un profilo più istituzionale ma non centrista, e sarebbe bene che un progetto di questo tipo si formi al suo esterno” mentre il M5S “che è più movimentista, è bene che conservi parte della sua identità originaria”.
“Quello che manca all’opposizione – osserva ancora Noto – non è tanto un unico leader, ma un’idea collante. Possono anche avere posizioni diverse, ma dovrebbero avere un progetto che le unisca con cui riscaldare i cittadini, in particolare quelli che non sono a favore del governo”. Questo è il problema principale delle moderne competizioni elettorali dove un’idea-forza spesso coincide con un leader carismatico. È ciò che ha garantito il successo di Berlusconi […]
Verso le primarie. Oggi nella coalizione progressista non si percepisce l’idea-forza – il salario? La sanità? La pace? L’ambiente? – né tantomeno una figura carismatica che trascini l’alleanza. A dare una mano potrebbe essere più che il contenuto, la forma. Le primarie democratiche sono sempre state un fattore importante di mobilitazione. Ma devono essere primarie vere, quindi contendibili. “Ma chi ci assicura poi che, in caso di primarie vere, un risultato non atteso, come ad esempio la vittoria di Conte, non aumenti la conflittualità?” si chiede ancora Noto. In realtà, che l’opposizione sia adeguata lo conferma proprio Giorgia Meloni che vuole cambiare la legge elettorale, perché con quella in vigore c’è il rischio perlomeno della parità. Floridia pensa che alle opposizioni convenga l’attuale Rosatellum piuttosto che un nuovo Porcellum pasticciato. “Però si può disinnescare il rischio delle divaricazioni mettendosi d’accordo sulle primarie” viste come un volano positivo.
La discussione sulla “inadeguatezza” in realtà nasconde l’insofferenza per l’alleanza tra Pd e M5S che gran parte dell’élite progressista vuole far saltare (da qui l’idea dei “federatori” di centro). Conte e Schlein lo sanno, ma forse devono avere più coraggio nel contrastare questo progetto.
Manovra, quegli emendamenti estranei alle leggi: dal Colle l’ultimo stop. Con i cinque altolà alle norme il Quirinale torna a segnalare il superamento di un limite. Leo ammette: “Rischio incostituzionalità”

(di Concetto Vecchio – repubblica.it) – I cinque altolà imposti l’altro giorno dal Quirinale al governo sulla manovra chiudono un anno di coabitazione non sempre semplice con l’esecutivo di Giorgia Meloni. Al Colle spiegano che gli emendamenti bocciati erano del tutto fuori contesto. Non c’entravano niente con la legge di bilancio. Un modo educato per definire le furbizie degli esponenti della maggioranza di centrodestra che hanno cercato di trarre vantaggio dalla confusione di una legge vasta e complessa come la finanziaria. «Li hanno infilati col favore delle tenebre», nell’icastica definizione del leader M5S Giuseppe Conte.
Non è la prima volta che succede. Anzi. Ma al Quirinale fanno ancora il Quirinale e quindi vigilano, correggono, e nel caso bloccano. Nei mesi scorsi reiterate sono state le bocciature degli uffici del presidente Mattarella per emendamenti inseriti surrettiziamente in decreti legge del tutto estranei all’oggetto. E anche stavolta, si fa notare, è stata superata una soglia.
Il caso più clamoroso di questi giorni riguarda la tutela agli imprenditori condannati per avere sottopagato i lavoratori. L’aveva proposta in Commissione il senatore di Fratelli d’Italia, Matteo Gelmetti (prima di lui ci aveva provato nel decreto Ilva il collega Pogliese). Avrebbe limitato la possibilità per i lavoratori di ottenere gli arretrati salariali, anche nei casi in cui un giudice stabilisce che la retribuzione percepita è stata troppo bassa. Una norma che riduceva quindi le tutele dei lavoratori, spostando nettamente l’equilibrio a favore delle imprese. Era del tutto incongruo rispetto alla natura della legge di bilancio, fanno notare al Quirinale. Una questione di metodo, insomma.
Ma qui non si può non sottolineare che sui salari troppo bassi, le mancate tutele dei lavoratori, la piaga del precariato, Mattarella tuona, inascoltato, da dieci anni. Due emendamenti li ha presentati la Lega. E prevedevano meno paletti per chi passava da un incarico pubblico a uno privato e viceversa. Più precisamente si riduceva il lasso di tempo da tre a un anno. Poi c’erano due emendamenti di Claudio Lotito, il senatore di Forza Italia e presidente della Lazio. Uno era sui magistrati fuori ruolo e puntava a a ridurre da dieci a quattro anni l’anzianità di servizio per poter essere autorizzati al collocamento fuori ruolo, e quindi fare altro. Un’altra norma che non c’entra nulla con la legge di Bilancio, è stato fatto notare, invitando il ministro per i Rapporti col Parlamento, Luca Ciriani, a depennarle. E infatti ai dirigenti dei gruppi di maggioranza è arrivato un foglietto con su scritto «norme da sopprimere».
Lotito voleva anche rivedere la disciplina per il personale della Covip, l’Autorità che vigila sui fondi pensione. Ieri fonti di governo hanno fatto sapere che in quest’ultimo caso il Quirinale intendeva cambiare sola una parte della norma, ma per un difetto di comunicazione è stata cassata per intero.
«Non volevamo esporci a rischi di incostituzionalità» del testo: sintetizza il viceministro all’Economia Maurizio Leo spiegando lo stralcio delle cinque norme.
Resta il fatto che finora tutte le petizioni di Mattarella, espresse in varie lettere di accompagnamento alle leggi, non sono servite granché. A ottobre, sul pasticcio della festività di San Francesco, aveva richiamato tutti all’ordine: «Non posso non sottolineare l’esigenza che i testi legislativi presentino contenuti chiari e inequivoci». Alla fine dalla maggioranza ci provano comunque a fare passare leggi mancia, norme elettorali, emendamenti per gli amici degli amici. Come il condono edilizio. Non sarebbe mai passato, hanno fatto trapelare da lassù. E a quel punto al Senato, anche su pressione delle opposizioni, l’hanno derubricato a ordine del giorno.

(Virginia Raggi) – In queste giornate c’è chi fa un regalo alle persone care e chi se lo fa fare… a spese nostre!
Di che parlo?
Della riforma della Corte dei Conti che sarà approvata senza fare troppo rumore tra il 27 e il 29 dicembre.
Perché dovrebbe interessarci?
Perché la Corte dei Conti è l’organo che controlla che ogni centesimo di spesa pubblica (ossia quella decisa dai politici e gestita da dirigenti e funzionari pubblici) sia effettuata con rigore, precisione, trasparenza e, soprattutto, sia fatta nell’interesse pubblico (ossia nel NOSTRO interesse) e non per finalità diverse (ad es. per ripagare l’elettorato o per arricchire alcuni gruppi).
E se rileva un “danno erariale” (ammanco nei soldi pubblici) obbliga i politici e gli amministratori furbetti o disonesti a risarcire.
Occorre ricordare sempre che quando si parla di “spesa pubblica” si parla di soldi NOSTRI, frutto delle NOSTRE TASSE e che servono per pagare tutti i servizi (scuole, ospedali, ma anche strade, messa in sicurezza del territorio, ecc.) e che vengono amministrati solo pro-tempore (ossia a tempo) dai politici di turno (si, anche se alcuni di loro sono imbullonati alla poltrona da oltre 20 anni).
Per questo, avere una Corte efficiente che controlla il corretto utilizzo dei fondi pubblici è per NOI una garanzia insostituibile: sapere che il frutto del nostro sacrificio viene speso bene e ci viene “restituito” in servizi è fondamentale!
Ebbene, proprio i politici che oggi governano, vogliono ridurla al silenzio e all’irrilevanza.
Come?
Ve ne dico un paio:
– tagliare i controlli successivi (alla spesa effettiva) e fare soprattutto controlli preventivi (sui provvedimenti): così, ottenuto il via libera sull’atto, si avrà una presunzione di correttezza che copre ogni operazione futura;
– limitare il risarcimento da parte dei politici o funzionari pubblici al 30% o al doppio del loro stipendio annuale: immaginate chi mette il restante 70% (vi do un indizio: prendete uno specchio e guardate bene l’immagine riflessa).
Auguri!

Nella splendida cornice collinare di Villa Domi, gremitissima per l’occasione, si è svolto lunedì 22 dicembre l’evento dal titolo “Nuove eccellenze per la salute pubblica”, promosso dall’Associazione “Sanità, Uguaglianza e Democrazia” presieduta dal professor Angelo Montemarano, già assessore regionale alla Sanità e direttore generale dell’ASL napoletana.
L’incontro ha rappresentato il consueto e sentito momento di saluti e auguri natalizi tra il professor Montemarano e il mondo della sanità campana, ma anche un’importante occasione per celebrare e valorizzare l’impegno quotidiano di giovani medici e professionisti della salute che operano con competenza e dedizione a tutela del diritto alla salute dei cittadini.
Durante la serata sono stati conferiti riconoscimenti a professionisti che si sono distinti per il contributo offerto alla sanità pubblica regionale, testimoniando come il futuro del sistema sanitario passi attraverso il merito, la formazione e l’impegno quotidiano.
“Un evento – ha dichiarato Angelo Montemarano – dedicato alle nuove eccellenze della sanità, a quei giovani medici che ogni giorno scelgono di mettere competenza, passione e responsabilità al servizio della collettività. Valorizzarli significa rafforzare la sanità pubblica e riaffermare i principi di uguaglianza e solidarietà che ne sono alla base, con particolare attenzione ai cittadini più fragili”.
A fare da madrine all’evento la deputata del Movimento 5 Stelle Carmela Auriemma e il direttore sanitario dell’ASL Napoli 1 Centro, Maria Corvino, che hanno sottolineato l’importanza di sostenere le nuove generazioni di medici e dirigenti sanitari come pilastro fondamentale per una sanità pubblica più equa ed efficiente.
“È importante – ha commentato l’onorevole Auriemma – mettere al centro il merito in ogni settore che riguarda la vita delle Cittadine e cittadini campani, lo è ancora di più in un settore così importante come quello della sanità, una serata importante che ha visto protagonista il talento di tantissimi giovani medici e accademici campani al servizio del sistema sanitario pubblico”.
La serata si è conclusa in un clima di ampia partecipazione e condivisione, confermando il valore della sanità pubblica come bene comune e il ruolo centrale delle nuove generazioni di professionisti nella costruzione di un sistema sanitario moderno, inclusivo e sostenibile.
I premiati
Giovanni Cerullo, direttore del reparto di Neurologia dell’ospedale G. Moscati di Aversa; Antonio Cioffi, direttore del reparto di Urologia dell’Ospedale del Mare; Matteo Di Minno, professore ordinario di Medicina Interna dell’Università Federico II; Pasquale Gallo, direttore del reparto di Ginecologia e Ostetricia dell’AORN Cardarelli; Roberta Lupoli, professore di Endocrinologia dell’Università Federico II; Maria Masulli, Azienda Ospedaliera Policlinico Federico II e presidente regionale della Società Italiana di Diabetologia; Mario Mensorio, direttore sanitario dell’AORN Cardarelli; Carlo Manzi, presidente dell’Ordine dei Medici Chirurghi e degli Odontoiatri di Caserta; Vincenzo D’Agostino, direttore del reparto di Neuroradiologia dell’Ospedale del Mare; Fabio Tortora, professore ordinario di Neuroradiologia dell’Università Federico II; Beniamino Schiavone, direttore generale della Clinica Sanatrix Pineta Grande S.p.A.; Francesco Stanzione, direttore del reparto di Chirurgia Generale del Pineta Grande Hospital; Alessandra Gimigliano, direttore sanitario del Presidio Ospedaliero Maresca di Torre del Greco; Albino Carrizzo, professore associato di Medicina di laboratorio dell’Università di Salerno; Francesco Sabbatino, professore associato di Oncologia dell’Università di Salerno; Tiziana Di Matola, direttore del reparto di laboratorio dell’Ospedale Fatebenefratelli di Napoli.
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ufficio stampaGuido del Sorbo

L’evento si è svolto sabato 20 dicembre nell’Art Gallery della “Casa di Bacco” in piazza Castello a Guardia Sanframondi (BN) alla presenza di un folto pubblico che ha fatto da cornice alla cerimonia del taglio del nastro della personale di Salvatore Fiore che con grande sincerità ha ringraziato gli organizzatori per la squisita accoglienza. Il dott. Amedeo Ceniccola, fondatore della Casa di Bacco, rivolgendosi al maestro Fiore ha dichiarato: “Caro Salvatore, sono davvero contento di questo tuo ritorno nella Casa di Bacco e consentimi di dirti che, ancora una volta, le tue opere hanno colpito tutti per la magia dei colori e per l’atmosfera incantata che sanno creare. Non so se ad un artista si facciano i complimenti, forse non sono adeguati per esprimere quello che vorrei. In tutti i casi, sappi che le tue opere comunicano grandi emozioni e credo che per un’artista questa sia la massima aspirazione. Ti auguro che anche la critica ufficiale colga tutto il tuo potenziale espressivo e ti permetta di essere sempre più apprezzato come meriti”.
La mostra sarà visitabile fino al 19 gennaio 2026 (martedì – giovedì dalle ore 16 -18 e su appuntamento, tel. 3477226170) e in occasione della chiusura della mostra sarà presentata al pubblico un’ opera realizzata e donata dal maestro Fiore alla Casa di Bacco per arricchire la Rassegna d’Arte Contemporanea Permanente dedicata alla cultura del vino della Casa di Bacco.
La Casa di Bacco
Le motivazioni della condanna a otto anni per il figlio del comico e gli amici genovesi per violenza sessuale di gruppo: “Ignorata la fragilità della ragazza”. Le parole del condannato in primo grado a “Falsissimo”: “Follia della giustizia”

(di Marco Lignana – genova.repubblica.it) – Una serata iniziata al Billionaire «in un clima di socialità e leggerezza, con conversazioni su vacanze e università». E proseguita a casa di Ciro Grillo «in un contesto predatorio e prevaricatorio».
Qui, a pochi passi da Porto Cervo, nell’appartamento di proprietà del comico e fondatore del Movimento 5 Stelle Beppe, il 17 luglio 2019 una ragazza allora diciottenne è stata stuprata da quattro coetanei genovesi, mai visti né conosciuti prima.
Una giovane che, scrive il tribunale di Tempio Pausania, «deve essere ritenuta pienamente attendibile». Perché la sua drammatica denuncia, avvalorata da un processo infinito, «esclude senz’altro un’ipotesi di consenso…».
Anzi, mette in luce «costrizioni ed impossibilità di reagire che denotano la particolare brutalità del gruppo, coeso fin da principio, che ha agito non tenendo in considerazione alcuna lo stato di fragilità in cui versava la ragazza». Arrivata in casa Grillo dopo aver bevuto diversi drink, e poi costretta a trangugiare quello che è diventato tristemente noto come il “beverone” a base di vodka.
In 72 pagine il collegio presieduto da Marco Contu spiega perché lo scorso 22 settembre ha condannato a otto anni Grillo jr, Edoardo Capitta e Vittorio Lauria. E a sei anni e sei mesi Francesco Corsiglia.
Per i primi tre non c’è soltanto lo stupro, la condanna è scattata anche per un altro episodio di violenza sessuale nei confronti dell’amica della 18enne (assistita dai legali Vinicio Nardo e Fiammetta Di Stefano) immortalata mentre dormiva insieme ai genovesi seminudi e in pose oscene: «È possibile evincere il clima predatorio presente in quella casa nonché la condotta violenta ed insidiosa di tutti i partecipanti, inequivocabilmente diretta alla imposizione di atti sessuali di gruppo nei confronti di una ragazza incosciente».
La partita giudiziaria non è finita qui, gli avvocati difensori (Andrea Vernazza ed Enrico Grillo, Gennaro Velle e Antonella Cuccureddu, Enrico Monteverde e Mariano Mameli, Alessandro Vaccaro) passeranno le vacanze di Natale a studiare il ricorso in appello, al momento la scelta ritenuta più probabile.
L’altra ipotesi sarebbe quella del “patteggiamento”, che in secondo grado si definisce concordato, e che al momento non sembra godere di molti sostenitori nel pool.
Mentre Ciro Grillo, diventato papà da poche settimane, contattato da Repubblica sceglie di non commentare quanto scritto nelle motivazioni. Restano allora le parole confidate a Fabrizio Corona, pubblicate online in una delle ultime puntate del programma dell’ex agente fotografico “Falsissimo”, con tanto di incursione nella villa del comico a Sant’Ilario.
Non proprio concetti leggeri, da parte per di più di un praticante avvocato, laureato con 110 e lode: «I magistrati ormai sono detentori della morale sessuale». Di più, «sono detentori dell’etica pubblica».
Perché da foto e video «si vedeva chiaramente una ragazza partecipe», mentre «le nostre facce erano di ragazzi imbarazzati… io avevo la faccia proprio da idiota. Come si può pensare che dei ragazzi di 18 anni avessero potuto avere un chissà che tipo di comportamento predatorio?». Del resto «la condanna in primo grado è ordinaria follia della giustizia».
Le carte appena depositate dal collegio di Tempio Pausania dicono tutt’altro. Ripercorrendo quelle ore – il viaggio dal Billionaire a casa Grillo dei quattro genovesi e della due amiche, la pastasciutta condivisa, la scelta di una delle due di andare a dormire – i giudici sottolineano più volte «la piena attendibilità della persona offesa».
La vittima, aggiungono, «lungi da quanto sostenuto dalla difesa ha, fin da principio, reso un racconto immutato nel suo nucleo essenziale mentre, le asserite contraddittorietà evidenziate dalla difesa degli imputati, altro non devono ritenersi se non fisiologiche e dovute alla difficoltà di ricordare infiniti dettagli di una vicenda peraltro risalente a qualche anno prima».
Per quanto riguarda il consenso, i giudici scrivono come «nel caso in parola è palese l’inesistenza di positive manifestazioni di volontà» da parte della ragazza, «senza trascurare di considerare che la natura violenta degli atti è del tutto coerente con il contesto creato dagli imputati nel corso della serata».
In un passaggio molto articolato e tecnico, il collegio ricorda «in ogni caso che la violenza non deve avere necessariamente carattere assoluto, tale da annullare totalmente la volontà della vittima, ma può produrre anche solo un effetto di coartazione allorché la persona offesa si sia concessa in una particolare situazione tale da influire negativamente sul suo processo mentale di libera determinazione, poiché un siffatto consenso non è libero» bensì «consenso coatto».
Giulia Bongiorno, senatrice della Lega impegnata in prima persona in commissione Giustizia proprio sulla riforma della legge sul consenso, come avvocata della vittima (insieme a Dario Romano) commenta: «La sentenza è molto netta e puntuale, ha valorizzato la genuinità delle dichiarazioni della mia assistita. Giuridicamente sono pagine molto belle».

(Giuseppe Panissidi – lafionda.org) – La “differenza specifica”, aristotelicamente intesa, tra le due realtà statuali è capitale, in quanto inerente ai capisaldi della Civiltà giuridica. Pertanto, la conferma dell’assoluzione di Matteo Salvini suggerisce qualche rispettosa domanda.
Se, realmente, alla stregua della discussione davanti alla Suprema Corte di Cassazione, a “tenere sequestrati” i profughi non fosse stato il ministro leghista bensì il comandante di Open Arms, che avrebbe potuto sbarcare altrove, al ministro dell’Interno pro tempore Salvini incombeva comunque l’obbligo giuridico di impedire quell’evento, in forza del comando di cui all’art. 40, cpv, codice penale: “Non impedire un evento, che si ha l’obbligo giuridico di impedire, equivale a cagionarlo”. Sotto il profilo tecnico si versa nella fattispecie di “concorso omissivo”.
Si deve porre attenzione alla circostanza, pacifica in diritto, dottrina e giurisprudenza, che l’evento da impedire non deve di necessità configurarsi come penalmente rilevante. Siffatta fattispecie di reato, infatti, si concreta anche qualora il fatto presupposto, in tal caso la condotta del comandante di Open Arms, non costituisca reato.
In breve, sia che il comandante dell’imbarcazione avesse “sequestrato” i profughi in acque territoriali italiane, sia che costui non fosse stato responsabile di “sequestro”, Salvini Matteo avrebbe dovuto rispondere di “concorso”! Infatti, al potere, astratto ed eventuale, di impedire lo sbarco corrisponde specularmente il dovere di intervenire in costanza sia di violazioni della legge penale sia di altre devianze all’interno dei “confini” dei quali un ministro della Repubblica giustamente si proclama difensore.
E ancora: a giudizio della Procura Generale della SC, in riferimento all’ordinanza emessa dalle Sezioni Uniti Civili della SC nello scorso mese di marzo, appare complicata la “traslazione” dall’ambito civile a quello penale. Indubbiamente.
Se non che, nel caso che ci occupa, non si trattava affatto di ricorrere a un’impropria e incongrua trasposizione meccanica, bensì di applicare una limpida costellazione di principi giuridici generali, anche di rango costituzionale, ad ambiti giurisdizionali e funzionali diversi! Tanto è vero che le Sezioni Unite Civili, sgombrato risolutamente il terreno da “inesistenti”, e solo presunte, ambiguità e incertezze in tema di doveri istituzionali e “porto sicuro”, non richiamano il codice civile, bensì, e tra l’altro in modo esplicito, la Carta Costituzionale e i suoi basilari artt. 10, ovverosia la cogenza preminente del “diritto internazionale” quanto ai diritti degli stranieri, e 13, in ordine all’inviolabilità della persona, salvo l’“atto motivato dell’autorità giudiziaria”, nonché la loro valenza giuridica universale.
A nulla rileva che l’ordinanza delle Sezioni Unite Civili sia molto recente e successiva agli eventi relativi a Open Arms, risalenti al 2019. Invero, nell’anno del Signore 2019 erano già (!) in vigore tanto la Costituzione, alla quale un ministro giura fedeltà, quanto il delitto di “sequestro di persona”, rispetto al quale “ignorantia iuris neminem excusat”, vale a dire che l’ignoranza della legge non discolpa nessuno.
Né giova ricordare che l’esecutivo non è “autorità giudiziaria”! La pronuncia delle Sezioni Unite Civili, la massima istanza della giurisdizione, appare inequivoca e non sembra particolarmente “complicata” da applicare in sede di giurisdizione penale.
Pare oltremodo improbabile che la pubblicazione, a tempo debito, delle motivazioni dell’odierna decisione assolutoria possa delucidare tali enigmi…

(Andrea Zhok) – La ragione per cui niente si muoverà nelle coscienze europee, la ragione per cui nonostante in moltissimi vedano l’attuale degenerazione dello stato di diritto, del rispetto dei diritti umani, dell’indipendenza della magistratura, della libertà di stampa ed espressione, ecc., la ragione per cui nonostante tutto questo le indignazioni saranno minoranza e prevarranno quelli che fanno spallucce, è molto semplice.
La maggior parte della popolazione agisce inconsciamente sulla scorta di un meccanismo di pensiero, di un sillogismo vincente, governato dall’informazione tossica.
La premessa materiale del sillogismo è data dalla persuasione che in ogni “altrove” rispetto all’Occidente viga la barbarie, l’oppressione sanguinaria, il dispotismo arbitrario, la legge della giungla. Le teste degli europei – più in generale degli occidentali – sono farcite come tacchini natalizi di luoghi comuni creati ad arte, immagini icastiche, pensierini a manovella: “In Russia ti fanno sparire senza tanti complimenti”, “Se non ti piace la nostra libertà di stampa perché non te ne vai in Cina?”, “In Iran se non metti il velo ti mettono in galera”, “Maduro è un dittatore brutale ed illegittimo”, ecc. ecc.
Questo strato di fondo di banalità orecchiate, sciocchezze inventate, fotogrammi senza contesto, spesso pure e semplici leggende metropolitane è coltivato accuratamente nel corso degli anni dalla stampa, che costruisce in questo modo – anche in tempo di pace, anche quando non serve immediatamente – un retroterra di demonizzazione a basso voltaggio di tutto il resto del mondo.
Questo strato deve la sua efficacia proprio al fatto di essere disseminata e alimentata nel lungo periodo, senza l’urgenza di essere usata, come una sorta di sfondo mitologico indiscutibile.
Il cittadino europeo medio non ha la più pallida idea neppure di come si vive alla periferia della sua città, non conosce la vita o i problemi di chi vive sul suo stesso pianerottolo, e tuttavia gli arrivano comodamente a domicilio saldissime certezze intorno a quanto oppressiva e umiliante sia l’esistenza in Cina, in Russia, in Iran, a Cuba, in Venezuela, o in molti altri paesi, paesi enormi, complessi, in cui non ha mai messo piede se non forse per una vacanza in un villaggio turistico.
Una volta che questo sfondo di screditamento e denigrazione è inerzialmente presente nella nostra visione del “mondo altrui”, le classi dirigenti occidentali hanno mano libera per le peggio porcate.
Infatti, di fronte a ogni inguardabile schifezza, di fronte ad ogni abuso manifesto, ad ogni ingiustizia sfacciata, si può sempre premere il pulsante mentale dell’ACQUIESCENZA COMPARATIVA:
“Sì, è uno schifo, ma comunque è pur sempre meglio qui che altrove.”
“Sì, tutto questo è orribile, ma comunque, con tutti i limiti, siamo fortunati a vivere qua e non altrove.”
“Sì, l’ingiustizia impera, ma teniamocela stretta perché l’alternativa sarebbe ben peggiore.”
Qui, come in moltissimi altri casi, la responsabilità del sistema mediatico, la criminale complicità del giornalismo mainstream è una volta di più decisiva.

nella foto : cacciatori , caccia , fucile da caccia ,cacciatore
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(Dario Lucisano – lindipendente.online) – Tra emendamenti sulle armi e aumenti di pensione, nella legge di bilancio non poteva mancare anche un riferimento alle attività venatorie. Sono infatti due gli emendamenti – a firma De Carlo e Garavaglia, rispettivamente Fratelli d’Italia e Lega – presenti nella manovra che riguardano la caccia: con essi, la maggioranza intende permettere alle «aziende faunistico-venatorie» presenti nel nostro Paese di organizzarsi «in forma di impresa individuale o collettiva soggette a tassa di concessione regionale», riaprendo al lucro nelle attività di caccia dopo quasi 50 anni. A lanciare l’allarme è Lega per l’Abolizione della Caccia (LAC), che parla di «ritorno delle riserve di caccia a pagamento». Le misure, così come la legge di bilancio, sono state approvata ieri – 23 dicembre – dal Senato, e ora passeranno alla Camera.
Gli emendamenti alla legge di bilancio a firma De Carlo e Garavaglia sono rispettivamente il numero 6.0.8 e il numero 6.0.7; essi, dal contenuto pressoché identico, vogliono «autorizzare, regolamentandola, l’istituzione di aziende faunistico-venatorie, organizzate in forma di impresa individuale o collettiva soggette a tassa di concessione regionale»; permettono, insomma, alle attuali aziende faunistico-venatorie, istituti privati senza scopo di lucro con finalità naturalistiche, di organizzarsi e operare sotto forma di impresa, e, dunque, di guadagnare per la loro attività. «Le concessioni», continuano gli emendamenti «sono corredate di programmi di conservazione e di ripristino ambientale al fine di garantire l’obiettivo naturalistico e faunistico, conservando, ripristinando e migliorando l’ambiente naturale e la sua biodiversità. In tali aziende la caccia è consentita nelle forme e nei tempi indicati dal calendario venatorio secondo i piani di abbattimento». La caccia, dunque, resta una attività gestita dagli enti pubblici.
Abolendo il divieto di lucro, denuncia la LAP, gli emendamenti di FdI e Lega compiono un importante passo avanti per il sostanziale ripristino delle riserve di caccia, scomparse con la legge n. 968 del 1977. Essa stabiliva che «la fauna selvatica italiana costituisce patrimonio indisponibile dello Stato ed è tutelata nell’interesse della comunità nazionale», introducendo la regolamentazione delle attività venatorie da parte dello Stato e il passaggio dal diritto soggettivo di cacciare alla caccia controllata; la legge sarà poi sostituita dalla legge n. 156 del 1992, che passa dalla caccia controllata a quella programmata.
Intervista al medievista dopo la polemica di Giuli: “Quando hanno dei soprassalti fanno le mostre su D’Annunzio o su Tolkien ma francamente è un po’ ridicolo”

(di Francesco Bei – repubblica.it) – Franco Cardini è uno dei più importanti medievisti italiani, ha scritto centinaia di libri e, benché non si riconosca in questa destra, di quel mondo ha fatto parte. «Sono entrato tredicenne nelle giovanili del Msi nel 1953, pecora nera di una famiglia socialista fiorentina, e ne sono uscito nel 1965. Di quell’ambiente non ne ho un brutto ricordo».
Al tempo picchiavate?
«Più che picchiatori eravamo picchiati, perché a Firenze eravamo pochini. Però io ero bello grosso».
Ha letto l’atto di accusa di Marcello Veneziani contro il governo Meloni?
«Qualcuno potrebbe replicare che è un po’ il disappunto di chi si sente un vecchio militante messo in disparte, non avendo ricevuto incarichi».
È un filosofo e il ministro Giuli lo ha trattato come un ingrato questuante…
«Filosofo mi sembra un pochino eccessivo per chi ha scritto qualcosa sui neoplatonici nel Sud d’Italia. Anche se sono professore emerito di Storia medievale, io non mi sono mai permesso di definirmi storico. Cantimori e Braudel erano degli storici. Ma certamente Veneziani è un uomo di cultura».
L’accusa più bruciante è quella di non aver fatto nulla per la cultura. In questo il Msi era diverso?
«Molto, anche se è sempre rimasto un partitino che non è mai andato oltre il 5 per cento, aveva fior di riviste intellettuali, le sue scuole di partito, molte teste pensanti. FdI non ci ha nemmeno provato».
C’è Atreju, quest’anno ci sono andati tutti…
«Quella è la vetrina voluta da Giorgia Meloni, che ha una sua sensibilità in questo campo perché si è fatta le ossa nel Msi, ha studiato e fatto la gavetta. Il mio amico Luciano Violante me ne parla sempre con grande ammirazione. Ma dietro di lei c’è pochino».
Meloni è cambiata da quando sta a palazzo Chigi?
«È diventata un po’ meno brillante e ironica, mi sembra un po’ più tesa, sta sempre sulla difensiva».
C’è delusione, come dice Veneziani, tra gli elettori che speravano in una Meloni più di destra?
«Io non mi sono mai sentito di destra nemmeno quando ero nel Msi. La mia destra attualmente è filopalestinese e putinista, quindi – visto che cosa si intende oggi per essere di destra – ringrazio Iddio che Meloni non sia andata ancora più a destra».
Perché?
«Perché significherebbe andare ancora di più verso le posizioni occidentaliste più becere e filoamericane a qualunque costo».
I capi di FdI sono troppo filoamericani e filoisraeliani?
«Almeno in questo sono coerenti. La destra di vertice missina, dagli anni Sessanta in poi, ha sempre preso in giro il suo elettorato che era indirizzato in maniera opposta. Gli elettori erano filopalestinesi e avevano persino qualche simpatia per il socialismo che derivava dalla Repubblica sociale. Erano le posizioni di Antonio Pennacchi, che infatti poi diventò comunista».
Meloni è coerente, dicono i suoi ammiratori…
«Non so se sia convinta di quello che dice oggi, ma è palesemente diverso da quello che diceva ieri».
Alessandro Giuli invece a quale destra fa riferimento?
«Dicono appartenga a una corrente molto precisa che è sempre stata al margine del Msi».
I seguaci del filosofo Julius Evola?
«No, non era una corrente evoliana. Faceva invece capo al gran maestro della massoneria degli anni Trenta, Arturo Reghini, mazziniano, fascista, diciamo il fratellastro laico di Evola. Reghini sognava un fascismo che buttasse alle ortiche definitivamente il cristianesimo, per questa ragione gli interessava l’esperimento nazista. Credo che Giuli abbia ereditato dall’ambiente reghiniano questa erudizione pagana, che guarda alla religiosità della Roma arcaica».
Mario Giordano, su la Verità, ha scritto che Giuli si è arrabbiato perché Veneziani «non gli ha leccato gli stivali». Perché Giuli se l’è presa così tanto?
«Perché quando le accuse di mancanza di cultura vengono dal mondo antifascista, le possono bollare come “culturame”».
Invece se la critica viene da destra non possono ignorarla?
«Esattamente. Veneziani mette sul tappeto, con asprezza e magari con un eccesso di acidità, un fatto effettivo. Dove sono i Giuseppe Berto, i Luciano Cirri di oggi?».
FdI invece sembra una caserma…
«Encefalogramma piatto, non c’è nemmeno una rivista culturale. Quando hanno dei soprassalti fanno le mostre su D’Annunzio o su Tolkien, che conoscono anche i maestri di Vigevano e le casalinghe di Voghera, per dimostrare che la cultura la fanno anche loro. Ma francamente è un po’ ridicolo».
Il sottosegretario: “Il testo è chiuso. Ci saranno armi e aiuti civili come negli anni scorsi. Turbolenze in manovra? Capita sempre”

(di Lorenzo De Cicco – repubblica.it) – Per un grattacapo (quasi) risolto, ce n’è un altro che tormenta il governo in queste ore. Il primo è il decreto Ucraina, il secondo è una storia di cui stanno discutendo ai piani alti dell’esecutivo e riguarda un’azienda di cybersicurezza che lavora con Palazzo Chigi e il Viminale e che è finita in mani straniere, a un fondo americano che però fa affari con la Cina. Circostanza che preoccupa il ministro dell’Interno, Matteo Piantedosi, che difatti sta studiando il golden power: quell’impresa, che offre servizi d’intelligence al nostro governo, deve restare in mani italiane.
Sotto l’albero di Giorgia Meloni arrivano segnali distensivi sul decreto per Kiev, su cui la Lega si era messa di traverso, minacciando una clamorosa astensione. «Il testo del decreto in realtà è già chiuso. E ci saranno anche le armi, oltre agli aiuti civili, come era prima», sintetizza il potente sottosegretario di Palazzo Chigi, Giovanbattista Fazzolari, dalla buvette del Senato, durante l’ultima seduta per approvare la legge di bilancio. E a proposito: «Turbolenze sulla manovra? Nulla che non capiti in ogni sessione di bilancio», smorza i toni il braccio destro di Giorgia Meloni. Il tornante più attuale, chiusa la pratica finanziaria, è l’Ucraina: lunedì prossimo in Cdm andrà votato un testo ritoccato nel titolo e nelle premesse, per dare qualche concessione a Matteo Salvini. Si spediranno sì «principalmente aiuti civili», come ha detto pure l’altro sottosegretario di Palazzo Chigi, Alfredo Mantovano, ma anche armi. Come chiedono Fazzolari e Guido Crosetto, il ministro meloniano alla Difesa. Che ieri, lontanissimo dalle beghe romane, dalla base Nato di Novo Selo, in Bulgaria, si mostrava ottimista, dopo settimane complicate: «Sul decreto Ucraina non c’è mai stato disaccordo, il provvedimento è pronto e il 29 dicembre vedrete il contenuto: come dice il Vangelo, “dai frutti li riconoscerete”». Trattative chiuse? Salvini un po’ frena: «Una cosa per volta, a me interessa che sia diverso dagli anni passati e che si parli di difesa e non solo di offesa, e si parli di civili e non solo di militari».
Ma intanto c’è un altro fronte, discusso inusualmente nel Cdm lampo di ieri, convocato in una sala del Senato solo per ratificare la manovra. Riguarda i rischi della guerra ibrida, tema spinoso e dallo spettro macroscopico, che annovera tante sottocategorie, dagli attacchi cyber alla propaganda, su cui sono intervenuti in questi mesi tanti esponenti di governo, inclusi Crosetto a Fazzolari. Il caso che viene affrontato nel chiuso del consiglio dei ministri, confermato a Repubblica da due fonti presenti, riguarda un’azienda di cybersicurezza, la Tinexta Defence, controllata dalla casa madre, Tinexta, finita a fondi americani (il principale è Advent) che fanno affari anche con la Cina. Dettaglio non da poco: come ricostruiscono fonti governative, Tinexta Defence ha contratti sia con la presidenza del consiglio che con il Viminale. Ecco perché ieri al Cdm si è dovuto collegare da remoto il ministro dell’Interno, Matteo Piantedosi. Proprio per affrontare il nodo. La linea del capo del Viminale è questa: la Tinexta Defence, per ragioni di sicurezza, deve restare in mani italiane. E scorporata dalla casa madre ora controllata dagli statunitensi. Non è un’allerta da sottovalutare, secondo quanto riferito da Piantedosi a diversi ministri. Ecco perché nell’esecutivo si sta ragionando sull’attivazione di alcune prescrizioni del golden power.
Manovra: una pioggia di tasse piccole e grandi in arrivo. Dai rincari su sigarette e gasolio alla Tobin tax

(di Raffaella Malito – lanotiziagiornale.it) – La pressione fiscale con la cura Meloni non è mai stata così alta negli ultimi dieci anni. Quest’anno siamo arrivati a 42,8% a fronte del 42,5 del 2024. E con la Manovra rischia di salire ancora di più, considerando la pioggia di imposte piccole e grandi in arrivo. Per gli istituti di credito arriva l’aumento dell’Irap di due punti percentuali, lo slittamento delle Dta e la possibilità di attingere alle riserve con aliquote ridotte nei primi due anni. Viene anche ulteriormente ridotta la deducibilità sulle perdite pregresse. L’aumento dell’Irap vale anche per le assicurazioni.
Gli automobilisti nel 2026 dovranno farsi carico di un aumento delle tasse su alcune polizze Rc Auto, come per l’infortunio conducenti. Il prelievo fiscale sale dal 2,5 al 12,5%, e verseranno nelle casse dello Stato 115 milioni di euro in più. Per loro un’altra stangata arriva dall’aumento delle accise sul gasolio. Da qualche anno non si toccavano, e c’era anzi chi prometteva di ridurle, ma dal ‘26 scatta un rincaro dell’imposta sul gasolio di 4,05 centesimi al litro, che viene dunque equiparata a quella della benzina.
Salgono le tasse sulle sigarette, 15 centesimi al pacchetto da gennaio, poi altri 11 e ancora 14 nel ‘28. Sale pure la tassa di soggiorno nelle grandi città d’arte, i cui sindaci potranno chiedere fino a 12 euro al giorno a chi pernotta nelle strutture ricettive, e scatta un extra di 5 euro nei comuni “olimpici” (a Venezia si potrebbe arrivare a 15 euro a notte).
L’aliquota della cosiddetta Tobin Tax sulle transazioni finanziarie raddoppia, passando dallo 0,02% allo 0,04%. La misura dovrebbe generare un extragettito stimato in 337,3 milioni di euro a decorrere dal prossimo esercizio finanziario. Aumentano pure le tasse sulle criptovalute, con il prelievo sui profitti che sale dal 26 al 33%. Altra tegola sui consumatori arriva dalla tassa di due euro sui pacchi dai paesi extra Ue di valore fino a 150 euro.
La versione definitiva dell’articolo 7 stabilisce un sistema a due aliquote per la cedolare secca. Il prelievo resta al 21% esclusivamente per la prima unità immobiliare messa a reddito dal contribuente. A partire dal secondo immobile locato con la formula degli affitti brevi (durata inferiore ai 30 giorni), l’aliquota è al 26%. La stretta più significativa riguarda però i multiproprietari: dal terzo immobile in poi, scatta la presunzione di attività imprenditoriale. I proprietari saranno obbligati all’apertura della Partita Iva, uscendo dal regime forfettario della cedolare e rientrando nella tassazione ordinaria Irpef, con i relativi adempimenti contabili e previdenziali.

(Dott. Paolo Caruso) – Un Natale 2025 lacerato da ferite profonde che si mostrano sanguinanti nel cuore della Umanità. Follie dei nostri tempi che attraversano questo mondo facendoci dimenticare il vero senso del Natale. Caos utile ad adombrare le coscienze e suscitare paura. Dallo scintillio delle luminarie che addobbano a festa le nostre città, dove superficialità e ipocrisia si mescolano nel quotidiano vivere di una società malata e poco solidale, alle scoppiettanti scie luminose che illuminano di morte il cielo ucraino e al buio pesto del cielo di Palestina illuminato dalle flebili fiammelle di una Speranza di pace che tarda a venire. Da troppi anni si assiste ad una guerra fratricida tra Russi e Ucraini e a un genocidio programmato delle popolazioni di Gaza da parte israeliana, senza che l’ Europa riesca a uscire dal suo pantano di interessi e dal suo immobilismo. Non immaginavamo che, dopo Hitler e Stalin, potessero ripresentarsi “figuri altrettanto loschi” sulla Terra. Putin e Netanyahu costringono l’ umanità a ricredersi. La Storia, a quanto pare non insegna più nulla. I Palestinesi immersi nel fango, senza casa, né patria, né futuro, non hanno neppure una stalla dove ripararsi come era capitato al loro Illustre Conterraneo. Il pensiero va a quei Paesi dove ai bambini viene negato il necessario, se non la stessa esistenza. Domani ci consoleremo per la nascita del Divino, di un Bimbo che denuncia la indifferenza che il mondo ha per i bambini, dalla Striscia di Gaza a quelli della Ucraina e a quelli che soffrono nei diversi territori di guerra. Il fanfarone americano si era ascritto il merito di avere pacificato, ma fu la sua ennesima smargiassata. E … dell’Ucraina, cosa pensare? Quasi quattro anni di guerra, di distruzioni, di morti, una ecatombe da entrambe le parti che non interessa a nessuno. A Putin può bruciare che i Servizi Ucraini abbiano fatto saltare con una bomba il suo amico generale, ma la guerra è guerra. Zelensky tra scandali e corruzioni varie continua la questua nella Ue, accaparrandosi 90 miliardi di euro a suo sostegno, che sarebbero serviti ai popoli europei che affogano nella recessione di una economia di guerra. Oggi a colloquio con Macron, chissà…… ? L’intento, sventato dai giornali, pare sarebbe quello di dividerlo dalla Germania, di cui si teme il riarmo. Il Putin arrogante, che fa temere i “Paesi Baltici”, che – a detta del consigliere americano – invaderà nel 2027, è solo propaganda per giustificare la folle rincorsa dell’ Europa ad investire in armamenti. D’altra parte si intuiscono i progetti messi in moto dai signori della guerra e dalle loro fabbriche di morte. Non gli importa della vita della gente. Il mondo è drogato di orgoglio e potere. Gli asset russi nelle banche hanno confermato quanto gli Stati Europei siano deboli e divisi, soprattutto con alcuni (Orban e Fico) che fanno, da “cavalli di Troia” per disintegrare la UE.
Nella festa più cara per l’umanità e per la pace, purtroppo siamo costretti a disquisire di guerre quando ancora non si intravedono orizzonti di pace a causa di questi Politici avidi e irresponsabili che infiammano la scena internazionale. Per dirla come Gesù “Sarebbe stato meglio, se non fossero mai nati!”.
Gli organici come Giordano e Paglia ormai sono in secondo piano. A portare il verbo oggi ci sono Cerno, Chirico e le Giornaliste italiane

(Lisa Di Giuseppe – editorialedomani.it) – Forse non serve un Pier Paolo Pasolini, ma basta un Carlo Conti. Senza nulla togliere al valore culturale del direttore artistico di Sanremo 2026, ovviamente. Il melonismo ha conquistato il centro del paese e, con lui, volti che portano in giro per l’Italia la variante soft della politica degli eredi di An. Con tanti saluti a Marcello Veneziani e Mario Giordano, che consumano inchiostro per ricordare al ministro della Cultura Alessandro Giuli da dove viene e dove (secondo loro) non sta andando. «Non è cambiato niente» ha attaccato Veneziani, accusato a sua volta dal ministro di «nemichettismo». Ieri sulla Verità gli ha replicato per le rime Giordano: «Credere, obbedire e purgare, si capisce: la destra meloniana avanza spedita verso la deriva dei folli, anzi dei folletti». Un passaggio generazionale tutt’altro che fluido, gravato da risentimenti e presunte gelosie: ma si tratta di una fotografia precisa di un avvicendamento dei cantori del melonismo. La nuova generazione è parte di un mondo tangente alla destra tradizionale, ma con un piede nel mainstream, capace di portare più lontano il verbo della presidente del Consiglio.
«You can’t always get what you want, but sometime you might find you get what you need» cantavano i Rolling Stones. Non sempre si riesce ad avere quello che si vuole (Pasolini nel pantheon della destra) ma a volte si scopre di avere quel che serve (Conti ad Atreju). Sono lontani i tempi in cui si faticava a trovare un intellettuale d’area e mancavano i nomi a cui affidare gli incarichi economici o culturali che lo spoils system assegna a chi è al potere. Nel 2022 per guidare l’Ales non c’era nessuno di meglio dell’ex noleggiatore Fabio Tagliaferri, oggi sul palco di Atreju passano tutti, da Mara Venier in giù.

Non si tratta di meloniani purissimi, anzi. Ma anche il pubblico della kermesse da tempo non è più composto da militanti convinti, chi orbita nell’universo del partito della nazione spesso è di tutt’altra estrazione. Certo non è il caso di Arianna Meloni, che nel partito tutto vede e tutto governa, ma per esempio Tommaso Cerno, neodirettore del Giornale e acclamatissimo intervistatore di Giuseppe Conte, ex senatore dem, è lontanissimo dal colleoppismo spinto dei Giampaolo Rossi e dei Guido Paglia (un altro che ormai attacca la governance Rai da destra). Ciò nonostante sa perfettamente quali sono le parole d’ordine – «Soumahoro», «cooperative», «Superbonus» – da pronunciare per scatenare la folla di avventori simpatizzanti di Atreju.

Per non parlare della deriva televisiva: a disposizione degli autori – anche quelli dei «salotti radical-chic» come ama descriverli Giorgia Meloni – non ci sono più soltanto “animali da palcoscenico” come il leghista Claudio Borghi o il presidente di commissione Cultura della Camera, Federico Mollicone. Entrambi restano presentissimi, ma al loro fianco si è ormai cristallizzata una buona squadra di volti “di destra” più pacati. C’è da tempo Annalisa Chirico, che conduce anche su Radio 1, dove qualche programma più in là registra la sua trasmissione Noemi, a cui pure viene attribuita un’amicizia personale con le sorelle Meloni. Ma uno dei più ambiti dai programmi è senz’altro Francesco Giubilei, classe 1992 e presidente della Fondazione Tatarella. Un erede dei Mario Sechi e gli altri direttori dei giornali di destra, un po’ meno presenti, come i “colonnelli” meloniani in Rai, nel palinsesto di Atreju di quest’anno.
Oltre agli ospiti à la Raoul Bova o Francesco Facchinetti – «la sinistra coltiva odio, Giorgia Meloni invece sa fare politica» – a dettare i tempi dal palco hanno pensato, spesso, le Giornaliste italiane. L’organizzazione nata in Rai che riunisce croniste conservatrici sembra essere diventata, se non braccio operativo, almeno bacino di riferimento delle sorelle Meloni molto più della vecchia guardia di direttori (maschi). Tra i volti più conosciuti la chigista del Tg2, Giulia Di Stefano, la coconduttrice di L’Alieno in patria, Manuela Moreno, mentre la presidente, Paola Ferrazzoli, ha condotto addirittura il panel, l’unico, a cui ha partecipato Arianna Meloni.

In Rai, al di là di presunti abboccamenti (sempre smentiti) della destra con Stefano De Martino, come nuovi volti di riferimenti dovrebbero sbarcare a breve Claudio Brachino e Hoara Borselli. Anche Piero Chiambretti sembra aver spuntato l’access del sabato sera dopo una prova soddisfacente del suo Finché la barca va. Capitalizza invece la sua passione per le patrie province Edoardo Sylos Labini, da sempre prezzemolo della Rai sovranista, pronto a portare il pubblico, con il suo Radix, in un «viaggio identitario» a Pomezia, Chioggia, Ascoli, Lecce, Casale Monferrato (nel frattempo Alberto Angela per il suo programma in onda notte di Natale ha scelto la poco provinciale Torino, non gli deve essere arrivata la nuova direttiva da via Asiago).
A ricavarsi un ruolo sempre più preminente – ma sempre nelle retrovie – c’è il sottosegretario alla Cultura, Gianmarco Mazzi. Accanto a lui, anche se di generazione successiva, i due organizzatori di Atreju, Giovanni Donzelli e Francesco Filini. Merita una menzione d’onore il talento multiforme di Gennaro Sangiuliano, volto suo malgrado grazie all’identità cangiante di direttore-ministro-corrispondente-capogruppo regionale. Ben più giovani, ma lanciate nel cielo stellato del melonismo Marta Schifone, figlia d’arte e commissaria del partito a Napoli, e Grazia Di Maggio, giovane promessa di FdI saldamente al microfono di Radio Atreju. Fanno parte della leva politica degli anni Novanta anche la tanto discussa direttrice d’orchestra Beatrice Venezi e Caterina Funel, che ha iniziato a frequentare FdI quando aveva quattordici ed è in pole position come prossima guida dei giovani meloniani: quest’anno aveva la responabilità dei volontari di Atreju. Militasse altrove si potrebbe dire che il suo è un futuro nel segno del sol dell’avvenire.