
(Andrea Zhok) – Qualche giorno fa il Consiglio dell’Unione Europea, organo esecutivo, ha sanzionato il colonnello Jacques Baud ed altri 11 soggetti (individui e persone giuridiche). Le sanzioni implicano il congelamento dei beni, il divieto a tutti i cittadini e alle imprese dell’UE di mettergli a disposizione fondi, di permettergli attività finanziarie o concedergli risorse economiche, oltre ad un divieto di viaggio. In sostanza ciò equivale a dichiarare la morte civile del cittadino colpito, che non può più accedere legalmente ad alcuna forma reddituale, né pregressa, né nuova, e non può spostarsi.
Due cose vanno sottolineate.
In primo luogo, questa punizione draconiana viene comminata per qualcosa che è precisamente e soltanto un “reato d’opinione”, in quanto non ci sono accuse di reato né penale, né civile.
In secondo luogo, la punizione non viene comminata da un organismo giudiziario, ma da un esecutivo, dunque senza passare attraverso una procedura di accertamento delle eventuali responsabilità.
Incidentalmente – per il piacere di chi si diletta di queste cose – questa forma di intervento è in diretta e manifesta violazione degli articoli 11 e 12 della Dichiarazione Universale dei Diritti Umani, che recitano rispettivamente:
Articolo 11.1. “Ogni individuo accusato di un reato è presunto innocente sino a che la sua colpevolezza non sia stata provata legalmente in un pubblico processo nel quale egli abbia avuto tutte le garanzie necessarie per la sua difesa.”
Articolo 12. “Nessun individuo potrà essere sottoposto ad interferenze arbitrarie nella sua vita privata, nella sua famiglia, nella sua casa, nella sua corrispondenza, né a lesione del suo onore e della sua reputazione. Ogni individuo ha diritto ad essere tutelato dalla legge contro tali interferenze o lesioni.”
Ora, chi pensasse che questa esibizione di arbitrio dittatoriale sia un semplice incidente di percorso, sbaglierebbe di grosso.
Il governo dell’Unione Europea è da tempo il regno del più totale arbitrio.
Pensiamo alla questione della sottrazione dei beni russi congelati. Questa palese violazione del diritto internazionale non è avvenuta (per il momento) solo per una congiuntura fortuita, ovvero la presenza negli USA di un presidente che ha altri piani per quei fondi e la presenza in Belgio – il paese finanziariamente più coinvolto – di un primo ministro dotato di un minimale buon senso. Per inciso, per questo atteggiamento prudente il premier Bart De Wever – nonostante goda di un massiccio appoggio popolare – è stato aggredito dalla stampa belga con accuse di filoputinismo. Le conseguenze a catena di una tale violazione macroscopica del diritto economico sarebbero potenzialmente devastanti e lo sono tanto più in quanto l’UE ha come ultimo residuo asset sul piano internazionale il fatto di essere una superpotenza finanziaria con una moneta stabile.
La von der Leyen è quella presidentessa che è stata eletta per un secondo mandato dopo aver bruciato decine di miliardi di fondi europei in un contratto privato e secretato via sms con la Pfizer. Ergo, il suo modo di agire arbitrario è stato benedetto dall’UE in toto.
L’UE è quell’organismo che ha portato al macello l’industria europea per seguire, pro tempore, le lobby green (che ovviamente nulla c’entrano con l’ecologia), salvo poi rendersi conto di quanto decine di esperti avevano detto immediatamente, ovvero che gli obiettivi di elettrificazione a tappeto erano astratti ed irrealistici (oltre che inutili per i fini che ufficialmente si proponevano, in assenza di accordi con il resto del mondo industrializzato).
L’UE è quell’entità multinazionale che sta aprendo un’agenzia d’intelligence sotto il diretto comando di chi presiede pro tempore la commissione (ora von der Leyen), come se fosse un capo di governo nazionale, democraticamente eletto.
L’UE ha partorito il Digital Services Act, meccanismo censorio che può sanzionare in maniera perfettamente arbitraria (cioè senza passaggio attraverso organi giudiziari) qualunque contenuto che venga ritenuto “disinformazione”, cioè qualunque contenuto che non sia allineato all’esecutivo europeo e sia significativamente influente.
L’UE sostiene sistematicamente che le elezioni con esiti avversi alla propria agenda sono illegittime e vanno ripetute, che i vincitori di elezioni con agende antieuropeiste vanno arrestati, che i partiti euroscettici vanno messi fuori legge anche se hanno la maggioranza delle preferenze.
Mentre nelle nostre scuole le ore di educazione civica vengono prese in ostaggio da piazzisti porta a porta delle meraviglie dell’Europa Unita, mentre carriere accademiche si decidono attraverso l’erogazione di grants europei, concessi a progetti o rigorosamente innocui o proni all’agenda eurocratica, mentre si procede a tappe forzate verso il portafoglio digitale – con cui le sanzioni oggi erogate a Jacques Baud potranno essere più ampie, rapide e diffuse – mentre tutto questo accade, la popolazione europea continua in gran parte a sonnecchiare.
I liberali libertari vogliono più libertà solo per i detentori di capitale.
I progressisti canticchiano “Bell* ciao” e inseguono fascisti immaginari.
I gruppi del dissenso sono troppo intenti ad essere gelosi o maldicenti gli uni degli altri per occuparsi d’altro.
La destra sovranista continua a vendersi la patria a pezzi in cambio di poltrone e foto opportunity.
Vecchi europeisti rintronati continuano a trastullarsi col “sogno europeo” perché possono fare benzina oltre confine senza mostrare i documenti.
Gli industriali, sempre più dipendenti dalle europrebende, stanno muti di fronte ad un’UE capace per la prima volta nella storia europea di coltivare rapporti catastrofici con tutto il resto del mondo: sul piede di guerra con la Russia, relazioni distrutte con la Cina per la “via della seta”, cacciati a calci dall’Africa, disprezzati dagli USA.
Gli unici a prosperare sono gli yes-men, i conformisti di lusso, gli ingranaggi di alto bordo, gli inservienti dell’accademia, gli ingranaggi della magistratura.
Pochissimi sembrano avere una comprensione della gravità di questa transizione storica, in cui, nelle istituzioni di quella tonnara chiamata Unione Europea, omini e donnine a pagamento, dipendenti da rarefatte oligarchie finanziarie, stanno portando a compimento gli ultimi passi per un assoggettamento integrale e irrevocabile dei cittadini europei: assoggettamento culturale, economico, materiale, comportamentale. Assoggettamento diverso però da quello delle autocrazie, perché brado, opaco, acefalo, privo anche di quel piccolo lusso che consta nel conoscere il volto di chi ti opprime. Al comando non è un uomo solo al balcone, ma un apparato autoperpetuantesi, un apparato messo in piedi da un sistema di lobby finanziarie, un apparato privo di un progetto che non sia quello del potere per il potere, l’estrazione di valore fine a sé stessa, per cui l’Europa e i suoi cittadini sono solo materia prima, forza lavoro, terra di conquista.

(di Marcello Veneziani) – Da quando è al governo la destra non è cambiato nulla nella nostra vita di italiani, di cittadini, di contribuenti e anche in quella di «intellettuali», di «patrioti» e di uomini «di destra». Tutto è rimasto come prima, nel bene, nel male, nella mediocrità generale e particolare. E perdura anche il clima di intolleranza e censura verso le idee che non rientrano nel mainstream.
Non saprei indicare qualcosa di rilevante che segni una svolta o che dica, nel bene o nel male, al Paese: da qui è passata la destra – sovranista, nazionale, sociale, patriottica, popolare, conservatrice o che volete voi – e ha lasciato un segno inconfondibile del suo governo.
Lo diciamo senza alcun piacere di dirlo, anzi avremmo più volentieri taciuto, occupandoci d’altro; lo scriviamo solo per non sottrarci, almeno a fine anno, a tentare un bilancio onesto, realistico e ragionato della situazione. Le campagne propagandistiche filogovernative e antigovernative raccontano trionfi e catastrofi che non ci sono, sceneggiano paradisi o inferni inverosimili: prevale il purgatorio della routine.
Mediocritas, plumbea o aurea, senza tracolli. Nulla di significativo e di sostanziale è cambiato nella vita di ogni giorno, negli assetti del Paese, nella politica estera ma anche sul piano delle idee, della cultura e degli orientamenti pubblici e perfino televisivi, eccetto l’inchino al governo; tutto è rimasto come prima, salvo le naturali, fisiologiche evoluzioni e involuzioni. E in Rai?
Ancora Vespa, Benigni e Sanremo, per dirla in breve.
Niente di nuovo, da nessuna parte.
Solo vaghi annunci, tanta fuffa, piccole affermazioni simboliche, del tipo «l’oro è del popolo italiano», un po’ di retorica comiziale e qualche ipocrisia.
Non è emerso alcun astro nascente, nessuna nuova promessa in ambito politico, mediatico, culturale o nella pubblica amministrazione. C’è lei, solo lei, il resto è contorno e comparse.
Chi assegna ancora qualche valore alle appartenenze politiche deve abituarsi a considerarle esattamente come le passioni sportive: puoi tifare per una squadra come per un partito, per un tennista come per un leader, ma sai che se vince o se perde non cambia nulla nella realtà, nella tua vita e in quella pubblica.
Non siamo delusi da questa assenza di svolta perché non ci eravamo mai illusi; sin da prima delle elezioni e poi quando s’insediò al governo la Meloni avvertimmo che non sarebbe cambiato nulla di sostanziale, nessuna svolta a destra era all’orizzonte né avrebbe mai potuto esserci; per andare al governo e per restarvi, la Meloni avrebbe seguito alcune linee obbligate e rinunciato ad altre battaglie politiche annunciate quando era all’opposizione, magari lasciandole balenare ancora solo nei comizi. Insomma avrebbe seguito e rispettato gli assetti interni e internazionali e le direttive, si sarebbe attenuta alla linea Draghi, e nei comportamenti avrebbe adottato uno stile mimetico di tipo democristiano. Così è stato.
Per mantenere il consenso ha giocato di rimessa, puntando sugli errori e le intolleranze della sinistra che creano ondate di rigetto e di solidarietà con chi ne è vittima. Del resto non c’era nemmeno una classe dirigente adeguata alla sfida e in grado di poter cambiare veramente il corso delle cose.
Ma anche chi oggi la contesta dall’opposizione non avrebbe fatto diversamente se fosse stato al governo, si sarebbe attenuto alle direttive dominanti, avrebbe seguito le stesse linee di fondo.
La Meloni ha governato con abilità, astuzia, prudenza e con una mimica verace e una verve passionale che suscitano simpatia. Si è affermata a livello interno e internazionale, aiutata dall’assenza di competitori adeguati all’opposizione e di alleati che potessero insidiare la sua leadership, e favorita all’esterno dal vuoto di leader europei, con capi di governo meno forti e meno popolari di lei.
L’unica vera novità politica deriva da un riflesso d’oltreoceano: l’elezione di Donald Trump nel bene e nel male ha ridisegnato il campo e gli scenari. A livello internazionale, quell’elezione ha aumentato il peso della Meloni, come sponda europea dell’Atlantico, e lei si è barcamenata a livello internazionale tra le due linee. Ma il peso dell’Italia resta relativo e permane la doppia dipendenza euroatlantica. Il margine di autonomia è tutto nel sapersi destreggiare tra le due sponde. Una sola raccomandazione: si tenga almeno lontana dallo scellerato eurobellicismo.
Per la Meloni è una situazione favorevole che non ha precedenti, che le garantisce la navigazione fino a conclusione della legislatura, durata e stabilità, salvo inciampi e imboscate; prima di lei i cicli politici non sono durati più di tre anni (Renzi, Conte, Draghi più altre più brevi meteore).
Mezza Italia non va a votare ma in quell’altra metà la Meloni con la sua coalizione riesce a prevalere. Tre quarti del popolo italiano, dice il Censis, non crede più alla politica.
È nato un nuovo populismo anti politico. È questo l’ultimo stadio del populismo, quello di chi diffida ormai della politica e se ne tiene alla larga. Ma questo malumore generale vive nella sua dimensione privata e individuale, senza sbocchi politici.
La politica tramonta, come è tramontata la religione, e pure l’amor patrio e ogni altra appartenenza significativa; il nuovo populismo anti politico si fa virale ma molecolare, miscredente e autoreferenziale.
Tutti lasciano la piazza, ognuno se ne va per conto suo. Non crediamo, come taluni sostengono, che la Meloni, appena varcata la soglia dei 50 anni, età minima per candidarsi, abbia in mente di puntare al Quirinale dopo il lungo regno di Mattarella; sarebbe un salto prematuro, quasi un prepensionamento precoce, che avrebbe senso solo con una riforma presidenzialista: ma non è alle viste, mentre l’ipotesi di rafforzare il premierato è concreta, trova consensi trasversali e conferma che il progetto meloniano sia quello di restare ancora a Palazzo Chigi, con maggiori poteri. Peraltro non è mai accaduto che un vero leader politico in Italia sia diventato capo dello Stato: nessuno nella decina di leader e premier forti che abbiamo avuto nella nostra storia repubblicana è mai diventato presidente della Repubblica.
Con questa analisi disincantata sappiamo di scontentare sia i lettori che sostengono con entusiasmo o quantomeno con fedeltà di schieramento la Meloni e il suo governo; sia quanti, viceversa, trovano troppo indulgenti e benevoli i nostri giudizi sul governo Meloni che ai loro occhi avrebbe invece tradito gli italiani e le sue promesse.
Questo dissenso bilaterale tra i lettori ci spinge ancor più a parlare sempre meno di politica e di governo; ma riteniamo che sia nostro primo dovere, una tantum, dire ciò che ai nostri occhi ci sembra essere la verità della situazione. Possiamo sbagliarci, naturalmente, ma ci rifiutiamo di fingere e di ingannare. Se poi ad altri fa piacere credere alle fiabe, fatti loro.
«In caso di bomba atomica…», l’allarme in Gran Bretagna e le linee guida inviate a tutti i cittadini: cosa fare durante una crisi nucleare. A condividere le linee guida è stata la Commissione per la protezione radiologia: dal set di primo intervento al kit di emergenza, cosa devono preparare i cittadini

(Alba Romano – open.online) – «In caso di esplosione atomica, correre nei locali interrati e nelle cantine». È una delle linee guida che la Commissione internazionale per la protezione radiologica ha indicato a tutte le famiglie della Gran Bretagna, per prepararle al meglio a una eventuale crisi nucleare. Si tratta di un vero e proprio elenco con consigli pratici su come comportarsi nel caso in cui, nei prossimi anni, il Vecchio Continente dovesse ripiombare in un conflitto con l’utilizzo di armi di distruzione di massa.
La Commissione internazionale ha in primo luogo segnalato il modus operandi migliore una volta che scatta l’allarme atomico. Ovunque le persone siano, è necessario trovare riparo in anticipo negli spazi più protetti all’interno delle abitazioni, degli uffici, delle scuole e della città, come le stazioni della metropolitana. Sono assolutamente da preferire gli ambienti sotterranei, come i garage e le cantine che permettono di attutire meglio la deflagrazione e accusare meno il colpo.
Nella comunicazione viene anche indicato un kit di emergenza da preparare e avere pronto per ogni evenienza. Gli strumenti da accumulare sono una torcia elettrica con batterie di ricambio, una radio AM portatile, dispositivi di ricarica, mascherine antipolvere, un fischietto, dei teli di plastica, forbici e nastro adesivo. Ma anche salviette, sacchi residenti, fascette, utensili come pinze e chiavi inglesi, un apriscatole e la mappa del territorio. Oltre a tutto questo, i cittadini dovranno approntare un set di primo intervento sanitario per medicare ferite, ustioni. Fondamentale è anche portare con sé sufficienti riserve di acqua potabile, calcolando che per persona è sufficiente avere 2 litri al giorno, e dell’acqua in più per le esigenze igieniche.

(di Laurence Norman e Daniel Michaels – Wall Street Journal) – I leader europei che cercano di aiutare l’Ucraina a opporsi alla Russia hanno esitato.
Quando venerdì mattina […] hanno fallito nel loro tentativo di utilizzare i beni russi per finanziare lo sforzo bellico di Kiev, hanno mostrato ancora una volta una divisione […] sul grado di audacia con cui sono disposti a confrontarsi con Mosca.
[…] non è la prima volta che l’Europa dimostra di avere difficoltà a mantenere una posizione forte di fronte alle minacce e alle intimidazioni della Russia. I leader hanno affermato che l’appropriazione di beni sovrani costituirebbe un precedente pericoloso e che il complesso piano elaborato dall’Unione Europea non è infallibile.
Una cautela simile è emersa a Washington e in Europa durante tutta la guerra, anche se la Russia ha continuato ad attaccare l’Ucraina, ha lanciato un’ondata di aggressioni nella zona grigia in Europa e ha sequestrato beni europei e statunitensi bloccati in Russia.
I sostenitori occidentali hanno ripetutamente esitato a inviare attrezzature militari avanzate all’Ucraina per paura di un’escalation del conflitto. Hanno rimproverato Kiev per gli attacchi in profondità in Russia, anche se Mosca ha bombardato l’Ucraina impunemente. Hanno imposto ampie sanzioni, anche sul petrolio e sul gas russi, ma non le hanno applicate in modo tale da provocare un confronto con la Russia o aggravare la guerra commerciale con la Cina.
Ora, i 250 miliardi di dollari di beni russi congelati nei primi giorni dopo l’invasione dell’Ucraina rimarranno probabilmente inattivi fino alla fine della guerra, potenzialmente disponibili per la ripresa dell’Ucraina ma non per sostenere l’esercito di Kiev o gli sforzi di riarmo dell’Europa.
[…] Il presidente russo Vladimir Putin ha dichiarato venerdì che il piano equivaleva a una “rapina” che avrebbe avuto “gravi conseguenze per chi ci avesse provato”, prima fra tutte “un’erosione della fiducia” nell’UE come rifugio sicuro per le attività finanziarie.
Putin ha affermato che il piano dell’UE è fallito perché “è difficile prendere decisioni che comportano il saccheggio del denaro altrui”.
Il prestito era quasi un’arma a più punte. I funzionari dell’UE, a cominciare dalla presidente della Commissione europea Ursula von der Leyen, e i leader nazionali, tra cui il cancelliere tedesco Friedrich Merz, volevano sequestrare 90 miliardi di euro come garanzia per il prestito all’Ucraina. Ciò avrebbe aiutato Kiev, punendo la Russia e alleggerendo l’onere finanziario dell’UE. Invece, i contribuenti dell’UE sono costretti a sostenere i costi del prestito.
Venerdì Merz ha definito la decisione di ripiego – un prestito senza interessi di 90 miliardi di euro per l’Ucraina finanziato da un’obbligazione europea congiunta – «una soluzione pragmatica e valida che raggiunge lo stesso obiettivo».
Merz e von der Leyen avevano puntato in alto e hanno mancato l’obiettivo. Tuttavia, l’Europa ha finito per rafforzare notevolmente la posizione di Kiev nel proseguimento dei negoziati di cessate il fuoco guidati dagli Stati Uniti. Il prestito garantisce all’Ucraina un finanziamento per due anni invece che solo per un altro trimestre. […]
Ma mentre l’Ucraina ha ottenuto ciò di cui aveva bisogno, che in definitiva era ciò che contava per i funzionari di Bruxelles, l’UE ne è uscita ferita.
“Dal punto di vista dell’immagine, la situazione è terribile nel contesto di una guerra in corso”, ha affermato Mark Bathgate, amministratore delegato di Tweeddale Advisors, una società di consulenza politica con sede a Londra che opera per conto di società di investimento. Il risultato “dimostra quanto sia difficile ottenere il sostegno politico necessario per estendere la copertura dei costi tra i paesi europei”.
I leader dell’UE temono che tale difficoltà sia destinata ad aumentare. Alla posizione contraria del Belgio si sono unite anche Ungheria, Slovacchia e Repubblica Ceca. Anche Italia, Bulgaria e Malta hanno espresso perplessità.
I leader europei sostengono che il paradosso dei continui negoziati di pace guidati dagli Stati Uniti è che diventa più difficile ottenere sostegno per lo sforzo bellico dell’Ucraina, anche se i negoziati non hanno ancora dato risultati.
Alcuni alti funzionari sostengono che gran parte dell’Europa non ritiene che la Russia rappresenti una minaccia immediata per il continente. Al termine della riunione dell’UE venerdì mattina, il primo ministro danese Mette Frederiksen, il cui paese è stato tra i più generosi sostenitori dell’Ucraina, ha affermato che molti governi e leader stanno subendo crescenti pressioni interne riguardo alla guerra.
“Devo dire che questo è ciò che Putin spera: la combinazione di una sorta di stanchezza bellica con una guerra ibrida che porta molta incertezza e insicurezza nelle nostre società”, ha affermato.
Frederiksen ha affermato che, sebbene molti europei desiderino la pace, ritiene che la Russia non lo voglia. “Dobbiamo riconoscere che loro si considerano in conflitto con noi e quindi dobbiamo restare uniti e fare ciò che è necessario”, ha affermato.
Meloni sente il suo vice e lo invita ad abbassare i toni. Si rivolge anche a altri ministri con la promessa di ripescare le misure nel 2026

(di Giuseppe Colombo – repubblica.it) – ROMA – L’affondo è consegnato ai suoi fedelissimi. Lui, Matteo Salvini, resta nelle retrovie per tutto il giorno. Lontano da Giancarlo Giorgetti. Neppure una telefonata al “suo” ministro dell’Economia dopo le tensioni sulla manovra. Ma le prime linee del suo cerchio magico, loro sì che hanno parole da dire. Ruvide. Arrivano nelle ore in cui il titolare del Tesoro si presenta a Palazzo Madama per spiegare ai senatori della commissione Bilancio il nuovo maxi-emendamento che rimette in piedi la Finanziaria assaltata dai salviniani. Un salvataggio, per la controparte, dalla mina vagante della stretta sulla previdenza.
Ecco il messaggio a Giorgetti: «Va bene essere soddisfatti dei giudizi delle agenzie di rating o per lo spread ai minimi, ma i cittadini votano la Lega anche e soprattutto per salvare le pensioni». Sono le ragioni del consenso politico contrapposte a quelle della stabilità dei conti pubblici. Due visioni, due “Leghe”. Il giudizio non si ferma qui. «Non possiamo tagliare la faccia ai nostri elettori, è inaccettabile», insistono gli uomini più vicini al capo di via Bellerio. È la prova che l’incidente sulle pensioni si è chiuso solo formalmente con la cancellazione della tagliola sul riscatto della laurea e le finestre mobili che il Mef aveva inserito nel “maxi” iniziale.
Passeggiando per i corridoi davanti alla commissione Bilancio, il frontman Massimiliano Romeo gongola. Così: «È tornato il celodurismo lombardo». Ecco la Lega delle origini, sfrontata e macha. Guidata da un Salvini ringalluzzito per l’assoluzione definitiva nel processo Open Arms e per la postura sulle questioni internazionali, da Kiev al decreto sulle armi.
Nello stesso corridoio di Palazzo Madama, il ministro dell’Economia si ferma a parlare con i cronisti con una postura decisamente più contenuta. L’amarezza per le accuse che il suo partito ha rivolto ai tecnici del Mef non è svanita. Ma a prevalere sono le ragioni della responsabilità. Non farà un passo indietro, anche se sulle dimissioni si lascia andare a una battuta: «Ci penso tutte le mattine, sarebbe la cosa più bella da fare», scherza dopo aver partecipato per qualche minuto ai lavori della commissione.
Però – precisa – «siccome è la ventinovesima legge di bilancio che faccio, so perfettamente come funziona e che molte cose sono naturali». Il riferimento è proprio alle frizioni delle ultime ore con i parlamentari leghisti. La priorità – è il ragionamento – è la manovra da portare a casa per aiutare le famiglie e le imprese. «A me – dice – interessa il prodotto finale».
Nel chiuso dell’aula della commissione avrà parole ancora più esplicite. Esordisce scusandosi «per quello che è avvenuto». Ringrazia la maggioranza e le opposizioni «per aver reso questi supplementari» e – ironizza – «speriamo di non andare ai rigori». Poi il tono si fa serio: «Come si conviene, il ministro si assume tutte le responsabilità di quello che è accaduto».
Fa scudo ai funzionari del suo dicastero: «Non c’è responsabilità di strutture varie e quant’altro». Ma il messaggio più pesante arriva alla fine: «Credo – scandisce – che il sale della politica sia prendersi le responsabilità e non scaricarle sugli altri». Non cita Salvini, ma i fedelissimi del segretario della Lega identificano il destinatario del ragionamento proprio nel loro leader. Che ieri ha sentito anche Giorgia Meloni. Una telefonata che fonti leghiste definiscono cordiale. In ambienti di governo, invece, il giudizio è differente: la premier avrebbe invitato il suo vice a un comportamento più mite. La stessa sollecitazione è stata rivolta anche ad altri ministri. In tanti sono rimasti delusi dallo spazio concesso da Palazzo Chigi per le modifiche in Parlamento.
Ma la presidente del Consiglio è stata irreprensibile: basta rivendicazioni, soprattutto nei giorni in cui la legge di bilancio, incassato il via libera del Senato, dovrà correre verso la Camera per il via libera definitivo. Ma le richieste ministeriali che non sono riuscite a entrare nel perimetro della manovra sono tante. Alcune — è la promessa di Meloni – saranno ripescate in un decreto. L’anno prossimo. I giochi per il 2025 sono chiusi. Tutto spostato all’anno pre-elettorale. Prima il lucchetto alla quarta manovra e l’avvio della pratica per l’uscita anticipata dalla procedura d’infrazione per deficit eccessivo. È il bollino rosso da togliere via dai conti. Se l’impegno con i ministri è contenuto, una ragione c’è: i margini nel 2026 saranno più ampi, ma non troppo. Un avviso a chi potrebbe pensare che è già scattato il liberi tutti.

(Moreno Pisto – mowmag.com) – Tutta Italia parla di Signorini e dei suoi messaggi. Tutti i social esplodono di meme. Signorini poi va ospite nelle trasmissioni Mediaset. E nessuno fa una domanda, una. Guardate che non è normale. Guardate che fare finta di niente è ridicolo per quei giornalisti che poi non perdono occasione di farci lezioni sulla libertà di stampa quando gli torna più comodo. Questa situazione insomma è solo l’ennesima dimostrazione di quanto il livello del giornalismo mainstream italiano sia ormai fottutamente compromesso. Giornalisti, giornaliste di Mediaset: state facendo solo un po’ ridere…
Guardate che non è normale. Chi lavora nei giornaloni vi dirà che lo è. Ma non lo è. Intendo come i media mainstream stanno trattando la vicenda Signorini e soprattutto come la sta trattando Mediaset.
Ieri Alfonso Signorini è stato ospite di due trasmissioni. Mattino Cinque e Dentro la notizia. È stato lì sicuramente come segno di vicinanza della sua azienda, per dare un segnale al contrario delle voci che giravano e che noi abbiamo riportato su Alfonso Signorini licenziato dal GF e da Chi. Domande sulla vicenda Corona? Lasciate perdere se abbia ragione o no, lasciate perdere il giudizio che ognuno di noi ha su questi comportamenti, sui messaggi porno, se abbia o meno approfittato della sua posizione di potere per avvicinare aitanti e prestazionali giovani, ma se dopo che tutta Italia ne parla, dopo che i social non parlano d’altro, due domande concordate, due domande… ma cazzo falle.

Queste sue trasmissioni sono condotte da giornalisti coi controcoglioni. Oh, ma perché non le avete fatte? Perché siete Mediaset e il diktat è non parlarne? E Marina è Pier Silvio cosa sono, Putin e Orban?
I colleghi con cui ne ho parlato mi dicono: ma cosa ti aspetti? Eh il problema è proprio questa reazione da giornalisti. Di rassegnazione. I giornalisti fanno domande. Domande sulle notizie di attualità. E se non è notizia questa cosa lo è, parlare delle puttanate di cui si parla a Verissimo per esempio?
Badate bene questo nel giornalismo italiano è solo la punta dell’iceberg. Perché è la rappresentazione perfetta del fatto che ormai gli ospiti vanno solo dove le domande sono concordate, dove si sentono al sicuro e dove sanno che ci sono giornalisti ALLINEATI.

Vi sembra normale? No. Non lo è. E quando arrivano i dati sulla libertà di stampa e sull’indipendenza del giornalismo che sono sempre più deprimenti pensateci (vedi l’Unesco: uno studio fatto ogni 4 anni ha decretato che la libertà di espressione nel mondo è calata del 10% e soprattutto i giornalisti si auto censurano il 63% per cento in più).

Per quanto riguarda Mediaset dico: ragazzi, amici, siete solo un po’ ridicoli. Perché tutta l’Italia ne sta parlando e voi fate quello che una testata giornalista e un giornalista non dovrebbero mai fare: fare finta di niente.
Siete solo un po’ ridicoli. Mi raccomando seguitate a chinare la testa, a dire yes Marina, e poi a fare lezioni di giornalismo tramite i vostri talk show. Ma vi faccio una domanda: se con Signorini vi comportate così, fate la stessa cosa anche con i politici e gli amici degli amici? Ah povera Mediaset, ah povero giornalismo.
Il partito di Salvini vuole limitare l’invio al “materiale bellico difensivo”. Il no del ministro. Il testo all’esame del cdm del 29

(di Tommaso Ciriaco – repubblica.it) – ROMA – Niente armi «offensive» all’Ucraina. E via libera solo a forniture «difensive». A proporre nelle ultime ore un vincolo tanto stringente è la Lega, per bocca del plenipotenziario salviniano al Copasir, Claudio Borghi. È lui a teorizzare la tagliola. Uno sgarbo a Kiev, che è poi anche segnale distensivo verso Vladimir Putin. Il pretesto è il prossimo decreto che garantisce per il 2026 copertura all’invio di materiale bellico all’Ucraina.
Il testo è ostaggio delle pretese leghiste. In queste stesse ore, tocca a Guido Crosetto provare a difendere la filosofia del provvedimento. Il titolare della Difesa fatica a comprendere il senso della pretesa. E vuole evitare che il Carroccio sterilizzi gli aiuti, costringendo l’Italia a mandare segnali quasi ammiccanti verso Mosca. Per lui, ad esempio, non ha molto senso distinguere tra armi offensive e difensive, perché quando si è sotto attacco nessuna arma può considerarsi offensiva: serve appunto a difendersi. A chi gli domanda del pressing della Lega, risponde così: «Non capisco cosa significa che l’Ucraina non può vincere la guerra. Io, come sa benissimo Borghi che mi ascolta da tre anni al Copasir, ho sempre detto che per la Russia vincere significa occupare pezzi di un’altra nazione, per l’Ucraina vincere significa sopravvivere ed impedire a Putin di schiacciarla completamente».

Il sostegno anche militare a Kiev è quindi doveroso, per il responsabile della Difesa. E deve significare anche soccorso militare, per far sì che la legge del più forte non schiacci una nazione sovrana. «Negli ultimi due anni – ricorda Crosetto sempre rivolgendosi al Carroccio – la Russia ha conquistato un 2% di territorio ucraino in più, costringendo al sacrificio più di un milione di russi ed ucraini in questa folle contrapposizione che nessuno voleva. E a chi sostiene che l’Europa provocava, ricordo che l’Europa era diventata il partner economico di riferimento della Russia». Un’altra stoccata a Salvini, che reclamò a lungo la fine del regime sanzionatorio contro Mosca dopo l’invasione della Crimea.
Questa è dunque l’aria che si respira nell’esecutivo, alla vigilia del varo del decreto. Su Repubblica, Alfredo Mantovano ha annunciato che nel testo sarà indicata anche la natura civile degli aiuti a Kiev. Un compromesso che non sembra bastare alla Lega, che avanza richieste più radicali: «Si sta lavorando ad una discontinuità con i precedenti decreti armi – sostiene Claudio Borghi – Oltre agli aiuti civili, prioritari, l’ipotesi è continuare a supportare in più modi Kiev, ma indirizzarsi verso l’invio di strumentazioni solo difensive come i sistemi antiaerei e equipaggiamenti mirati alla difesa, a differenza di quanto è avvenuto finora».
È una “selezione” che difficilmente Giorgia Meloni potrà accettare. E che di certo Crosetto non sembra considerare ragionevole. Il tempo per approvare il decreto stringe, visto che esistono due soli consigli dei ministri a disposizione: lunedì 22 e lunedì 29 dicembre. L’orientamento è dare il via libera due giorni prima di Capodanno. Per avere tempo di limare ancora, per trattare. Sui social, il senatore dem Filippo Sensi sfida l’esecutivo: « Mi raccomando, Meloni: il decreto armi facciamolo tardi e vuoto, i morti non ne hanno più bisogno». A lui risponde proprio il ministro della Difesa: «Farlo il primo o il 29 dicembre non cambia nulla, perché entra immediatamente in vigore e ci basta che lo sia il primo gennaio. Farlo più tardi possibile è solo un modo per avere più tempo per la conversione».

(Giancarlo Selmi) – Sono tre anni che governano, stanno affondando il Paese però è sempre colpa di chi li ha preceduti. La narrazione è sempre la stessa. Andrebbe ricordato che fra chi li ha preceduti ci sono loro stessi. L’ultimo governo Berlusconi entrò in carica nel 2008 e cadde, per evitare che l’Italia entrasse in default, nel 2011. In quel governo c’erano quasi tutti i componenti dell’attuale governo, cominciando dalla grezza della Garbatella che, udite udite, era ministro. Non un secolo, ma solo undici anni dopo la fasciocoatta è tornata in un governo, questa volta da primo ministro.
Quel governo è stato il punto più basso dell’Italia e ha posto le basi del declino di questo Paese. L’attenzione più distruttiva di quel governo fu diretta alla scuola pubblica e, visto che una delle cose più citate dalla Meloni e dai suoi diversamente intelligenti tifosi sono i “banchi a rotelle”, mi sembra doveroso ricordare ciò che fecero loro alla scuola pubblica, con la firma della diversamente sveglia Gelmini. Quella del tunnel per l’accelerazione dei neutrini del Cern, che collegava il Gran Sasso a Ginevra. Il seguente memorandum è indirizzato ai sostenitori della coatta. Soprattutto quelli che hanno figli che vanno a scuola.
La Gelmini con le funzioni di ministro della scuola in quel governo con la Meloni ministro, fece ciò che segue: pensò che la storia e la geografía non fosse necessario studiarle e, su questa convinzione, costruì una riforma, votata da Lega e Meloni; pensò che in una classe potevano starci 35 studenti senza problemi e, su questa convinzione, costruì una riforma, votata da Lega e Meloni; pensò che la scuola privata o paritaria meritasse piú della scuola pubblica e, su questa convinzione, costruì una riforma, votata da Lega e Meloni; pensò che bisognasse tagliare i finanziamenti alla scuola e, su questa convinzione, tolse 8 miliardi dall’importo presente nella relativa voce di bilancio. Il taglio impedì qualsiasi investimento per anni. Dai banchi all’edilizia scolastica. Introdusse il taglio in una riforma votata da Lega e Meloni; pensò che il personale della scuola fosse eccessivo e, su questa convinzione, introdusse il blocco totale del turn-over e di nuove assunzioni per 10 anni, in una riforma votata da Lega e Meloni; pensò che le scuole d’arte non servissero e le chiuse, distruggendo ed eliminando, in un paese a vocazione turistica, la formazione degli artigiani. Anche questo nella stessa riforma, votata da Lega e Meloni.
In pratica questo fenomeno e quel governo distrussero la scuola italiana. I danni in termini di formazione dei nostri ragazzi, di edilizia scolastica e di adeguatezza del personale scolastico, sono evidenti. Se questi fenomeni di giornalisti e politici italiani, avessero dedicato alla riforma Gelmini un milionesimo delle parole spese sui banchi a rotelle e gli italiani si fossero accorti che con quella riforma, si stava sabotando la formazione dei loro figli, nipoti e pronipoti, staremmo assistendo adesso ad un altro film.
Ma il problema continuano ad essere i banchi a rotelle. Insieme a qualche milione di decerebrati italiani che ci crede. La foto ritrae le donne di quel governo. La prima a sinistra è la madre, donna, italiana e fasciocoatta. Pare più vecchia di quanto non lo appaia oggi, ma quello è un altro discorso.
SENATORE DEM PROMETTE UN’INDAGINE SULLA DIVULGAZIONE DEI FILE EPSTEIN

(ANSA) – Il democratico Dick Durbin, membro di spicco della commissione Giustizia del Senato americano, ha promesso di indagare sulla divulgazione dei file Epstein definendola “una violazione della legge”.
“Ieri avrebbe potuto essere una vittoria per le vittime e per la trasparenza nei confronti dell’opinione pubblica. Non lo è stata. Dopo aver gestito in modo inadeguato i documenti di Epstein per tutto l’anno, l’amministrazione Trump sta ora violando la legge federale per proteggere i ricchi e i potenti”, ha attaccato il senatore.
“Ci è voluto un atto del Congresso per costringere Pam Bondi, Kash Patel e Dan Bongino a prendere in considerazione l’idea di rendere giustizia. Avevano una scelta: le vittime o Donald Trump. Hanno scelto quest’ultimo”, ha dichiarato Durbin. “I democratici della commissione Giustizia del Senato indagheranno su questa violazione della legge e si assicureranno che il popolo americano ne sia a conoscenza”, ha concluso
PAM BONDI MINACCIATA DI IMPEACHMENT PER NON AVER CONSEGNATO I FASCICOLI SU EPSTEIN
(di Adam Downer – thedailybeast.com) – I democratici stanno affilando i coltelli contro il Dipartimento di Giustizia di Trump dopo che venerdì sono stati resi pubblici i documenti sul caso Epstein, in cui Trump è stranamente assente.
“Thomas Massie ed io stiamo redigendo gli articoli per l’impeachment e per oltraggio alla Corte”, ha dichiarato venerdì il deputato Ro Khanna, procuratore generale di Pam Bondi, durante il programma The Source con Kaitlin Collins. “Non abbiamo ancora deciso se procedere”.
Khanna, co-promotore dell’Epstein Files Transparency Act insieme al deputato repubblicano Thomas Massie, ha dichiarato che lui e Massie hanno messo nel mirino i vertici del Dipartimento di Giustizia dopo la pubblicazione venerdì dei documenti sul caso Epstein, pesantemente censurati e favorevoli alla Clinton.
Il rilascio non includeva tutti i fascicoli Epstein. Il viceprocuratore generale Todd Blanche ha affermato che nei prossimi giorni saranno resi pubblici altri documenti, in apparente violazione dell’Epstein Files Transparency Act, che richiedeva il rilascio di tutti i fascicoli entro il 19 dicembre. […]
Un tentativo di impeachment contro Bondi, Blanche e qualsiasi altro alto funzionario del Dipartimento di Giustizia metterebbe alla prova la lealtà dei repubblicani del Congresso, la maggior parte dei quali non ha firmato la petizione che ha costretto al voto sull’Epstein Files Transparency Act, ma ha votato quasi all’unanimità per approvarlo. […]
Il rilascio di venerdì è avvenuto dopo settimane di notizie secondo cui il Dipartimento di Giustizia stava cercando affannosamente di cancellare i file su Epstein senza una guida legale adeguata.
L’Epstein Files Transparency Act stabilisce che il Dipartimento di Giustizia “è autorizzato a non divulgare alcune informazioni, come i dati personali delle vittime e il materiale che potrebbe compromettere un’indagine federale in corso”.
Inoltre, “entro 15 giorni dalla pubblicazione richiesta, il Dipartimento di Giustizia deve riferire al Congresso (1) tutte le categorie di informazioni divulgate e nascoste, (2) una sintesi di eventuali omissioni effettuate e (3) un elenco di tutti i funzionari governativi e le persone politicamente esposte citati o menzionati nei materiali pubblicati”.
Il comunicato diffuso venerdì dal Dipartimento di Giustizia includeva intere pagine di testo censurato e alcune fotografie in cui l’unica persona ritratta era stata oscurata. Le foto pubblicate ritraevano l’ex presidente Bill Clinton, 79 anni, e altre celebrità mentre festeggiavano con Epstein e donne censurate, sollevando interrogativi sulla selezione dei file pubblicati da parte del Dipartimento di Giustizia.
In particolare, il presidente Donald Trump, 79 anni, non appariva in nessuna delle fotografie pubblicate, nonostante la sua amicizia con Epstein fosse nota da anni. Le immagini della tenuta di Epstein, pubblicate dai Democratici della Commissione di Vigilanza della Camera una settimana prima della pubblicazione del Dipartimento di Giustizia di venerdì, mostravano diverse fotografie di Trump che festeggiava con giovani donne e fraternizzava con Epstein.
Le omissioni e le discrepanze tra il documento pubblicato venerdì e quello pubblicato dai democratici della commissione di controllo hanno suscitato il sospetto bipartisan che il Dipartimento di Giustizia stesse facendo del suo meglio per proteggere Donald Trump e i suoi collaboratori, pur rispettando tecnicamente la legge.
Trump ha criticato aspramente la pubblicazione dei documenti su Epstein, descrivendola come una bufala dei democratici. Solo dopo che il Congresso ha votato a stragrande maggioranza a favore della loro pubblicazione, Trump ha firmato con riluttanza l’Epstein Files Transparency Act.
I vertici del Dipartimento di Giustizia, tra cui il procuratore generale Pam Bondi, 60 anni, e il direttore dell’FBI Kash Patel, 45 anni, hanno cercato per mesi di minimizzare l’importanza dei documenti su Epstein, con la Bondi che a giugno è arrivata addirittura ad affermare che la pubblicazione di ulteriori documenti non era “appropriata né giustificata”. Un mese dopo, sono emerse notizie secondo cui la Bondi avrebbe detto a Trump che il suo nome era presente nei documenti.
Patel, nel frattempo, ha scioccato i sopravvissuti di Epstein testimoniando davanti al Congresso che non c’erano prove che suggerissero che Epstein avesse trafficato donne per conto di qualcun altro oltre che per sé stesso.
Accadde oggi: 20 dicembre 1999
L’associazione Rinascita Guardiese continua la pubblicazione di documenti inerenti la storia guardiese per coltivare la memoria e … progettare il futuro partendo dal passato
Addizionale IRPEF Esercizio Finanziario 2000:
a Guardia viene scritta una vergognosa pagina di demagogia per far fuori moralmente e politicamente il Sindaco Ceniccola.
Sala biblioteca-Casa Comunale

L’amministrazione comunale è obbligata a deliberare l’addizionale comunale IRPEF nella misura minima (0,20%) per far quadrare i conti del bilancio e il gruppo consiliare “Per Guardia” (rappresentato da Panza Floriano, Falato Carlo, Garofano Umberto e Mancino Alfredo) scatena una violenta campagna denigratoria contro il Sindaco Ceniccola.
Fono-registrazione intervento pronunziato in data 20 dicembre 1999
Signori Consiglieri,
le accuse che sono state rivolte alla mia persona dal gruppo consiliare “Per Guardia” mi obbligano a fare qualche precisazione e, senza tirarla troppo per le lunghe, dico subito che contrariamente a quello che si vuol far credere con questo volantino dal titolo “Vergogna” diffuso nel paese, la decisione di introdurre l’addizionale IRPEF è stata una scelta “obbligata”, obbligata per far fronte alla riduzione dei trasferimenti statali di ben 275 milioni di lire operata dal Governo D’Alema e non potendo più mettere in bilancio i 364 milioni di lire (quale accertamento ICI per gli anni 1993-1996) che era stato messo in bilancio (e speso nei primi 6 mesi dell’anno 1999) da coloro che erano alla guida della nostra comunità e che oggi fanno finta di scandalizzarsi per la decisione assunta ed invitano il popolo guardiese alla rivolta. Soldi spesi prima di incassarli e senza aver previsto le voci specifiche per mettere l’Ufficio Finanziario in condizione di poter recuperare tali somme.
Alla faccia della buona amministrazione!
In poche parole, siamo stati costretti ad introdurre questa tassa (che porterà nella cassa del Comune circa 76 milioni di lire) per mantenere i servizi pubblici allo stesso livello degli anni precedenti e non per: “finanziare le spese di pubblicità del Sindaco” come falsamente si afferma nel succitato volantino.
Inoltre, per dovere di cronaca, devo ricordare che nella provincia di Benevento e in Italia quasi tutti i comuni hanno già applicato questa tassa e potete esserne certi che avrebbero fatto la stessa cosa (se non fossero stati mandati a casa) anche questi consiglieri che oggi ci accusano di voler: “affamare il popolo guardiese”.
Quindi, è fin troppo chiaro che coloro che hanno stampato questo volantino dal titolo “Vergogna” per stigmatizzare la decisione assunta dall’Amministrazione: mentono sapendo di mentire!
E, per dirla tutta, devo ricordare che per raggiungere l’equilibrio economico-finanziario del bilancio comunale non solo abbiamo dovuto introdurre l’addizionale IRPEF ma, ho dovuto rinunciare anche all’indennità di carica prevista dalla Legge e che avevo promesso di voler utilizzare per istituire un “Fondo di rotazione” da mettere a disposizione dei giovani guardiesi che volevano avviare un’attività e diventare imprenditori di se stessi.

P.S. Per amore di verità, è doveroso ricordare che l’unico Sindaco che non è costato una lira alle tasche dei guardiesi risponde al nome di Amedeo Ceniccola che decise di rinunciare all’indennità di carica prevista dalla Legge (5milioni/mensili) per dimostrare con i fatti di voler essere a servizio della comunità guardiese e per ricordare a tutti che la politica è la forma più alta di carità (Papa Paolo VI). Infine, per quanto riguarda l’addizionale IRPEF è necessario ricordare che i governanti subentrati al Sindaco Ceniccola (dopo averlo accusato di volere affamare i guardiesi) si sono ben guardati dal cancellare questa tassazione e non hanno esitato ad elevarla nella percentuale massima del 0,80%, senza preoccuparsi di …“ affamare il popolo guardiese”.
Alla faccia della coerenza politica!!!
RINASCITA GUARDIESE
Quasi 4 su 10 sono sì favorevoli al supporto economico ma contrari all’eventuale invio di militari a Kiev

(Alessandra Ghisleri – lastampa.it) – Gli italiani si chiedono sempre più spesso come andrà a finire la lunga guerra in Ucraina. Un conflitto che, a quasi tre anni dall’inizio dell’invasione russa, continua a produrre un sentimento diffuso fatto di attesa e timore: attesa per capire come evolverà la situazione, timore per le possibili conseguenze, anche inattese, che potrebbero toccare direttamente il nostro Paese.
Non è un gioco di parole né un esercizio retorico: da quel febbraio 2022 nulla è più tornato davvero come prima, né in Europa né nel mondo. Secondo il sondaggio di Only Numbers per la trasmissione Realpolitik, il 55,6% degli italiani è convinto che l’Italia debba continuare a sostenere l’Ucraina, ma si tratta di un dato tutt’altro che monolitico. Il 37,1% ritiene giusto supportare Volodymyr Zelensky, ponendo però un limite chiaro e invalicabile: nessun invio di soldati italiani sul terreno, i cosiddetti boots on the ground; un ulteriore 18,5% invece considera il sostegno un obbligo derivante dall’appartenenza alle alleanze internazionali, anche a rischio di un coinvolgimento diretto nel conflitto. Su questo punto sul fronte opposto, emergono fratture politiche significative. Il 64,9% degli elettori della Lega si dichiara contrario al sostegno all’Ucraina, posizione condivisa dal 40,0% dei sostenitori del Movimento 5 Stelle.
La guerra, dunque, continua a dividere non solo l’opinione pubblica, ma anche l’elettorato lungo linee sempre più identitarie e strategiche. A rendere il quadro ancora più complesso è la percezione della nostra sicurezza nazionale. Un cittadino su due (50,0%) ritiene che le nostre Forze Armate e gli armamenti italiani non siano pronti né adeguati a difendere il Paese da un eventuale attacco. Quando si evocano scenari gravi -terrorismo, cyber-attacchi, crisi su larga scala- il giudizio diventa molto severo: mezzi insufficienti, burocrazia lenta, coordinamento carente tra politica e apparato istituzionale… Sicuramente in questo contesto pesa molto la narrazione mediatica e politica, che spesso descrive l’Italia come poco armata, poco preparata, capace soprattutto di improvvisare e reagire, più che di prevenire.
Una rappresentazione che tuttavia semplifica una realtà decisamente più complessa. Eppure, accanto a queste paure, emerge un dato che potrebbe sembrare contraddittorio: se solo il 30,5% degli italiani si dice convinto che il Paese sia realmente pronto a difendersi, le Forze Armate godono di un indice di fiducia pari al 61,3%. Una fiducia che nasce dal contatto diretto, dalla presenza quotidiana sul territorio di carabinieri, polizia, esercito impegnato nelle “zone rosse” delle città, nel controllo, nella sicurezza e nella gestione delle emergenze. È una fiducia relazionale, costruita sull’esperienza concreta più che sulla valutazione strategica. Nel confronto con altri Paesi europei -Germania, Francia, Spagna, Regno Unito- l’Italia non appare un’eccezione: la preoccupazione per la preparazione strategica è diffusa ovunque; tuttavia, nel nostro caso emerge una percezione più accentuata di vulnerabilità, come se il senso di fragilità fosse diventato un tratto distintivo. Questa apparente contraddizione racconta molto del momento storico che stiamo vivendo.
Gli italiani si fidano degli uomini e delle donne in divisa, ma faticano ad avere fiducia nel sistema nel suo insieme. È il segnale di una società che riconosce il valore del servizio e del sacrificio, ma chiede con forza una politica più chiara, più coesa e capace di visione. Di fronte a una guerra che tocca direttamente l’equilibrio europeo e mondiale, la politica italiana mostra invece tutta la sua difficoltà a essere compatta e strategica. Prevale spesso la divisione, la tentazione di usare il conflitto come terreno di scontro interno, più per mettere in difficoltà l’avversario che per costruire una posizione credibile e condivisa. Tuttavia, questo non è un gioco che riguarda solo chi aderisce a questo o a quel partito: è una responsabilità che coinvolge tutti, perché in gioco non c’è il consenso immediato, bensì la sicurezza collettiva.
Gli slogan sono semplici, evocativi, rassicuranti nel breve periodo. La protezione reale del cittadino, invece, è silenziosa, complessa, poco spendibile in campagna elettorale. Non porta applausi immediati né voti facili, ma esiste, ed è proprio quella che fa la differenza quando le crisi diventano realtà. E forse è da qui che dovrebbe ripartire il dibattito pubblico: dalla consapevolezza che la sicurezza non è una bandiera da sventolare, ma una responsabilità da esercitare, anche quando non conviene.
Il filosofo: “A Venezia feci un bando aperto a tutti, spazi come quelli sono di interesse sociale”

(Flavia Amabile – lastampa.it) – Le occupazioni? È stato un errore non regolarizzarle in passato. Massimo Cacciari è un filosofo, un saggista, un opinionista. Ma è anche stato sindaco di Venezia per due mandati. Le occupazioni le ha vissute e gestite.
A Torino è appena terminata la manifestazione di protesta contro lo sgombero del centro sociale Askatasuna. Ci sono stati ancora una volta scontri, peraltro ampiamente annunciati. Che cosa ci dice questo sulla situazione dei centri sociali in Italia?
«Nulla di nuovo. Gli sgomberi dei centri sociali sono sempre avvenuti e sempre avverranno con manifestazioni di protesta. Almeno finché ci saranno dei centri sociali in Italia. Ormai sono in calo rispetto al passato, rappresentavano una delle manifestazioni dei movimenti giovanili fino a qualche anno fa».
E vengono sgomberati. Ci sono stati diversi sgomberi a Roma, a Milano il Leoncavallo e ora a Torino Askatasuna.
«Si sgombera laddove prima le amministrazioni comunali non si siano invece cautelate anche dal rischio di manifestazioni, scontri, eccetera, sistemando le cose. Come feci io a Venezia».
E come fece a Venezia?
«Molto semplice. A chi voleva occupare dissi che gli edifici non si occupano. È, però, interesse anche della città che ci sia un centro di ricreazione, di discussione giovanile. Per realizzarlo il Comune deve fare un bando pubblico. A questo bando può partecipare chi vuole, di destra o di sinistra. Gli uffici competenti valutano, poi, tra i partecipanti chi corrisponde meglio ai requisiti previsti. In questo modo si trasforma il centro sociale in un organismo culturale di interesse sociale per la città. Questa era la cosa che andava fatta durante gli scorsi decenni. Credo che sia stata realizzata solo a Venezia».
Quindi lei non avrebbe firmato un patto come ha fatto il comune di Torino, andando oltre le irregolarità?
«Ho fatto quello che le ho detto, un bando in una sede che era irregolarmente occupata, dove in qualsiasi momento potevano crearsi problemi con l’illegittimo proprietario o anche con la Corte dei Conti. Può piacere o non piacere, ma sono situazioni irregolari. I comuni avevano tutte le possibilità di regolarizzarle, non lo hanno fatto ed hanno fatto malissimo».
Chi sostiene gli attivisti dei centri sociali, li descrive come bravi ragazzi che fanno solo politica, dicendo che sgomberarli significa imbavagliare il dissenso. È d’accordo?
«Sì, sono d’accordo, perché nella stragrande maggioranza dei casi, come per esempio qui a Milano al Leoncavallo, non solo non facevano male a nessuno, ma realizzavano qualcosa di positivo. Erano centri di aggregazione di alcuni settori giovanili in modo assolutamente pacifico, con dibattiti e discussioni, a cui qualche volta ho partecipato pure io. Ormai sono una minoranza che non ha più la forza e le dimensioni di qualche decennio fa, nel bene e nel male».
Quindi non andrebbero sgomberati. Ma allora come li si gestisce?
«Sgomberarli e basta è un errore. Dopo dove vanno, che cosa fanno? Mandarli via significa creare motivi di frustrazione, di dissenso, di polemica. E vuol dire rendere ancora più difficile la condizione giovanile nel nostro Paese. I luoghi occupati andrebbero regolarizzati, riconoscendo la funzione sociale che la gran parte di loro ha svolto in questi anni».
Una funzione sociale tradita in diverse occasioni da parte di Askatasuna, a partire dall’assalto alla redazione della Stampa a Torino.
«In questo caso ci stiamo riferendo a un aspetto diverso rispetto al discorso che ho appena fatto. Non si deve organizzare un assalto alle redazioni dei giornali, anche se sono giornali – tra virgolette – nemici. Sono comportamenti che non corrispondono neanche minimamente all’interesse di un centro sociale che voglia poi continuare a svolgere le sue attività culturali e politiche. Si rende, invece, soltanto più difficile la sopravvivenza del centro sociale, in particolare in una situazione generale, culturale e politica come l’attuale che non è certo la più favorevole né ai giovani in generale, né ai movimenti culturali e politici giovanili».
Il ministro degli Esteri Tajani la pensa come Pasolini. Parlando degli attivisti di Askatasuna ha ricordato che sono «figli di papà che se la prendono con i figli del popolo, che stanno lì a mantenere la libertà, a difendere la democrazia e la sicurezza dei cittadini». Che ne pensa?
«Tajani si vergogni anche a pronunciare solo il nome di Pasolini. Se desidera facciamo un confronto su chi è stato Pasolini, su che cosa ha scritto, cosa ha fatto, su come va interpretata anche la sua disperazione rispetto al crollo di determinate culture, di determinati valori nel nostro Paese. Il suo è un discorso contro i Tajani, non contro il movimento studentesco».
I militanti di CasaPound sostengono che loro non devono essere sgomberati perché non hanno nulla a che vedere con chi si rende protagonista di episodi di violenza.
«Direi che nel caso di CasaPound c’è un’area di rispetto».

(ANNA FOA – lastampa.it) – Tra Israele e Palestina non c’è pace e, seppur limitati di numero rispetto al periodo che precede la tregua di ottobre, molti sono ancora i palestinesi che muoiono sotto i colpi dell’esercito israeliano nella striscia di Gaza, mentre la situazione in West Bank peggiora ogni giorno, sotto l’aggressione congiunta di coloni ed esercito. L’attenzione in Israele si è però in gran parte spostata, dalla guerra, alle elezioni che dovrebbero tenersi nell’autunno prossimo.
Riuscirà l’opposizione a scalzare Netanyahu e il suo governo di estremisti? E ove ci riuscisse, questo comporterebbe un reale cambiamento nella politica israeliana, o solo un ammorbidimento dei suoi aspetti estremi e contrari a ogni legge e ogni umanità?
Nelle ultime settimane l’attenzione si è spostata in particolare sugli arabi israeliani. Sono oltre il 20% dei cittadini israeliani, votano e possono essere eletti al parlamento, sono organizzati in partiti non esclusivamente arabi, come Hadash, e hanno teoricamente gli stessi diritti (o quasi) dei cittadini ebrei. Essi sono rimasti però in gran parte silenti nel corso degli ultimi due anni, senza rispondere alle sollecitazioni alla rivolta fatte loro da Hamas ma anche senza impegnarsi a fondo, in generale, nella battaglia contro il governo.
Molti i motivi di questo scarso impegno: sono molto più degli ebrei ricattabili ed esposti a repressione giudiziaria e politica. Molti di loro hanno perso il lavoro dopo il 7 ottobre, oltre a risentire anche dello stigma sociale che li ha colpiti in questi due anni di aumento esponenziale del razzismo e della diffidenza nei loro confronti. Negli ultimi mesi, però, le organizzazioni congiunte di ebrei e palestinesi che lottano contro la politica di Netanyahu hanno molto esteso il numero dei loro aderenti anche fra gli arabo-israeliani.
In particolare quella che è oggi l’organizzazione più ampia, Standing together, i cui attivisti si sono molto impegnati nel sostegno ai palestinesi del West Bank contro le aggressioni dei coloni, e che sembra ora, almeno secondo la stampa di opposizione israeliana, far emergere figure di spicco nel panorama elettorale del prossimo anno.
Sono figure nuove, di giovani, che nascono non dalle diatribe dei partiti ma dall’impegno civile, spesso rischiosissimo, sul campo. La più significativa oggi di queste figure è Alon-Lee Green leader ebreo di Standing together, il cui programma politico mira ad allargare il più possibile le adesioni dei palestinesi e a creare un vasto movimento politico dal basso misto di ebrei e palestinesi.
Il voto dei cittadini arabo-israeliani si prefigura così, anche secondo i più recenti sondaggi, come decisivo per determinare una vera e propria svolta nelle prossime elezioni e non solo un maquillage di facciata.
I problemi sono evidentemente enormi. C’è molta diffidenza, fra i deputati stessi palestinesi della Knesset che non hanno avuto un gran sostegno dall’opposizione ebraica, sulla effettiva recezione dei loro partiti dentro l’opposizione, e il timore che dopo aver vinto le elezioni grazie a loro si possa metterne da parte le aspirazioni politiche e i programmi.
Dall’altra parte, anche nell’opposizione a Netanyahu ci sono forti esitazioni a formare un fronte unito con i palestinesi. Si preferisce, è stato detto, un fronte “sionista” contro Netanyahu. Sono due opposte paure che esprimono alla perfezione le paure della società, anche di quella che combatte l’estrema destra di Netanyahu.
Da parte palestinese sono soprattutto diffidenze, basate però su solidi precedenti. Da parte ebraica, più che di paure possiamo forse parlare di chiusura. Un accordo che non si limiti al momento elettorale per far entrare davvero i palestinesi nella sfera della politica – il che vuol dire risolvere il problema dell’occupazione e quello dello Stato palestinese – sembra loro urtare contro le ragioni stesse della nascita col sionismo di uno “Stato degli ebrei”. E ancora, il governo, consapevole del rischio, sta mettendo in moto proposte di legge e disposizioni per controllare e limitare al massimo la partecipazione degli arabi israeliani alle prossime elezioni.
Possiamo solo sperare che i dati dei sondaggi abbiano ragione delle paure degli uni e dei pregiudizi degli altri. E che sia un accordo tra ebrei e palestinesi, convinti che le speranze degli uni possono realizzarsi solo insieme a quelle degli altri – a spazzar via gli orrori di questi ultimi due anni e la crisi profonda dei due ultimi decenni, e ad aprire a una vera pace.

(di Lucio Caracciolo – repubblica.it) – Ci sono tre modi di finire in guerra. Volerla, subirla o slittarci dentro senza accorgersene. Per noi italiani valgono la seconda e la terza variante. Ottant’anni di fortunosa amnesia strategica sotto l’ala americana ci hanno disabituato a ragionare sul male estremo. L’invasione russa dell’Ucraina è stata uno shock relativo, nell’illusione che non ci riguardasse direttamente. Dopo quasi quattro anni cominciamo ad accorgerci che ci riguarda eccome.
Mentre gli americani sono impegnati a evitare di finire in guerra con sé stessi, i cinesi sfruttano le difficoltà della Russia per penetrarla e i “volenterosi” europei si preparano allo scontro con Mosca, noi siamo trascinati dalla corrente che porta alla cascata ultima: la guerra in Europa. Come invertirla?
Il nostro destino non è nelle nostre mani. Oggi tutti, chi più chi meno, sono nelle mani di nessuno. Succede quando tramonta un’egemonia senza che ne subentri un’altra. Siamo nel momento di massima incertezza, che potrebbe durare anni o decenni. Nell’ora dei sonnambuli cresce il rischio di trovarci inghiottiti nella pancia di un conflitto scatenato per accidente o follia.
Colpisce che in questo trambusto i soggetti più deboli e più esposti all’allargamento del conflitto di Ucraina, anche solo agli effetti della sua continuazione a tempo indeterminato, non siano in grado di elaborare una strategia per contenerlo e sedarlo. Né gli italiani né altri europei dispongono di un piano di tregua, che chiameremo pace. Non è certo tale lo slogan della “pace giusta”, l’altro nome della guerra infinita. Né abbiamo tempo e risorse per mettere le nostre Forze armate in condizione di esercitare una seria deterrenza, per la quale contavamo fino a ieri sulle basi Usa. Oggi non sappiamo quale sarebbe la reazione americana a un attacco russo o di chiunque altro ad Aviano, Vicenza o Ghedi. Temiamo non lo sappiano nemmeno a Washington, dove si combatte il “nemico di dentro”. Preoccupa la retorica bellicista, tanto più paradossale data l’impossibilità di vincere qualsiasi guerra vera. Soprattutto perché al nostro “bastone” che non spaventa i russi né rallenta l’erosione di ciò che resta dell’Ucraina si accompagna il sonno della diplomazia. I negoziati separati di Trump con Zelensky (sull’Ucraina) e Putin (qui l’Ucraina è nota a piè di pagina) non frenano l’offensiva russa né il disastro ucraino, con cui faremo i conti per un paio di generazioni. Possibile che Roma, magari d’intesa con la Santa Sede e/o altri, non sia interessata a offrire ai belligeranti uno spazio protetto per avviare un negoziato diretto e segreto? La pace si fa tra nemici o non si fa.
L’inerzia è contro di noi perché spinge russi, ucraini e “volenterosi” verso la guerra totale. Diversi europei sono certi che i russi stiano per attaccarli, e viceversa. Le rassicurazioni verbali non convincono nessuno.
Rieccoci al “dilemma di Crowe”: il pericolo deriva dalle capacità o dalle intenzioni dell’avversario? Siamo nel 1907. Allarmata dal colossale riarmo navale tedesco Londra si chiede se annunci l’imminente assalto della Germania al suo impero oppure sia solo conseguenza della formidabile crescita industriale e tecnologica del Reich. Sir Eyre Crowe, alto dirigente del Foreign Office, nato a Lipsia da madre tedesca e padre britannico, educato a Düsseldorf e a Berlino, non richiesto produce per il suo ministro un memorandum che resterà nella storia della diplomazia inglese. Secca la tesi: il Reich punta al primato navale per assurgere a egemone mondiale. Indipendentemente dalla volontà del Kaiser. In formula: la capacità crea l’intenzione. Il dilemma è sciolto sul nascere. Ergo, prepariamoci alla guerra.
Aggiorniamo Crowe. A prescindere dalle intenzioni e dalla logica, la militarizzazione dell’economia russa può in futuro spingere Mosca a invadere altri paesi europei? A Varsavia, Stoccolma o Vilnius, in minor misura a Berlino e a Parigi, la risposta è positiva. Per costoro gli ucraini devono continuare a combattere per indebolire i russi e limitare le proprie future perdite. A Oslo alcuni osservano che la ricostruzione dell’Ucraina costerebbe il doppio del prezzo pagato per sostenerne la resistenza. Sull’altro fronte, i “falchi” non vogliono arretrare di un pollice per ragioni eguali e contrarie. Mutua distruzione assicurata: ieri deterrente, oggi attraente?

(di Marcello Veneziani) – L’idiota globale ha colpito ancora, con la sua stupidità militante e intollerante. È una storia che merita di essere raccontata proprio perché nasce e ruota intorno a un fatto insignificante che meritava di non essere nemmeno accennato. È successo in Thailandia, anzi in Finlandia, in realtà è accaduto nel non-luogo globale dei social e poi si è ripercorso nel mondo, da Oriente a Occidente. L’ho appreso da Paolo Valentino del Corriere della sera. State a sentire.
La protagonista è Miss Finlandia, una ragazza di ventidue anni dal cognome impervio, Sarah Dzafce, incoronata lo scorso settembre regina di bellezza finlandese e nei giorni scorsi detronizzata, privata del titolo ed espulsa da Miss Universo, che si stava svolgendo in Thailandia.
Che avrà fatto mai, per ritirarle addirittura la patente di Miss Finlandia e cacciarla da Miss Universo? Avrà commesso crimini contro l’umanità, avrà stuprato e ucciso qualcuno o avranno perlomeno dimostrato la sua corruzione, abuso di minori, insomma qualcosa di grave, direte voi. Peggio, signori, peggio. La ragazza mentre era in Thailandia per il concorso ha postato sui social una foto nella quale si tirava gli occhi con le dita, mimando gli occhi a mandorla degli orientali. Ma vi rendete conto che cosa tremenda, che gesto ripugnante e razzista? E non contenta, ha scritto pure una didascalia di chiaro stampo razzista: Mangiare con un cinese. Apriti cielo. L’Asia intera è insorta per l’insolente gesto di disprezzo e di irrisione: cinesi, giapponesi e coreani per la prima volta uniti, come non succede mai in politica estera, hanno protestato compatti e sdegnati per l’atto violento e razzista della ragazza, forte della sua bellezza da miss e della sua presunta superiorità razziale nordico-europea. Ma l’idiota, dicevamo, è globale e anche virale, innesca una serie di reazioni a catena: la compagnia aerea che batte bandiera finlandese, la Finnair, si è dissociata dal folle gesto della ragazza (la prossima volta torni a piedi in Finlandia) e l’organizzazione del concorso di Miss ha spodestato la Dzafce dal suo trono di reginetta, chiamando al titolo la prima delle non elette, e promettendo al mondo intero, rimasto scioccato dal gesto razzista della ragazza, che d’ora in poi si procederà più seriamente all’educazione preventiva delle candidate miss. Educazione seria, magari come si faceva ai tempi della rivoluzione culturale maoista, quella che costò qualche decina di milioni di morti al popolo cinese. Ma la storia, come dice Marx, si ripete la prima volta come tragedia, la seconda come farsa.
Peraltro, l’infame ragazza razzista che ha compiuto l’insano gesto, a sua volta è impura, perché ha origini kosovare, dunque non è nemmeno una finnica o ugro-finnica doc, ma discende da una famiglia di immigrati dal sud.
Ma a conferma che l’idiota globale è davvero universale e trasversale, c’è stato uno strascico ulteriore e istituzionale all’incresciosa vicenda che ha fatto inorridire il mondo. Il premier conservatore finlandese, Petteri Orpo, ha condannato il gesto della maledetta xenofoba, come “scriteriato e stupido”, suscitando a sua volta la reazione dell’estrema destra finnica, che appoggia il suo governo, che ha invece solidarizzato con l’ex-Miss, postando foto che ripetevano l’insano e folle gesto degli occhi a mandorla mimati e addirittura facendo il verso alle campagne per le vittime del terrorismo: Je suis Sarah. Riapriti cielo: interviene pure la sinistra, che si era sentita stranamente esclusa da questo festival della stupidità woke, di cui di solito è protagonista assoluta, e alti esponenti del Partito socialista hanno denunciato la campagna di odio dell’estrema destra coi loro offensivi occhi a mandorla, in segno di disprezzo somatico e razzista. Non contento di tutto questo polverone, il presidente del consiglio di Helsinki, il sullodato Orpo, se l’è presa coi suoi alleati giudicando le loro manifestazioni “dannose per la patria”. Alto tradimento, insomma. Un dramma a catena, che da noi si sarebbe chiamata sceneggiata napoletana o meglio scemeggiata, scaturito da un gesto infimo e infantile, di quelli che si fanno da quando esiste il mondo.
Piccolo dubbio incidentale: ma se la sciagurata anziché prendere in giro gli occhi a mandorla avesse preso in giro, che so, la faccia dei russi o la loro cadenza, mimandola in un post, sarebbe stata accusata lo stesso di crimini contro l’umanità oppure no, sarebbe diventata una specie di icona dell’Unione europea e di eroina contro il Male putiniano?
E noi qui a preoccuparci che l’Intelligenza Artificiale avanza e sta prendendo il posto dell’Intelligenza Umana. Non preoccupatevi, il posto è vacante da un pezzo. Di che vi preoccupate, se la stupidità ideologica ha già ampiamente espiantato il cervello e neutralizzato l’Intelligenza umana e domina incontrastata nei consessi globali?
Torno alla realtà e mi chiedo quante volte noi, non solo da bambini, abbiamo fatto il gesto di mimare gli occhi a mandorla o le maniere orientali, quante volte abbiamo scherzato sulla varietà del mondo e dell’umanità. Gesti semplici, innocui, al di sotto dell’intelligenza e della stupidità, semplicemente giocosi e fatuamente innocenti. Ma perché fare gli occhi a mandorla sarebbe un crimine contro l’umanità o un atto di razzismo? Qual è la carica dispregiativa in un gesto del genere?
Alla fine di questo articolo dedicato all’Idiota globale avrei voluto dirvi che era tutto uno scherzo, ce lo siamo inventati di sana pianta, era solo una caricatura del mondo woke, una goliardata. Invece no, è tutto vero. Pensate a che punto è arrivata la demenza planetaria da superare perfino una sua possibile caricatura. Il mondo sarà seppellito non da una bomba atomica o da un disastro astrale o ambientale, ma da un’epidemia di stupidità che ci farà perdere la realtà, l’intelligenza e il buon senso. Non ci sarà bisogno dell’Apocalissi o dell’Angelo sterminatore, basterà un battito d’ali dell’imbecillità e il mondo imploderà, tra le risate degli dei.