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Giuli colpisce ancora!


GIULI ALLA BIENNALE: STRAORDINARIA AVVENTURA

(di Pierluigi Panza – il Corriere della Sera) – Si apre la 19ª Biennale di Architettura di Venezia, curata da Carlo Ratti. […] venerdì il ministro della Cultura, Alessandro Giuli, ha tagliato il nastro del Padiglione Italia intitolato Terrae Aquae. L’Italia e l’Intelligenza del mare, curato da Guendalina Salimei: «È un montaggio straordinario, un’avventura di acqua e di popoli, colta e responsabilizzante», ha detto.

Responsabilizzante verso il climate change, tema di tutta la Biennale sul quale per il ministro in medio stat virtus: «Non sono né per l’estremismo interventista, né per l’indifferenza».

Il ministro declina questo pensiero, e l’impegno del padiglione a rimanere attivo oltre i termini dell’esposizione, riprendendo le narrazioni dell’antropologo James Frazer e dello psicoanalista James Hillman: «Salimei e la Biennale ci consentono di misurarci con le urgenze del presente senza dare nulla per scontato:

non la disperazione millenaristica di chi ci vorrebbe condannati a estinguerci come vittime di noi stessi, presunti nemici giurati dell’ecosistema stravolto nel cosiddetto Antropocene; non l’indifferenza ottusa di chi, in nome del profitto e del selvaggio egoismo della materia sconsacrata, rifiuta la voce del Grande Pan, il Nume della Totalità, l’anima loquente della Natura che ci ha collocato al centro di una storia meravigliosa scolpita ogni giorno dal nostro Amore per la bellezza». […]

DISCORSO DI ALESSANDRO GIULI – INAUGURAZIONE 19° MOSTRA INTERNAZIONALE DI ARCHITETTURA

Ringrazio e saluto il Presidente della Fondazione La Biennale di Venezia, l’amico Pietrangelo Buttafuoco, Caro Commissario del Padiglione Italia e Direttore Generale Creatività Contemporanea Angelo Piero Cappello,

Gentile curatrice del Padiglione Italia Guendalina Salimei,

Gentile curatore della 19ˆ Mostra Internazionale di Architettura Carlo Ratti,

Caro sindaco Luigi Brugnaro, Autorità civili, militari e religiose, Amiche e amici presenti

Nel presentare il suo progetto, la curatrice ha insistito sulla necessità di guardare l’Italia dal mare. Terrae Aquae… così, alla maniera degli antichi Latini, ho voluto pronunciarne il titolo in occasione della conferenza stampa romana in cui ne abbiamo annunciato con un grande sorriso la vittoria.

Suona così bene… ci richiama a una profonda pluralità di senso: le terre e le acque… la cura della terra e dell’acqua… la gratitudine dovuta alla terra e all’acqua.

Eccoci dunque interrogati sull’intelligenza del mare… sulla nostra origine e sul nostro destino… sul viaggiare e sul ritornare ai fondamentali della nostra civiltà mediterranea.

Proprio come i nostri antichi progenitori Troiani, discendenti dei remoti ed enigmatici Tirreni (poi divenuti Etruschi, come ben sa il sindaco Brugnaro con il quale dedicheremo agli Etrusco-Veneti qualcosa di speciale…).

Questi Tirreni fioriti in Italia, vocati a sciamare per il mondo conosciuto come le api alla ricerca di nuovi alveari, in un’età imprecisabile riattraversarono il mare per giungere all’alveare delle origini: qui, in Italia.

E non soltanto sulle rive del Lazio, come ci viene tramandato da Virgilio nella mitistoria di Enea… No… anche nel Veneto, perché anche i Veneti, un tempo detti “Eneti” (guidati dall’eroe Pilemène), combatterono e persero la Guerra di Troia narrata da Omero: venivano dalla Paflagonia, una regione dell’Anatolia, l’odierna Turchia, affacciata sul Mar Nero… mare in cui ancora oggi furoreggia il Dio della Guerra.

Il loro ritorno in Patria, nell’attuale Veneto, è testimoniato dal ricordo di un compagno di Enea chiamato Antenore e arrivato fino a Padova veleggiando lungo il nostro meraviglioso Mare Adriatico…

Ma oggi restiamo a Venezia… e torniamo contemporanei a noi stessi, sia pure accompagnati dalla memoria dell’antico presente… È una felice coincidenza che abbia sede a Venezia questa riflessione sul cambiamento di prospettiva che comporta lo sguardo sull’Italia dal mare.

E se il filo conduttore è l’architettura, che ha come campo d’azione lo spazio, il nostro primo approccio è con la varietà dei rapporti visivi fra terra e acqua che il lungo perimetro delle coste italiane, nelle sue forme naturali e artificiali, ci offre di continuo.

Il tema è stato declinato dalla curatrice tenendo conto delle sue implicazioni storiche e paesaggistiche, archeologiche ed economiche, facendo leva sulla Tradizione, con il suo straordinario patrimonio immateriale di usi, costumi e narrazioni, ma al tempo stesso cercando di individuare le potenzialità innovative di quella che nel sottotitolo è stata appunto definita l’intelligenza del mare.

Di questa multidisciplinarità dà conto il primo dei tre volumi del catalogo. La riscoperta della cultura del mare e il suo sviluppo implicano la coscienza sia della sua complessità sia della sua capacità relazionale. Parlare del rapporto dell’Italia con il mare, infine, non può non avere anche un contenuto geopolitico, nel senso più alto del termine.

Sappiamo che, dall’apertura del Canale di Suez, il Mediterraneo si è dilatato notevolmente… anche se la concettualizzazione di questo allargamento è avvenuta cent’anni dopo per opera della Marina italiana. Il “Mediterraneo allargato”, infatti, si estende dalle proprie coste al Mar Rosso, al Mar Nero, al Golfo Persico e include parte dell’Oceano Indiano e dell’Oceano Atlantico.

Al Ministero della Cultura ne siamo talmente consapevoli che all’interno del Decreto Cultura, recentemente approvato dal Parlamento italiano, abbiamo previsto un’unità di missione dedicata alla Diplomazia culturale, una struttura da impegnare in un settore nel quale l’Italia eccelle e Venezia è Maestra indiscussa. È un contesto aperto a molteplici prospettive e che richiede una fiducia sincera nei confronti delle nostre capacità di abitare futuro nel modo migliore.

Guendalina Salimei e la Biennale di Venezia – e così concludo ­– ci consentono di misurarci con le urgenze del presente senza dare nulla per scontato: non la disperazione millenaristica di chi ci vorrebbe condannati a estinguerci come vittime di noi stessi, presunti nemici giurati dell’ecosistema stravolto nel così detto Antropocene; non l’indifferenza ottusa di chi, in nome del profitto e del selvaggio egoismo della materia sconsacrata, rifiuta la voce del Grande Pan, il Nume della Totalità, l’anima loquente della Natura che ci ha collocato al centro di una storia meravigliosa scolpita ogni giorno dal nostro Amore per la bellezza.

Grazie


Meloni, finita ostaggio di Trump, ora teme di restare isolata


Meloni non va al vertice ucraino, l’opposizione: “Danno all’Italia”. La premier si collega ma “salta” la telefonata dei leader a Trump: “C’è l’urgenza di un cessate il fuoco”. Pd, Iv e M5S attaccano

(di Lorenzo De Cicco – repubblica.it) – Mentre i leader di Francia, Germania, Regno Unito e Polonia sono a Kiev da Volodymyr Zelensky, Giorgia Meloni è a Roma. Alla call sull’Ucraina partecipa, ma da remoto. E non prende dunque parte alla chiamata, successiva al summit, tra i quattro big europei presenti nel paese e il presidente degli Stati Uniti, Donald Trump. La premier era stata invitata nella capitale ucraina: non esserci è stata una scelta. Non indolore, viste le polemiche che si sono rincorse per tutto il giorno ieri, con l’opposizione a ranghi serrati, dal Pd ai 5S, che l’hanno accusata di avere relegato ai margini il Belpaese. Visto anche il precedente con Mario Draghi, fotografato nel giugno 2022 proprio sul treno per Kiev con Emmanuel Macron e Olaf Scholz.

Durante il summit la premier tenta un rilancio, riproponendo il vertice previsto in estate a Roma sulla ricostruzione dell’Ucraina. Nella nota che diffonde Palazzo Chigi al termine della call è descritto come «il grande appuntamento a sostegno di Kiev che verrà ospitato dall’Italia a luglio con la conferenza a livello capi di Stato e di governo per la ricostruzione» del paese invaso dalla Russia. Il resto del comunicato ribadisce che per l’Italia è necessaria «una pace giusta e duratura, che assicuri la sovranità e la sicurezza» dell’Ucraina. E si allinea alla posizione di Donald Trump: per Meloni c’è «urgenza di un cessate il fuoco totale e incondizionato di 30 giorni», per questo la premier «rinnova l’aspettativa che la Russia risponda positivamente all’appello fatto dal presidente Trump e dimostri concretamente, come già fatto dall’Ucraina, la volontà di costruire la pace».

Più che per le considerazioni della premier, l’opposizione attacca sull’assenza al summit. Per il Pd è «grave la mancata partecipazione in presenza della premier», così dice Piero De Luca, capogruppo dem nella commissione Politiche Ue della Camera. Per il senatore dem Filippo Sensi ora «il posto dell’Italia è in panchina». Critico anche il presidente del M5S, Giuseppe Conte: «Il fatto che Meloni si colleghi da remoto conferma una strategia fallimentare». Per l’ex premier è «il trionfo dell’ipocrisia, perché non sono stati capaci, Meloni per prima e gli altri governanti, di impostare una svolta negoziale. La abbiamo affidata a Trump e non tocchiamo palla».

Matteo Renzi sui social piazza un trittico di foto: in una c’è lui con Merkel e Hollande dopo la Brexit, la seconda è il famoso scatto sul treno per Kiev con Draghi, Macron e Scholz, l’ultima è quella di ieri con i leader di Germania, Francia, Regno Unito e Polonia. Per il capo di Iv, «con Meloni l’Italia si è persa: non siamo più nel gruppo di testa». Lo stesso ripete Ivan Scalfarotto, senatore renziano presente a Kiev proprio ieri. Per il segretario di Azione, Carlo Calenda, «è incomprensibile la decisione di Meloni. C’è un rischio di spostamento dell’asse forte dell’Europa da Italia-Francia-Germania a Germania-Francia e Polonia».


5S divisi sull’alleanza con i dem a Roma: “Ma se tolgono i ballottaggi ci favoriscono”


(di Luca De Carolis – ilfattoquotidiano.it) – L’alleanza possibile con il Pd a Roma divide i Cinque Stelle su un palco in un torrido sabato romano, già due anni prima delle urne. Invece l’idea delle destre di stroncare i ballottaggi nelle Comunali, regalando la vittoria al candidato che prenda più del 40%, preoccupa alcuni e fa sorridere altri. E anche in questo caso la Capitale c’entra, “perché l’eliminazione del secondo turno ci renderebbe più forti ai tavoli per le amministrative anche nel Lazio, dove ora spesso ci prendono alla leggera” sostiene Carlo Colizza, coordinatore regionale del M5S. Colizza lo teorizza durante “Roma partecipa”, evento dei 5 Stelle capitolini per un punto politico con lo sguardo già rivolto alle urne del 2027 (in teoria, accorpabili alle Politiche). Sul palco al Testaccio, il consigliere comunale Paolo Ferrara e l’ex sindaca Virginia Raggi sostengono verità opposte sul rapporto con i dem in città, dove il M5S è tuttora all’opposizione. Perché Ferrara apre: “La Costituente ci ha definito progressisti indipendenti, quindi ora siamo collocati in una casa politica, e con gli altri che la abitano dobbiamo parlare, sostenendo i nostri valori”. E gli altri sarebbero innanzitutto i dem, quindi anche il sindaco Roberto Gualtieri. Ma Raggi ha altre idee: “Sento parlare di casa, ma il punto è se parli la stessa lingua con chi discute di pace ma vota il riarmo e che parla di ambiente però costruisce l’inceneritore”. E l’affondo è tutto per Gualtieri e l’impianto che vuole realizzare in località Santa Palomba, più volte scomunicato anche da Conte. “Il nostro obiettivo non può essere un’altra consiliatura, insomma sopravvivere: il tema è cosa fare per la gente che non arriva alla fine del mese” insiste Raggi, davanti alla capogruppo in Campidoglio Linda Meleo e alla vicepresidente Paola Taverna. Il consigliere regionale Adriano Zuccalà si mostra aperturista. Ma sotto il palco si ragiona sul ddl sui ballottaggi presentato in Senato. “Se venisse approvato, non potremmo apparentarci al secondo turno con Gualtieri, e cambierebbe tutto” è l’osservazione diffusa. Ovvero, per i 5 Stelle salterebbe una via d’uscita politica. In serata, arriva Giuseppe Conte. Annuncia che nel quesito referendario sulla cittadinanza voterà sì (“ma lasciamo libertà di coscienza”) e che “presto gli iscritti voteranno per completare il processo costituente”. Ergo, in settimana convocherà il Consiglio nazionale e l’assemblea congiunta, per autorizzare il terzo mandato.


Questo Papa capace di pronunciare la parola “autorità”


Il catechismo colloquiale era diventato una cattiva maniera. È tornato tra noi un professore della fede

(Giuliano Ferrara – ilfoglio.it) – Ha qualcosa di amabile. Ma che cosa ha di amabile? Papa Leone ci libera dal sottile senso di colpa introdotto nella nostra vita dalla sociologia bergogliana, che ha alcuni meriti ma si è nel tempo solidificata in una cappa di piombo conformista. La prima omelia non aveva solo il tratto disciplinare della ripresa di una teologia evangelica e cristologica compiuta: chi sono io per non predicare? Il catechismo colloquiale, con il suo moralismo del servizio agli altri esibito come una punizione e impartito come una bacchettata all’egoismo opulento degli inclusi, era diventato una maniera, una cattiva maniera. Con un timbro della voce di dolce severità, il priore agostiniano, il frate pastore peruviano, il curiale rispettoso e capace di pronunciare la parola “autorità”, l’uomo accademicamente formato, insomma il nuovo Pontefice romano, ha detto cose intellettualmente e non solo emotivamente significative a noi “atei di fatto”.

Intorno alla professione di fede, all’esordio, nella prima messa di ringraziamento nella Sistina, si è capito che era tornato tra noi un professore della fede. Qualcuno che non aveva solo da dire delle cose sconsolate, virtuistiche, moraleggianti, fondate sull’idea che una Chiesa povera e arrendevole potesse ispirare il disgusto per una società maligna e nemica, perché questo qualcuno voleva estrarre dal bagaglio della fede cristiana cose interessanti. La più interessante, c’è da sospettare, è che non tutto si esaurisce nella relazione o relazionalità, questa mitologica e manipolativa o astratta richiesta e promessa universale di aiuto, sempre risolta in un non qualificato rapporto con l’Altro in maiuscolo, perché un agostiniano sa che esiste e decide anche l’interiorità, quella straordinaria capacità di tornare in sé, redi in te ipsum, di essere individuo in rapporto all’oggetto della fede non meno che per gli altri. La frase più intensamente significativa che era stata pronunciata dalla Loggia delle Benedizioni era secondo me questa: “Sono un figlio di sant’Agostino, agostiniano, che ha detto: ‘Con voi sono cristiano e per voi vescovo’”. “Con” e “per”, la comunione di fede e la rappresentanza, la mediazione di un’autorità che si guadagna la propria dignità istruendo e indicando e chiedendo ascolto, che non si limita a castigare l’egoismo sociale in nome dei bisogni dell’altro. 

I sermoni del vescovo di Ippona, compreso il 340 da cui la citazione, vertono in fondo tutti sulla Grazia, che evade da ogni frontiera come puro amore, ma dalla Grazia derivano la dignità della missione o del mestiere e il richiamo alla pedagogia, all’autorità cattolica e all’obbedienza come virtù, altro che il priore di Barbiana. “Correggete gli indisciplinati, confortate i pusillanimi, sostenete i deboli, confutate gli oppositori, tenete lontani i maligni, istruite gli ignoranti, stimolate i negligenti, frenate i litigiosi, moderate gli ambiziosi, incoraggiate gli sfiduciati, pacificate i contendenti, aiutate i bisognosi, liberate gli oppressi, mostrate approvazione ai buoni, tollerate i cattivi, amate tutti”, era la lezione del maestro di Leone e dei suoi. La Chiesa è missione, ma il contenuto della missione non è la missione stessa, è un insegnamento veritativo. Con l’aggiunta: pregate perché il mio episcopato giovi a me e a voi: “A me infatti gioverà se dirò le cose che si devono fare; gioverà a voi, purché mettiate in pratica quanto ascoltate”. Se la Chiesa è, nel senso più forte, Parola, Logos, c’è da sperare che sia tornata a parlare. 


Cuor di Leone


(di Marcello Veneziani) – Un giovedì da Leone. E così, a sorpresa, è stato eletto un papa americano; non un papa delle periferie, un papa asiatico o africano, cioè un rappresentante degli ultimi in ordine di tempo e di povertà; e non un papa italiano di quelli sostenuti dalle tifoserie nostrane, bergogliani e cattoprogressisti. Un papa americano, dunque, anzi statunitense, di Chicago persino, città che sembra essere agli antipodi della fede, con una fama di città dei gangster o capitale del maiale, come scriveva negli anni trenta Berto Ricci. Ma un papa franco-ispianico e un po’ italiano, dunque latino ed euroamericano. Chi vede l’Americano che si sceglie quel nome ruggente, lo immagina come il Leone della Metro Goldwin Mayer, un papa da film e da fiction holliwoodiana, ma deve ricredersi; due figure emergono dal suo esordio e dalla sua storia personale e che hanno ben altra storia: Sant’Agostino, Padre della Chiesa, Santo e Filosofo, e Maria, la Madonna di Pompei, a cui si è rivolto con devozione anche perché è stato eletto proprio nel giorno dedicato a lei (ovunque io fossi l’8 maggio, mia madre mi raccomandava di recitare la supplica alla Madonna di Pompei, a cui poi fui legato da qualcosa che mi segnò la vita).

Per cominciare, un Papa così non nasce nel segno di Bergoglio o di Trump. Molti indizi ce lo dicono. Nei due partiti veri o presunti della Chiesa, i conservatori e i progressisti, questo Papa non figura; dunque un papa mediano e di mediazione, un papa saggiamente scelto per non generare in partenza divisioni ed esclusioni.

Di lui possiamo raccontare oltre il passato, solo quei pochi minuti in cui è apparso affacciandosi su San Pietro e parlando ai fedeli, con un testo scritto. Dunque, per primo ha voluto chiamarsi Leone e la scelta dice moltissimo. Non solo e non tanto per i predecessori che ebbero quel nome, da san Leone Magno, che fermò i barbari e gli eretici, all’ultimo Leone XIII che fu gran papa e gran fautore, tra l’altro, della dottrina sociale della Chiesa; ma perché ha voluto attingere dalla tradizione della Chiesa e non dai nomi degli ultimi papi venuti dopo il Concilio Vaticano II. Se avesse voluto sottolineare la sua continuità onomastica con Bergoglio avrebbe dovuto chiamarsi Francesco II o Giovanni XXIV, come suggerì il papa argentino, pensando a Papa Roncalli e al Concilio Vaticano II. Ha invece voluto lanciare già nel nome un preciso messaggio: la mia Tradizione è la Chiesa e non la storia contemporanea, è la storia tutta della Chiesa e non solo il pur eccelso poverello d’Assisi. In secondo luogo ha voluto vestirsi da Santo Padre, ovvero come si vestivano i Papi e non come vestiva Bergoglio, ossia secondo liturgia e tradizione; dalla mozzetta di porpora alla stola con le immagini dei Santi Apostoli Pietro e Paolo, alla croce che è tornata a splendere perché aurea e non ferrea, come fu invece quella del suo predecessore. È un messaggio preciso di continuità con la tradizione millenaria della Chiesa, pur nelle sue evoluzioni. Oso pensare che la ritrosia di Bergoglio a usare i paramenti sacri e a risiedere in San Pietro sia dovuta anche alla compresenza di Papa Benedetto XVI (e tralascio le più spinose questioni di legittimità e simbologia).

Del resto invocare la continuità assoluta con Francesco era già una contraddizione in termini: se si apprezza di Francesco la sua discontinuità con i papi precedenti, non vedo perché non si debba apprezzare la stessa discontinuità del nuovo papa rispetto al suo predecessore. Ma il criterio va al di là della figura di Francesco, è una questione di principio, significa abbracciare la Santa Madre Chiesa e non le ultime novità e le ultime presenze. Nel festival di Sanremo a cui la tv riduce il totoPapa, nell’attesa della fumata bianca, abbiamo sentito la gente dire le solite banalità prefabbricate che le somministra la stessa televisione: speriamo che sia come Francesco, che faccia ponti non muri, sia inclusivo, accogliente, dialogante, ecologista, pacifista, innovatore in parole e opere, anzi in parolin e opere (una pupona col microfono dava voce in piazza a una discreta tifoseria o clacque). Ma, al di là delle idee di Bergoglio, la chiesa non può ridurre la sua tradizione al corto raggio del papa precedente, riducendo la tradizione al mese precedente; deve avere un respiro più ampio, sul piano storico e geografico.

A proposito del frasario obbligato che tutti auspicavano, vorrei ricordare che quando Leone XIV ha ripetuto la parola Pace si è riferito a Cristo Risorto e non ai pacifisti; quando si è rivolto al mondo intero non ha fatto la solita menata green; quando ha citato i ponti ha precisato che primo compito per un Pontefice, come non ci siamo stancati di scrivere prima della sua elezione, è costruire ponti tra l’umano e il divino, e non solo ponti tra popoli e migranti. Leone XIV è agostiniano, viene cioè dalla tradizione più antica dei Padri della Chiesa, la prima tradizione di pensiero cristiano che precede la Scolastica, che verrà poi con S.Tommaso d’Aquino. Agostino d’Ippona o di Tagaste, a cui si ispira l’ordine da cui proviene il nuovo Papa, fu dedito alla fede e all’interiorità, alla scoperta dell’anima, a S.Paolo e a Platone.

Naturalmente, è del tutto prematuro azzardare giudizi e previsioni.

Sottolineo solo una divergenza insorta di recente tra l’allora cardinale Prevost e il vice di Trump, il neo-cattolico Vance. Questi aveva detto che l’amore per l’umanità intera ha una naturale gerarchia: prima ami tua madre, i tuoi figli, chi ti è caro e vicino, quindi il tuo popolo, infine l’umanità intera. È una concezione che ripeto da tempo, e che considero naturale e umana: non puoi amare dello stesso amore la persona più cara che ti è accanto e lo straniero più remoto e sconosciuto. C’è una una predilezione che non ha nulla di esclusione o di discriminazione; anzi la parola stessa prossimo indica la prossimità come primo criterio. Il cardinal Prevost contestò questa concezione dicendo che l’amore non fa graduatorie, e in questo, lo riconosco, fu coerentemente cristiano, così come Vance era stato coerentemente umano. L’idealismo cristiano del prelato e il realismo naturale e affettivo di Vance. La tradizione cristiana comprende entrambi: Gesù Cristo predica la forza di distaccarsi dai propri affetti naturali, andare oltre la propria famiglia, amare il prossimo a partire dagli ultimi e da chi sta peggio. Ma la cristianità intera si è edificata poi realisticamente a immagine e somiglianza della Sacra Famiglia, ponendo l’unione familiare al centro dell’universo affettivo, religioso, educativo della cristianità.

Un giorno da leoni è troppo presto per capirne i prossimi cento, e mille e mille ancora. Ma il fatto che nessuna “fazione” abbia rivendicato il nuovo papa, il fatto che nelle sue parole si siano riconosciuti tutti o non si sia sentito respinto nessuno, è una incoraggiante premessa, dopo un papato divisivo. Sperando che il nuovo Papa abbia davvero un coraggio da Leone per attraversare l’epoca che ha voltato le spalle a Dio, alla fede, ai legami religiosi e familiari. Che Dio lo assista e il Santo Padre assista noi.


Il collasso degli ospedali: in sei reparti su dieci non ci sono posti liberi


Il dossier dei medici internisti: “Un ricovero su tre è evitabile, i pazienti finiscono nei corridoi”. Le situazioni peggiori: Lazio, Sardegna e Umbria, con percentuali di overbooking dal 90 al 100%

Il collasso degli ospedali: in sei reparti su dieci non ci sono posti liberi

(PAOLO RUSSO – lastampa.it) – Letti occupati ben oltre la capienza tanto che la metà dei reparti è in overbooking, personale allo stremo e pazienti sempre più fragili, spesso costretti a restare in corsia per giorni solo perché il territorio non riesce a prendersene cura. È la fotografia che emerge dalla nuova indagine Fadoi (Federazione dei medici internisti ospedalieri), condotta su 216 reparti di medicina interna in tutta Italia, quelli dove viene assistito il 40% dei ricoverati, sovente anziani con più patologie.

In oltre la metà dei reparti (58%) si supera regolarmente il 100% di occupazione dei posti letto. Non è raro che i pazienti vengano assistiti su una barella in corridoio, con un separé a garantire una parvenza di privacy. Non va meglio sul fronte del personale: l’85,6% delle unità operative denuncia carenze croniche di medici e infermieri. Un quadro che diventa ancora più preoccupante se si considera che in questi reparti transitano quasi la metà dei ricoverati ospedalieri, in gran parte anziani, cronici, fragili, con bisogni assistenziali complessi.

Eppure, circa un terzo dei ricoveri potrebbe essere evitato con una presa in carico territoriale più efficace. Un dato che pesa, se si considera che i reparti continuano a reggere sulle spalle di operatori sempre più in affanno e con strumenti limitati. Per il 32,8% dei reparti, tra il 10 e il 20% dei posti letto sarebbero liberi con un territorio più reattivo; per il 37% si sale al 21-30%, mentre quasi il 19% stima di poter evitare addirittura tra il 31 e il 40% dei ricoveri.

A mancare è tutto l’ecosistema dell’assistenza di prossimità: cure domiciliari, Rsa, reparti di post-acuzie. Ma anche i medici di famiglia, sempre più soli e sovraccarichi, schiacciati da un carico burocratico che sottrae tempo ai pazienti. Situazione tanto più grave se poi non si lavora in team con infermieri e specialisti e se gli studi restano aperti in media 14 ore a settimana come oggi avviene. La riforma della Sanità territoriale, con Case e Ospedali di comunità pur prevista dal Pnrr, stenta a decollare, proprio perché i medici fanno resistenza ad andarci a lavorare per un numero congruo di ore. E così il sistema si inceppa proprio lì dove dovrebbe funzionare meglio: nella gestione dei malati cronici fuori dall’ospedale.

Non va meglio sul fronte della prevenzione. L’Italia investe meno di tutti in Europa per la salute preventiva. I risultati si vedono: stili di vita scorretti, scarsa adesione agli screening e basse coperture vaccinali fanno sì che, in media, un quarto dei pazienti arrivi in ospedale per malattie che si sarebbero potute evitare. È un bollettino di guerra che parla di fragilità ignorate, diagnosi tardive e medicina di iniziativa ancora in larga parte teorica.

Uno spiraglio arriva dalla fase post-dimissione: nel 44% dei casi viene attivata l’assistenza domiciliare integrata, il 27% dei pazienti viene accolto in Rsa, il 21% in altre strutture intermedie. Solo il 7,9% torna a casa senza alcun tipo di presa in carico. Ma è un dato che non bilancia le inefficienze a monte.

Sul tavolo ci sono i due miliardi del Pnrr destinati alle nuove Case e Ospedali di Comunità, da realizzare entro giugno 2026. La speranza è che queste strutture possano finalmente sgravare i reparti da pazienti impropri e rafforzare il filtro tra ospedale e territorio. Ma i medici restano scettici: per oltre il 72% degli internisti queste realtà potrebbero funzionare, ma solo se ben realizzate e ben connesse con gli ospedali. Resta il nodo del personale: senza medici e infermieri, nessuna riforma può camminare e i reparti di medicina interna (ancora classificati come «a bassa intensità di cura») hanno una più scarsa dotazione tanto degli uni che degli altri. Una distorsione che il ministro della Salute, Orazio Schillaci, intervenendo al Congresso Fadoi di Torino si è impegnato a sanare con il prossimo decreto ministeriale sugli standard ospedalieri.

Il rischio è che tutto si trasformi in una nuova ondata di burocrazia, scollegata dai bisogni reali. Come avverte Dario Manfellotto, presidente della Fondazione Fadoi, «manca una vera regia che coordini le nuove strutture con gli ospedali. Le centrali territoriali che alcune Regioni stanno attivando rischiano solo di aggiungere un ulteriore strato burocratico».

E mentre si discute di riforme, il tempo dedicato alla ricerca evapora. Il 48,6% degli internisti non riesce più a trovare spazio per l’attività scientifica; il 43% la pratica molto meno di quanto vorrebbe. Eppure è proprio nei reparti di Medicina interna, dove si trattano pazienti complessi e multispecialistici, che la ricerca clinica trova il suo terreno più fertile. «Fare ricerca migliora anche la qualità dell’assistenza», ricorda Francesco Dentali, presidente Fadoi. «Ma serve tempo, personale e visione. Tutte cose che, oggi, mancano».


Trumpsicopatico e la cura


(Tommaso Merlo) – La salute mentale di Trump è un tema che ci riguarda tutti visto che sta facendo precipitare il mondo nel caos. Certo, alla sua età e con quei ritmi perde lucidità, ma la sua non è ancora demenza senile. Per dire, dopo tutti gli scandali, Trump sta deportando meno immigrati clandestini di Biden. E dopo tutto il casino del DOGE di Musk, la spesa pubblica americana sta aumentando. E ancora. Ha vinto le elezioni promettendo di abbassare i prezzi ed invece l’inflazione cresce. E lo nega pure, nonostante non vada a fare la spesa dagli anni ottanta. Secondo i cittadini americani, quelli di Trump sono stati i peggiori primi 100 giorni della storia, secondo lui invece i migliori. Vive blindato in un mondo tutto suo. Si crede chissà chi e cerca costantemente approvazione ed attenzione. Non gli interessa la realtà e nemmeno gli altri, ma solo affermare la grandiosa idea che ha di se stesso e reagisce malamente contro chiunque osi contraddirlo e criticarlo. Per questo odia a morte media ed oppositori, è incapace di dibattere e si circonda di leccapiedi. Gira tutto attorno a lui, a quelle ferite infantili che dalla sua cameretta si è trascinato fino alla Casa Bianca. O un bambino non amato che si convince che l’affetto dei genitori dipenda dall’essere perfetto e superiore. O un bambino con genitori emotivamente assenti che lo portano a sviluppare un “falso sé” grandioso per sentirsi al sicuro. In attesa che qualcuno chieda a Trump le origini del suo narcisismo patologico, il presidente peggiore della storia vive costantemente circondato di gente che lo idolatra a vanvera e perennemente davanti alle telecamere col pallino ovviamente in mano. Quello che resta della sua giornata lo passa invece davanti al televisore e a postare a raffica perlopiù attacchi pieni di livore. Vive in un mondo ostile e pericoloso con nemici e minacce ovunque, emblematico a proposito anche il suo severo giustizialismo anche contro gli immigrati spacciati come criminali efferati o la panzana di Alcatraz. Tutto parte della stessa patologia, ma c’è di più. Basti pensare al casino pazzesco che ha piantato coi dazi. Dopo aver fatto perdere trilioni all’economia americana, continua a fare retromarce e cambiare le carte in tavola come se il caos gli servisse per nascondere i suoi continui fallimenti. Per dire, l’unico accordo commerciale siglato con l’Inghilterra ha fatto infuriare le case automobilistiche statunitensi che voleva difendere. Mentre con la Cina un giorno fa lo spaccone e il giorno dopo cala le brache mentre porti e scaffali sono vuoti. La differenza tra un paese serio e uno allo sbando. Ma c’è ancora di più. Trump è drammaticamente incompetente e questo per un motivo molto semplice, è arrogante e quindi non ascolta e non legge e non riflette ed è in balia di altri incompetenti di cui si è circondato per spiccare. Non gli interessa nulla se non se stesso, se non assecondare i deliri narcisistici di cui è vittima. Una situazione oggettivamente preoccupante e dalle conseguenze anche internazionali. Dopo aver proposto un resort a Gaza con relativa pulizia etnica accanto ad un raggiante Netanyahu, adesso pare che Trump abbia litigato con quell’altro ego tossico e pure criminale. Al punto che pare voglia portare aiuti nella Striscia e stia maneggiando coi sauditi sul nucleare senza la balia di Israele e pensi addirittura di riconoscere la Palestina. Roba che la lobby sionista a Washington lo appende a testa in giù. Ma ormai siamo ridotti così, a sperare che tra fake news e deliri psicotici, Trump ne azzecchino una e che duri più di un post sui social. Siamo allo scrollo storico, un rullo continuo di sparate che si accavallano dando vita a fugaci realtà parallele mentre il mondo va alla deriva. Anche con l’Ucraina Trump diceva che avrebbe concluso la guerra in un giorno grazie alla sua vicinanza con Zelensky e Putin che invece alla fine non l’hanno cagato di striscio. Putin ha raggiunto con comodo i suoi obiettivi strategici e adesso pare si appresti a trattare direttamente con gli sconfitti. La differenza tra uno statista e un bamboccione. Anche il cessate il fuoco con gli Houthi era una bufala ma ogni giorno ce n’è una ed in fondo Trump è l’emblema dei nostri tempi, di quella pandemia narcisistica che ci ha travolto con personaggi alla trump che scalano la società ovunque ed invece di servire umilmente la collettività cercato disperatamente e inutilmente di trovare sollievo dai loro traumi infantili. Siamo afflitti più da un problema di salute mentale che politico e pure molto grave. Lo si comprende in questo periodo di caos e di guerre ovunque. Trump non è la causa, è il sintomo più evidente di un male profondo che ci affligge come umanità. Quello dell’inconsapevolezza, quello dell’egoismo, quello del narcisismo, quello di malesseri interiori che finiscono per inquinare il mondo. Fatta la diagnosi non resta che passare alla cura che consiste nell’investire tempo e risorse nella propria crescita personale in modo da contribuire con umiltà ed altruismo a costruire un mondo migliore prima che sia troppo tardi.


Neanche la fatica di rispondere


(Michele Serra – repubblica.it) – Il quorum ai referendum è un miraggio, da anni e con pochissime eccezioni (quello sull’acqua pubblica) vanno a votare in pochi, sempre di meno. Chi insiste lo fa per un atto di fede nella democrazia che va comunque rispettato e incoraggiato, anche in considerazione del fatto che milioni di firme sono state raccolte dai comitati promotori, e dunque non si tratta dello sfizio di una minoranza disturbatrice, ma di un movimento di popolo che chiederebbe, anche solo per educazione, una delle due risposte previste: un SI o un NO.

Dunque è bello e giusto fare propaganda, con poco ottimismo ma molta buona volontà, per i cinque referendum dell’8 e 9 giugno: quattro, indetti dalla Cgil, vogliono abrogare altrettanti “pezzi” del Jobs Act del 2014 per rafforzare i diritti dei lavoratori dopo tanti anni di arretramento; il quinto punta alla concessione più rapida della cittadinanza agli stranieri in regola per averla. Specie quest’ultimo è molto coinvolgente, ho visto e sentito parlare giovani attiviste di origine straniera (ma più italiane di molti italiani) che ci mettono passione e speranza, impossibile non sentirsi al loro fianco a meno di nutrire fobie per il ringiovanimento della nostra stracca comunità nazionale.

Tra coloro che sono legittimamente contrari ai cinque quesiti, si deve constatare l’aumento di quelli che invitano a non andare a votare piuttosto che votare NO, così da far naufragare la consultazione popolare senza nemmeno fare la fatica di replicare ai promotori. Si tratta, usando un eufemismo, di un espediente di non alto profilo. Che sia la seconda carica dello Stato a indicare questa via è mortificante, ma, come dire, non ci aspettavamo altro.


Fiaba della Romania non democratica


Fu alleata del nazismo, vero, ma lo fu anche Kiev. A Bucarest però non risultano i bestiali pogrom anti-ebraici perpetrati dagli ucraini, né ci sono forze che s’ispirino a Hitler. Eppure Georgescu l’han fatto fuori

di Massimo Fini – ilfattoquotidiano.it) – Massimo Cacciari in un’intervista al Fatto (5.5) ha dichiarato: “La Romania è tra i Paesi la cui maturità democratica è tutta da verificare”.

Non capisco il senso di questa affermazione: la Romania è un membro della Ue e come tale ha tutti i requisiti per restarci a differenza dell’Ucraina che questi requisiti non ha e può ambire solo a entrare nella Nato dove ci sono ogni sorta di manigoldi, a cominciare dal dittatore turco Recep Tayyip Erdogan. Che poi a Bucarest si usino tutti i mezzi per bloccare gli oppositori (caso Georgescu, cui probabilmente si riferiva Cacciari) non è una specialità della Romania ma di buona parte delle cosiddette democrazie, lo si è tentato anche con Trump nelle ultime presidenziali americane. Qual era la colpa di Georgescu agli occhi non dei rumeni, che l’hanno votato in grande maggioranza, ma delle classi dirigenti occidentali? Essere, oltreché indipendente, un politico filo-russo. La Russia anche se non è strettamente confinante preme sulla Romania ed è quindi naturale che i rumeni abbiano interesse ad avere buoni rapporti con la Potenza ex sovietica.

Devo dire che in Occidente si hanno molti pregiudizi nei confronti della Romania. La Romania fu alleata del nazismo, vero (Codreanu) ma lo è stata anche l’Ucraina con la differenza che in Romania non ci sono stati, o per lo meno non risultano, i bestiali pogrom anti-ebraici perpetrati dagli ucraini. Né in Romania ci sono attualmente forze che si ispirano direttamente al nazismo, fino a portarne le insegne, come il “battaglione Azov”.

La Romania è molto sottovaluta anche culturalmente. Certo non ha avuto Dante o Leopardi, ma più recentemente rispetto a quelle nostre glorie nazionali, ha espresso pensatori e artisti di prim’ordine da Cioran a Ionescu a Mircea Eliade, il massimo esperto di religioni (Trattato di storia delle religioni, 1949). Inoltre a Bucarest c’è il più importante Centro di studi neroniani, il che può parer strano, ma strano non è perché la Romania, come dice il nome stesso, deriva da Roma ed è molto interessata alla cultura latina. Il rumeno infatti è una lingua neolatina. Il che ha importanti ripercussioni. Ho avuto in epoche diverse tre domestiche rumene. Una, Uka, non solo parlava perfettamente l’italiano ma ne conosceva anche sfumature che ai nostri connazionali, anche quando si credono colti, sfuggono. Inoltre, oltre a essere spiritosa, era, ed è, onestissima. Io in casa perdo continuamente soldi, un po’ per la mia avversione a tutto ciò che è denaro o, meglio, che lo simboleggia, un po’ per i limiti della mia vista. Un giorno Uka mi si presenta con un biglietto da 500 euri e mi dice, usando il lei, mentre abitualmente ci davamo del tu: “Dottore, ci sono qui 500 euro”. Con quella cifra avrebbe potuto vivere senza far niente per qualche mese. E questa onestà l’ho ritrovata nelle domestiche che ho avuto successivamente, sempre rumene, non italiane. Qui a Milano vivono circa 50 mila rumeni, i rumeni della diaspora (in Italia sono circa un milione) e oltre a essere dei gran lavoratori sono estremamente solidali fra di loro. Quando possono si aiutano come possono.

La Romania ha avuto anche grandi calciatori, la mezzala Hagi che tutti conoscono e il meno noto Belodedici, libero, l’unico ad aver vinto due Champions con due squadre diverse, la prima con lo Steaua e l’ultima con la Stella Rossa (’90-’91) quando non era stato avviato ancora il malvezzo per cui le squadre più titolate oggi si assicurano i calciatori migliori di ogni continente. Lo Steaua era una squadra fortissima tanto che nel 1989 arrivò alla finale della Coppa dei Campioni contro il Milan di Berlusconi. Perse clamorosamente 4 a 0. Come mai? Perché il malfattore di Arcore, che non se n’è mai lasciata sfuggire una, comprò i calciatori rumeni che erano poveri in un Paese povero. Non fu quindi difficile.

Sul dittatore Ceausescu i rumeni hanno opinioni differenti. C’è chi lo considera solo un dittatore che li ha costretti a espatriare, c’è invece chi lo sente come un nazionalista (evidentemente non c’è solo Orbán su questa linea) impegnato a far tornare grande la Romania. Comunque tutti lo stimano, io compreso, per il modo in cui ha saputo affrontare la morte. Fucilato senza processo fermò la moglie che voleva protestare e gridare qualcosa.

Tutti i rumeni, almeno quelli che io conosco, sono indignati per il servizio, chiamiamolo così, che è stato fatto a Georgescu annullando la sua vittoria alle Presidenziali del 2024 (22,94%) con pretesti risibili, accusandolo, nientemeno, di aver utilizzato per la sua propaganda TikTok. Naturalmente i mezzi gli sarebbero stati forniti dalla Russia, insomma “ha stato Putin”.

Nell’ambito della questione Georgescu, considerato evidentemente un nemico della democrazia, Maurizio Ferrera si pone la domanda: “Una democrazia liberale può prendere dei provvedimenti contro chi si propone di minarne i fondamenti?” (Corriere, 5.5). La risposta è sì se si dà ascolto a Karl Popper che sintetizzando, afferma che per proteggere se stessa, la democrazia ha il diritto/dovere di difendersi, imponendo restrizioni a movimenti e organizzazioni che si propongono di sovvertirla. Un liberale senza se e senza ma come Norberto Bobbio ha contestato questa posizione. Del resto non c’è bisogno di ricorrere a Bobbio, basta Voltaire: “Non sono d’accordo con quello che dici ma difenderò fino alla morte il tuo diritto di dirlo”. Insomma la Democrazia nel pensiero di Popper è un totalitarismo come un altro.

Del resto sorge qui una domanda ancora più fondante: che cos’è realmente la Democrazia? È un animale sfuggente e polivalente che può essere utilizzato a proprio comodo. Non c’è nessun elemento della Democrazia che, preso in sé, non appartenga anche a sistemi che democratici non sono. Di queste aporie della democrazia ho dato puntuale conto nel mio libro Sudditi. Manifesto contro la Democrazia del 2004. In realtà la Democrazia è un sistema di regole e procedure, è un sacco vuoto che andrebbe colmato. Purtroppo l’edonismo contemporaneo, liberista, non è stato in grado di riempirlo se non con contenuti mercantili. Cosa che ha una conseguenza ancora più grave: l’estrema difficoltà per i giovani di trovare un modello spirituale. C’è la religione, si capisce, ma la religione soprattutto quella cattolica in Occidente si è ridotta a un puro simulacro, a una questione di eventi. Durante il papato di Wojtyla che utilizzò a manetta tutti i moderni strumenti della comunicazione moderna (Tv, jet, viaggi spettacolari, creazione di eventi, concerti, gesti pubblicitari, papamobile, papaboys) crollarono le vocazioni e si svuotarono i monasteri. E Papa Bergoglio non ha migliorato la situazione perché, anche se forse in un modo un po’ più ingenuo e meno cinico, ha utilizzato gli stessi mezzi. Ai funerali di Papa Bergoglio c’erano centinaia di migliaia di giovani, ma mai che se ne veda uno in chiesa.

Comunque il mio pensiero di fondo è tutto un altro ed è quello delle popolazioni animiste secondo le quali “la vita va avanti bene quando tutte le forze della natura sono in equilibrio”. Noi la Natura la stiamo distruggendo e questi popoli li abbiamo spazzati via. Democraticamente, s’intende.


Tomaso Montanari: “Su Ginori il ministro Giuli prima mi caccia, poi mi attacca”


Arrivato al potere sul cadavere di Gennaro Sangiuliano, e scoperto che anche lì deve obbedire alle sorelle Meloni, Alessandro Giuli ha gettato la maschera. Non più la posa […]

(di Tomaso Montanari – ilfattoquotidiano.it) – Arrivato al potere sul cadavere di Gennaro Sangiuliano, e scoperto che anche lì deve obbedire alle sorelle Meloni, Alessandro Giuli ha gettato la maschera. Non più la posa da “intellettuale’” (si fa per dire) libero, aperto alle idee dell’altro fronte, ma una maschera truce d’apparato, che aggredisce “gli intellettuali di sinistra” e lottizza a manetta a favore del parco di subumani che si trova a disposizione. Attaccando anche me, ieri a Firenze, ha detto che bisognava “depoliticizzare la governance della fondazione Ginori”: peccato che mi avesse nominato Dario Franceschini, che massacravo su questo giornale un giorno sì, e l’altro pure. Non era una nomina politica, ma un incarico gratuito a uno storico dell’arte che quel museo aveva contribuito a salvare. E come avrebbe “depoliticizzato”, Giuli? Facile: nominando al mio posto un ex assessore di Alemanno! Non pago, ha aggiunto: “Montanari potrà trovare un posto, passi a bussare a casa Giani, lo nomini lui”. Giuli finge di dimenticare che quel “posto” era volontariato, e che un lavoro ce l’ho (e per laurea, dottorato e triplice concorso pubblico, non perché abbia una sorella amica di un’altra sorella). Parliamo di lui, allora, che si è preso il Maxxi a stipendio pieno, per puri meriti di propaganda di partito. Anche peggio di Giovanna Melandri, che almeno prima aveva fatto la ministra della cultura, non la leccapiedi a mezzo stampa. Un Melandri della destra, ma nel senso del Melandri di “Amici miei”, che tutti ricordiamo succube di “una catena di affetti che né io e né lei possiamo spezzare”. La catena nera che lega Giuli a gente che disprezza (e che in privato denigra), ma cui deve obbedire: giù giù fino al Donzelli-Minnie che lo ospitava a Firenze in questi “stati generali della cultura” di destra che sembravano il bar di Guerre Stellari. Vedi che, almeno sul cinema, Giuli va forte?


La sinistra nella trappola del “woke”


“È stata l’ideologia woke a spalancare la strada alla destra più reazionaria”, c’è scritto sulla copertina del saggio “La sinistra non è woke”, fresco di stampa. L’autrice è Susan […]

(di Antonio Padellaro – ilfattoquotidiano.it) – “È stata l’ideologia woke a spalancare la strada alla destra più reazionaria”, c’è scritto sulla copertina del saggio “La sinistra non è woke”, fresco di stampa. L’autrice è Susan Neiman, filosofa morale laureata a Harvard che, scossa come tanti dal trionfo di Donald Trump, propone una semplice e affilata domanda: come diavolo è potuto succedere?

La prima risposta è impietosa: la destra ha vinto perché la sinistra non esiste quasi più. Si parla di quella sinistra che fin dai tempi dell’Illuminismo si stringeva intorno ad alcuni valori che ne costituivano l’identità più intima: desiderio di giustizia sociale, spinta verso l’universalismo, fiducia nel progresso. Neiman spiega come mai dalla seconda metà del Novecento, “uno a uno questi valori sono stati messi in discussione da certe frange liberali e movimentiste”, fin quando la sinistra si è smarrita. Motivo per cui molti fra coloro che oggi si considerano “di sinistra” non sono davvero “di sinistra”, sono “woke”. Termine che indica chi estremizza le battaglie a difesa delle diversità e contro il razzismo e le discriminazioni di ogni genere fino a sfociare nei fanatismi della “cancel culture”. Ciò, secondo l’autrice, ha originato un movimento “che vorrebbe il progresso ma diffida della modernità; che nega ogni fronte comune possibile, frammentando il corpo sociale in tribù identitarie in lotta, che rinuncia ai diritti sociali e si aggrappa esizialmente ai diritti civili”. Nel pretendere che nazioni e popoli affrontino il proprio passato criminale, il movimento woke (con le agguerrite varianti “antifa”) finisce per attribuirsi il ruolo di unico inappellabile giudice e per concludere che sia la storia intera a essere criminale. Assoluta (e partigiana) incapacità di pensiero oggettivo di chi trova comodo inquadrare qualunque scelta e opinione nelle categorie del bene (noi) e del male (tutti gli altri), e che finisce per disorientare.

Per esempio, l’aggressione trumpiana contro le università americane che non si adeguano alle nuove regole della Casa Bianca suscita una naturale indignazione in chiunque abbia a cuore i fondamenti della democrazia e dunque l’autonomia dell’insegnamento. Poi, però, leggiamo sul “Wall Street Journal” la testimonianza di Ruth Wisse, insigne studiosa di yiddish, dal titolo: “Così ho visto la mia Harvard diventare un grande avamposto islamista”. Dura testimonianza (certamente non neutrale) sull’antisemitismo sempre più diffuso negli atenei americani soprattutto in seguito alla politica stragista del governo Netanyahu a Gaza. Secondo Wisse, “l’obiettivo di distruggere Israele, centrale nell’identità araba islamista, è stato ammesso a Harvard insieme ad alcuni studenti e investitori stranieri”. L’autore stima in oltre 100 milioni di dollari i finanziamenti all’università ricevuti da Emirati Arabi Uniti, Egitto, Arabia Saudita, Qatar e Bangladesh negli ultimi anni. Per chi sostiene l’ideologia woke è tutto chiaro: Trump è un fascista che cerca di soffocare la libertà di parola con la scusa della propaganda ProPal. Tuttavia, una sinistra non del tutto colonizzata dal movimentismo woke non dovrebbe porsi qualche domanda in più?


Bergoglio aveva già scelto Prevost come successore


“Abusi coperti: contro Leone accuse false”. Il giornalista Pedro Salinas: “È la campagna di Sodalicio, movimento che Francesco ha soppresso per blindarlo”

(di Alessia Grossi – ilfattoquotidiano.it) – “Le accuse contro Prevost di aver coperto gli abusi sono totalmente false. Fanno parte di una campagna studiata con il proposito di screditarlo e delegittimarlo agli occhi dell’opinione pubblica”. Ne ha la certezza il giornalista peruviano Pedro Salinas che al caso degli abusi nel movimento Sodalicio de Vida Cristiana, soppresso da Bergoglio appena prima di morire, ha dedicato dieci anni di lavoro, una quadrilogia (El caso Sodalicio Voll. I-II-III-IV) con la collega Paola Ugaz, Mitad monjes, mitad soldados sempre con Ugaz e ora anche La verdad nos hizo libres, sulla fine del movimento. Lavoro che gli è costato persecuzioni e vari processi, uno di questi oggi a Lima, dove è di ritorno dopo aver coperto l’elezione del papa da Piazza San Pietro. “La campagna per screditare Leone XIV nasce come conseguenza della chiusura di Sodalicio da parte di Bergoglio, ultimo atto per blindare il futuro papa, forse”.

Iniziamo dal principio. In che relazione è Prevost con gli abusi perpetrati in seno a Sodalicio?

Prevost è stato uno dei pilastri della lotta a favore delle vittime degli abusi nei cui panni si è messo senza risparmiarsi. Niente di più lontano dall’immagine che la campagna orchestrata dai media della destra cattolica sta cercando di venderci fin dal 2023.

Cosa succede quell’anno?

Dopo le denunce, partite nel 2015 sugli abusi fisici e sessuali all’interno di Sodalicio e la commissione Scicluna-Bertomeu istituita da Francesco (con l’arcivescovo maltese Charles Scicluna e il capo del Dicastero per la Dottrina della Fede in Vaticano, ndr), viene allontanato l’arcivescovo di riferimento del movimento, José Antonio Eguren. Questa è la prima volta che compaiono le accuse contro Prevost.

Lei invece nel suo libro racconta un’altra versione.

Sì, è provato che Prevost presentò le denunce nell’aprile del 2022, e previa inchiesta del vescovado, lui stesso inviò al presidente del Dicastero per la Dottrina della Fede il report. Ancora oggi è tutto aperto e va avanti. Deduco che le accuse di insabbiamento a Chiclayo alle quali avrebbe partecipato Prevost come principale attore, nascono nient’altro che dallo stesso Sodalicio dopo che le cose per loro cominciano a cambiare. Ma Francesco, dopo che venne provato che le accuse a carico di Prevost erano false, lo nominò Prefetto dei vescovi, segno che aveva molto fiducia in lui.

Ora però le accuse contro Prevost tornano in auge.

Si tratta sempre delle stesse cose, rifritte. Ed è qui che si vede che si tratta di una campagna orchestrata. Dopo il 2023 con le “dimissioni” di Eguren si era assopita, per poi riprendere piede alla vigilia del Conclave. Ed esplodere la terza volta non appena Prevost si è affacciato al balcone di San Pietro. Dietro c’è un movimento trasversale, principalmente di estrema destra e della chiesa tradizionalista, da Vox e Opus Dei in Spagna, ai media di riferimento dei Legionari di Cristo (info vaticana), a The Pillar; guidati da chi voleva come papa Erdo, ma anche da chi voleva Zuppi o Parolin, o Arborelius.

Sono accuse pesanti…

Hanno iniziato a screditare il papabile in linea con Francesco che mai avrebbe riaccreditato il movimento peruviano e simili.

Il movimento viene definitivamente soppresso da Francesco alla fine del pontificato.

Sì, il 14 aprile, il lunedì dopo le Palme, anche se il decreto è di gennaio, credo. È significativo che mancasse solo la firma di Sodalicio che prendeva tempo nell’attesa evidentemente che Bergoglio morisse. Finché suor Simona Brambilla, Prefetto del Dicastero per gli istituti di vita consacrata e le società di vita apostolica, non li ha chiamati dicendo o adesso o adesso. E hanno dovuto firmare.

Una settimana dopo Bergoglio muore. Una coincidenza?

Di certo conosco il legame tra Francesco e Prevost e so che quest’ultimo fosse ben visto da Bergoglio come suo successore. Firmando lo scioglimento di Sodalicio ha impedito ai suoi membri di screditarlo in Conclave e dargli una possibilità di diventare papa.


Donald, non farlo


(Marco Travaglio – Il Fatto Quotidiano) – Secondo il Jerusalem Post, Trump sarebbe così furioso con Netanyahu per i massacri a Gaza e le fregole di guerra all’Iran (mentre gli Usa trattano con Teheran e persino con Hamas) che mediterebbe di riconoscere lo Stato di Palestina. Noi speriamo vivamente che sia una fake news, perché abbiamo a cuore la salute psicofisica dei giornalisti italiani. Che, già molto provati dalla strenua e intrepida resistenza antitrumpiana che combattono ogni giorno dai rispettivi divani a distanza […]


Sicuri che Leone XIV sia dalla parte dei lavoratori?


(Alessandro Somma – lafionda.org) – Sono passate poche settimane da quando si sono potuti constatare i danni di uno sport diffuso: la citazione a vanvera di testi mai letti. Il testo in questione era il Manifesto di Ventotene, che a sinistra veniva celebrato in quanto scritto socialista e a destra condannato per la stessa ragione. Peccato che, a leggerlo, se ricava una impostazione neoliberale, alla base degli evidenti e solidi punti contatti tra il pensiero di Altiero Spinelli e i programmi dei padri dell’Europa di Maastricht.

Stesso schema per un testo evocato per identificare l’orientamento del nuovo Papa, lo statunitense Leone XIV (e sottolineo statunitense: per stigmatizzare i molti commentatori che hanno parlato del primo Papa americano… come se un argentino non lo fosse).

Il testo di cui parliamo è l’enciclica Rerum novarum, promulgata il 15 maggio 1891 da Leone XIII e considerata il documento fondativo della dottrina sociale della Chiesa cattolica. Di qui la conclusione che Robert Prevost è attento alle condizioni dei lavoratori, di cui l’enciclica in effetti si occupa, ed è pertanto un progressista (per quanto un Papa lo possa essere).

Se però si legge l’enciclica Rerum novarum, la si colloca nel contesto in cui è stata scritta e la si considera alla luce dei suoi sviluppi, il giudizio cambia decisamente. Certo, è dedicata ai «proletari che per la maggior parte si trovano in assai misere condizioni indegne dell’uomo», agli «operai… soli e indifesi in balìa della cupidigia dei padroni e di una sfrenata concorrenza». Queste espressioni non indicano però una professione di vicinanza ai più deboli, né tantomeno la volontà di denunciare lo sfruttamento capitalista a partire dalle analisi dei socialisti, di cui in effetti si riprende il linguaggio. Sono espressioni concepite al contrario per simulare un’attenzione per gli ultimi, e per celare così il principale intento del documento: illudere circa la possibilità di includere i lavoratori nell’ordine capitalista per sopire la loro volontà di emanciparsi attraverso il suo rovesciamento.

L’enciclica Rerum novarum non esprime insomma l’adesione alle ragioni dei proletari, bensì la volontà di trovare una soluzione al conflitto di classe per consentire così al capitalismo di sopravvivere. Più precisamente mostra la volontà di neutralizzare il conflitto attraverso forme di pacificazione sociale destinate a non mettere in discussione l’ordine costituito, e anzi a impedire che la democrazia possa produrre un simile risultato.

Ricaviamo questo schema dall’affermazione secondo cui la miseria dei proletari costituisce una diretta conseguenza della soppressione delle «corporazioni di arti e mestieri», avvenuta nel corso del Settecento «senza nulla sostituire in loro vece» e dunque «allontanandosi dallo spirito cristiano». Di qui la soluzione: il ripristino di un ordine premoderno, incentrato sulla collaborazione di classe presidiata dal corporativismo.

Che il tutto sia stato concepito per soffocare il conflitto sociale, lo ricaviamo dagli sviluppi della dottrina sociale della Chiesa cattolica, e in particolare dall’enciclica che ha celebrato i quarant’anni della Rerum novarum, ovvero l’enciclica Quadrigesimo anno promulgata il 15 maggio 1931 da Papa Pio XI: in pieno regime fascista e due anni dopo la firma dei Patti lateranensi. Lì il corporativismo viene celebrato come un mezzo per ottenere la «salvezza e prosperità pubblica della nazione» e in questo modo finisce per non distinguersi dal corporativismo fascista: il corporativismo in cui più marcata è l’attribuzione allo Stato del compito di neutralizzare il conflitto sociale, per consentire al capitalismo di prosperare al riparo della partecipazione democratica.

Il contrasto con il modello che la Costituzione avrebbe fatto proprio è evidente. Se l’enciclica Rerum novarum prima e l’enciclica Quadrigesimo anno poi predicano la collaborazione di classe, la Carta fondamentale valorizza il conflitto sociale, che semplicemente vuole sia condotto ad armi pari. È questo il senso profondo del principio di uguaglianza sostanziale e il significato della sua affermazione in un ordine incentrato sulla democrazia economica oltre che sulla democrazia politica.

Insomma, se proprio si vuole sostenere la tensione progressista del nuovo Papa, occorre passare da altre vicende rispetto a quelle che lo mettono in collegamento con Leone XIII. Ma forse non ve ne sono, e lo sgangherato riferimento alla dottrina sociale della Chiesa non fa altro che confermarlo.


La Libia dei ricatti!


La Libia chiese all’Italia di liberare Almasri: “È obiettivo comune”. La lettera di Tripoli indirizzata al ministro degli Esteri allegata alla memoria difensiva inviata dal governo alla Cp

(di Giuliano Foschini – repubblica.it) – «Gentile ministro Antonio Tajani, vogliate trasmettere la questione alle autorità competenti e seguirne l’iter, al fine di contribuire al raggiungimento degli obiettivi comuni». Firmato, Younes Muhannad, ambasciatore libico. Negli atti inviati dall’Italia alla Corte penale internazionale per difendersi dall’accusa di aver tradito il trattato di Roma c’è una lettera che racconta molto di quanto accaduto dal 19 al 21 gennaio, da quando cioè il presunto assassino e torturatore libico Najeem Osema Almasri viene arrestato a quando è rilasciato e rimpatriato, con un volo di Stato, nel suo Paese. Allegato agli atti c’è un carteggio, infatti, tra il governo libico e quello italiano che documenta le pressioni che il nostro esecutivo ha ricevuto dagli amici libici per non consegnare Almasri alla Corte penale e rimandarlo invece nel suo Paese. Da Tripoli inviano una lettera di tre pagine alla Corte di appello di Roma che da lì a qualche ora dovranno esprimersi: i magistrati della Capitale riterranno, com’è noto, che esiste un vizio procedurale (la mancata trasmissione degli atti dell’arresto da parte del ministero della Giustizia) che via Arenula non ritiene di sanare, di fatto costringendo i magistrati alla scarcerazione.

Nella lettera i magistrati libici contestano invece la legittimità del provvedimento d’arresto della Corte penale sostenendo che esistano una serie di vizi di forma e di sostanza. E soprattutto dicendo che Almasri non può essere consegnato alla Cpi ma che, invece, deve essere estradato in Libia dove esiste un procedimento penale a suo carico. Procedimento che, documenta l’arrivo da star del carceriere a Tripoli, in realtà era soltanto una balla per ottenere la scarcerazione.

Dalla lettera inviata all Cpi si capisce però come il governo libico abbia fatto pressione anche su quello italiano spostando il livello su un piano politico. «Caro ministro – si legge – è per me un piacere rivolgerle i miei più sinceri saluti augurandovi un continuo successo e prosperità». «Esprimo – continuano – il nostro profondo apprezzamento per le solide relazioni bilaterali che uniscono i nostri Paesi, che rappresentano un modello esemplare di cooperazione tra i nostri popoli». Per questo motivo, spiega il governo libico, invia alla Farnesina la lettera «indirizzata al procuratore generale presso la Corte di appello di Roma, relativa alla richiesta di estradizione di un cittadino libico».

«Esprimendo la nostra sincera gratitudine» scrive ancora l’ambasciatore al ministro degli Esteri, «confidiamo nella vostra eccellenza affinché vogliate trasmettere alle autorità competenti e seguirne l’iter, al fine di contribuire al raggiungimento degli obiettivi comuni». Quali sono questi obiettivi comuni? È una domanda che in queste ore si stanno facendo all’Aia dove stanno analizzando la documentazione inviata dall’Italia nella quale si ricostruisce quanto avvenuto in quelle ore e si spiega, dal punto di vista del nostro governo, il perché aver rimpatriato Almasri non significhi non aver rispettato la Carta di Roma. Il governo lo ha motivato citando precedenti e segnalando una serie di incongruenze nel mandato di cattura arrivato dalla Cpi.

Molti dei documenti sono stati ritenuti “classificati” e, dunque, almeno per il momento non divulgabili. Anche perché sono oggetto dell’inchiesta della procura di Roma sulla premier Giorgia Meloni, il sottosegretario Alfredo Mantovano e i ministri degli Interni e della Giustizia, Matteo Piantedosi e Carlo Nordio. Il procuratore Francesco Lo Voi – dopo un primo giro di acquisizione di documenti, e dopo aver ricevuto le memorie di alcuni degli indagati, tra cui la premier Giorgia Meloni – ha chiesto nuovi accertamenti al tribunale dei ministri che sta compiendo in queste ore. Tra gli altri è stato ascoltato, come testimone, il capo della Polizia, Vittorio Pisani: ad arrestare il libico in un albergo, dopo aver consultato la banca dati, erano stati infatti gli agenti in servizio alla questura di Torino.