Selezione Quotidiana di Articoli Vari

Trump, Putin e Netanyahu: i tre cavalieri dell’Apocalisse del ventunesimo secolo


Il capo della Casa Bianca, il presidente russo ed il premier israeliano sono le figure che hanno lasciato il segno più pesante sull’anno appena trascorso: tutti e tre hanno terremotato l’idea di progresso e hanno incarnato il potere assumendo connotati mistici, ultraterreni, in un modo o nell’altro. Si considerano uomini della Provvidenza, ma è un fatto che con loro l’umanità si è avvicinata all’abisso

(Gigi Riva – editorialedomani.it) – I tre cavalieri dell’Apocalisse del ventunesimo secolo, benché ne siano politicamente lontani, hanno finito per dare ragione a Karl Marx e alla sua famosa affermazione che andrebbe sempre citata per intero e non prendendo solo l’incipit e la chiusura: «La religione è il sospiro della creatura oppressa, il sentimento di un mondo senza cuore, l’anima di condizioni prive di spirito. È l’oppio del popolo».

Quanto reale afflato fideistico abbiano Donald TrumpBenjamin Netanyahu e Vladimir Putin, i tre uomini dell’Apocalisse (intesa nel suo senso etimologico di “rivelazione” seppur criptica del divino per dare speranza all’umanità e anche nel suo significato più comune), sta racchiuso nel loro intimo. Di certo hanno usato il sacro per proporsi come strumenti di una volontà superiore, uomini della provvidenza in grado di guidare al riscatto e alla prosperità il proprio gregge.

Il creazionismo di Donald

La condotta secolare dell’auto-certificato “unto del Signore” americano non depone a favore di un cammino specchiato verso la salvezza eterna, dominata com’è da scandali sessuali, disprezzo verso il prossimo soprattutto degli umili e dei diseredati, accumulo smodato di beni materiali.

Eppure i cristiani evangelici, una potenza negli States, lo hanno riconosciuto come il loro campione, il difensore dei loro valori oltre che dei loro interessi, grazie alle crociate per la famiglia tradizionale, contro l’aborto e a sostegno dell’educazione religiosa nelle scuole. Fino al tentativo di abolire l’insegnamento della teoria evoluzionista a favore di quella creazionista.

Anche i cattolici tradizionalisti si sono accodati al pifferaio magico che, nel disorientamento di quest’epoca caotica, ha proposto loro il rifugio nei riferimenti tradizionali, la Bibbia, il Vangelo, la società arcaica pre-cultura “woke”.

Credulità popolare

Abusando della credulità popolare, Donald Trump ha trasformato l’attentato subìto nel luglio 2024, in piena campagna elettorale, nel disegno del dio che ha protetto dalle forze del male il migliore dei suoi figli. E il dettaglio del piccolo margine di un centimetro prima dell’esito fatale suona come qualcosa di simile al sacrificio di Abramo, la cui mano viene fermata dall’Angelo proprio mentre sta per il figlio Isacco. Il risultato è la massa di voti per chi propone e la felicità in terra e la felicità nella vita ultraterrena.

Similmente Benjamin Netanyahu, il premier d’Israele. Non è conosciuta una sua assidua frequentazione della sinagoga e i legami con il ramo politico del sionismo religioso hanno la valenza tattica della garanzia di sopravvivenza del suo governo. E tuttavia non esiste soluzione di continuità netta tra cielo e terra, così le agende di laici e credenti hanno finito per soprapporsi nella rivendicazione dei diritti storici del popolo ebraico sulla Palestina tutta.

Il linguaggio pubblico, soprattutto negli ultimi anni, si è arricchito di parole che fanno riferimento ai sacri testi, in nome dei quali si è sviluppato un estremismo settario e preoccupante.

La Cisgiordania viene ormai disinvoltamente chiamata “Giudea e Samaria”, la definizione biblica, sui frontespizi delle colonie nei territori occupati campeggia una frase del profeta Amos: «Torneranno i figli d’Israele nella terra dei padri per non essere più scacciati». Lo stesso esercito, un tempo garanzia di laicità, annovera nelle truppe d’élite una gran quantità di studenti delle yeshivah, le scuole dove si studiano Torah e Talmud.

Le concessioni al fanatismo di matrice soprannaturale sono state anche una concausa per cui il fronte sud del paese si è trovato impreparato al cospetto del bestiale attacco di Hamas del 7 ottobre: molte brigate erano state spostate in Cisgiordania per scortare i muratori impegnati nella costruzioni di colonie illegali da aggiungere a quelle esistenti per rendere impossibile la nascita di uno Stato dei palestinesi.

L’agente del Kgb

La trasformazione dell’agente del Kgb a Berlino Vladimir Putin in un devoto annusatore dell’incenso dei turiboli non deve poi stupire più di tanto. Si è trattato di sostituire l’ortodossia comunista, di cui era severo custode, nell’ortodossia cristiana, in omaggio al cambiamento dei tempi.

Lo zar, per non sembrare troppo ipocrita quando si inginocchia in una chiesa, ha scovato una pezza d’appoggio nel passato. Ha rivelato che la madre lo fece battezzare, lui dodicenne, tenendo il rito nascosto al padre che era un funzionario di regime.

Nella realtà, una volta asceso al Cremlino ha colto appieno il potenziale di seduzione che poteva avere sulla gente un legame solido tra il potere temporale e il potere spirituale. Trovando immediata comunità d’intenti con il patriarca di Mosca e di tutte le Russie Kirill, nazionalista come tutti i pastori a capo delle chiese ortodosse che sono autocefale. Kirill ha sostenuto la guerra in Ucraina, definendola «giusta» e necessaria per contrastare la decadenza dell’Occidente. I pope battezzano i soldati in partenza per il fronte, esaltati dall’idea che «dio lo vuole».

Il tutto mentre si rafforza il mito di Mosca come Terza Roma, erede della Roma propriamente detta e di Costantinopoli, destinata a guidare l’intero mondo cristiano. Allargando i propri appetiti su quel “Russkiy Mir”, il mondo russo, dove esercitare l’influenza per i legami non solo culturali ma anche spirituali: un baluardo contro la secolarizzazione delle società, in particolare europee, corrotte dal degrado dei costumi.

Addio illuminismo

Le figure dei tre cavalieri dell’Apocalisse hanno dominato l’anno che volge al termine. Con i profili sopra descritti, c’è da chiedersi cosa ci si possa aspettare nel futuro per un pianeta che ha smarrito i principi dell’illuminismo, sui cui si è retta la modernità e grazie ai quali la ragione aveva preso il sopravvento sull’irrazionale di atteggiamenti fideistici utili a garantire per secoli la sopravvivenza al potere dei re senza Costituzione e dei papi re.

La storia sembra tornare su se stessa, con il risorgere di un fondamentalismo religioso utile per sostituire i partiti non più in grado di fornire una prospettiva nel momento in cui stanno crollando i pilastri su cui si sono rette le società novecentesche: lo sviluppo economico, la certezza che le generazioni successive sarebbero state meglio delle precedenti, il welfare, addirittura le promesse di felicità, come è scritto nella Costituzione americana.

Quanto di più simile al Paradiso in terra. Non trovando più il giardino dell’Eden sul nostro pianeta, ecco il ripiegamento nell’ impalpabile Paradiso nei cieli (anche se Galileo ci ha dimostrato che non esiste e che dio sta in noi o in nessun luogo).

Negli Anni Dieci del nuovo millennio, quelli dello scontro di civiltà, i terroristi islamisti ci apparivano come prodotti di una società arcaica e medievale che non sta alla nostra stessa ora sull’orologio della storia essendo l’Islam nato sette secoli dopo il cristianesimo e un paio di millenni dopo l’ebraismo e dunque bisognoso di più tempo per compiere il tragitto verso un’interpretazione non letterale e dunque terribile dei libri sacri.

Credevamo di essere immuni da certe tendenze assolutiste. E invece ci ritroviamo con frange di estremismo religioso intollerante nell’Occidente dei diritti e senza distinzione di credi. Succede agli ebrei e ai cristiani, cattolici o ortodossi che siano.


Meno deputati, ma alla Camera aumentano i costi


Taglio dei deputati, meno politici ma la spesa non cala: i conti di Camera e Senato

AULA DELLA CAMERA DEI DEPUTATI

(repubblica.it) – Doveva essere il simbolo di una politica più snella, sobria e meno costosa. Una svolta capace di alleggerire in modo significativo il peso del Parlamento sulle casse pubbliche. E invece a guardare i numeri della riforma che ha ridotto il numero dei deputati da 630 a 400, in vigore dall’attuale legislatura, la promessa del risparmio appare oggi meno solida di quanto annunciato. I dati ufficiali del bilancio approvato dalla Camera dei deputati, come riferisce l’Adnkronos, restituiscono infatti un quadro più complesso.

Nel 2024 la spesa della Camera pari a 1,26 miliardi di euro

Da una rielaborazione dei rendiconti ufficiali di Montecitorio emerge che nel quinquennio 2017-2021 la spesa annua complessiva si collocava stabilmente poco sopra il miliardo di euro (circa 1.034 milioni di euro annui in media), mentre nel periodo successivo, tra il 2022 e il 2024, l’andamento complessivo mostra valori più elevati rispetto al passato (con una media rielaborata pari a circa 1.293 milioni di euro).

Nel 2024, in particolare, la spesa complessiva impegnata dalla Camera dei deputati è stata pari a circa 1,26 miliardi di euro, mentre la spesa riferita alle sole attività funzionali si è attestata intorno ai 967 milioni di euro – si tratta del dato che nei documenti contabili viene spesso riportato in forma aggregata e che, se non correttamente qualificato, rischia di essere confuso con il totale della spesa complessiva. In sintesi, la spesa complessiva non è diminuita e la tendenza sembra confermare un andamento in lieve ma costante crescita.

L’effetto più evidente della riforma cara al M5S, almeno per ora, non è stato tanto una riduzione della massa complessiva dei costi, quanto un aumento della spesa pro capite. Un esempio significativo è rappresentato dalla voce relativa al “Contributo unico e onnicomprensivo” destinato ai gruppi parlamentari, che negli ultimi esercizi risulta sostanzialmente stabile, attestandosi su circa 30,9 milioni. Con un numero inferiore di deputati, la stessa dotazione si traduce inevitabilmente in maggiori risorse per ciascun eletto.

Scerra (M5S): “Spesa molto più elevata senza la riforma”

A difendere l’impatto della riforma interviene però il questore di Montecitorio Filippo Scerra, esponente del Movimento 5 Stelle – il partito che più d’ogni altro ha fatto del taglio dei parlamentari una bandiera politica – che osserva all’Adnkronos: “Se non ci fosse stato il taglio dei parlamentari, oggi la spesa complessiva sarebbe stata più elevata. La riforma ha infatti inciso direttamente su una specifica voce di bilancio, determinando una riduzione di circa 50 milioni di euro, legata al venir meno delle indennità dei parlamentari non più in carica”. “È vero – prosegue l’esponente pentastellato – che altre voci di spesa hanno seguito l’andamento dell’inflazione e hanno contribuito a far crescere i conti complessivi, in particolare nel biennio 2021-2022. Tuttavia, se si guarda alle spese di funzionamento, emerge un quadro di sostanziale contenimento dei costi. In questo senso, al netto degli effetti inflattivi su alcune componenti, il taglio dei parlamentari ha comunque prodotto una riduzione effettiva della spesa”.

Sulla stessa lunghezza d’onda il collega questore Paolo Trancassini, di Fratelli d’Italia: “Nonostante l’impatto dell’inflazione e una serie di aumenti generalizzati, la spesa complessiva è rimasta sostanzialmente invariata. Questo dato evidenzia una gestione attenta e virtuosa delle risorse”, evidenzia all’Adnkronos il parlamentare di FdI, il quale fa notare come nel frattempo la Camera “abbia anche ripreso a effettuare assunzioni che mancavano da anni”. E, nonostante ciò, “i costi complessivi non hanno registrato incrementi significativi”.

Al Senato quadro più lineare

Al Senato, il quadro che emerge è più lineare. Al netto del fenomeno inflattivo – che avrebbe favorito una serie di rinegoziazioni al ribasso con i fornitori esterni per contenere i costi dei servizi acquistati all’esterno – il saldo complessivo delle spese previste per il 2025 resta invariato rispetto a quello del 2024. La dotazione richiesta per il prossimo anno è di importo identico a quella del 2011 e ammonta a 505 milioni di euro. Anche per il 2025, come già avvenuto nel periodo 2012-2024, la dotazione del Senato risulta ridotta di 21,6 milioni di euro rispetto al 2011, per una contrazione complessiva, dall’inizio della scorsa legislatura, di quasi 302,4 milioni.

Dalle carte approvate dall’Aula a metà dicembre emerge inoltre una riduzione delle spese di funzionamento di Palazzo Madama, pari a poco meno dell’1% rispetto all’anno precedente. Dal 2012 a oggi, il carico finanziario del Senato sulla finanza pubblica risulta ridotto complessivamente di circa 460,5 milioni di euro. Un risultato ottenuto non solo grazie al taglio strutturale della dotazione annua di 21,6 milioni per quattordici anni consecutivi, ma anche attraverso risparmi aggiuntivi e processi di razionalizzazione della spesa.

Questi ultimi sono stati stimati in 12 milioni di euro per gli anni 2018-2020 e 2022, e in 10 milioni annui per il triennio 2023-2025.

Dal rendiconto del 2024 di Palazzo Madama emerge infine che la spesa complessiva per quell’anno si è fermata a 495.368.972,44 euro, un dato inferiore rispetto a quanto preventivato in fase di bilancio. Tra gli interventi previsti figura anche la ristrutturazione di alcuni locali attualmente adibiti a magazzino nei pressi di Piazza Navona. In particolare, viene finanziato il progetto per la realizzazione di un “centro visitatori” del Senato della Repubblica, che sorgerà al piano terra del palazzo di Piazza delle Cinque Lune.

M5s: “Senza il taglio degli eletti spesa molto più elevata”. Dai bilanci di Montecitorio per il 2017-2021 la spesa annua si collocava stabilmente poco sopra il miliardo di euro. Nel 2024 è stata di 1,26 miliardi

(ilfattoquotidiano.it) – Meno deputati vuol dire meno soldi per gli stipendi. Eppure i costi sulle casse della Camera non sono diminuiti, anzi. Quella che sembrava essere un’anomalia adesso sembra essere diventata una vera e propria tendenza. A quattro anni dalla riforma costituzionale che ha ridotto il numero degli eletti a Montecitorio da 630 a 400, i dati del bilancio della Camera riportano un lieve e costante aumento rispetto al passato per i conti delle casse pubbliche.

Dai rendiconti ufficiali di Montecitorio, secondo le cifre riportate dall’agenzia Adnkronos, emerge che nel quinquennio 2017-2021 la spesa annua complessiva si collocava stabilmente poco sopra il miliardo di euro (circa 1.034 milioni di euro annui in media). Dopo il taglio dei parlamentari e l’inizio della nuova legislatura, l’andamento complessivo mostra valori più elevati rispetto al passato: nel periodo compreso tra il 2022 e il 2024 si parla di una media pari a circa 1.293 milioni di euro. Nel 2024, in particolare, la spesa complessiva impegnata dalla Camera dei deputati è stata pari a circa 1,26 miliardi di euro. Da segnalare che nell’ultimo anno la spesa riferita alle sole attività funzionali si è attestata intorno ai 967 milioni di euro: un dato che nei documenti contabili viene spesso riportato in forma aggregata e che, se non correttamente qualificato, rischia di essere confuso con il totale della spesa complessiva.

Resta il fatto che il totale delle spese di Montecitorio non è diminuito dopo il taglio dei parlamentari. Il motivo? Un esempio significativo è rappresentato dalla voce relativa al “Contributo unico e onnicomprensivo” destinato ai gruppi parlamentari, che negli ultimi esercizi risulta sostanzialmente stabile, attestandosi su quasi 31 milioni. In pratica aver tagliato gli stipendi di 230 deputati non ha fatto scattare in automatico un taglio nella dotazione prevista ogni anno per i gruppi parlamentari: vuol dire che quindi è aumentata la spesa pro capite per ogni eletto. Senza la riforma che ha diminuito le poltrone, dunque, ci sarebbe stato un clamoroso eumento dei costi nei bilanci della Camera? Risponde affermativamente Filippo Scerra, esponente del Movimento 5 Stelle e questore di Montecitorio. “Se non ci fosse stato il taglio dei parlamentari, oggi la spesa complessiva sarebbe stata più elevata. La riforma ha infatti inciso direttamente su una specifica voce di bilancio, determinando una riduzione di circa 50 milioni di euro, legata al venir meno delle indennità dei parlamentari non più in carica”, dice. “È vero – prosegue Scerra – che altre voci di spesa hanno seguito l’andamento dell’inflazione e hanno contribuito a far crescere i conti complessivi, in particolare nel biennio 2021-2022. Tuttavia, se si guarda alle spese di funzionamento, emerge un quadro di sostanziale contenimento dei costi. In questo senso, al netto degli effetti inflattivi su alcune componenti, il taglio dei parlamentari ha comunque prodotto una riduzione effettiva della spesa“. La pensa allo stesso modo Paolo Trancassini, questore di Fratelli d’Italia: “Nonostante l’impatto dell’inflazione e una serie di aumenti generalizzati, la spesa complessiva è rimasta sostanzialmente invariata. Questo dato evidenzia una gestione attenta e virtuosa delle risorse”, dice l’esponente del partito di maggioranza, facendo notare come nel frattempo la Camera “abbia anche ripreso a effettuare assunzioni che mancavano da anni”. E, nonostante ciò, “i costi complessivi non hanno registrato incrementi significativi“.

Diverso il quadro al Senato. Al netto dell’inflazione, il saldo complessivo delle spese previste per il 2025 resta invariato rispetto a quello del 2024. La dotazione richiesta per il prossimo anno è di importo identico a quella del 2011 e ammonta a 505 milioni di euro. Anche per il 2025, come già avvenuto nel periodo 2012-2024, la dotazione del Senato risulta ridotta di 21,6 milioni di euro rispetto al 2011, per una contrazione complessiva, dall’inizio della scorsa legislatura, di quasi 302,4 milioni. Dalle carte approvate dall’Aula a metà dicembre emerge inoltre una riduzione delle spese di funzionamento di Palazzo Madama, pari a poco meno dell’1% rispetto all’anno precedente. Dal 2012 a oggi, il carico finanziario del Senato sulla finanza pubblica risulta ridotto complessivamente di circa 460,5 milioni di euro. Un risultato ottenuto non solo grazie al taglio strutturale della dotazione annua di 21,6 milioni per quattordici anni consecutivi, ma anche attraverso risparmi aggiuntivi. La riforma del taglio dei parlamentari ha portato a 200 i posti per gli eletti a Palazzo Madama, rispetto ai 315 originari. Dal rendiconto del 2024 di Palazzo Madama emerge che la spesa complessiva per quell’anno si è fermata a 495.368.972,44 euro.


Trump, le bombe e gli abusi sessuali


(Tommaso Merlo) – Trump bombarda la Nigeria, il malconcio impero americano non poteva festeggiare meglio il Santo Natale, sterminando islamici a casaccio in un paese straniero. Dopo la Siria, ecco il più popoloso paese africano. I soliti cristiani all’americana nonché geni strategici del Pentagono. Sono decenni che bombardano in giro per il mondo presunti terroristi col risultato che ce li siamo ritrovati sull’uscio di casa insieme a milioni di altri profughi dei loro disastri. Dopo le bombe a grappolo in nome della democrazia e della pace, siamo addirittura al ritorno della Crociata a difesa della cristianità a suon di missili dal cielo. Amen. Il tutto mentre il mastodontico esercito americano accerchia il Venezuela un po’ perché Maduro gli sta antipatico, un po’ perché sotto quelle foreste montagnose è dannatamente piano di petrolio di prima qualità. Schemi mentali che diventano disastrosa politica estera, con l’egoismo che impedisce di ammettere e quindi migliorare. Ma per essere certo di vincere il Nobel per la Pace, Trump chiude pure occhi e orecchie sull’inferno a Gaza. Ormai l’ambito premio è ad un soffio, perché come denuncia Julian Assange ormai è un Nobel per la Guerra. Col patrocinio della lobby guerrafondaia che applaude per il dono natalizio, altri miliardi sporchi di sangue che finiscono nelle tasche di Lorsignori. Quanto a Trump, di soldi ne sta facendo già fin troppi da quando è tornato alla Casa Bianca, gli analisti la definiscono l’amministrazione più corrotta della storia statunitense. Non si capisce dove finisce la politica e inizia la speculazione edilizia e quella finanziaria della sua famiglia mentre gli oligarchi ed i suoi sponsor industriali e sionisti ormai lo usano come uno straccio. Siamo all’apoteosi del regime lobbistico e al trionfo dell’ideologia capitalista. Money first and fuck the rest. Nel frattempo gli Stati Uniti precipitano nel baratro. A furia di dazi ad minchiam, Trump ha prima ridotto i poveri cristi sul lastrico facendo lievitare i prezzi e poi gli ha dato il colpo di grazia tagliando il già misero stato sociale per ridurre le tasse ai ricchi. È la destra di sempre che ruba ai poveri per dare ai benestanti, ma i poveri continuano a votarla perché si innamorano del ducetto di turno e corrono sotto al suo balcone nella speranza di qualche briciola a scapito di qualche nemico immaginario. Schemi mentali che diventano disastrosa politica domestica con l’egoismo che impedisce di ammette e migliorare. E mentre Wall Street trotta grazie alla bolla dell’IA, la gente comune fa fatica a fare la spesa e restare con un tetto asciutto sopra la testa. Un disastro confermato perfino dai sondaggi della propaganda trumpiana, i numeri certificano che Trump è in assoluto il peggiore presidente di sempre. E se fa nevicare bombe natalizie, è proprio per coprire il suo drammatico fallimento personale e politico. Ormai mancano pochissimi scranni perché Trump perda la maggioranza parlamentare e a quel punto diventerà un’anatra monca più che zoppa. Al Congresso già parlano di impeachment per correre ai ripari asap. Lo vogliono impallinare prima che faccia ulteriori danni trascinando il paese ad una guerra civile da fine impero. Vorrebbero riuscire a farlo fuori addirittura prima delle elezioni di metà mandato che si preannunciano comunque un bagno di sangue per i repubblicani. Ormai il cappellino rosso lo indossa solo lui e si sa come sono fatti i politicanti, toccagli tutto ma non le natiche. Ma c’è di più e di peggio. Le bombe natalizie d’ispirazione cristiana servono anche per sviare l’attenzione dalla valanga di documenti sul più imponente scandalo di pedofilia della storia che vede Trump come coprotagonista assoluto. Ha rubato voti promettendo trasparenza e appena messo piede nello Studio Ovale si messo ad insabbiare come un dannato perché c’è dentro fino al collo. Il Congresso è dovuto arrivare al punto di legiferare all’unanimità contro di lui per costringerlo a rendere pubblici i documenti. E alla fine lo ha fatto coprendo le parti scabrose che lo riguardano. È disperato, ha tentato di sputtanare solo Clinton ma da quello che è già emerso, vi è la conferma che il 47° Presidente degli Stati Uniti ha abusato sessualmente di ragazzine di 13 e 14 anni per anni in compagnia del suo migliore amico Jeffrey Epstein. Un maiale arancione che è stato rieletto proprio perché totalmente ricattabile dalle lobby miliardarie che operano alle sue spalle e che da quando c’è lui, stanno infatti facendo quello che vogliono. Devastano lo stato sociale per ridursi le tasse, se ne fregano dell’ambiente, lanciano bombe a piacere ovunque e sostengono un genocidio, abusano di potere e corrompono tutto e tutti. Apoteosi del regime lobbistico e trionfo dell’ideologia capitalista. E se non bastasse, il narcisismo patologico di Trump è degenerato in una grave demenza senile che lo rende sempre più acido, scorbutico e sconnesso con la realtà. Vive in un mondo tutto suo, in una età fantasiosa dell’oro quando in realtà sta distruggendo gli Stati Uniti ed insegnando a tutti noi occidentali i veri mali politici ed interiori che ci affliggono e che spiegano il nostro storico declino.


Ora che gli Usa hanno dichiarato guerra all’Ue, Giorgia Meloni che fa?


Così gli Usa hanno lanciato una feroce «guerra fredda» all’Europa sul digitale: il visto negato a Breton, le minacce, le pulsioni imperiali. «Siamo a un nuovo livello». Cosa c’è dietro alla raffica di misure e minacce, durissime, dell’amministrazione Trump contro l’Europa? Dal braccio di ferro tra Monti e Microsoft alle ultime leggi Ue contestate, la storia delle tensioni sulla regolamentazione della tecnologia – e l’ideologia assolutista dietro alle accuse sulla «censura»

Così gli Usa hanno lanciato una feroce «guerra fredda» all'Europa sul digitale: i visti negati, le minacce, le pulsioni imperiali. «Siamo a un nuovo livello»

(di Massimo Gaggi – corriere.it) – Dal braccio di ferro della Ue, nell’era del commissario Mario Monti, contro Microsoft accusata di abuso di posizione dominate – una disputa iniziata nel 1998 e sfociata nella prima maximulta transatlantica nel 2004 – a una vera e propria «guerra fredda» sull’alta tecnologia, scatenata dagli Usa contro Bruxelles. 

Un’offensiva fatta di dazi punitivi e, ora, anche di messa al bando di personaggi, primo fra tutti l’ex Commissario Breton, accusati di essere paladini delle norme per la protezione degli utenti digitali. Leggi – il Digital Markets Act e il Digital Service Act – votate l’anno scorso ad ampia maggioranza e sostenute da tutti i Paesi dell’Unione.
 
Nell’era di Donald Trump e dei giganti tecnologici che lo sostengono, siamo passati bruscamente dai conflitti tra la Commissione Ue e singoli giganti della Silicon Valley che hanno violato le sue norme antitrust e quelle di tutela della privacy degli utenti, a una sfida lanciata dal governo americano che ha per oggetto natura e i limiti del free speech e della sovranità digitale. Con l’Europa che, dopo aver rinunciato a luglio a introdurre una digital tax invisa agli americani per disinnescare i dazi punitivi di Trump, oggi, col governo Usa che arriva a trattare funzionari e politici europei come fossero oligarchi russi sottoposti a sanzioni, si vede costretta ad affermare con un suo portavoce che »la sovranità normativa della Ue non è negoziabile».
     
Davvero Washington, dopo aver accusato le democrazie europee si essere illiberali, vuole costringere l’Europa a rimangiarsi le sue leggi? E come si è arrivati a tanto? 

Dallo scontro Monti-Microsoft alle leggi Ue contestate da Trump

Per oltre un quarto di secolo le tensioni tra Bruxelles e i giganti di big tech sono state un fatto endemico nel quale il governo americano non ha fatto interventi di grande peso anche perché fin dall’inizio, nel 1998, l’indagine Ue seguì una analoga denuncia contro Microsoft dello stesso ministero della Giustizia Usa.
     
Dopo Microsoft toccò, nel secondo decennio del Ventunesimo secolo, al nuovo gigante di internet, Google, condannato per tre volte a multe miliardarie per comportamenti anti concorrenziali: aver forzato le compagnie telefoniche a preinstallare nei loro smartphone il sistema operativo Android se volevano avere accesso ai servizi digitali del suo Play Store; aver favorito i suoi prodotti e la sua piattaforma nei servizi di shopping; aver bloccato la pubblicità dei concorrenti dando la preferenza a quella veicolata dalla sua rete, AdSense.
   
Col GDPR, il regolamento per la protezione dei dati votato nel 2016 ed entrato in vigore due anni dopo, l’Europa fa un salto di qualità: non più solo concorrenza e mercato, ma anche privacy, protezione dei dati dei cittadini da tenere al riparo da usi abusivi di big data. Non cause con singole aziende ma un nuovo sistema che costringe le grandi imprese digitali, quasi tutte americane, a ripensare il loro modo di raccogliere dati «a strascico» appropriandosi di tutti quelli dei loro utenti e delle loro interazioni.
    
Con le due leggi di regolamentazione del 2024 (Digital Markets Act e Digital Service Act, ricordati sopra) e le prime sanzioni per le violazioni comminate ad Apple (1,8 miliardi di euro), Meta (797 milioni) e X (120 milioni), le tensioni diventano improvvisamente incendio. 

Filosofie differenti, dazi e un attacco alla sovranità normativa dell’Europa

La durissima reazione americana può essere interpretata in tre modi: 

1) la rottura degli argini di tensioni latenti e crescenti legate ad alcune differenze di fondo tra Stati Uniti ed Europa in materia di tutela dei cittadini e libertà delle imprese: i Paesi del Vecchio Continente, abituati ad un maggior livello di intervento pubblico, che mettono al primo posto la tutela delle libertà civili dei loro cittadini e la protezione dei consumatori mentre nel Nuovo mondo si punta soprattutto su dinamismo imprenditoriale, competitività globale e tutela della sicurezza nazionale. Il valore della tutela della privacy non è ignorato, ma rimane nelle retrovie: bisogna competere con la Cina che l’ha spazzata via. Partendo da quest’ottica, l’Amministrazione Trump percepisce le norme europee come barriere protezionistiche che colpiscono in misura prevalente imprese americane (inevitabile, visto che in campo digitale dominano quelle della Silicon Valley). 

2) Trump che Usa anche le regole in materia digitale per giocare la partita che più lo appassiona: quella dei dazi. A luglio Bruxelles ha rinunciato alla digital tax per ottenere la riduzione al 15% dei balzelli mozzafiato che il presidente americano aveva detto di voler imporre alla Ue. Ma per acciaio e alluminio i dazi sono rimasti al 50% e ad agosto, mentre l’Amministrazione Usa estendeva di nuovo il ricorso a maxidazi, applicandoli a molti prodotti che contengono quei metalli, il ministro del Commercio Howard Lutnick ha sollecitato la Ue a rivedere le norme digitali in senso più favorevole alle imprese Usa, promettendo, in cambio, un atteggiamento più morbido di Washington sui dazi.

3) La presidenza Trump che, nel secondo mandato, è autoritaria all’interno e imperiale nei rapporti internazionali, sta portando l’escalation nel rapporto coi vecchi alleati a un nuovo livello: se all’interno The Donalddemolisce il sistema di pesi e contrappesi che per oltre due secoli ha garantito l’equilibrio della democrazia americana, all’estero mette sotto pressione crescente i suoi partner. Non solo la UE: anche la Gran Bretagna e la Corea del Sud sono sottoposte a minacce per aver varato misure digitali a protezione dei cittadini simili a quelle europee. Tutti attaccati non perché Washington non voglia questi Paesi come alleati. Ma sembra preferire alleati feudatari. 

Le dure parole del segretario di Stato Marco Rubio – la cui nomina, un anno fa, aveva fatto tirare un sospiro di sollievo agli occidentali che vedevano in lui la faccia moderata e dialogante del trumpismo – fanno, purtroppo, temere che si stia andando verso la terza ipotesi: «La nostra politica estera America First prevede che venga respinta ogni violazione della sovranità Usa». Rubio definisce, poi, le leggi europee che si applicano a imprese americane solo quando operano nel nostro continente «un eccesso di interventi extraterritoriali da parte di censori esteri». Con la moderazione dei contenuti immessi in rete per bloccare calunnie, diffusione di palesi falsità e odio, equiparati a bieca censura, anche se in passato Facebook, Twitter e le altre reti Usa hanno messo al lavoro decine di migliaia di «moderatori».
   
Ma nell’America di Trump, Vance e dei loro imprenditori-filosofi del tecnoautoritarismo fa testo solo la linea radicale del «figliol prodigo» Elon Musk: l’«assolutismo del free speech». Non a caso il salto di qualità nello scontro tecnologico con l’Europa arriva pochi giorni dopo il dirompente documento strategico Usa e la multa Ue a Musk (la più lieve di quelle fin qui comminate da Bruxelles). Incassata con sobrietà dall’uomo da 750 miliardi di dollari: si è limitato a chiedere lo scioglimento dell’Unione europea.


La rete ferroviaria ad alta velocità cinese supera i 50mila km


Apre la linea Xi’an-Yan’an, il treno viaggia a 350 km all’ora

(ANSA-AFP) – PECHINO, 26 DIC – La vasta rete ferroviaria ad alta velocità cinese ha superato i 50.000 chilometri di distanza operativa totale con l’apertura oggi di una nuova linea, secondo quanto riportato dai media statali. Il paese possiede la rete ferroviaria più grande del mondo, un quinto più lunga della circonferenza terrestre.

Il viaggio inizia nella città di Xi’an, sede dei famosi Guerrieri di terracotta cinesi, e termina a Yan’an, a nord, ha riferito l’emittente statale Cctv. Entrambe le città si trovano nella provincia dello Shaanxi, nella Cina settentrionale. Alcune case sono state demolite e i residenti sfollati riceveranno 5.000 yuan (700 dollari) a nucleo familiare per il trasferimento, hanno dichiarato le autorità locali nel 2020, quando sono iniziati i lavori di costruzione.

La rete ferroviaria cinese si è ampliata di circa il 32% rispetto al 2020, ha aggiunto oggi la China Railway, di proprietà statale, in un comunicato. La linea Xi’an-Yan’an si estende per un totale di 299 chilometri e il viaggio più breve dura 68 minuti, ha affermato Cctv. Il treno C9309 viaggia a 350 chilometri orari (217 miglia orarie), superando lo Shinkansen giapponese, che raggiunge una velocità massima di 320 chilometri orari (200 miglia orarie).

Pechino ha finanziato anche ferrovie in altri paesi asiatici nell’ambito della sua iniziativa Belt and Road, che finanzia progetti infrastrutturali a livello globale, ma diversi progetti sono stati bloccati o sono stati oggetto di controversie.


Trump vuole il nobel per la pace ma scatena un’altra guerra


USA: TRUMP, LANCIATO ATTACCO CONTRO FORZE ISIS IN NIGERIA

 (LaPresse/AP) – Il presidente Usa Donald Trump ha dichiarato che gli Stati Uniti hanno lanciato “un potente e mortale attacco” contro le forze dello Stato Islamico in Nigeria. L’attacco arriva dopo che Trump nelle scorse settimane aveva criticato più volte il governo del Paese africano, accusato di non riuscire a frenare la persecuzione dei cristiani. Trump ha pubblicato la notizia dell’attacco nella notte sul suo profilo Truth.

Il mese scorso aveva Trump dichiarato di aver ordinato al Pentagono di iniziare a pianificare una potenziale azione militare in Nigeria, a seguito delle denunce di persecuzione dei cristiani.

Il Dipartimento di Stato ha quindi annunciato che avrebbe limitato i visti per i nigeriani e i loro familiari coinvolti in uccisioni di massa e violenze contro i cristiani. Gli Stati Uniti hanno recentemente designato la Nigeria come “paese di particolare preoccupazione” ai sensi dell’International Religious Freedom Act.

USA: TRUMP, NON PERMETTERÒ A TERRORISMO ISLAMICO DI PROSPERARE

 (LaPresse) – “Stasera, su mia indicazione in qualità di Comandante in Capo, gli Stati Uniti hanno sferrato un attacco potente e letale contro la ‘feccia terroristica’ dell’Isis nel nord-ovest della Nigeria, che ha preso di mira e ucciso brutalmente, principalmente, cristiani innocenti, a livelli che non si vedevano da molti anni, e persino da secoli!”.

Così su Truth il presidente degli Stati Uniti, Donald Trump, nel post che ha annunciato l’attacco Usa in Nigeria di questa notte.”Avevo già avvertito questi terroristi che se non avessero smesso di massacrare i cristiani, avrebbero pagato un prezzo altissimo, e stasera è successo.

Il Dipartimento della Guerra ha eseguito numerosi attacchi perfetti, come solo gli Stati Uniti sono in grado di fare. Sotto la mia guida, il nostro Paese non permetterà al terrorismo islamico radicale di prosperare. Che Dio benedica le nostre forze armate e Buon Natale a tutti, compresi i terroristi morti, che saranno molti di più se continueranno a massacrare i cristiani”, ha aggiunto Trump.

NIGERIA: ABUJA CONFERMA “ATTACCHI DI PRECISIONE USA” CONTRO ISIS

(AGI/AFP) – Il ministero degli Esteri nigeriano ha confermato che gli Stati Uniti hanno lanciato “attacchi aerei di precisione contro obiettivi terroristici” nel nord-ovest della Nigeria, dopo l’annuncio del presidente Usa Donald Trump dell’operazione contro l’Isis nel Paese africano.

“Le autorita’ nigeriane rimangono impegnate in una cooperazione strutturata in materia di sicurezza con i partner internazionali, compresi gli Usa, per affrontare la persistente minaccia del terrorismo e dell’estremismo violento”, ha aggiunto il ministero di Abuja.

Inizialmente, il Comando Africa dell’esercito americano aveva pubblicato su X una nota in cui riferiva che l’attacco era stato condotto su richiesta delle autorita’ nigeriane. Ma poco dopo il messaggio e’ stato cancellato, ed e’ uscita la nota del ministero degli Esteri di Abuja che conferma i raid di precisione e il coordinamento con Washington.

PENTAGONO, ‘IN NIGERIA UCCISI DIVERSI TERRORISTI, TRUMP ERA STATO CHIARO’

(ANSA) – “L’Africom ha condotto un attacco su richiesta delle autorità nigeriane nello Stato di Soboto (sic, ma intende probabilmente Sokoto, ndr), uccidendo diversi terroristi dell’Isis”. Lo rende noto su X il Comando militare statunitense in Africa (Us Africa Command).

“Gli attacchi letali contro l’Isis – afferma ancora il post – dimostrano la forza del nostro esercito e il nostro impegno nell’eliminare le minacce terroristiche contro gli americani, in patria e all’estero”.   

“Il presidente era stato chiaro il mese scorso – il commento sempre su X di Pete Hegseth, capo del Pentagono – l’uccisione di cristiani innocenti in Nigeria (e altrove) deve finire. Il Dipartimento della Guerra è sempre pronto, come ha scoperto l’Isis stasera, a Natale. Seguiranno altre notizie” ha detto ancora dicendosi “grato per il sostegno e la cooperazione del governo nigeriano”.


Pensioni, la riforma che non c’è. Cosa cambia dal 2026


Nessun passo indietro sulla Fornero. Le uscite anticipate speciali non sono confermate, i giovani restano a mani vuote. Pasticcio su laurea e Tfr

Pensioni, la riforma che non c’è. Cosa cambia dal 2026

(di Valentina Conte – repubblica.it) – Doveva cancellare la legge Fornero per consentire agli italiani di andare prima in pensione. E invece, con un blitz dell’ultimo minuto infilato nella manovra, il governo Meloni stava per allungare la permanenza al lavoro fino a quattro anni per una parte dei lavoratori. Riscrivendo in corsa le regole dell’uscita anticipata – con finestre allungate fino a sei mesi – e depotenziando il riscatto della laurea in modo retroattivo, tagliandone fino a due anni e mezzo. Un tentativo maldestro, maturato a metà dicembre durante la stesura del maxi emendamento alla legge di bilancio, poi saltato per le forti frizioni interne alla maggioranza. Soprattutto in casa Lega, con il partito di Matteo Salvini contro il suo ministro dell’Economia, Giancarlo Giorgetti. Un passaggio chiave per capire il segno complessivo delle politiche previdenziali della destra in questi anni.

Età e assegni: le prospettive

Secondo le simulazioni elaborate dalla Cgil, l’effetto combinato di finestre più lunghe, adeguamento automatico alla speranza di vita – che nonostante le promesse l’esecutivo non ha bloccato – e il nuovo computo dei contributi riscattati della laurea avrebbe potuto spingere l’uscita effettiva anticipata fino a 46 anni e 9 mesi di lavoro dal 2037. Un allungamento di quasi quattro anni rispetto ai percorsi previsti fino a questo momento che prevedono 42 anni e 10 mesi per gli uomini e un anno in meno per le donne. La stretta si sarebbe abbattuta anche sulla pensione anticipata contributiva dei post 1996, quella a 64 anni.

Chiusi i canali di uscita speciali

Dentro questo quadro si colloca la legge di bilancio 2026. La prima novità sostanziale della quarta manovra Meloni è che non esistono più canali di pensione anticipata speciali. Quota 103 non viene rinnovata. Opzione donna esce definitivamente di scena. Resta solo l’Ape sociale, prorogata per un altro anno. Ma l’Ape non è una pensione: è un assegno ponte, temporaneo, selettivo, riservato alle categorie già ammesse, in prevalenza lavori gravosi e usuranti. Per tutti gli altri lavoratori, l’uscita resta ancorata ai requisiti ordinari. A partire dal primo luglio 2026, inoltre, i giovani alla prima assunzione vedranno il Tfr confluire automaticamente nei fondi pensione, se non si oppongono entro 60 giorni. Ma la stessa manovra cancella il cumulo tra rendita dei fondi e pensione Inps per l’uscita anticipata a 64 anni, introdotto appena un anno fa: si versa di più al secondo pilastro, senza poterlo usare per uscire prima.

Tre euro agli assegni più bassi

C’è poi una piccola rivalutazione delle pensioni più basse. Dal primo gennaio le pensioni minime aumentano di circa tre euro al mese, arrivando a 619,8 euro. Un ritocco legato all’inflazione, senza interventi strutturali. Un aumento più consistente riguarda solo gli assegni sociali maggiorati (sono 1,2 milioni) che cresceranno di 12 euro dal 2026 dopo gli 8 euro in più di quest’anno, ma per una platea molto più ridotta rispetto ai 2,3 milioni di pensioni integrate al minimo. Nell’ottica di scoraggiare tutte le forme di uscita anticipata, viene poi confermato il bonus Maroni che consente a chi rinvia il pensionamento di incassare in busta paga i contributi previdenziali a proprio carico. Una misura che non modifica i requisiti di uscita e che riguarda soprattutto lavoratori con carriere stabili e redditi medio-alti.

Per i dipendenti pubblici, la manovra interviene sul Tfs/Tfr, riducendo di tre mesi l’attesa della prima rata. Ma l’anticipo ha un effetto collaterale immediato: facendo scendere l’attesa sotto i dodici mesi, salta lo sconto fiscale introdotto nel 2019 per compensare i tempi lunghi della liquidazione. Il risultato è una perdita secca di 750 euro a testa, con un beneficio complessivo per le casse pubbliche stimato in oltre 22 milioni, calcola la Cgil. Restano invariati i differimenti pluriennali e la rateizzazione che può arrivare fino a sette anni. La manovra prevede inoltre un aumento dei requisiti per la pensione di forze armate e polizia, slittato al 2028 dopo le proteste.

I requisiti legati all’età tornano a muoversi

Si fa presto a dire quello che non c’è in questa manovra, rispetto alle promesse. Non c’è il blocco dell’aumento dei requisiti (età e contributi) alla speranza di vita: saliranno di un mese nel 2027 e di altri due mesi nel 2028. La sterilizzazione promessa dalla Lega e anche dal ministro Giorgetti per mesi si è ridotta a una deroga limitata a una quota minima di lavoratori già tutelati. Non c’è l’uscita a 64 anni per tutti, estesa anche ai lavoratori nel sistema misto utilizzando Tfr e rendite dei fondi. Anzi il cumulo viene cancellato anche per i contributivi puri. Non c’è il salvadanaio previdenziale alla nascita, evocato come risposta al calo demografico. Non c’è l’annunciato libro bianco dell’Inps per avviare una riforma condivisa. E manca ancora il decreto attuativo che avrebbe dovuto consentire ai giovani di versare contributi aggiuntivi, norma di due manovra fa. Non c’è Opzione donna: il governo non l’ha rinnovata. Il Parlamento ha provato e poi rinunciato. L’unico canale di flessibilità dedicato alle lavoratrici viene così cancellato.

In sintesi: più lavoro, meno anticipi e flessibilità. La legge Fornero, architrave del sistema, diventa ancora più rigida. E la manovra 2026, tra annunci rientrati e nuove strette, fotografa una previdenza senza riforma.


E’ la casa il metro delle nuove povertà


La crisi è strutturale e ipoteca il futuro di tutti. Finanza immobiliare, ma anche “overtourism” e “studentification”: spingono i prezzi e bloccano la mobilità delle persone, penalizzando lavoro, crescita, formazione e competitività. Dai ritardi dell’Italia alla sfida lanciata col nuovo Piano Ue

(di Franz Baraggino – ilfattoquotidiano.it) – L’emergenza abitativa non è una novità. Lo è il fatto che non riguarda più soltanto le famiglie in povertà, ma milioni di lavoratori in Italia e in tutta Europa e di studenti. Insomma, il ceto medio impoverito che da una parte spende sempre meno per la salute, dall’altro arranca ogni anno di più per potersi permettere l’acquisto di una casa o anche solo per mantenerla, tra affitti e bollette. Il 2025 si chiude confermando i problemi di sempre e il testimone da consegnare al nuovo anno è pieno di scommesse: contenere la speculazione, rilanciare l’edilizia sociale e sostenere la mobilità, soprattutto quella dei giovani. A preoccuparsene sono infatti le imprese che non trovano personale, a partire dai grandi centri dove si concentra la forza produttiva ma anche quello che Eurostat definisce “sovraccarico dei costi abitativi”, in un contesto europeo dove la mancanza di alloggi a prezzi accessibili è diventata la prima preoccupazione dei cittadini Ue. Tra le ragioni per cui, soprattutto in grandi città come Milano, non si trovano lavoratori, è l’indisponibilità a trasferirsi perché lo stipendio non basterebbe. Pesa la perdita di potere di acquisto, ma anche il fatto che gli immobili sono, oggi più che mai, un asset di investimento che ha trasformato gli italiani in un popolo di locatari: invece di intervenire, il governo ha ridotto i requisiti edilizi rendendo abitabili 20 metri quadrati e dichiarato guerra, perdendola nei giorni scorsi alla Consulta, alla legge regionale toscana che tenta la prima stretta su b&b e affitti brevi. Quanto alla legge di Bilancio si è visto ben poco del “grande piano casa” promesso da Giorgia Meloni nei mesi scorsi: appena 300 milioni per il prossimo biennio, ulteriormente ridotti di un terzo negli ultimi aggiustamenti alla manovra. Il fabbisogno reale? Tra i 12 e i 15 miliardi secondo i costruttori dell’Ance. Uno stallo nel quale si inserisce ora il Piano casa europeo presentato il 16 dicembre dalla Commissione Ue, che parla di 650 mila nuovi alloggi all’anno per il prossimo decennio, di cui la maggior parte destinati a giovani, studenti e famiglie vulnerabili. Tra il dire e il fare c’è poi che l’Ue non ha competenza diretta e si parla più facilmente di soldi che di regole per garantire l’accesso alla casa. La vera messa a terra del Piano tocca agli Stati: in Italia abbiamo utilizzato appena un quarto delle risorse stanziate dal Pnrr per l’edilizia sociale e finanziato solo un terzo dei 60 mila posti letto per gli universitari. Emergenza abitativa, quindi, non significa solo “piani casa”, ma anche impoverimento della classe media dovuto a salari fermi e costo della vita, e soprattutto mobilità di chi studia e lavora. Ecco, in quattro punti, lo scenario.

Sempre più povertà abitativa – A livello europeo il tasso di sovraccarico dei costi abitativi (chi spende più del 40% del reddito per la casa: affitto o mutuo, utenze, tasse e manutenzione) è dell’8,2%, ma il dato sale al 31,1% per le persone a rischio povertà. Circa 42 milioni di europei, il 9,2% della totale, non possono permettersi di riscaldare adeguatamente la propria casa e il 16% vive tra infiltrazioni, muffa o infissi degradati. Per chi fa fatica, la casa smette di essere un rifugio. Al contrario, diventa la principale causa di erosione del risparmio e della salute, con le persone che rinunciano a un’alimentazione sufficiente e alle cure. Per Oxfam è il frutto di una tendenza che ha “sbilanciato le politiche sulla casa a favore della rendita finanziaria e immobiliare”, determinando un “progressivo indebolimento delle politiche di welfare a tutela del diritto all’abitare”. In Italia viviamo in un paradosso ormai strutturale: 9,6 milioni di case non abitate e quasi 4 milioni di persone in povertà abitativa. E sono sempre più frequenti le soluzioni inadeguate: il 25,1% delle famiglie vive in condizioni di sovraffollamento (rispetto al 16,8% Ue), ma tra le famiglie italiane a rischio povertà si arriva al 33,4%. Mentre Fratelli d’Italia ha pronta una nuova legge per accelerare lo sfratto di chi non ce la fa a pagare (ogni giorno se ne eseguono 134), l’offerta di edilizia pubblica resta marginale, insufficiente a calmierare i prezzi. Siamo appena al 2,6% dello stock totale (contro una media Ue del 6-7%), alimentando le difficoltà della cosiddetta “classe grigia” che non accede ai sussidi né riesce a sostenere i prezzi del libero mercato. Ma le difficoltà non riguardano più i soli affittuari: il 76% dei proprietari lamenta costi di gestione elevati, dalle utenze alle spese condominiali, con una media di circa 250 euro mensili. Fardelli che dialogano direttamente con la media dei salari lordi degli italiani (33.148 euro, dato OECD per il 2024), superati del 33% da quelli francesi e del 51% da quelli tedeschi.

Sempre meno mobilità lavorativa – Costi alti e salari bassi limitano la possibilità di trasferirsi verso le aree più dinamiche del Paese, con effetti diretti su produttività e crescita. Secondo Cassa Depositi e Prestiti, proprio nelle principali province per domanda di lavoro — tra cui Milano, Roma, Bologna, Firenze, Bergamo, Brescia e Bolzano — l’affitto assorbe spesso più del 40% del reddito disponibile (con punte del 65%), e le imprese segnalano crescenti difficoltà a reperire manodopera anche in presenza di posti vacanti. Ormai la questione abitativa è considerata un fattore strutturale per la competitività. Confindustria stima un fabbisogno di almeno 600 mila nuovi alloggi a canone sostenibile, destinati in particolare a lavoratori e studenti e avverte che in assenza di un aumento dell’offerta abitativa accessibile, la capacità delle imprese di attrarre e trattenere forza lavoro nei territori produttivi sarà compromessa. In città come Milano, l’accesso alla casa è già incompatibile con il reddito da lavoro per molti lavoratori essenziali come insegnanti, forze dell’ordine e personale sanitario, che spesso non ce la fanno a sostenere i costi dell’abitare nei luoghi in cui prestano servizio. Un bel problema per il settore pubblico: soprattutto al Nord, i concorsi pubblici registrano una partecipazione sempre più scarsa o peggio, la rinuncia di chi ha vinto perché il costo della vita è incompatibile con con le retribuzioni iniziali offerte. Ma anche i residenti se ne vanno. A Roma, l’aumento dei prezzi e la diffusione degli affitti brevi hanno contribuito allo spostamento verso le periferie, con una riduzione del 5% della popolazione nel centro storico tra il 2016 e il 2021 e un allungamento dei tempi di spostamento per i pendolari. “No City for Workers“, le potremmo chiamare mutuando la definizione utilizzata dagli studi su alcune grandi città del Nord Europa. Dove è impossibile vivere e diventa difficile anche lavorare. In base agli argomenti raccolti dalla Commissione Ue per il suo Piano, i lavoratori che affrontano lo “stress abitativo” (lunghi spostamenti, sovraffollamento o insicurezza) sono meno produttivi, presentano tassi di assenteismo più elevati e sono più soggetti al burnout. In altre parole, perdita di produttività.

Sempre meno mobilità universitaria – Insieme a quello sul mercato del lavoro, c’è l’impatto sulla formazione per il reinserimento occupazionale. A testimoniarlo è la Garanzia di occupabilità dei lavoratori, GOL, il programma finanziato dal Pnrr. Sganciate dalla questione abitativa, al contrario di quanto avviene in altri progetti europei, le politiche attive e così le opportunità offerte, per lo più a breve o brevissimo termine, faticano a ricollocare chi non può permettersi il trasferimento in aree dove c’è più lavoro ma il costo della vita è più alto, affitti in testa. Più noto il problema degli universitari, anche nel resto d’Europa. Secondo la Banca Europea per gli Investimenti (Bei), il deficit di alloggi studenteschi accessibili è stimato in 3,3 milioni di unità, con effetti sul diritto allo studio e l’accesso ai principali poli e in particolare ai corsi STEM (scienze, tecnologia, ingegneria e matematica), dove la frequenza in presenza è spesso indispensabile. I lavori della Commissione Ue segnalano casi in cui si è costretti ad abbandonare gli studi e, al pari di tanti giovani lavoratori, rinviare l’uscita dalla casa dei genitori. “I dati provenienti dall’Italia evidenziano che le carenze delle residenze universitarie sovvenzionate possono spingere la domanda degli studenti verso affitti privati a costi più elevati, rafforzando le pressioni locali sull’accessibilità economica”, si legge nei documenti di lavoro della Commissione Europea, con riferimento particolare ai grandi centri dove la “studentification” deve vedersela con l’overtourism e in generale con la “financialisaton” del mercato immobiliare. Con quasi 1,9 milioni di universitari, di cui almeno mezzo milione fuori sede, i posti nelle residenze universitarie italiane sono circa 85 mila, per una copertura che non arriva al 10%. Con lo stanziamento del Pnrr abbiamo previsto di creare altri 60 mila alloggi, ma ne abbiamo finanziati solo un terzo. Intanto a Milano il 50% della case è destinata ai servizi Airbnb, con benefici per tanti proprietari, che in Italia sono il 74% (la media Ue è del 69%), e un +5,7% sui prezzi degli affitti ogni 1% di aumento degli annunci sulla piattaforma.

Piani casa e investimenti futuri – L’ennesima promessa di un Piano casa degno di nota si è raffreddata nella realtà contabile della manovra di bilancio. A fronte dei 15 miliardi di euro invocati dai costruttori, il governo ha trovato appena 200 milioni di euro per il prossimo biennio. Al palo restano 300 mila famiglie in lista d’attesa per un alloggio sociale, mentre i contributi per l’affitto sono ridotti a soli 10 milioni l’anno (nel 2022 erano 320). Intanto 70 mila abitazioni popolari sono chiuse per manutenzione e gli sfratti restano allarmanti. Tutto da ripensare anche sugli altri fronti: dal rent to buy per le giovani coppie ai canoni agevolati per gli anziani. Più probabilmente, aspetteremo i fondi europei. Le politiche abitative restano competenza degli Stati anche col Piano casa Ue. Che ambisce piuttosto a supportare lo sforzo di recuperare risorse per 650 mila nuovi alloggi ogni anno e un costo stimato in 153 miliardi annui. Come? In buona parte aumentando la flessibilità delle regole negli aiuti di Stato e creando una piattaforma d’investimento con la Bei per mobilitare 375 miliardi entro il 2029. Entro il 2026, invece, promette regole sugli affitti brevi. Sempre che i governi siano d’accordo, come insegna il dibattito italiano sulle aliquote degli Airbnb. Le critiche al Piano Ue riguardano sopratutto l’assenza di regole. “Canone calmierato? Senza un forte intervento pubblico diretto è una formula che non funziona, lo sappiamo”, dice la segretaria nazionale dell’Unione Inquilini, Silvia Paoluzzi. “Anzi, la scelta di puntare sulla semplificazione delle norme e sulla revisione degli aiuti di Stato, rischia di tradursi in un ulteriore trasferimento di fondi pubblici verso operatori immobiliari e finanziari”. Così anche a Bruxelles. “La montagna rischia di partorire il topolino. Non solo non vengono messi a disposizione degli Stati trasferimenti diretti immediati, ma si continua a puntare su un modello che affida ai privati e alla finanza immobiliare la regia delle politiche abitative”, dichiarano gli europarlamentari del M5s Valentina Palmisano e Gaetano Pedullà. Anche i Verdi denunciano l’approccio troppo sbilanciato verso la finanza immobiliare, lamentando l’assenza di misure vincolanti contro la speculazione. Più fiduciosi destre e conservatori, che spingono per un’ulteriore deregolamentazione, leggendo la crisi soprattutto come un problema di burocrazia da disinnescare e costi amministrativi da tagliare per favorire l’iniziativa privata.


Fasci non foste per vivere come bruti


Zuffe, rancori e gelosie. Così la destra litiga inseguendo il «sogno» dell’egemonia culturale. Lo scontro Veneziani-Giuli e i (pochi) intellettuali d’area

23 dic 2025

(di Fabrizio Roncone – corriere.it) – Tanto per avviare il lavoro: spedire subito un whatsapp al ministro Alessandro Giuli. Testo: «Ciao, ministro, perdona: sto scrivendo una cosa su questa baruffa con VenezianiCredi di dover aggiungere qualcosa?» (poche ipocrisie: il ministro è stato a lungo il condirettore del Foglio e, anche adesso, ci si continua a dare del tu).

Che poi baruffa, forse, nemmeno rende tanto l’idea (Marcello Veneziani è andato giù duro sul governo e dintorni, Giuli ha risposto puntuto, su La Verità — in aiuto del filosofo/giornalista/scrittore — è allora intervenuto pure Mario Giordano e insomma bum bum! in via della Scrofa si sono ritrovati con un presepe completo di ring).

Il fatto è che una certa nuova egemonia culturale continua ad arrancare da destra tra qualche furbizia — all’ultimo festone di Atreju: «Pasolini era dei nostri!». Ma in passato avevano arruolato pure Dante, Alan Ford e Patty Pravo — più molti frizzi e lazzi: stavolta però, come vedremo, anche veri e propri scazzi, risse dialettiche piene di antichi rancori destrorsi e nuove gelosie, cui bisogna aggiungere le polemiche con il mondo del cinema, quelle intorno alla Rai, per la Rai, comprese le tremende opzioni per chiunque percorra i corridoi del Collegio Romano, sede del Mic (rinuncia, abbandono, recesso, allontanamento, congedo, licenziamento), senza che al concetto di cultura venga mai associato niente di realmente concreto (a parte una scombinata mostra sul Futurismo voluta dalla buon’anima di Jenny Sangiuliano), senza mai nessuna novità, né banale né rivoluzionaria, se si esclude la comparsa sulla scena dell’efferato talento di Beatrice Venezi, che gli orchestrali in rivolta del Teatro La Fenice chiamano, tra stupore e mortificazione, Bacchetta Nera.

Così, l’altro giorno, Veneziani se ne esce — a freddo — con un commento su La Verità. Prima, la prende larga, descrivendo con severità l’operato del governo: «Solo vaghi annunci, tanta fuffa, un po’ di retorica comiziale e qualche ipocrisia». Salva Giorgia Meloni: «C’è lei, soltanto lei, il resto è contorno e comparse». Poi prosegue spietato sul concetto di «egemonia culturale»: «Non saprei indicare qualcosa di rilevante che dica al Paese: da qui è passata la destra — sovranista, nazionale, sociale, patriottica, popolare, conservatrice o che volete voi». Quindi, punta Giuli: «Sul piano delle idee, della cultura e degli orientamenti pubblici e perfino televisivi, eccetto l’inchino al governo, tutto è rimasto come prima».

Giuli — lo avrete saputo — gli replica al volo. «Veneziani sversa su di noi bile nera di cui trabocca il suo animo colmo di cieco rimpianto…». Quindi lo punge. Succo del veleno: rimpiange di non essere al mio posto e poi ora fa il «nemichettista», ma è chiaro a tutti che spera d’essere ricompensato da Palazzo Chigi, «il nostro ex consigliere Rai in quota An, per tacer d’altro».

Roba forte.

Cosa c’è dietro?

Il tempo di rileggersi l’intervento di Giordano («Veneziani è colpevole di non aver leccato gli stivali di Giuli», che comunque gira davvero con stivali tipo Alberto Sordi nel film Il Vigile. «A chi il leccaculo? A noi! Anche questo, in fondo, è un segnale del decadimento della destra al potere»). Poi, il cellulare suona: Din Din! Ecco il whatsapp di Giuli (niente di riservato, posso rivelarvene il contenuto).

«Ciao! Ma no, per me finisce così. Però se riprendi il Passo delle oche sulla Rai di Veneziani ecc ti fai un’idea…».

Bel libro, quel Passo delle Oche (2007, Einaudi): un saggio caustico sulla destra italiana, da Almirante a Fini. Il racconto di come gli eredi del Msi avevano marciato dalle catacombe al potere. Con randellate sparse (La Russa definito «pittoresco scacciapensieri»).

Leggiamo. Pagina 101, scrive Giuli: «…Costretto dalla propria, frustrata vicenda umana a ritrarsi nel racconto delle malattie personali, Veneziani cerca a volte di colpire Fini… Di regola lo fa in nome della sua vecchia mentalità delnociana, un catto-conservatorismo appassito. Ma poi risulta sempre più autentico quando si affida all’inconcludenza, quando narra di sé e dei libri che gli ha bruciato la moglie, del randagio patologico che gli impedisce di dormire per più d’una notte nello stesso posto…». A pagina 116, il ricordo d’una conversazione privata di Veneziani, nel periodo in cui fu consigliere d’amministrazione in viale Mazzini: «Tanto in Rai non si può realizzare niente… L’unico vantaggio del mio ruolo è che ho molto tempo a disposizione per scrivere libri e i soldi per comprarmi una casa».

Sembra di poter intuire che la zuffa nasca dentro una storia di astio sedimentato. Adesso, poi, Mario Giordano infierisce: «Giuli dimentica d’essere diventato ministro solo in virtù d’una Boccia, nel senso di Maria Rosaria, che ha tolto di mezzo Sangiuliano». Tra l’altro non si sa se le sorelle Meloni, prima di arrivare a Giuli, abbiano mai chiesto a Veneziani di diventare ministro. Diciamo che la scelta, comunque, non era ampia.
L’establishment culturale, a destra, è risicato (a essere generosi). Quando Jenny uscì — pieno di dignità, va ammesso — con lo sguardo chino e una cicatrice in testa, Pietrangelo Buttafuoco era alla Biennale di Venezia, mentre Angelo Mellone era in Rai. Quanto a Giordano Bruno Guerri: era ed è considerato inaffidabile. Almeno come Veneziani. Il quale, già nel 2020, su Panorama, scrisse: «Oltre a Giorgia, cosa c’è di notevole nel suo partito? C’è una classe dirigente adeguata, a parte vecchie glorie e giovani cognati?».

È possibile, ma improbabile, che uno così, come insinua Giuli, possa sperare di essere candidato con i Fratelli. Va detto che da tempo — oggi Veneziani ha 70 anni — sembra essere in pace con carriera e potere. «Mi sento come il fu Mattia Pascal. Mi godo la mia morte civile». Aggiunse: «La sinistra ha un’idea dell’egemonia, e sa come praticarla. La destra ha un’idea militare».  Credere, obbedire, combattere. «Io sono per pensare, dubitare, dibattere».

Questo, naturalmente, non gli impedisce di avere in antipatia Giuli. Uno studioso di riti religiosi. Suonatore di flauto. Ex camerata di Meridiano Zero, tra gente che menava. Ex ultrà della Roma, sempre tra gente che menava. Con una laurea in Filosofia presa tardi. E con un’aquila (si sospetta fascista) tatuata sul petto. Mentre Veneziani, che da filosofo scrive libri, sul petto porta solo i suoi adorati foulard.

Il racconto sarebbe finito qui.

Ma alle 15,58, da un numero sconosciuto, chiama una voce femminile. Farfuglia un nome, dice si sapere cose tremende di quando Veneziani era in Rai, si fa dare l’indirizzo e-mail. «Le mando tutto».

Egemonia culturale del livore.


L’insofferenza delle élite per le opposizioni


La critica. Inadeguate e poco unite: l’accusa sui giornali e nei talk show. I sondaggi però dicono che la partita è aperta, soprattutto sui temi concreti e sociali

(Estratto dell’articolo di Salvatore Cannavò – ilfattoquotidiano.it) – C’è un tormentone che si ripete in tutti i talk show, sui giornali, alimentato da opinionisti progressisti: le opposizioni al governo Meloni sono inadeguate. Non ce la possono fare a scalzare la presidente del Consiglio che, invece, dimostra forza, solidità e stabilità. Anzi, come scriveva qualche giorno fa l’editorialista di RepubblicaStefano Folli, “il centrodestra si mostra più compatto dell’opposizione, e non è una novità”. Affermazione surreale se si legge il seguito: “Naturalmente c’è Salvini che si distingue: paragona l’Unione europea e la sua rappresentante per la politica estera, Kallas, a Napoleone e Hitler”: un dettaglio. […] E pochi giorni prima lo scontro tra Matteo Salvini e il resto della maggioranza sulle armi all’Ucraina. Ma, agli occhi dei commentatori di casa nostra – che alimentano il 90% dell’informazione politica televisiva – il problema è solo dell’opposizione.

Ma davvero queste sono inadeguate a fronteggiare Giorgia Meloni? Se è così, lo sono certamente meno che in passato. Intanto, tutti i sondaggi le danno alla pari con la maggioranza. E poi, in pochi notano che dal 2007, atto della sua nascita, il Pd sta praticando di fatto l’opposizione per la prima volta. Appena nato, si faceva notare per definire Silvio Berlusconi “il principale esponente dello schieramento a noi avverso”, per scrollarsi di dosso l’antiberlusconismo. Figure oggi alla corte di Giorgia Meloni come Luciano Violante, garantivano all’ex Cavaliere che mai e poi mai il centrosinistra avrebbe toccato il conflitto di interessi e chi ricorda più i Fassino o i Rutelli, “dirigenti con cui non vinceremo mai?”. Quando nel 2010 Berlusconi iniziò a vacillare, il Pd ripose le proprie speranze prima in Gianfranco Fini e poi nel governo Monti formato in alleanza con… Berlusconi. È stato all’opposizione del governo Lega-M5S nel 2018, ma solo per un anno, prima di partecipare al Conte-2 e poi all’amato Draghi.

Temi concreti. Altra critica: le opposizioni non parlano di temi concreti. L’ossessione per la politichetta di palazzo è in realtà tipica dei talk-show. Mentre nel corso del dibattito parlamentare sul Consiglio europeo Giuseppe Conte ed Elly Schlein hanno esordito entrambi citando i dati sulle liste di attesa nella sanità pubblica stilati da Cittadinanzattiva. […]

Divisi all’estero. Secondo Antonio Noto, uno dei massimi sondaggisti italiani, la divisione che pesa di più in realtà è quella sulla politica estera e, dal punto di vista dell’elettorato, “colpisce di più un’opposizione che non si unisce che un governo diviso”. Anche perché il governo alla fine la sintesi la trova, mentre le opposizioni “hanno convenienza, per ragioni elettorali, a marcare le proprie distanze”. Tutti dimenticano però che la guerra in Ucraina è cominciata quando M5S e Pd sostenevano il governo Draghi trovando sempre una posizione comune. L’unità programmatica è più una esigenza degli osservatori che una difficoltà insormontabile. Si fa finta di non vedere che alle elezioni regionali Pd, M5S, Avs e addirittura Italia Viva sono riusciti a trovare l’unità in una regione, la Campania, dove sembrava impossibile. Semmai, in questo caso, si può rimproverare un’eccessiva disinvoltura.

Se si vuole offrire una lettura meno partigiana, appare chiaro che Pd e M5S cercheranno di coltivare il proprio profilo programmatico fino all’ultimo momento utile, ma alla fine troveranno un programma unitario.

Antonio Floridia, editorialista del manifesto, autore di Pd, un partito da rifare, procede per sillogismi: “Salvo istinti suicidi, tutti hanno preso atto che un accordo elettorale il più ampio possibile sarà necessario anche perché, dato decisivo, il prossimo Parlamento elegge il prossimo presidente della Repubblica”. L’unità andrà fatta su punti essenziali, perché “è impossibile ed è assurdo pretendere che le forze di opposizione concordino su tutto: ognuno presidia un segmento di elettorato e si fa finta di non capire questo dato elementare”. Dopodiché l’alleanza può sembrare inadeguata, ma “solo se si pretende che il Pd debba fare tutte le parti in commedia, centro e sinistra”. Invece il Pd “ha un profilo più istituzionale ma non centrista, e sarebbe bene che un progetto di questo tipo si formi al suo esterno” mentre il M5S “che è più movimentista, è bene che conservi parte della sua identità originaria”.

“Quello che manca all’opposizione – osserva ancora Noto – non è tanto un unico leader, ma un’idea collante. Possono anche avere posizioni diverse, ma dovrebbero avere un progetto che le unisca con cui riscaldare i cittadini, in particolare quelli che non sono a favore del governo”. Questo è il problema principale delle moderne competizioni elettorali dove un’idea-forza spesso coincide con un leader carismatico. È ciò che ha garantito il successo di Berlusconi […]

Verso le primarie. Oggi nella coalizione progressista non si percepisce l’idea-forza – il salario? La sanità? La pace? L’ambiente? – né tantomeno una figura carismatica che trascini l’alleanza. A dare una mano potrebbe essere più che il contenuto, la forma. Le primarie democratiche sono sempre state un fattore importante di mobilitazione. Ma devono essere primarie vere, quindi contendibili. “Ma chi ci assicura poi che, in caso di primarie vere, un risultato non atteso, come ad esempio la vittoria di Conte, non aumenti la conflittualità?” si chiede ancora Noto. In realtà, che l’opposizione sia adeguata lo conferma proprio Giorgia Meloni che vuole cambiare la legge elettorale, perché con quella in vigore c’è il rischio perlomeno della parità. Floridia pensa che alle opposizioni convenga l’attuale Rosatellum piuttosto che un nuovo Porcellum pasticciato. “Però si può disinnescare il rischio delle divaricazioni mettendosi d’accordo sulle primarie” viste come un volano positivo.

La discussione sulla “inadeguatezza” in realtà nasconde l’insofferenza per l’alleanza tra Pd e M5S che gran parte dell’élite progressista vuole far saltare (da qui l’idea dei “federatori” di centro). Conte e Schlein lo sanno, ma forse devono avere più coraggio nel contrastare questo progetto.


Mattarella mette argine all’armata brancameloni


Manovra, quegli emendamenti estranei alle leggi: dal Colle l’ultimo stop. Con i cinque altolà alle norme il Quirinale torna a segnalare il superamento di un limite. Leo ammette: “Rischio incostituzionalità”

(di Concetto Vecchio – repubblica.it) – I cinque altolà imposti l’altro giorno dal Quirinale al governo sulla manovra chiudono un anno di coabitazione non sempre semplice con l’esecutivo di Giorgia Meloni. Al Colle spiegano che gli emendamenti bocciati erano del tutto fuori contesto. Non c’entravano niente con la legge di bilancio. Un modo educato per definire le furbizie degli esponenti della maggioranza di centrodestra che hanno cercato di trarre vantaggio dalla confusione di una legge vasta e complessa come la finanziaria. «Li hanno infilati col favore delle tenebre», nell’icastica definizione del leader M5S Giuseppe Conte.

Non è la prima volta che succede. Anzi. Ma al Quirinale fanno ancora il Quirinale e quindi vigilano, correggono, e nel caso bloccano. Nei mesi scorsi reiterate sono state le bocciature degli uffici del presidente Mattarella per emendamenti inseriti surrettiziamente in decreti legge del tutto estranei all’oggetto. E anche stavolta, si fa notare, è stata superata una soglia.

Il caso più clamoroso di questi giorni riguarda la tutela agli imprenditori condannati per avere sottopagato i lavoratori. L’aveva proposta in Commissione il senatore di Fratelli d’Italia, Matteo Gelmetti (prima di lui ci aveva provato nel decreto Ilva il collega Pogliese). Avrebbe limitato la possibilità per i lavoratori di ottenere gli arretrati salariali, anche nei casi in cui un giudice stabilisce che la retribuzione percepita è stata troppo bassa. Una norma che riduceva quindi le tutele dei lavoratori, spostando nettamente l’equilibrio a favore delle imprese. Era del tutto incongruo rispetto alla natura della legge di bilancio, fanno notare al Quirinale. Una questione di metodo, insomma.

Ma qui non si può non sottolineare che sui salari troppo bassi, le mancate tutele dei lavoratori, la piaga del precariato, Mattarella tuona, inascoltato, da dieci anni. Due emendamenti li ha presentati la Lega. E prevedevano meno paletti per chi passava da un incarico pubblico a uno privato e viceversa. Più precisamente si riduceva il lasso di tempo da tre a un anno. Poi c’erano due emendamenti di Claudio Lotito, il senatore di Forza Italia e presidente della Lazio. Uno era sui magistrati fuori ruolo e puntava a a ridurre da dieci a quattro anni l’anzianità di servizio per poter essere autorizzati al collocamento fuori ruolo, e quindi fare altro. Un’altra norma che non c’entra nulla con la legge di Bilancio, è stato fatto notare, invitando il ministro per i Rapporti col Parlamento, Luca Ciriani, a depennarle. E infatti ai dirigenti dei gruppi di maggioranza è arrivato un foglietto con su scritto «norme da sopprimere».

Lotito voleva anche rivedere la disciplina per il personale della Covip, l’Autorità che vigila sui fondi pensione. Ieri fonti di governo hanno fatto sapere che in quest’ultimo caso il Quirinale intendeva cambiare sola una parte della norma, ma per un difetto di comunicazione è stata cassata per intero.

«Non volevamo esporci a rischi di incostituzionalità» del testo: sintetizza il viceministro all’Economia Maurizio Leo spiegando lo stralcio delle cinque norme.

Resta il fatto che finora tutte le petizioni di Mattarella, espresse in varie lettere di accompagnamento alle leggi, non sono servite granché. A ottobre, sul pasticcio della festività di San Francesco, aveva richiamato tutti all’ordine: «Non posso non sottolineare l’esigenza che i testi legislativi presentino contenuti chiari e inequivoci». Alla fine dalla maggioranza ci provano comunque a fare passare leggi mancia, norme elettorali, emendamenti per gli amici degli amici. Come il condono edilizio. Non sarebbe mai passato, hanno fatto trapelare da lassù. E a quel punto al Senato, anche su pressione delle opposizioni, l’hanno derubricato a ordine del giorno.


Virginia Raggi sulla riforma della Corte dei Conti


(Virginia Raggi) – In queste giornate c’è chi fa un regalo alle persone care e chi se lo fa fare… a spese nostre!

Di che parlo?

Della riforma della Corte dei Conti che sarà approvata senza fare troppo rumore tra il 27 e il 29 dicembre.

Perché dovrebbe interessarci?

Perché la Corte dei Conti è l’organo che controlla che ogni centesimo di spesa pubblica (ossia quella decisa dai politici e gestita da dirigenti e funzionari pubblici) sia effettuata con rigore, precisione, trasparenza e, soprattutto, sia fatta nell’interesse pubblico (ossia nel NOSTRO interesse) e non per finalità diverse (ad es. per ripagare l’elettorato o per arricchire alcuni gruppi).

E se rileva un “danno erariale” (ammanco nei soldi pubblici) obbliga i politici e gli amministratori furbetti o disonesti a risarcire.

Occorre ricordare sempre che quando si parla di “spesa pubblica” si parla di soldi NOSTRI, frutto delle NOSTRE TASSE e che servono per pagare tutti i servizi (scuole, ospedali, ma anche strade, messa in sicurezza del territorio, ecc.) e che vengono amministrati solo pro-tempore (ossia a tempo) dai politici di turno (si, anche se alcuni di loro sono imbullonati alla poltrona da oltre 20 anni).

Per questo, avere una Corte efficiente che controlla il corretto utilizzo dei fondi pubblici è per NOI una garanzia insostituibile: sapere che il frutto del nostro sacrificio viene speso bene e ci viene “restituito” in servizi è fondamentale!

Ebbene, proprio i politici che oggi governano, vogliono ridurla al silenzio e all’irrilevanza.

Come?

Ve ne dico un paio:

– tagliare i controlli successivi (alla spesa effettiva) e fare soprattutto controlli preventivi (sui provvedimenti): così, ottenuto il via libera sull’atto, si avrà una presunzione di correttezza che copre ogni operazione futura;

– limitare il risarcimento da parte dei politici o funzionari pubblici al 30% o al doppio del loro stipendio annuale: immaginate chi mette il restante 70% (vi do un indizio: prendete uno specchio e guardate bene l’immagine riflessa).

Auguri!


Nuove eccellenze per la salute pubblica, a Villa Domi una serata dedicata ai giovani protagonisti della sanità campana


Nella splendida cornice collinare di Villa Domi, gremitissima per l’occasione, si è svolto lunedì 22 dicembre l’evento dal titolo “Nuove eccellenze per la salute pubblica”, promosso dall’Associazione “Sanità, Uguaglianza e Democrazia” presieduta dal professor Angelo Montemarano, già assessore regionale alla Sanità e direttore generale dell’ASL napoletana.

L’incontro ha rappresentato il consueto e sentito momento di saluti e auguri natalizi tra il professor Montemarano e il mondo della sanità campana, ma anche un’importante occasione per celebrare e valorizzare l’impegno quotidiano di giovani medici e professionisti della salute che operano con competenza e dedizione a tutela del diritto alla salute dei cittadini.

Durante la serata sono stati conferiti riconoscimenti a professionisti che si sono distinti per il contributo offerto alla sanità pubblica regionale, testimoniando come il futuro del sistema sanitario passi attraverso il merito, la formazione e l’impegno quotidiano.

“Un evento – ha dichiarato Angelo Montemarano – dedicato alle nuove eccellenze della sanità, a quei giovani medici che ogni giorno scelgono di mettere competenza, passione e responsabilità al servizio della collettività. Valorizzarli significa rafforzare la sanità pubblica e riaffermare i principi di uguaglianza e solidarietà che ne sono alla base, con particolare attenzione ai cittadini più fragili”.

A fare da madrine all’evento la deputata del Movimento 5 Stelle Carmela Auriemma e il direttore sanitario dell’ASL Napoli 1 Centro, Maria Corvino, che hanno sottolineato l’importanza di sostenere le nuove generazioni di medici e dirigenti sanitari come pilastro fondamentale per una sanità pubblica più equa ed efficiente.

“È importante – ha commentato l’onorevole Auriemma – mettere al centro il merito in ogni settore che riguarda la vita delle Cittadine e cittadini campani, lo è ancora di più in un settore così importante come quello della sanità, una serata importante che ha visto protagonista il talento di tantissimi giovani medici e accademici campani al servizio del sistema sanitario pubblico”.

La serata si è conclusa in un clima di ampia partecipazione e condivisione, confermando il valore della sanità pubblica come bene comune e il ruolo centrale delle nuove generazioni di professionisti nella costruzione di un sistema sanitario moderno, inclusivo e sostenibile.

I premiati
Giovanni Cerullo, direttore del reparto di Neurologia dell’ospedale G. Moscati di Aversa; Antonio Cioffi, direttore del reparto di Urologia dell’Ospedale del Mare; Matteo Di Minno, professore ordinario di Medicina Interna dell’Università Federico II; Pasquale Gallo, direttore del reparto di Ginecologia e Ostetricia dell’AORN Cardarelli; Roberta Lupoli, professore di Endocrinologia dell’Università Federico II; Maria Masulli, Azienda Ospedaliera Policlinico Federico II e presidente regionale della Società Italiana di Diabetologia; Mario Mensorio, direttore sanitario dell’AORN Cardarelli; Carlo Manzi, presidente dell’Ordine dei Medici Chirurghi e degli Odontoiatri di Caserta; Vincenzo D’Agostino, direttore del reparto di Neuroradiologia dell’Ospedale del Mare; Fabio Tortora, professore ordinario di Neuroradiologia dell’Università Federico II; Beniamino Schiavone, direttore generale della Clinica Sanatrix Pineta Grande S.p.A.; Francesco Stanzione, direttore del reparto di Chirurgia Generale del Pineta Grande Hospital; Alessandra Gimigliano, direttore sanitario del Presidio Ospedaliero Maresca di Torre del Greco; Albino Carrizzo, professore associato di Medicina di laboratorio dell’Università di Salerno; Francesco Sabbatino, professore associato di Oncologia dell’Università di Salerno; Tiziana Di Matola, direttore del reparto di laboratorio dell’Ospedale Fatebenefratelli di Napoli.

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ufficio stampaGuido del Sorbo


Guardia Sanframondi, Casa di Bacco: Inaugurazione della personale di Salvatore Fiore


    L’evento si è svolto sabato 20 dicembre nell’Art Gallery della “Casa di Bacco” in piazza Castello a Guardia Sanframondi (BN) alla presenza di un folto pubblico che ha fatto da cornice alla cerimonia del taglio del nastro della personale di Salvatore Fiore che con  grande sincerità ha ringraziato gli organizzatori per la squisita accoglienza. Il dott. Amedeo Ceniccola, fondatore della Casa di Bacco, rivolgendosi al maestro Fiore ha dichiarato: “Caro Salvatore, sono davvero contento di questo tuo ritorno nella Casa di Bacco e consentimi di dirti che, ancora una volta, le tue opere  hanno colpito tutti per la magia dei colori e per l’atmosfera incantata che sanno creare. Non so se ad un artista si facciano i complimenti, forse non sono adeguati per esprimere quello che vorrei. In tutti i casi,  sappi che le tue opere comunicano grandi emozioni e credo che per un’artista questa sia la massima aspirazione. Ti auguro che anche la critica ufficiale colga tutto il tuo potenziale espressivo e ti permetta di essere sempre più apprezzato come meriti”.

La mostra sarà visitabile fino al 19 gennaio 2026 (martedì – giovedì dalle ore 16 -18 e su appuntamento, tel. 3477226170) e in occasione della chiusura della mostra sarà presentata al pubblico un’ opera realizzata e donata dal maestro Fiore alla Casa di Bacco per arricchire la Rassegna d’Arte Contemporanea Permanente dedicata  alla cultura del vino della Casa di Bacco.

La Casa di Bacco


Ciro Grillo e il “clima brutale” durante lo stupro: “Magistrati detentori della morale”


Le motivazioni della condanna a otto anni per il figlio del comico e gli amici genovesi per violenza sessuale di gruppo: “Ignorata la fragilità della ragazza”. Le parole del condannato in primo grado a “Falsissimo”: “Follia della giustizia”

Ciro Grillo e il “clima brutale” durante lo stupro: “Magistrati detentori della morale”

(di Marco Lignana – genova.repubblica.it) – Una serata iniziata al Billionaire «in un clima di socialità e leggerezza, con conversazioni su vacanze e università». E proseguita a casa di Ciro Grillo «in un contesto predatorio e prevaricatorio».

Qui, a pochi passi da Porto Cervo, nell’appartamento di proprietà del comico e fondatore del Movimento 5 Stelle Beppe, il 17 luglio 2019 una ragazza allora diciottenne è stata stuprata da quattro coetanei genovesi, mai visti né conosciuti prima.

Una giovane che, scrive il tribunale di Tempio Pausania, «deve essere ritenuta pienamente attendibile». Perché la sua drammatica denuncia, avvalorata da un processo infinito, «esclude senz’altro un’ipotesi di consenso…».

Anzi, mette in luce «costrizioni ed impossibilità di reagire che denotano la particolare brutalità del gruppo, coeso fin da principio, che ha agito non tenendo in considerazione alcuna lo stato di fragilità in cui versava la ragazza». Arrivata in casa Grillo dopo aver bevuto diversi drink, e poi costretta a trangugiare quello che è diventato tristemente noto come il “beverone” a base di vodka.

In 72 pagine il collegio presieduto da Marco Contu spiega perché lo scorso 22 settembre ha condannato a otto anni Grillo jr, Edoardo Capitta e Vittorio Lauria. E a sei anni e sei mesi Francesco Corsiglia.

Per i primi tre non c’è soltanto lo stupro, la condanna è scattata anche per un altro episodio di violenza sessuale nei confronti dell’amica della 18enne (assistita dai legali Vinicio Nardo e Fiammetta Di Stefano) immortalata mentre dormiva insieme ai genovesi seminudi e in pose oscene: «È possibile evincere il clima predatorio presente in quella casa nonché la condotta violenta ed insidiosa di tutti i partecipanti, inequivocabilmente diretta alla imposizione di atti sessuali di gruppo nei confronti di una ragazza incosciente».

La partita giudiziaria non è finita qui, gli avvocati difensori (Andrea Vernazza ed Enrico GrilloGennaro Velle e Antonella CuccuredduEnrico Monteverde e Mariano Mameli, Alessandro Vaccaro) passeranno le vacanze di Natale a studiare il ricorso in appello, al momento la scelta ritenuta più probabile.

L’altra ipotesi sarebbe quella del “patteggiamento”, che in secondo grado si definisce concordato, e che al momento non sembra godere di molti sostenitori nel pool.

Mentre Ciro Grillo, diventato papà da poche settimane, contattato da Repubblica sceglie di non commentare quanto scritto nelle motivazioni. Restano allora le parole confidate a Fabrizio Corona, pubblicate online in una delle ultime puntate del programma dell’ex agente fotografico “Falsissimo”, con tanto di incursione nella villa del comico a Sant’Ilario.

Non proprio concetti leggeri, da parte per di più di un praticante avvocato, laureato con 110 e lode: «I magistrati ormai sono detentori della morale sessuale». Di più, «sono detentori dell’etica pubblica».

Perché da foto e video «si vedeva chiaramente una ragazza partecipe», mentre «le nostre facce erano di ragazzi imbarazzati… io avevo la faccia proprio da idiota. Come si può pensare che dei ragazzi di 18 anni avessero potuto avere un chissà che tipo di comportamento predatorio?». Del resto «la condanna in primo grado è ordinaria follia della giustizia».

Le carte appena depositate dal collegio di Tempio Pausania dicono tutt’altro. Ripercorrendo quelle ore – il viaggio dal Billionaire a casa Grillo dei quattro genovesi e della due amiche, la pastasciutta condivisa, la scelta di una delle due di andare a dormire – i giudici sottolineano più volte «la piena attendibilità della persona offesa».

La vittima, aggiungono, «lungi da quanto sostenuto dalla difesa ha, fin da principio, reso un racconto immutato nel suo nucleo essenziale mentre, le asserite contraddittorietà evidenziate dalla difesa degli imputati, altro non devono ritenersi se non fisiologiche e dovute alla difficoltà di ricordare infiniti dettagli di una vicenda peraltro risalente a qualche anno prima».

Per quanto riguarda il consenso, i giudici scrivono come «nel caso in parola è palese l’inesistenza di positive manifestazioni di volontà» da parte della ragazza, «senza trascurare di considerare che la natura violenta degli atti è del tutto coerente con il contesto creato dagli imputati nel corso della serata».

In un passaggio molto articolato e tecnico, il collegio ricorda «in ogni caso che la violenza non deve avere necessariamente carattere assoluto, tale da annullare totalmente la volontà della vittima, ma può produrre anche solo un effetto di coartazione allorché la persona offesa si sia concessa in una particolare situazione tale da influire negativamente sul suo processo mentale di libera determinazione, poiché un siffatto consenso non è libero» bensì «consenso coatto».

Giulia Bongiorno, senatrice della Lega impegnata in prima persona in commissione Giustizia proprio sulla riforma della legge sul consenso, come avvocata della vittima (insieme a Dario Romano) commenta: «La sentenza è molto netta e puntuale, ha valorizzato la genuinità delle dichiarazioni della mia assistita. Giuridicamente sono pagine molto belle».