Selezione Quotidiana di Articoli Vari

Facoltà di Medicina più inclusiva, finita l’era del numero chiuso?


(Ilaria Marciano – ultimabozza.it) – Approvata al Senato la riforma che rivoluzionerà l’ingresso alle facoltà di Medicina e Chirurgia, Odontoiatria e Veterinaria. Ma ancora non si può parlare di numero aperto. Tutto si decide dopo il primo semestre in base al fabbisogno di medici stimato dal Sistema Sanitario Nazionale. Approfondimento e risposte.

Di abolire il numero chiuso a Medicina se ne parla ormai da diverso tempo, e proprio in questi giorni il Comitato ristretto della Commissione Istruzione del Senato ha votato con larghissima maggioranza una ambiziosa riforma per il sistema d’accesso al corso di laurea in questione. Ogni anno, infatti, gli aspiranti camici bianchi, secondo i dati del Ministero dell’Istruzione, sono oltre 79.000, ma i posti a disposizione sono poco meno di 20.000. Ma che cosa cambierà?

Una delle modifiche più rilevanti riguarda l’abolizione del tradizionale test d’ingresso: l’iscrizione al primo semestre dei corsi di laurea in Medicina e Chirurgia, Odontoiatria e Veterinaria sarà libera. Il che non significa che l’accesso sarà privo di criteri: gli iscritti, infatti, dovranno superare una serie di corsi propedeutici nel primo semestre e superare gli esami. È dunque finita l’era del numero chiuso? Non proprio. Anzi, niente affattoStudenti e studentesse si iscriveranno a un semestre aperto condiviso con le aree di studi biomedica, sanitaria, farmaceutica e veterinaria al termine del quale dovranno sostenere gli esami. Dopo di che, chi li avrà superati, potrà accedere a un test nazionale, un test con quiz a risposta multipla basato sulle conoscenze apprese. Per avanzare al semestre successivo, dunque, sarà necessaria una â€œcollocazione in posizione utile nella graduatoria di merito nazionale”, anche se resta ancora da chiarire come questa graduatoria verrà compilata.

Allora quanti aspiranti medici effettivi ci saranno? Anche questo punto non è ancora del tutto chiaro: il numero di iscrizioni al secondo semestre sarà determinato in base al fabbisogno di medici stimato dal Sistema Sanitario Nazionale, garantendo un allineamento con le esigenze delle scuole di specializzazione e cercando di evitare il sovraffollamento dei corsi di laurea. E chi non riesce ad accedere alla “seconda fase”? Niente va perduto: i crediti universitari acquisiti nel primo semestre saranno comunque riconosciuti, e studenti e studentesse avranno la possibilità di continuare il percorso in uno dei corsi di laurea di area, senza perdere il lavoro svolto fino a quel momento. Sulla base di quale criterio? La riforma prevede che al momento dell’iscrizione al corso di medicina gli iscritti e le iscritte indichino una â€œseconda scelta” all’interno dell’area che potrebbe diventare la loro destinazione finale. Se invece decideranno di cambiare area, perderanno i crediti acquisiti.

Se tra gli esperti del settore c’è chi esulta per questa nuova riforma, vedendola come la realizzazione di una promessa fatta da tempo, c’è però chi non la vive con lo stesso entusiasmo, sollevando dubbi e preoccupazioni in merito al futuro lavorativo dei laureati (saranno troppi?) e le conseguenze sul sistema di cure pubblico. Dunque, l’accesso alla formazione medica sarà davvero più inclusivo e trasparente e, soprattutto, di qualità?


A proposito di censura


In molti si sono chiesti se il problema delle fiction su Rai 1 non fosse proprio la scritta “Rai 1” in alto a destra. Perché appena uno legge quella piccola scritta pensa subito: “Vabbè, sarà una merda”

(GIACOMO CIARRAPICO – ilmillimetro.it) – La libertà di espressione è spesso il termometro dello stato di salute di una democrazia. Per anni, le fiction prodotte dalla televisione pubblica italiana sono state sotto il giogo della censura. Bisognava stare attenti alla presenza occulta della Chiesa cattolica, al Movimento Italiani Genitori (il temutissimo MOIGE), ma anche semplicemente a quella che i dirigenti della Rai pensavano fosse la soglia della moralità. E questo ha avuto effetti devastanti sul risultato finale. Trame timidissime, se non proprio pavide, una montagna di cliché e personaggi totalmente inverosimili.

Anche nelle serie Rai la censura è sempre esistita
La censura nelle fiction Rai – ilMillimetro.it

Il tutto ambientato dentro a un mondo che esisteva solamente nella fiction italiana. Ricordo la trama di una fiction che si chiamava Le ragazze di piazza di SpagnaÈ la storia di quattro amiche disoccupate e in grandi difficoltà economiche. Poi a una di loro viene un’idea geniale: «Apriamo un negozio di vestiti a piazza di Spagna!». Le sue amiche si dicono entusiaste e nella scena seguente – pensate – il negozio è già avviato. E da lì parte tutta la storia.

Vietato disturbare l’utente medio

Ma in quegli anni, gli stessi sceneggiatori delle fiction avevano sviluppato, per senso di sopravvivenza, una censura preventiva dentro di loro. La frase più frequente durante la scrittura delle sceneggiature era: Â«Questa non ce la faranno mai passare», e si rinunciava alla scena. E così, già nella sua fase embrionale, il progetto era spacciato per sempre. Inoltre, gli sceneggiatori hanno presto capito che il vero monarca di tutto ciò che scrivevano era l’utente medio. Che è un’entità astratta ma decisiva, un essere umano che non esiste, che è solo nella testa dei dirigenti Rai. Nelle fiction è molto importante non disturbarlo in alcun modo. E ricordarsi che è cieco (quindi tantissimi primi piani), sordo (battute scandite in modo surreale) e soprattutto molto lento di comprendonio (quindi le battute oltre che essere ben scandite devono essere estremamente informative e semplici, a volte, meglio ripeterle più di una volta). Per evitare di turbare l’utente medio non si poteva parlare, ad esempio, dei buddisti. Perché non si capiva se collocarli tra i buoni o tra i cattivi e quindi era preferibile evitarli.

Cioè, il personaggio islamico era o buonissimo o cattivissimo e questo rilassava lo spettatore, il buddista lo disorientava. E non c’è da stupirsi che, se in una fiction di quegli anni un personaggio tossiva, dopo tre scene moriva. Perché non era concesso che morisse e basta. La sua malattia andava seminata, altrimenti l’utente medio non capiva, dava di matto e poteva sterminare tutta la sua famiglia. Qualcuno a un certo punto si è chiesto se il problema delle fiction su Rai 1 non fosse proprio la scritta â€œRai 1” in alto a destra. Perché appena uno legge quella piccola scritta pensa subito: “Vabbè, sarà una merda”. Levandola, forse il prodotto sarebbe stato percepito in modo diverso, chissà. Ma poi, a un certo punto è cambiato tutto. Sono arrivate le grandi piattaforme internazionali e le reti generaliste dovevano per forza tenerne conto. Perché il pubblico stava fuggendo e non se lo potevano assolutamente permettere.

La censura nella televisione pubblica

Intanto si è deciso di non chiamarle più fiction (che aveva assunto una connotazione negativa) bensì “serie”, che suona meglio. E per stare al passo con le piattaforme internazionali, la televisione pubblica italiana ha cercato di cambiare, di includere, di essere più fluida. Nelle fiction attuali (per semplicità continuerò a chiamarle così) è sempre più probabile vedere un ragazzo di colore. Addirittura, certe volte, l’immigrato africano può finalmente parlare senza usare solo l’infinito (“io essere stanco”). Può avere anche un barlume di felicità… ma è importante che in passato abbia sofferto molto.

Quando ci sono di mezzo i soldi degli italiani, niente sarà mai libero
Nelle fiction Rai è vietato disturbare l’utente medio – ilMillimetro.it

Nelle fiction attuali, i disabili sono sempre più benvenuti ma non hanno il diritto di essere dei pezzi di merda. Il disabile pezzo di merda ancora non è contemplato. Al più, può covare un po’ di livore… ripensando a quella maledetta Smart. Ma poi, sotto sotto, deve aver capito che la vita è bellissima anche così. Comunque, per bilanciare tutto il doloroso passato è preferibile che i disabili abbiano un grandissimo senso dell’umorismo. Il disabile che fa molto ridere crea nell’utente medio un misto di allegria e commozione. Anche i rom vengono rappresentati con molta più disinvoltura. E non sono più baffoni con denti d’oro che frustano bambini, ma rom pentiti (che se ci si pensa, è la forma di razzismo più alta), totalmente integrati, stanziali e a volte addirittura pagano il mutuo. Nelle fiction attuali, gli omosessuali hanno finalmente diritto di cittadinanza. Possono avere un bellissimo rapporto con la loro famiglia e un lavoro come tutti gli altri, possono vivere felicemente una storia d’amore ma… non hanno ancora il diritto di tradire. Perché, se tradiscono, l’utente medio pensa: â€œAh, pure?!”. In realtà, nelle fiction della televisione pubblica, la censura esisterà sempre. Con diversi gradi di invadenza, certo, ma esisterà sempre. Perché essendoci di mezzo i soldi degli italiani, ci sarà comunque qualcuno che avrà il compito di selezionare i progetti presentati dagli autori.

E mi chiedo come mi comporterei io se fossi quella persona. Cioè, se fossi un dirigente che ha la possibilità di scegliere quali proposte produrre. Mettiamo che due giovani sceneggiatori, pieni di fantasia, mi presentano la sitcom: Brigate Rosse tutte da ridere. I due ragazzi ci tengono a dirmi che fa effettivamente molto ridere. Fanno un esempio: un brigatista con i baffi entra in scena e chiede agli altri: Â«Sono Moretti o sono Morucci?». I due sceneggiatori ridono forte e si danno il cinque per la trovata. Probabilmente tenderei a storcere il naso, non solo per la qualità della proposta ma anche per motivazione etiche. Magari chiederei se hanno pensato ai parenti delle vittime. Loro probabilmente non demorderebbero e mi direbbero che hanno pensato una parte divertente anche per i parenti delle vittime. E così mi ritroverei a essere a mia volta censore e, ai loro occhi, un vecchio stronzo che tarpa le ali alla loro fantasia.


Cosa si trova dietro a “Giorgia” e agli altri capilista?


Dalla bisnipote di Giolitti all’eterno Luigi Grillo: sintesi (incompleta) delle liste per le elezioni europee

(ilfattoquotidiano.it) – Cosa c’è oltre “Giorgia”? Chi corre dietro ai leader che trascinano le liste con la chiara intenzione di non accettare l’elezione all’Europarlamento? Quali nomi si nascondono dietro a candidature che hanno riempito i giornali negli ultimi giorni? Una volta che l’inquadratura non viene più impallata dal generale Vannacci, quali altre opzioni hanno gli elettori? Molti amministratori locali, ex candidati già trombati una o più volte a elezioni di ogni ordine e grado negli anni passati, qualche figura uscita dalla scena politica che bussa per rientrare, altri novelli che si affacciano dalla cosiddetta “società civile”: imprenditori, funzionari, attivisti. Quella che segue è una breve e incompleta sintesi di qualche nome che si trova nelle “retrovie” dei listoni.

Fratelli d’Italia
Dietro a “Giorgia Meloni detta Giorgia”, per esempio, nelle liste di Fratelli d’Italia c’è “Giovanna“, che porta un cognome dal peso specifico significativo Giovanna Giolitti: è bisnipote dello statista liberale della storia italiana del primo Novecento, la cui figura è ancora controversa dopo cent’anni, anche per la sua maestria a nuotare nelle dinamiche trasformiste tanto che Gaetano Salvemini lo definì il “ministro della mala vita”. E in più si portò dietro la responsabilità di votare la fiducia al primo governo Mussolini, cambiando orientamento solo nel 1924 dopo le leggi con le quali il regime limitò la libertà di stampa. In quota parenti d’Italia c’è anche Giovanni Crosetto, consigliere comunale di Torino, nipote dello zio ministro della Difesa. Sempre con Fdi corre Patrizia Baffi e magari i lombardi si ricordano di lei: in una sola consiliatura regionale fu capace di un volo a planare che la portò dal Pd a Italia Viva e poi appunto al partito di Meloni, e non è detto per sempre. Spiccano poi un paio di giovani del partito come Stefano Cavedagna, portavoce di Gioventù nazionale e già capogruppo in consiglio comunale a Bologna e Nicola d’Ambrosio, presidente di Azione Universitaria. Corrono anche Mario Pellegrini, l’ex vicesindaco del Giglio che fu tra i primi a soccorrere i naufraghi della Costa Concordia, e in quota lobby Anna Olivetti, presidente di Federfarma.

Forza Italia
Tra i manifesti più grandi che si vedono a Milano c’è Letizia Moratti che alle Regionali di qualche anno fa Carlo Calenda provò in tutti i modi di offrire al Pd come la nuova Anna Kuliscioff (“viene da una tradizione famigliare azionista, il papà è stato partigiano”), costringendola a dire frasi choc come “Io vicina al centrosinistra”. Questo giornale si è già occupato poi dell’imprenditore torinese Paolo Damilano, ex candidato sindaco e dato per disperso in consiglio comunale, mentre non è di oggi la notizia del ritorno alla politica di Roberto Cota attraverso Forza Italia, di cui è responsabile Giustizia in Piemonte essendo stato d’altra parte condannato in via definitiva a un anno e 7 mesi per il processo Rimborsopoli. Uscì dalla porta della Lega e rientra ora dalla finestra anche Marco Reguzzoni.

Un altro ritorno è quello di Luigi Grillo, nome che fa sentire tutti un po’ più giovani avendo attraversato varie stagioni politiche non mancando ovviamente quella berlusconiana: dieci anni fa ha patteggiato una pena di 2 anni e 8 mesi e una multa di 50mila euro al termine dell’inchiesta milanese sugli appalti relativi alle gare per Expo 2015: fu anche arrestato e il tribunale del Riesame scrisse tra l’altro che nel corso delle indagini aveva “dato prova di sapersi defilare e di evitare di essere direttamente intercettato”.

Nelle file di Forza Italia c’è anche un Dell’Utri ma non è Marcello bensì Massimo ed è esponente di Noi Moderati, il mini-partito di Maurizio Lupi con cui i forzisti hanno fatto un accordo per le Europee visto che la soglia di sbarramento non l’avrebbe vista nemmeno col cannocchiale. La sfida dei nomi da poter inserire sulla scheda la vince sicuramente l’assessore siciliano Edmondo Tamajo “detto Tamaio detto Di Maio detto Edy Detto Edi Detto Eddy”. Per sbagliare ce ne vuole.

Tra i nomi in lista si segnala Firial Cherima Fteita che durante il primo lockdown fece sue queste parole attribuite al virologo Giulio Tarro: “La notizia del vaccino serve per farci accettare il lockdown, nella convinzione che a brevissimo saremo liberi. Invece non arriverà nessun vaccino. Almeno non prima dell’estate. Il lockdown durerà fino a maggio. Giusto il tempo di portare a termine l’operazione. Una volta che l’intero sistema economico sarà collassato, la grande speculazione finanziaria passerà all’incasso e si porterà via tutto a prezzi stracciati”.

Lega
Nella Lega oltre a Vannacci c’è di più. Per esempio la sindaca di Monfalcone Anna Cisint, che basa la sua celebrità nella sua battaglia per non far pregare i musulmani della sua città. Si ricandida Cinzia Bonfrisco, parlamentare ininterrottamente dal 2006, prima socialista di scuola craxiana, poi berlusconiana, da qualche tempo salviniana. La scuola di formazione leghista produce molti candidati “dal basso” (e a quelli fanno riferimento i detrattori interni della candidatura del generale), come sindaci, consiglieri, assessori, gli eurodeputati uscenti. Tra loro ce n’è uno arrivato giusto un mese fa: l’ex sindaco di Catania Raffaele Stancanelli.

Azione
Con Azione era già nota la candidatura di Alessandro Tommasi, membro del cda del Sole 24 Ore e fondatore di Will Media, che produce informazione sui social. Ha creato anche l’associazione Nos che corre appunto insieme al partito di Carlo Calenda. Tra i nomi noti ci sono quelli di Daniele Nahum, consigliere comunale a Milano che poche settimane fa ha lasciato il Pd in polemica per una posizione non chiara – secondo lui – del partito sulla guerra in Medio Oriente, e di Cuno Jakob Tarfusser (“detto Cuno”), sostituto procuratore generale di Milano e prima ancora capo della Procura di Bolzano e magistrato alla Corte penale internazionale, che ha avuto una botta di fama per la sua iniziativa in favore della revisione del processo a Olindo Romano e Rosa Bazzi.

Tra i veterani spunta il nome di Mario Raffaelli, dirigente trentino di Azione, che ha un cursus honorum politico che affonda le sue radici nella fine degli anni Settanta. E’ stato in parlamento per 15 anni fino al 1994 e 4 volte sottosegretario. Per la quota generali ci riprova, dopo il flop delle Politiche del 2022, Vincenzo Camporini, mentre per la quota Confindustria c’è Lara Bisin, vice presidente fino a qualche settimana fa dell’associazione industriali di Vicenza. In lista anche Nataliya Kudryk, giornalista ucraina, 49 anni, da venti a Roma. Con Azione c’è anche Sonia Alfano, già eurodeputata dal 2009 al 2014 con Italia dei Valori.

Stati uniti d’Europa
Negli Stati Uniti d’Europa – la lista guidata da Italia Viva e +Europa – tenta la rielezione, questa volta a Strasburgo, Gianfranco Librandi che è rimbalzato da un partito all’altro negli ultimi 20 anni e ora sembra aver trovato pace tra i renziani: fu berlusconiano (con Forza Italia e Pdl), poi si candidò con Scelta Civica di Mario Monti, passò al Pd (quando tra l’altro la stagione renziana era già calante) e infine l’approdo a Iv. I radicali portano in dote il nome storico di Marco Taradash, il volto noto Alessandro Cecchi Paone e la giovanissima presidente Patrizia De Grazia (25 anni).

Nello strano remix renziano sono candidati nelle stesse liste da una parte il corrispondente di Liberation â€“ il giornale della sinistra francese – Eric József e dall’altra Alessandrina Lonardo Mastella detta Sandra Mastella, ex senatrice e moglie dell’ex ministro e ora sindaco di Benevento. O ancora da una parte il capolista nel Nord Est è Graham Robert Watson, scozzese di nascista, italiano per matrimonio, storico eurodeputato dei liberaldemocratici inglesi (“Ho paura che l’Italia faccia lo stesso errore commesso dal Regno Unito” ha detto) e dall’altra riecco l’ex ministra Teresa Bellanova. La linea garantista esprime il recordman in questa disciplina, l’ex presidente delle Camere penali Giandomenico Caiazza

Pd
Superati i molti nomi noti nelle liste del Pd, fa capolino il nome di Davide Mattiello, ex parlamentare, molto attivo in quella sua unica legislatura sui temi della legalità: fu relatore tra l’altro della modifica del reato di voto di scambio. Fece notizia il fatto – più che anomalo per la politica italiana – che quando smise di fare il deputato andò a lavorare, sul serio: nel 2020 cominciò a lavorare come conducente e netturbino. Qua e là poi si trova un po’ di gioventù democratica come quella di Elena Accossato (29 anni, segretaria regionale dei Giovani democratici in Piemonte) e Silvia Panini, che è in lista in forza dell’accordo del Pd con Volt, partito politico paneuropeo, che attira soprattutto i più giovani. Al Centro è candidata Elena Improta, mamma di Mario, un ragazzo con una grave disabilità, e fondatrice di una onlus che si occupa del “Dopo di noi”. Candidato anche Michele Franchi, il sindaco di Arquata del Tronto, il paese ascolano distrutto dal terremoto del 2016. Al Sud ci sono l’architetto Francesco Forte, figlio di Mario che fu brevemente ex sindaco Dc di Napoli, e Shady Alizadeh, avvocata 35enne barlettana di famiglia iraniana, esperta di welfare aziendale di genere nonché attivista del movimento “Donna vita libertà”.

M5s
Le selezioni online dei 5 Stelle hanno prodotto una mole notevole di attivisti del territorio, i cui nomi non dicono niente all’opinione pubblica nazionale, ma suggeriscono di più nei rispettivi territori. Per questo Giuseppe Conte ha puntato su qualche figura più riconoscibile di cui è stato già scritto. I nomi che sono rimasti un po’ nell’ombra sono quelli di Ugo Biggeri, economista specializzato nella finanza etica e sostenibile, tra i fondatori di Banca Popolare Etica, Cinzia Pilo, manager con esperienza internazionale in ambito finanziario e dei pagamenti digitali, madre di un “bambino farfalla”, che da anni ha messo le sue competenze anche al servizio volontario in ambito sociale e dell’assistenza ai malati e alle loro famiglie, e Maurizio Sibilio, pedagogista, docente e prorettore a Salerno. Anche in questo caso – e in questo caso dopo aver superato le votazioni interne – ci sono nomi già noti all’elettorato M5s per aver ricoperto in passato altri incarichi, come l’ex deputato Paolo Bernini (attivista animalista che durante il mandato ebbe vari momenti di notorietà per alcune sue uscite apparentemente complottiste), l’ex senatore Gianluca Ferrara e l’ex sindaco di Bagheria Patrizio Cinque.

Verdi-Sinistra
I leader Nicola Fratoianni e Angelo Bonelli lasciano il posto di capolista: di Ilaria Salis sanno ormai tutti, gli altri sono esponenti che hanno avuto già esperienze politiche in passato: l’ex sindaco di Roma Ignazio Marino, l’ex sindaco di Riace Mimmo Lucano e l’ex sindaco di Palermo Leoluca Orlando. Le liste rossoverdi sono piene di attivisti del territorio. Spiccano Benedetta Scuderi, esponente della nuova generazione ambientalista, poco più che trentenne, attivissima sui social e energica ospite da talk show, e Marilena Grassadonia, storica attivista di Sinistra Italiana sulle tematiche Lgbtqi+. Al Centro si candida Christian Raimo, scrittore e insegnante, noto per le sue battaglie “antifà”, attento alle questioni delle periferie della Capitale, al Sud c’è il nome di Anna Grazia Maraschio, tra le poche ad aver già perso il posto nella giunta di Michele Emiliano in attesa di “reset”, mentre nelle Isole colpisce il nome di Cinzia Dato che alle spalle ha già l’esperienza da parlamentare con la Rosa nel Pugno nella legislatura, brevissima, del governo Prodi II.


Oplà, Mediaset ha superato la Rai


Per la prima volta gli spettatori di Mediaset superano quelli Rai, ma attenti a Discovery. Sul prime time Viale Mazzini resta prima, ma nell’arco delle 24 ore c’è il sorpasso della concorrente lombarda. In terza posizione si affaccia il colosso Warner Bros con il Nove, che conferma un’interessante crescita. I dati Agcom

(MARCO CARLOTTI – ilfoglio.it) – La Rai torna al centro dei riflettori, ancora. Questa volta perché, come rileva l’Agcom, Mediaset ha superato la televisione pubblica negli ascolti che riguardano le 24 ore.

I dati dell’Osservatorio sulle Comunicazioni relativi all’intero 2023, pubblicati ieri, registrano un netto calo di spettatori rispetto alla concorrente. Più nel dettaglio, l’azienda di Cologno Monzese vanta – sull’intero giorno – 3,09 milioni di spettatori contro i 3,04 della Rai. Un gap di 50 mila ascoltatori che ha del clamoroso, perché segna un sorpasso storico che finora non si era mai verificato.

Rispetto al periodo pre pandemico, inoltre, l’editore pubblico perde complessivamente 510 mila spettatori (-14,4 per cento) sull’intero giorno, a fronte dei 50 mila (-1,6 per cento) di Mediaset. Nel comunicato viene spiegato come siano i canali televisivi “minori” a determinare la debacle della Rai, benché la stessa si confermi leader della fascia â€œprime time” con uno share pari a 7,17 milioni (37,8 per cento) a fronte dei 7,12 di Mediaset (37,5 per cento), soprattutto grazie ai tre canali principali e generalisti: Rai 1, Rai 2 e Rai 3, che sull’intero anno tengono. 

La rilevazione dell’Agcom non è una sorpresa per l’azienda, che di recente ha attirato su di sè i riflettori. L’addio del giannizzero Fabio Fazio – ormai un anno fa, dopo quarant’anni di fedele servizio – aveva causato a suo tempo malumori e sollevazioni popolari, sapientemente cavalcate dall’opposizione. L’affaire Scurati, a metà tra la censura e una non oculata mossa comunicativa dei vertici di Viale Mazzini, ha poi riacceso le polemiche. A perorare la causa del bavaglio di stato, poi, il dietrofront di Amadeus, il quale si è pubblicamente lamentato dell’invasione di campo nella direzione artistica, con Povia e Pino Insegno divenuti capri espiatori di una bagarre che ha portato il celebre conduttore ad accettare la proposta del colosso Warner Bros. Prossima destinazione: Discovery. E a guardare i dati, i nuovi volti della piattaforma americana, tra i più noti della televisione italiana, stanno decisamente dando i loro frutti.

L’arrivo di Fazio sul Nove sembrerebbe avere attratto una consistente fetta di pubblico e non è azzardato presumere che lo stesso succeda con Amadeus. Sempre in base ai dati pubblicati da Agcom, infatti, nell’ultimo trimestre del 2023 la Nove ha aumentato gli ascolti giornalieri del 2,2 per cento, registrando addirittura una crescita complessiva del 46,4 per cento nella fascia di programmazione serale. A testimoniare l’exploit fanno da contraltare le consistenti flessioni nello stesso periodo delle principali reti pubbliche, Rai 2 (-9,5 per cento) e Rai 3 (-20 per cento). Più in generale, il canale italiano di Warner Bros è il terzo più visto in Italia nell’arco delle 24 ore durante il 2023. 


Gianfranco Viesti: “L’autonomia differenziata? È la secessione dei ricchi: vi spiego perché”


“Col ddl Calderoli si creerebbero delle Regioni-Stato. Diventeremmo un Paese arlecchino. Con politiche pubbliche decise qua dal governatore e là dallo Stato. E passerebbe il principio per cui chi vive in una terra più agiata ha diritto a servizi migliori”. Intervista a Gianfranco Viesti, professore di Economia applicata al Dipartimento di Scienze politiche dell’Università di Bari, autore di “Contro la secessione dei ricchi” (Laterza)

(Enrico Mingori – tpi.it) – Professor Viesti, nel suo libro definisce l’Autonomia regionale differenziata una «secessione dei ricchi». Ci spieghi.
«È così per due motivi. Il primo è che la dimensione delle competenze che la riforma consente di trasferire alle Regioni è simile a quella di uno Stato sovrano. Si verrebbero a costituire delle vere e proprie Regioni-Stato all’interno dello Stato: per questo parlo di “secessione”. E sarebbe una secessione “dei ricchi” perché sono state le tre Regioni più ricche del Paese – Veneto, Lombardia ed Emilia-Romagna – ad aver chiesto per prime quei poteri».

Questo è il primo motivo. E il secondo?
«Glielo spiego subito. Oltre a quei poteri, Veneto e Lombardia chiedono anche risorse finanziarie. E cercano di ottenere dei meccanismi di finanziamento simili a quelli delle Regioni a statuto speciale. Di fatto è un tentativo di “secedere” dalle regole nazionali del federalismo fiscale. Ed è un tentativo che si basa sull’ipotesi che un territorio più ricco meriterebbe più servizi. Ecco perché, anche da questo punto di vista, sarebbe una secessione “dei ricchi”».

Il ragionamento è: se consentiamo a tutte le Regioni di prendersi più poteri, le Regioni che oggi sono più ricche se ne prenderanno di più, allargando ulteriormente il divario con le Regioni più povere.
«Sì, ma non è questo a mio avviso il punto principale. Il punto principale è sulle materie: se ciascuna Regione chiedesse poteri autonomi su certe materie, avremmo politiche pubbliche gestite in maniera differente a seconda dei territori. Diventeremmo un Paese arlecchino, come non c’è da nessuna parte nel mondo. Fra l’altro, anche se non sono un costituzionalista, credo che si porrebbero anche problemi di costituzionalità, perché applicando l’articolo 116 della Costituzione si cambierebbe l’articolo 117 senza passare per la procedura speciale prevista dall’articolo 138».

Quali sono le materie che secondo lei non dovrebbero essere lasciate alle Regioni?
«Ad esempio la politica energetica, o quella delle reti infrastrutturali di trasporto. O l’istruzione. Poi ci sono le norme generali sulla sanità, che con l’Autonomia differenziata potrebbe essere totalmente regionalizzata. Non sono il solo a pensarla così: anche secondo la Banca d’Italia è dubitabile che le Regioni siano più efficienti dello Stato nella gestione di tutte quelle competenze. Il principale effetto di questa riforma sarebbe concedere un immenso potere ai presidenti di Regione, ma per i Comuni e i cittadini di quelle stesse Regioni non è affatto detto che la situazione migliorerebbe».

La riforma Calderoli subordina però la concessione dell’autonomia alla definizione dei Lep, i livelli essenziali di prestazione: sull’intero territorio nazionale bisognerebbe garantire dei livelli minimi di qualità nell’erogazione dei servizi. Sappiamo che i Lep attendono di essere definiti da diversi anni, ma questa non potrebbe essere la volta buona?
«Siamo un Paese straordinario: nessuno ricorda che già in base al Pnrr abbiamo l’obbligo di definire i Lep in tutte le materie, che siano di competenza statale, regionale o comunale. Quindi legare il processo di definizione dei Lep all’Autonomia differenziata è una mossa politica. Non solo: la legge si applica unicamente alle funzioni statali che vengono trasferite alle Regioni e non dispone stanziamenti ulteriori, quindi il rischio è che, alla fine di un processo lungo e molto complesso, la definizione dei Lep si risolva in una mera fotografia dell’esistente. Lo dice anche l’Ufficio parlamentare di bilancio. E aggiungo un’annotazione: la Calderoli è una legge ordinaria, non ha carattere costituzionale; basterebbe una legge successiva per modificarla».

Osservazione storica: fino a 163 anni fa, eravamo un Paese diviso in tanti piccoli “staterelli”. E ancora oggi dall’Alto Adige alla Sicilia ogni territorio ha caratteristiche ed esigenze diverse. Non basta questo per riconoscere maggior autonomia alle Regioni?
«Questo è un argomento a favore del decentramento dei poteri, cioè a favore del fatto che, ad esempio, su una specifica materia le scelte che si fanno in Sicilia sono diverse da quelle che si fanno in Lombardia. E io sono molto favorevole a questo decentramento, sia a livello di Regioni sia – ancor più – a livello di Comuni. Ma con l’Autonomia differenziata si parla di una cosa diversa. E cioè del fatto che in una Regione quella politica sia decisa dalla Regione e in un’altra Regione sia decisa dallo Stato: non è una sana differenziazione delle scelte, ma una differenziazione dei poteri».

Quindi decentramento sì, ma Autonomia differenziata no.
«In un Paese così ricco di differenze come l’Italia non si può pretendere di decidere da Roma se, ad esempio, nel centro di Bologna le auto devono andare a 30 o a 50 chilometri all’ora. È una scelta che deve fare il sindaco, non il ministro. Ma questo non significa creare delle Regioni che siano “più Regioni” di altre. A livello internazionale ci sono molte differenziazioni di poteri tra le città, anche in Italia: è chiaro che il sindaco di Roma deve gestire una realtà molto più complessa del sindaco di Tagliacozzo. Non esistono, invece, esperienze internazionali di Regioni che sono “più Regioni” di altre, se non nel caso molto discutibile delle Regioni a statuto speciale italiane e della Catalogna in Spagna».

Infatti c’è chi argomenta a favore dell’Autonomia differenziata proprio a partire dall’esistenza delle Regioni a statuto speciale. Si dice: queste Regioni sono la dimostrazione ch la loro maggior autonomia di un territorio non intacca l’unità nazionale.
«Conosco questa argomentazione. In buona sostanza il Veneto, che è il vero regista di quest’operazione, vuole diventare come il Trentino Alto Adige. I veneti vedono i loro vicini di casa con più poteri e più soldi e si chiedono: perché loro sì e noi no? Ad esempio la spesa media per studente in Trentino è più alta del 70% che in Veneto. Il punto è che non è possibile che tutte le Regioni italiane ottengano lo statuto speciale, a meno che non si cambi la Costituzione o si frantumi definitivamente lo Stato. E comunque credo che l’esistenza di Regioni a statuto speciale meriterebbe oggi una riflessione».

In Catalogna, invece, l’autonomismo è diventato indipendentismo.
«Il regionalismo differenziato in Spagna nasce però nei Paesi Baschi, che sono sostanzialmente una regione a statuto speciale più ricca delle altre. I Paesi Baschi ricordano il caso italiano della Provincia autonoma di Bolzano, ma con una differenza importante: quando le fu concessa l’autonomia, Bolzano era molto povera ed è diventata ricca proprio grazie ai super finanziamenti della Provincia autonoma; i Paesi Baschi, invece, quando dopo il Franchismo ottennero maggiore autonomia, erano già ricchi di loro. In quel caso l’autonomia fu frutto di una scelta politica di pacificazione».

Mi dica della Catalogna.
«In Catalogna esisteva un movimento autonomista storico, fra l’altro giustificatissimo perché il Franchismo aveva represso la cultura catalana in modo impressionante. La concessione di ampie autonomie alla Catalogna è stata un processo assolutamente benvenuto. Gli indipendentisti catalani rappresentavano una quota minoritaria, tra il 25 e il 30% secondo i sondaggi di opinione, ma negli anni Dieci del Duemila, con l’avvento in Europa della grande austerità, il livello dei servizi nella regione si è abbassato. E a quel punto i catalani hanno iniziato a pensare, esattamente come i veneti fanno con il Trentino: ma perché i baschi sì e noi no?».

E la situazione ha rischiato di degenerare.
«Dietro la rivolta catalana ci sono storici motivi politico-culturali, ma anche concreti motivi di carattere fiscale, che hanno fatto sì che il sostegno agli indipendentisti sia man mano cresciuto, fino allo scontro del 2017, quando è stato proclamato un referendum per l’indipendenza della regione. Come sappiamo, la Corte costituzionale spagnola ha negato la legittimità di quella consultazione, ma i catalani l’hanno svolta lo stesso e da lì si è scatenata una contrapposizione molto violenta e complessa. Molti l’hanno dimenticato, ma nel 2016 anche il Consiglio regionale del Veneto aveva chiesto un referendum sull’indipendenza. Anche in quel caso la Corte costituzionale italiana disse che la consultazione non si poteva fare. Ed è lì che scattò la differenza con la Catalogna: il Consiglio regionale del Veneto si è accontentato di chiedere maggior autonomia».

Nei giorni scorsi lei è stato a presentare il suo libro proprio a Barcellona. Che clima ha trovato?
«Oggi il clima è più tranquillo. Il Governo socialista non è centralista e sta cercando di avere un rapporto più disteso con la Regione catalana».

Abbiamo parlato di materie. Ora parliamo di soldi: la Lombardia ha un residuo fiscale sui 50 miliardi di euro, il Veneto e l’Emilia Romagna oscillano tra 17 e 18. È giusto che le tasse pagate da un cittadino di Milano vadano a finanziare i servizi ricevuti da un napoletano?
«Così è scritto nella Costituzione: quando nasciamo diventiamo cittadini italiani. Siamo uno Stato unitario decentrato, non uno Stato federale. Il residuo fiscale, quindi, è un concetto politico: non c’è alcun principio che vi attribuisca rilevanza. Anche perché, allargando il discorso, si potrebbe parlare di residuo fiscale provinciale, o comunale. Perché i milanesi devono pagare per i pavesi? O perché quelli di via Montenapoleone devono pagare per quelli del quartiere Gratosoglio? Questo ragionamento per assurdo ci fa capire che, alla fine, il residuo fiscale è in-di-vi-dua-le! La nostra Costituzione dice che i servizi sono garantiti a tutti i cittadini indipendentemente dal loro reddito. Al contrario, il principio del residuo fiscale tende ad attribuire diritti diversi in base alla ricchezza dei territori in cui si vive. Questo è pericoloso».

Si può dire, però, che esiste un tema di malgoverno che riguarda soprattutto il Sud?
«Assolutamente sì, ma da questo punto di vista l’Autonomia differenziata non cambierebbe le cose. Anzi. La riforma Calderoli va a modificare l’impostazione del finanziamento alle Regioni disegnata dalla legge 42 del 2009 (la legge delega sul federalismo fiscale, ndr): in base a quel sistema, rimasto peraltro in gran parte inattuato, gli indicatori di finanziamento sono basati sul fabbisogno. È così che possono emergere i maggiori casi di inefficienza. Con l’Autonomia differenziata, invece, le nuove competenze non sarebbero finanziate in base ai livelli di fabbisogno a costi standard e a risultati tangibili in termini di qualità di servizi, ma con una percentuale del gettito fiscale nazionale. Questo significa che il presidente di una Regione che avesse tutte queste nuove competenze sarebbe totalmente irresponsabile: avrebbe i soldi senza destinazione vincolata e potrebbe farci quel che vuole».

Oggi però, almeno in campo sanitario, sono già previsti i Lea (Livelli essenziali di assistenza).
«Ma non sono legati ai meccanismi di finanziamento! Le faccio un esempio che chiarisce molto. Se una Regione ha una bassa capacità di fare screening tumorali, per cui in quel territorio si muore per malattie curabili, non si viene a determinare un fabbisogno. E quindi quella Regione non riceverà delle risorse aggiuntive vincolate a fare gli screening, perché il Fondo Sanitario Nazionale è ripartito in base alla popolazione pesata per età».

Che conclusione dobbiamo trarne?
«È tutto il sistema italiano di costruzione dei meccanismi di responsabilizzazione che è ben lungi dall’essere attuato. Il punto chiave è che le regole di allocazione delle risorse dovrebbero essere uguali per tutti. Invece con l’Autonomia differenziata si va nella direzione opposta: regole speciali per le Regioni a maggior autonomia».

Come si è venuto a creare questo divario tra le Regioni più ricche, che spesso sono al Nord, e le Regioni arretrate, che spesso sono al Sud?
«L’esistenza di un divario di reddito tra i territori non è inconsueta nel panorama mondiale ed europeo: anche in Germania e nel Regno Unito ci sono vari esempi analoghi. Quel che colpisce, in Italia, è la durata del fenomeno e la sua intensità. Da cosa deriva? C’è un insieme complesso di vicende che attengono alla geografia, alla storia e alle politiche che sono state fatte. Ci sono poi divari di efficienza: il caso più rilevante è appunto quello delle sanità, dove incidono contemporaneamente una gestione clientelare e dei meccanismi di finanziamento, che fanno sì che, ad esempio, la sanità del Sud sia sotto-finanziata. Ma finché non si mettono in campo indicatori più precisi, basati sui fabbisogni, un presidente di Regione potrà sempre dire che la sua Regione ha una sanità peggiore perché dispone di molte meno risorse di un’altra. Ma la sanità è un argomento molto complesso».

A cosa si riferisce?
«Col complessivo sotto-finanziamento della sanità italiana, i sistemi sanitari dell’Emilia-Romagna, prevalentemente pubblico, e della Lombardia, prevalentemente privato, stanno in piedi grazie alla mobilità sanitaria. Se i sistemi sanitari del Sud diventassero improvvisamente efficienti e si azzerasse la mobilità sanitaria, in Emilia-Romagna e Lombardia si aprirebbero colossali problemi».

Pensa che il regionalismo in Italia abbia fallito?
«No. Io sono per fare analisi basate sui fatti e sulle performance. Quando sento dire che le Regioni hanno fallito e bisognerebbe ri-accentrare tutto, non sono d’accordo. Sicuramente, se fossimo un Paese serio, dovremmo preoccuparci di fare una valutazione sulla riforma del Titolo V della Costituzione, che quest’anno compie 23 anni: dovremmo analizzarne i risultati e intervenire dove serve, ma resto dell’idea che l’Italia non è un Paese che si può governare da Roma. Bisogna trovare la miglior combinazione dei poteri che consenta di progredire sul profilo dell’efficienza».

E questa combinazione, secondo lei, non è certo nell’Autonomia differenziata.
«Negli ultimi mesi il dibattito sulla riforma ha assunto una colorazione politica – la maggioranza a favore, l’opposizione contro – che fino a poco tempo fa era meno netta. Andando più indietro nel tempo, ricordo ad esempio che nel 2014 Giorgia Meloni presentò una proposta di legge per abolire le Regioni… Oggi non mi aspetto che la riforma possa subire “scricchiolii” in parlamento. Qualcosa per contrastarla possono farla invece i sindacati, le rappresentanze delle imprese e i cittadini. Il tema è complicatissimo dal punto di vista tecnico ma molto chiaro dal punto di vista politico: dove sta il potere in Italia? Quali garanzie di controllo hanno i cittadini? Su cosa basare l’uguaglianza tra i cittadini indipendentemente da dove vivono?».


Renzi querela Lilli Gruber: “Andrò in Europa se eletto, a Otto e mezzo bugie su di me”


(Giovanni Macchi – tpi.it) – Matteo Renzi “ha dato mandato ai propri legali di agire in giudizio contro Lilli Gruber per le dichiarazioni rilasciate questa sera (ieri, ndr) nel corso della trasmissione 8 e mezzo, su La7″.

Nelle scorse ore l’ex presidente del Consiglio ha annunciato la sua candidatura per le elezioni europee, e nel farlo ha sottolineato che in caso di vittoria andrà a Strasburgo. La conduttrice non gli ha “creduto”, ed è partita la minaccia di querela.

Nel suo annuncio, il fondatore di Italia viva ha rimarcato più volte la differenza tra gli altri leader di partito – che si candidano ma hanno già fatto sapere di non essere intenzionati ad andare al Parlamento europeo – e se stesso: “Come può l’Italia farsi sentire se i principali leader dei partiti italiani decidono di candidarsi alle europee per finta, per scherzo? Si candidano e dicono da subito che non andranno a Strasburgo se eletti. È una truffa ai cittadini”, ha dichiarato. Per poi sottolineare ancora: “Noi abbiamo deciso che chi si candiderà, se eletto, andrà al Parlamento a fare una battaglia sulle questioni ambientali, a cambiare le regole istituzionali, a portare un po’ di speranza. E gli altri che fanno? Gli altri no. Questa è la differenza”.

Durante la puntata di Otto e mezzo, però, la conduttrice Lilli Gruber ha espresso più di un dubbio sul fatto che Renzi sia effettivamente intenzionato a rinunciare al proprio seggio in Senato, se anche dovesse risultare eletto. Così, il leader di Italia viva si è mosso sul piano legale, come ha comunicato in una nota il suo partito: i legali di Renzi hanno avuto mandato di agire in giudizio contro Gruber “per la parte in cui la conduttrice ha affermato che Renzi come gli altri leader se eletto non andrà in Europa”.

L’ufficio stampa di Italia viva ci ha tenuto a rimarcare che “è una affermazione falsa, tendenziosa e priva di fondamento”. Infatti, ha ribadito la nota, “il senatore Renzi ha più volte detto che, a differenza degli altri, come tutti i candidati della lista Stati Uniti d’Europa se eletto andrà a Strasburgo”.


Perché Vannacci ha tanto seguito? Facile: in Italia più le spari grosse e più hai successo


(Ricky Farina – ilfattoquotidiano.it) – Si parla tanto in questi giorni del benedetto generale Vannacci e delle sua affermazioni sulle classi separate per disabili, ovviamente il benedetto generale si è affrettato a dire che è stato frainteso dalla stampa, da buon generale “ha corretto il tiro”.

C’è già chi ha preso le distanze e chi ha cercato di difenderlo, io invece vorrei prendere le vicinanze e approfondire la visione del mondo (weltanschauung) del suddetto generale fraintendibile per natura. Il generale viene spesso equivocato, ergo è lecito affermare che Vannacci è un generale equivoco.

Come tutti sapete il generale si candida alle Europee grazie a quel genio di Salvini che vuole sfruttarne l’equivoca popolarità. Poniamoci la domanda vera: perché un troglodita come il Vannacci ha tanto successo? Prima però non vorrei essere frainteso, per il vocabolario il troglodita è un abitatore delle caverne, quindi non c’è nulla di male, non è un’offesa, le caverne possono essere anche platoniche, è quasi un complimento se ci pensate bene.

Dicevamo, perché il troglodita equivocabile Vannacci ha tanto successo? Ve lo spiego con un esempio: l’altro giorno stavo facendo la spesa in un supermercato, un anziano signore ha urtato una signora dai tratti orientali, la signora gli ha detto “Potrebbe anche chiedermi scusa” e il signore anziano ha così replicato â€œNon rompere i cogli*ni, tornatene al tuo Paese” e la signora dai tratti orientali gli ha risposto “Questo è il mio Paese”.

Ecco, abbiamo individuato l’elettore tipo dell’equivoco Vannacci, non è tanto la maleducazione dell’anziano a colpire ma quel “torna al tuo Paese”. C’è tutto il Vannacci pensiero in questo concetto. C’è il concetto di Patria, ma una patria asfittica, soffocante, somatica, non tanto una patria ma un ghetto, un filo spinato, un recinto, una patria proverbiale “moglie e buoi dei paesi tuoi”.

“Per la patria darei la mia vita e quella dei miei figli”, parole non equivocabili questa volta, parole dell’equivocabile inequivocabile Vannacci. “Signor generale” ora mi rivolgo direttamente all’equivoco generale, “non è necessario che lei dia la sua vita per la patria, ci accontentiamo di un grammo di intelligenza, se ne è provvisto”.

Che ci volete fare? Vannacci è un uomo di classe. In un mondo dove tutto è fluido, anche la sessualità, un uomo come Vannacci fa presa sui cervelli più statici e deboli, un uomo è un uomo e deve
fare l’uomo, una donna è una donna e deve fare la donna, basta con queste confusioni! Vannacci vuole mettere una divisa anche al sesso, e si sa: il fascino della divisa è forte! E un generale deve fare il generale, un Vannacci deve fare il Vannacci. In Italia più le spari grosse e più hai successo. Vi ricordate di Berlusconi? Ogni giorno ne tirava fuori una, ricordo la più bella di tutte: “Mussolini non ha mai ucciso nessuno”.

Perché fanno questo? La risposta è fin troppo semplice: l’importante è fare parlare di sé, sulla stampa, tra i tavolini di un bar, alle feste, nei circoli e così via. Lo sappiamo, l’italiano medio è reazionario, superficiale, ignorante, buoi dei paesi tuoi, l’italiano medio è mediocre ma senza nulla di aureo, l’italiano medio non ha il pollice opponibile ma il medio opponibile, l’italiano medio è talmente triste e vuoto che può rispecchiarsi nel volto di un Vannacci qualsiasi.

Non c’è solo questo ovviamente, dicendo scempiaggini e balordaggini di ogni tipo, non si fa solo parlare di sé, ci si macchiettizza, si diventa delle macchiette, dei personaggi da operetta, la violenza e la cecità di certe affermazioni (sarebbe meglio chiamarle negazioni) si perde in una sorta di atmosfera cabarettistica, si diventa in qualche modo “simpatici”, “comuni”, “popolari”, in sostanza: dei buffoni di corte.

Solo che non siamo alla corte degli Estensi, ma alla corte degli equivoci e della stupidità più bieca e insolente. Così Mussolini diventa uno statista e un pedofilo è solo un uomo che “ama i bambini” come l’etimologia ci suggerisce, ma se Girolimoni poi risultò innocente non si può dire la stessa cosa del nostro Vannacci: non ci troviamo davanti a uno sprovveduto come potrebbe sembrare a prima “svista”.

Vannacci e Salvini sanno benissimo a che elettorato si rivolgono e lo lusingano con ogni mezzo, senza vergogna, l’importante è fare colpo, centrare il bersaglio, se la prendono col fantomatico “pensiero unico” portando alla ribalta popolare il loro “unico pensiero”. E come mai questi esseri monocerebrali sono addirittura equivocabili? Perché fa parte del gioco delle parti, è tutto un teatrino, il famoso teatrino della politica, un varietà senza varietà dove al posto dei pomodori si lanciano voti.

E poi non dimentichiamocelo: c’è la guerra! Il mondo è in guerra e un generale fa sempre comodo, anche se si chiama Vannacci; vogliono mettere la divisa alle nostre effusioni sessuali, vogliono mettere la divisa ai nostri cervelli, vogliono uniformarci, vogliono metterci sull’attenti, e noi dobbiamo proprio stare attenti, molto attenti, perché il fascismo degli italiani non muore mai, purtroppo. Il fascismo è eterno, ma anche la Resistenza. Siamo uomini o caporali?


Conte e Schlein insieme a Portella della Ginestra. Studentessa al leader M5s: “Alleatevi per battere la destra”


(ilfattoquotidiano.it) – Il circo per il candidato della Basilicata, il caos sulle Comunali di Bari, sullo sfondo la delusione delle Regionali in Abruzzo. Ma il filo tra i due poli forti del Campo progressista – nonostante qualche strappo e qualche tensione – non si è spezzato evidentemente. L’asse sembra rafforzarsi sui temi del lavoro. Ieri Pd, M5s e Verdi-Sinistra si sono presentati alla Corte di Cassazione per presentare la proposta di legge sul salario minimo, misura avversata dalla presidente del Consiglio Giorgia Meloni. Oggi Elly Schlein e Giuseppe Conte sono insieme a Piana degli Albanesi, in provincia di Palermo, per la manifestazione della Cgil a Portella della Ginestra, pianoro teatro della strage di contadini e braccianti del Primo maggio del 1947. Sono arrivati in Sicilia con lo stesso aereo, anche se in file diverse.

Davanti alla Casa del popolo di Piana degli Albanesi, da dove è partito il corteo diretto a Portella della Ginestra, Conte è stato accolto da una studentessa di Giurisprudenza, iscritta al Pd, Chiara il suo nome, che ha invitato l’ex presidente del Consiglio a costituire una “alleanza per sconfiggere la destra“. Conte ha risposto che è sua intenzione portare avanti il progetto. (ANSA). “Ti ringrazio e ti garantisco che stiamo lavorando, io con la mia comunità politica, per garantire un progetto serio, forte, credibile, coeso e coerente per garantire una vera alternativa nel paese a queste forze di centrodestra” ha risposto Conte all’appello di Chiara che ha citato anche la frase del magistrato Rosario Livatino sulla necessità di avere testimoni “non credenti ma credibili“. “Dobbiamo lavorare per restituire credibilità alla politica â€“ ha chiosato Conte – per far tornare la gente a votare. C’è tantissimo astensionismo. Sono persone che non hanno più fiducia nelle istituzioni, nella politica”.

Il leader del M5s ha annunciato che firmerà il referendum della Cgil contro il jobs act. “Oggi è la festa del primo maggio – ha spiegato Conte – ma non dei lavoratori sotto pagati, dei lavoratori poveri, dei lavoratori precari. Dignità del lavoro significa avere un lavoro che dà soddisfazione, un lavoro che consenta anche di poter curare gli interessi personali, la vita familiare e affettiva, e consenta la giusta retribuzione. Un lavoro che non sia ‘nero’. E deve essere la festa anche di chi non ha in questo momento un lavoro e vorrebbe averlo”. Parole che vanno a braccetto con quelle della segretaria democratica Elly Schlein: “E’ una giornata di lotta contro il lavoro povero, contro il lavoro precario e anche per la sicurezza sul lavoro – dice – perché non è possibile in Italia continuare a morire di lavoro”. Una giornata di lotta, sottolinea ancora la leader del Pd, “al fianco di lavoratrici e lavoratori che vogliono migliorare le loro condizioni materiali che sono peggiorate in quest’anno a causa delle scelte fatte dal governo Meloni che esattamente un anno fa sceglieva di aumentare la precarietà in Italia. In barba a tantissime persone, giovani e donne, che hanno contratti di un mese, non sanno ce ce l’avranno il giorno dopo e quindi non possono costruirsi un futuro o una famiglia se lo vogliono fare”.


Concertone del 1° Maggio, la Rai e i timori di fuori programma al Concertone: “Niente monologhi”


Il ruolo di Giovanni Anversa, il dirigente candidato al consiglio

Il palco del concerto del 1 Maggio in costruzione al Circo Massimo. Nella foto il palco in costruzione che ospiterà il concerto del 1 maggio al Circo Massimo  - Roma, Italia - Venerdì 26 Aprile 2024 (foto Valentina Stefanelli / LaPresse)   The stage for the May 1st concert under construction at the Circus Maximus. In the photo the stage under construction that will host the concert on May 1st at the Circus Maximus - Rome, Italy - Friday 26 April 2024 (photo Valentina Stefanelli / LaPresse) - Roma, Il palco del concerto del 1 Maggio in costruzione al Circo Massimo - fotografo: Stefanelli/Lapresse

(di Antonella Baccaro – corriere.it) – Parola d’ordine: disinnescare. Sul Concertone del 1° Maggio, il primo nella cui fattura sia stata coinvolta, accanto ai tre sindacati confederali organizzatori Cgil, Cisl e Uil, la dirigenza Rai indicata dal centrodestra, la cautela è massima. Dopo il caso Scurati, sul quale l’istruttoria è ancora in corso, il timore che la diretta dell’evento sfugga di mano, è comprensibile.

L’incubo ricorrente è che si ripeta il caso Fedez del 2021, con le accuse di censura rivolte alla dirigenza Rai (allora, col governo Draghi, l’ad era Carlo Fuortes) e un clamore finito nel nulla, visto che la Rai non sporse querela, come aveva minacciato. L’anno scorso il fuori-programma lo offrì il fisico Carlo Rovelli, attaccando il ministro della Difesa Guido Crosetto nel suo monologo. Ambra, che presentava, ci mise una pezza, scusandosi per l’assenza di contraddittorio.

Quest’anno, in un’atmosfera già abbastanza incandescente, Massimo Bonelli, che organizza la kermesse da ben 11 anni, ha preferito tagliare la testa al toro: niente monologhi. Una scelta che, curiosamente, assomiglia molto a quella fatta da Amadeus a Sanremo. «La narrazione sarà fatta dai musicisti» ha detto.

Quanto alla scelta del cast, su Bonelli sono già ricadute alcune critiche che suonano più o meno così: «Più che il Primo Maggio sembra Sanremo». Con riferimento ai 70 artisti invitati, tra i quali in effetti ci sono molti reduci dal Festival. Del resto, Bonelli quello che vorrebbe fare più in là lo ha confessato candidamente. «Riformare Sanremo Giovani perché così non funziona». Una mezza candidatura a sostituire Amadeus…

Ma torniamo agli artisti sul palco: molti lanceranno proprio dal Circo Massimo i prossimi album e tour, come se fossero ospiti di un programma qualsiasi. Tra i nomi, spicca quello di Ultimo, il cantautore che riempie gli stadi ma che la sinistra non ama molto. In compenso, ci saranno Dargen D’Amico, già interrotto a Domenica In, per aver parlato di immigrati (protagonisti del suo pezzo sanremese) e Achille Lauro, le cui provocazioni non hanno mai imbarazzato davvero la tv di Stato. Tra le vecchie glorie ribelli, spiccano Piero Pelù, che nel 1993 infilò un profilattico sul microfono. E Morgan, il più imprevedibile, candidato alla conduzione di trasmissioni Rai che poi non gli vengono date.

Tra i cantanti impegnati sui diritti civili, Ermal Meta (conduttore insieme con Noemi), Uzi Lvke da Corviale, i dissacranti rapper Corveleno e Big Mama. Stefano Massini dovrebbe recitare il monologo sulle morti sul lavoro, già messo in scena a Sanremo, insieme con Paolo Jannacci. Ma sono in molti a pensare che potrebbe essere proprio lo scrittore, che si è molto speso sul caso Scurati, a introdurre il tema dell’antifascismo.

La possibilità che di questo si parli sul palco è stata oggetto di domande nella conferenza-stampa di presentazione del concerto, corredata dai timori di censura. E se Bonelli ha dribblato il quesito, sottolineando che il tema scelto dai sindacati è l’Europa, per la Rai ha risposto il vicedirettore del Prime-Time, Giovanni Anversa. «Non utilizzerei questa parola (censura, ndr) a proposito del palco del Primo Maggio (…) — ha detto —. Non appartiene alla Rai, alla tradizione di questi eventi musicali dove gli artisti si esprimono con la musica e la poesia».

Ad Anversa la dirigenza Rai sembra aver volutamente lasciato il «cerino» di questo Primo maggio: su di lui ricadranno eventuali errori. Ma già da ora, la sua distanza dalla filiera dei dirigenti di fede meloniana, mette a riparo i vertici da accuse di censura preventiva. Il vicedirettore, da parte sua, ostenta tranquillità: se il suo nome è spuntato, a sorpresa, tra le candidature al prossimo cda della Rai, oggi se la gioca tutta.

A viale Mazzini, intanto, assicurano che la diretta sarà tale, senza slittamenti temporali anche minimi, che sarebbero serviti a ritoccare eventuali interventi sopra le righe. Simona Sala, direttrice di Rai Radio 2, è definitiva: «Non abbiamo paura. Il rischio è libertà».


M’hanno rimasto solo, ‘sti 4 cornuti!


Salvini e Vannacci, la solitudine del leader leghista abbandonato dai big. Il capo leghista si presenta con la fidanzata Francesca Verdini. In sala il ministro Valditara e la cerchia dei fedelissimi

Salvini e Vannacci, la solitudine del leader leghista abbandonato dai big

(di Fabrizio Roncone – corriere.it) – In un pomeriggio romano caldo, dolcissimo, tra giapponesine con gli ombrellini e biondi americani gonfi di birra, finiamo dentro al Tempio di Adriano, in piazza di Pietra, per sentire e vedere da vicino questo famoso Vannacci, questo generale fan di Benito Mussolini — «Per me, resta uno statista» — questo capopopolo arrivato da un mondo brutale e oscuro, che a molti quando parla fa spavento e che a Matteo Salvini invece piace, da subito ne è rimasto politicamente sedotto e adesso spera sia il personaggio giusto per rosicchiare qualche voto a Giorgia Meloni. A destra, molto a destra. Proprio laggiù, dove tutto è nero. E la Lega non c’è mai stata.

Salvini ha candidato il generale alle Europee. E, tra poco, con la scusa di parlarci del suo libro («Controvento – L’Italia che non si arrende»), ce lo presenterà.

Intanto: bolgia, telecamere già accese, talk tv in diretta. Chi c’è, in platea? Stavolta, la domanda è poco fru fru. Perché l’idea di ritrovarsi il generale in lista ha scatenato un inferno nel Carroccio. Lo sguardo scorre allora tra le colonne e lì compare Andrea Crippa, il vicesegretario della Lega, un monzese di 37 anni considerato il più autorevole interprete del Salvini pensiero, pure lui come il capo tutto braccialetti e camicie attillate, però più secco, più tonico, il fisicaccio sotto un sorriso alla Jim Carrey, che ha fatto innamorare Anna Falchi (lui, sobrio e riservato, dette l’annuncio a Radio Libertà, diretta da Giovanni Sallusti, che oggi modera). Poi ecco pure Laura Ravetto e, dietro, l’attore Antonio Zequila detto «er mutanda» («Sono un grande amico di Matteo», già). Il senatore Claudio Borghi, opportunamente, resta in piedi. Dicono sia arrivato anche Claudio Durigon, sottosegretario al Lavoro, ras delle — poche — tessere leghiste dell’Agro Pontino, perché nato a Latina, dove avrebbe voluto eliminare la dedica di un parco pubblico a Falcone e Borsellino, per ripristinare la vecchia: ad Arnaldo Mussolini, fratello del Duce. Diciamo che il lugubre capoccione, in qualche modo, aleggia: il tipo che, con aria fosca, appare dietro al banchetto dei libri (non sembra vadano esattamente a ruba) è Mauro Antonini, ex capo di Casapound del Lazio.

Di botto, parapiglia. Sono arrivati Salvini e Vannacci? No: c’è Antonio Angelucci, il deputato più ricco di Montecitorio che, però, è anche quello che lavora meno, il più assenteista. Ex portantino dell’ospedale Forlanini, oggi possiede un piccolo impero: dal gruppo Tosinvest, enorme polo della sanità privata, a tre quotidiani (Il Giornale, Libero, Il Tempo), cui dicono stia per aggiungere anche l’agenzia di stampa Agi, la seconda del Paese. Indossa un abito gessato con, sotto, una maglietta nera (anche questo colore, diciamo così, torna abbastanza). La gente si inchina, uno gli cede la sedia, un altro cerca di baciargli la mano. Spunta il ministro dell’Istruzione, Giuseppe Valditara. Francesco Storace trova posto dall’altra parte, proprio mentre parte l’applauso.

Eccoli: Salvini avanti e il generale dietro. Il generale, un sorriso largo con tanti denti, è in abito blu, e blu è pure la cravatta (elegantissimo, altroché la vestaglietta con cui si fece fotografare dopo quel tuffo nel mare di Viareggio, che scatenò il web e divenne icona dei siti gay-friendly). Salvini presenta a Vannacci la sua fidanzata — Francesca Verdini indossa vezzosi occhiali da sole e una minigonna di pelle rossa (dopo tanto nero, un lampo di allegria) — e poi insieme salgono sul piccolo palco.

Il capo leghista cerca di fare lo spiritoso al momento della photo-opportunity — «Siamo una coppia luciferina per la sinistra» — ma si vede che è teso, nervoso. Nemmeno mezzo sguardo, sulla platea. Sa già tutto, gliel’hanno appena detto: Matteo, ci sono solo i nostri. I fedelissimi. Mancano i due capigruppo di Camera e Senato: Riccardo Molinari e Massimiliano Romeo. Non c’è l’ex ministro Gian Marco Centinaio («Matteo, su Vannacci, ripensaci»). Non c’è il ministro Giancarlo Giorgetti (al suo «Il generale non è della Lega», Vannacci ha già risposto sprezzante: «Non mi interessa cosa pensa Giorgetti»). Dei governatori Luca Zaia e Massimiliano Fedriga, nemmeno a parlarne: la loro ostilità nei confronti del generale è nota da settimane.

La presentazione del libro comincia con Salvini che appare solo. Plasticamente solo. Una solitudine politica, e umana. Secondo l’opinione di numerosi osservatori, l’assenza dell’intero establishment leghista gli spedisce, più o meno, questo messaggio: il generale l’hai voluto tu, e adesso ti assumi tutta la responsabilità di una scelta tanto estrema. La faccenda, messa così, rischia di portare a due possibili, complessi scenari: se l’operazione che ha architettato non dovesse assicurare quei due, tre punti necessari per evitare il sorpasso di Forza Italia (nei sondaggi, per ora, dato quasi per certo), la colpa della sconfitta resterebbe comunque tutta di Salvini. Se, al contrario, dovesse essere la presenza del generale a garantire un colpo di coda, è chiaro che Vannacci assumerebbe una forza inedita, capace di spostare il Carroccio in acque nerastre.

Su questo, si ragiona.

I due, sul palco, cincischiano.

I cronisti aspettano che la presentazione finisca, per chiedere al generale cosa pensi davvero dei disabili. E se gli danno così fastidio. E se, sul serio, non si senta un bel po’ fascio.


Gianfranco Fini e la casa di Montecarlo: “È stata una sentenza illogica, ferito da chi mi conosceva. Lasciai la politica, lo rifarei”


L’ex presidente della Camera: io assolto da tutti i reati legati alla vendita

Fini:

(di Paola Di Caro – corriere.it) – Si può parlare per ore con Gianfranco Fini, ma non dirà mai quello che ha deciso di non dire. E quindi, poco dopo la sua condanna a due anni e 8 mesi per aver autorizzato la vendita di «quella maledetta casa a Montecarlo», non c’è un’accusa ai giudici: «No, non è stata una sentenza politica. È stato un processo politico, questo sì. Perché io ero il leader di un partito, ho avuto alti incarichi, e per la cornice politica in cui quei fatti si svolsero e proseguirono».

 Che differenza c’è?
«Non c’è stato accanimento. Sono stato assolto per tutti i casi di accusa che implicavano il reato di riciclaggio».

 Quindi cosa pensa di questa condanna?
«È stato un processo paradossale con una sentenza illogica. Paradossale perché è durato 10 anni tra il primo avviso di garanzia e questa sentenza, e nel frattempo dal giudizio è uscito per prescrizione l’imprenditore Corallo, che diede a Giancarlo Tulliani i soldi per comprare l’appartamento. E ne è uscito il suo factotum, Laboccetta, che non ha ripetuto in aula le sue dichiarazioni contro di me».

Lei è stato condannato perché autorizzò la vendita. Perché è una sentenza «illogica»?
«Perché sono stato assolto da tutti i reati collegati agli effetti di quella vendita. Per tutti i fatti che la procura mi addebitava, è stato deciso che o non costituissero reato, o non li avevo commessi. Quindi quale sarebbe la mia colpa? Non aver previsto nel 2008 quello che sarebbe poi successo nel 2015?».
 
I giudici avranno pensato che, trattandosi della sua compagna, di suo cognato e di suo suocero, lei sapesse?
«Ma io non sapevo. Non esiste una prova, una dichiarazione, un fatto che testimoni l’opposto. Se ci fosse stata, la condanna doveva essere per tutti i capi di imputazione. Ma non c’è nulla. C’è anche la dichiarazione di Elisabetta Tulliani che lo attesta, oltre a quello dello stesso fratello Giancarlo, pur latitante. Attendo le motivazioni. E naturalmente conto che in appello arrivi quell’assoluzione piena che già c’era stata quando in un primo procedimento sugli stessi fatti venni prosciolto».
 
Come avete vissuto in famiglia questi anni?
«È stato doloroso. Al processo e in privato, quando Elisabetta mi ha detto: “Se continuo a difendere mio fratello finisco per danneggiare te. E non lo farò”».
 
Lei avrebbe potuto rompere i rapporti con la sua compagna, «salvarsi». Non l’ha mai fatto.
«Io sono convinto che anche lei sia stata vittima del comportamento del fratello. Sono fratelli, è difficile entrare nelle dinamiche così strette. Lei ha sofferto per quello che ha fatto Giancarlo, e ha sofferto per me. In un rapporto, anche se provi dolore, prevale quello che percepisci. E io so che lei è stata sincera quando mi ha parlato. Poi, tutti possono sbagliare».

Teme l’arresto per i suoi familiari?
«Ma no. Essendo venuta meno l’ipotesi di riciclaggio transnazionale, questo processo può andare in prescrizione in uno o due anni».

Lei ha smesso di fare politica attiva negli ultimi anni: a causa del processo?
«Sì e no. Ho sempre pensato che la compagna di Cesare dovesse essere al di sopra di ogni sospetto. Mi dava intima sofferenza chi magari mi accusava conoscendomi — Storace lo fece, ora siamo tornati amici — e chi ha cavalcato la tigre della delegittimazione, e lo hanno fatto soprattutto in ambienti di destra. Poi io ho votato convintamente Meloni, e convintamente ho deciso di lasciare la politica attiva».
 
Avrebbe detto lo stesso oggi se fosse stato assolto?
«Sì, avrei continuato a fare quello che facevo prima, conferenze, dare consigli non richiesti… Ritengo che ci siano stagioni nella vita, anche nella politica. Oggi tocca ai giovani portare avanti il Paese».
 
Non tutti alla sua età lo pensano.
«E allora vorrà dire che ho il pregio dell’eccezione…».

Chi le è rimasto amico, chi l’ha chiamata?
«Tantissimi mi sono stati vicini, il mio telefono non smette di squillare. Militanti, amici, persone di destra e no. Non dico i nomi, non dico i buoni e i cattivi».
 
Il suo grande avversario, a tratti nemico, fu Berlusconi, i cui giornali cavalcarono lo scandalo della casa. Vi siete mai chiariti?
«No, non ci siamo più né visti né sentiti. Ma quando è morto, ho scritto quello che pensavo, al di là dei rapporti personali: era un uomo di grande umanità. Le nostre madri si spensero nello stesso periodo: mi fu molto vicino».
 
Come esce Gianfranco Fini da questa giornata?
«Cito le parole del mio avvocato Sarno, che con Grimaldi ringrazio molto: “A un cliente qualsiasi avrei detto abbiamo stravinto, ma siccome sei Fini sono furioso, perché ne va di mezzo la tua onorabilità”. Ma io sono certo che arriverà presto il momento della verità».


Massimo Cacciari: “Voto Pd per inerzia ma Schlein fa fatica. Chiedere a Meloni l’abiura del fascismo è roba da confessori”


L’intervista al politico e filosofo, già sindaco di Venezia

Massimo Cacciari: «Voto Pd per inerzia ma Schlein fa fatica. Chiedere a Meloni l’abiura del fascismo è roba da confessori»

(di Alessandra Arachi – corriere.it) – Massimo Cacciari, come vede il Pd in questa competizione per le elezioni europee?

«Penso che non andrà male, non dovrebbe arretrare. Tre quarti del voto del Pd è come il mio, di inerzia: ho sempre votato da quella parte, cosa dovevo fare? È un voto di assuefazione che costituisce lo zoccolo duro del partito».

Chi sono quelli che come lei votano per inerzia?

«Una certa borghesia, un ceto medio relativamente tranquillo che non voterebbe mai a destra né il partito di Berlusconi. Ha cercato di votare Renzi, delusioni tremende. Poi Calenda che non è credibile. Voterà Schlein, donna, giovane, è giusto anche sperare che riesca a fare qualcosa».

Pensa che riuscirà a fare qualcosa?

«Ha capito che deve tentare ma non è credibile, non ha il physique du role. Ma almeno ha capito che si deve occupare di temi sociali perché il Pd è un partito di massa e non può essere un partito radicale né tantomeno radical chic».

La segretaria dem ha messo davanti i temi sociali.

«Ma riprende quei temi in maniera puramente retorica».

Cosa intende?

«Cita quei temi senza minimamente dire: come, quando, dove trovare le risorse. Sulle politiche internazionali nemmeno a parlarne».

Perché?

«Schlein è sdraiata di fatto sulle stesse posizioni che sta perseguendo Meloni. Del resto cosa le si può chiedere? Non ha un partito, non una classe dirigente, un gruppo dirigente. È attorniata da persone che non aspettano altro che farle la pelle. Cosa può fare povera fanciulla?».

Ha detto che la richiesta della sinistra alla destra di abiura del fascismo è una foglia di fico…

«Sì, ma prima ho detto che l’antifascismo è il fondamento della Costituzione. Quindi essere antifascisti oggi significa marciare sulla via che la Costituzione indica».

Ma ha contestato chi continua a chiedere a Giorgia Meloni di dirsi antifascista.

«Questa richiesta di pentimenti, di conversione è odiosa. Ma cosa siamo, confessori? Beatrice con Dante alle soglie del paradiso?».

C’è un rincorsa al partito del leader di berlusconiana memoria.

«Una vera sciagura. Continuiamo questa sub cultura totalmente populista e di destra. Il partito si riduce al leader, persiste l’idea che si può essere una democrazia senza partiti, la sciagurata idea che ha coinvolto tutti dopo Tangentopoli. Si è data la colpa ai partiti, non a quello che avevano combinato alcuni gruppi dirigenti».

Da diversi mesi si sta parlando del duello tv tra Giorgia Meloni e Elly Schlein. Cosa ne pensa?

«Ma duello di cosa? Non certo nel merito. Non ci sarà un vero confronto ma un confronto puramente elettorale e propagandistico».

Chi prevarrà?

«Penso ci sarà un pareggio. Né Meloni né Schlein dovrebbero perdere rispetto alla situazione attuale. L’obiettivo della Meloni non è aumentare o mantenere i voti in Italia».

Qual è quindi l’obiettivo?

«Diventare decisiva in Europa, dove i popolari, il centro, anche per ragioni di numero, finiranno per allearsi con le destre. E allora la Meloni diventerebbe il vero leader europeo. La sfida tra le due è questa, non è quella dei voti in Italia che rimarranno più o meno quelli».

In Italia si sta alzando l’onda della protesta degli studenti. Usano linguaggi forti.

«Usano linguaggi sbagliati, purtroppo. Dovrebbero essere per il cessate il fuoco e per riaprire un cammino di intesa tra Stato di Israele e Palestina. Sarebbe essenziale per un grande movimento europeo. Ma è chiaro che questo movimento non può essere dalla parte di Hamas. Bisogna operare distinzioni che al momento il movimento degli studenti fa fatica a fare».

La protesta è tutta contro Israele.

«È vero ed è sbagliato, come ho appena detto. Dopodiché la comunità ebraica è restìa a fare un discorso netto: lo Stato di Israele non si tocca ma la politica di Netanyahu va mandata e casa. Voltiamo pagina al più presto perché stiamo vivendo una guerra mondiale a pezzi e prima o poi questi pezzi si uniranno. Siamo esattamente nella situazione in cui eravamo tra il 1910 e il 1914: Sarajevo è dietro ogni angolo».


“Un indecente”, “è sessista”: così la destra parlava di Sgarbi


EPITETI, QUANDO ERA SGRADITO – I colleghi. Da La Russa a Sangiuliano: anche i compagni di partito non l’hanno mai amato

(DI LORENZO GIARELLI – ilfattoquotidiano.it) – Vittorio Sgarbi l’impresentabile, quello che supera “il limite della decenza”, Vittorio Sgarbi il “sessista”. Che fine ha fatto? Chi lo sa. Ogni volta con Sgarbi si riparte da zero: la destra lo candida o lo nomina a qualcosa, poi scopre all’improvviso di aver premiato un soggetto capace di gettare nell’imbarazzo governi e partiti e dunque lo caccia, con tanto di indignazione. Passa qualche mese e però tutto è dimenticato, si torna al punto uno.

Succede anche stavolta, con la candidatura del critico d’arte alle Europee con FdI. Strano, perché appena qualche mese fa era stato proprio il partito di Giorgia Meloni a prendere più volte le distanze da Sgarbi (fino alle dimissioni da sottosegretario), sommerso dalle polemiche non solo per le inchieste del Fatto, ma pure per le sue follie a Report (voleva abbassarsi la patta dei pantaloni in video e augurò la morte a un giornalista) e le altre sparate in libertà.

Forse giova allora rinfrescarsi la memoria. Tra i più severi con Sgarbi c’era il ministro della Cultura Gennaro Sangiuliano, che più volte lo ha scaricato. Un anno fa, l’ex sottosegretario viene invitato a una serata al museo Maxxi e straparla di sesso, lasciandosi andare a volgarità in serie. Sangiuliano (peraltro memore di quando, alla Camera, Sgarbi riempì di insulti sessisti Mara Carfagna) lo attacca: “Sono da sempre lontano dalle manifestazioni sessiste e dal turpiloquio. Le istituzioni culturali devono essere plurali, ma lontane da ogni forma di volgarità e chi le rappresenta deve mantenere un rigore più alto degli altri”.

Quando il Fatto rivela alcuni affari privati che Sgarbi svolge – illecitamente secondo l’Agcm – mentre è al governo, Sangiuliano si confida col nostro giornale: “Sono indignato. Non l’ho voluto io e anzi, cerco di tenerlo a debita distanza e di rimediare ai guai che fa in giro”. Poi Sgarbi pensa bene di prendersela con Ignazio La Russa, paragonato ad Amadeus per aver portato in Senato Gianni Morandi per celebrare i 75 anni del Senato: “è stato inquietante”, chiosa Sgarbi. Da FdI gli risponde, furioso, mezzo partito: “Ha perso un’occasione per stare zitto e ha passato il limite della decenza” (Antonella Zedda); “È in cerca di visibilità” (Salvo Sallemi). Col medesimo La Russa le cose non erano andate meglio sul tema abbattimento di San Siro, su cui a un certo punto il presidente del Senato lo liquida: “Nessuno nel governo ha mai sostenuto che ci sia la possibilità di apporre il vincolo all’abbattimento di San Siro. Sgarbi non ha una delega per farlo. Sgarbi è Sgarbi, lo conosciamo tutti”.

Sgarbi viene persino spernacchiato quando Miss Italia decide di escluderlo dalla giuria. Il deputato Fabio Petrella lo tratta come un concorrente di un talent show: “Per lui Miss Italia finisce qui”. E che dire di quando – eravamo nella scorsa legislatura – il meloniano Federico Mollicone sfiorò la rissa con uno Sgarbi particolarmente su di giri che, in commissione, gli contestava alcune innocue considerazioni su Leonardo da Vinci: “Capra! Non capisci un cazzo! Picchiatore fascista”. E Mollicone: “Prenditi un sedativo, sei patetico!”. Seduta sospesa con tanto di onorevoli impegnati a separare i due litiganti.

Ma a essere stufi di Sgarbi non erano mica solo gli esponenti di FdI. Anche gli alleati hanno dovuto più volte smarcarsi dalle peggiori uscite del critico. Dopo la sfuriata contro Report, la vice-capogruppo di FI alla Camera Rita dalla Chiesa parlava così al Fatto: “La scenata di Sgarbi non è compatibile con il suo ruolo, non è compatibile con nessuna carica, non è compatibile con l’educazione familiare. Non c’è spazio per cadute di stile come questa”. Persino un bonario Maurizio Gasparri, capogruppo in Senato, pur definendosi “amico personale” di Sgarbi, non poteva non ammettere che la soluzione migliore fosse tenerlo lontano dalla politica: “Io gliel’ho detto tante volte: fai il critico d’arte. Invece lui vuol fare il sindaco, l’assessore, tutte queste cose che gli portano guai. Non mi ascolta”. Tutti lo conoscono, eppure in qualche modo se lo ripigliano. E lui ringrazia pensando già al prossimo stipendio.


Angelucci prende l’Agi e si fa una bella risata


VANNACCI – Salvini: “Più a destra di così non si può…”

(DI TOMMASO RODANO – ilfattoquotidiano.it) – Antonio Angelucci sorride dietro gli occhiali da sole. È in prima fila all’evento con Matteo Salvini e Roberto Vannacci, capitano e generale della Lega alle elezioni europee. Recordman di assenze in Parlamento, raramente il deputato leghista Angelucci si fa vedere in pubblico e ancora più raramente parla dei suoi affari da editore.

Questa volta fa eccezione a metà: si vede, cioè, ma non parla. Però sorride. Al Fatto Quotidiano risulta che la trattativa per acquistare l’Agi, agenzia di stampa di proprietà di Eni, sia ormai definita, l’accordo è stato trovato, la vendita sarà annunciata e formalizzata in estate, tra luglio e agosto, per non “disturbare” la campagna elettorale di Giorgia Meloni e dei suoi alleati. A questa domanda, Angelucci risponde con una risata sorniona e apre le braccia: “Se lo dice lei…”. Insistiamo: l’annuncio arriverà dopo le Europee? Altro sorriso: “Chi vivrà, vedrà”. È vero che Agi costerà solo 7 milioni di euro? Angelucci si passa un dito sulla bocca, come a cucirsi le labbra. La postura e l’allegria valgono più di una dichiarazione.

All’evento congiunto Salvini-Vannacci, l’imprenditore Angelucci (già titolare dell’oligopolio della stampa di destra, con il GiornaleLibero e Il Tempo) è uno dei pochi leghisti presenti: ci sono solo Andrea Crippa, Claudio Borghi, Claudio Durigon, il ministro Giuseppe Valditara, Laura Ravetto, Giulio Centemero, Antonio Maria Rinaldi e altre figure minori

I giornalisti accreditati invece sono più di cento: quello di Vannacci – almeno fino alla prova delle urne – si conferma un successo di carta, favorito dalla stessa stampa che l’ha reso famoso tentando di ridicolizzarlo. Di questo incontro si ricorderà soprattutto la battuta dei due leghisti mentre si girano e posano per i fotografi: “Più a destra di così non si può”.


Quello stupro di massa dimenticato


(di Marcello Veneziani) – Se cercate la madre di tutte le violenze alle donne, gli stupri e i cosiddetti femminicidi, dovete risalire a 80 anni fa nel centro-sud d’Italia. È il capitolo amaro e atroce delle cosiddette marocchinate. I singoli episodi di violenza e di abusi che si leggono quotidianamente e che suscitano ribrezzo e preoccupazione, impallidiscono di fronte a una vera e propria mattanza di corpi femminili, ragazze, minorenni o sposate, che avvenne nella primavera di ottant’anni fa, in Italia, in un’area che va dalla Toscana alla Campania e alla Sicilia, con particolare accanimento nel basso Lazio. Non fu opera di sciagurati maniaci sessuali, ma fu quasi pianificato e autorizzato come bottino di guerra, ed ebbe come protagonisti soldati in divisa di eserciti di liberatori, come i francesi. 

Esorto le femministe di lotta e di denuncia, le compagne di piazza e di corteo, le parlamentari progressiste e radicali, le combattenti antifasciste, antisessiste e le attrici impegnate, ad aprire e approfondire quella pagina di storia che risale alla primavera del 1944.  E vi suggerisco un insolito punto di partenza. Andate a scoprire chi era Maria Maddalena Rossi. Per aiutarvi nella ricerca vi dirò che aderì al Partito comunista quand’era ancora clandestino, fu arrestata dalla polizia fascista, mandata al confino, espatriata. Poi fu eletta nell’assemblea Costituente nel gruppo comunista, fece battaglie per la parità dei diritti delle donne; fu parlamentare del PCI, sindaco, presidente dell’Unione Donne Italiane. Morì novantenne nel ’95. Insomma ha i titoli a posto per essere celebrata dalle femministe progressiste.

Perché proprio lei? Perché nel ’52 aprì in un’interrogazione parlamentare quel capitolo scabroso e rimosso della seconda guerra mondiale nelle vulgate storiografiche sulla liberazione: le marocchinate, ovvero le migliaia di donne italiane stuprate, violentate dalle truppe marocchine venute a “liberare” l’Italia con gli alleati. In Ciociaria, in particolare, fu uno scempio, di cui restò traccia molti anni dopo nel film La ciociara di Vittorio De Sica con Sophia Loren, tratto da un romanzo di Alberto Moravia. Donne stuprate e messe incinta, bambini violentati, più di mille uomini uccisi per aver cercato di difendere le loro donne, madri, mogli, sorelle, fidanzate, figlie.

Nel dibattito parlamentare che seguì all’interrogazione della Rossi, venne fuori che il numero più attendibile era di 25mila vittime, ma se si considera che il campo d’azione dei magrebini si estendeva a mezzo centro-sud, il numero di 50-60mila marocchinate indicato da alcune ricerche è plausibile. Il pudore nel raccontare queste storie ne ha ridotto la portata e coperto con un velo protettivo di omertà le reali dimensioni della tragedia. Si voleva tutelare col silenzio l’onorabilità delle loro donne, e non sottoporle anche a una gogna. La responsabilità, oltre che dei soldati marocchini, fu dei vertici dell’esercito francese che dettero loro sostanziale impunità e carta bianca, come un tribale diritto di preda. Non furono i soli, intendiamoci, nella barbarie di quel tempo. Ma un fenomeno così vasto e quasi pianificato, su donne inermi che non avevano colpe è raccapricciante per la ferocia animalesca.

Una pagina rimasta impunita e rimossa.

Migliaia di storie strazianti e interi paesi violentati, quando il sud era “liberato”. Per chi voglia approfondire, rimando ai libri sulle marocchinate di Emiliano Ciotti, Stefania Catallo e di una francese d’origine italiana, Eliane Patriarca. Un corposo e documentato dossier uscì sulla rivista ‘Storia in rete’ di Fabio Andriola.

Ma è da sottolineare che una donna comunista, leader delle donne in lotta, antifascista col fascismo imperante – non come i grotteschi militanti postumi dell’Anpi d’oggi – ebbe il coraggio e l’amor di verità di denunciare questo obbrobrio, che per ragioni di antirazzismo e antifascismo ora si preferisce mettere a tacere. Le stesse ragioni che portano a non scendere in piazza se una ragazza oggi è stuprata e uccisa da migranti. O a dimenticare quelle donne violentate, rasate a zero e uccise solo perché ausiliarie della Repubblica sociale; o stuprate in Istria. La stessa omertà che accompagna il vergognoso racket di uteri in affitto, dove la dignità della donna è venduta al capriccio danaroso di benestanti, spesso coppie omosex. Il Pci sessista di quegli anni aveva donne più rappresentative nei suoi ranghi, che provenivano dalla lotta politica, dalla piazza, dalla militanza di base e anche dalla guerra civile. 

Probabilmente la Rossi dovette vedersela anche allora con le reticenze dei suoi compagni, lo strisciante maschilismo del vecchio Pci e l’omertà sulle pagine nere dei “liberatori”. Anche perché quelle pagine infami ne avrebbero richiamato delle altre, per esempio gli eccidi nel Triangolo rosso.

Suggeriamo alle femministe perennemente mobilitate in campagne contro i maschi e i loro soprusi, di ricordarsi di una femminista, comunista e antifascista che non si tirò indietro a raccontare le scomode verità e le pagine nere della Liberazione. Sarebbe il caso che il presidente della repubblica, che non si lascia sfuggire mezzo anniversario di quel che accadde nella storia della seconda guerra mondiale e della resistenza, si ricordasse anche di questo evento corale, che mortificò la dignità femminile e stuprò i loro corpi, la loro verginità, la loro maternità. Gli orrori della guerra vanno raccontati e ricordati per intero, senza amnesie (come ad esempio il silenzio sugli ottant’anni dello scempio dell’abbazia di Montecassino, bombardata dagli Alleati). Per aiutarlo a ricordare e a ripararsi dietro un’immagine inattaccabile, si ricordi almeno della compagna partigiana comunista Maria Rosaria Rossi, del film di Vittorio de Sica e del libro dello scrittore filocomunista Alberto Moravia. Tre alibi per poter raccontare in modo inattaccabile, compiacendo l’antifascismo dominante, una storia dolorosa di cui furono vittime così tante donne italiane.