Dal sottosegretario leghista al suo leader e ministro fino alla presidente del Consiglio e all’ex premier. Senza dimenticare la moglie di La Russa e il compagno di Santanchè. Chi va al governo investe nel mattone puntando a dimore da mille e una notte. Tra sconti, prestiti da amici e conflitti di interessi

(Nello Trocchia – editorialedomani.it) – Sulla politica estera e sul fisco sono talvolta in disaccordo, ma sugli affari immobiliari viaggiano all’unisono. Entrambi contrari alla revisione del catasto e ora entrambi proprietari di ville, classificate come villini. Così hanno pagato meno tasse all’atto dell’acquisto. Ma non per responsabilità loro, sia chiaro. Il risparmio fiscale dipende dalle classificazioni decise da tecnici, professionisti e da censimenti desueti. Un fatto è certo: ora la presidente del Consiglio, Giorgia Meloni, e il vicepremier, ministro delle Infrastrutture, Matteo Salvini, hanno in comune l’acquisto di una bella casa di un certo livello. Mentre le italiane e gli italiani aspettano il piano per l’edilizia residenziale, i rappresentanti del governo hanno investito nel mattone di lusso.
Così ha fatto la prima ministra, così il numero due dell’esecutivo. Ma ancora prima (tra il governo Draghi e Meloni) anche il potente sottosegretario leghista Claudio Durigon ha concluso un ottimo colpo, così come la moglie di Ignazio La Russa, con il compagno dell’amica ministra, Daniela Santanchè.
L’aria di governo arricchisce anche il portafoglio immobiliare. Sconti, affari e interessi che questo giornale ha rivelato e che, a tre anni dall’insediamento del governo, compongono una mappa di potere e mattone.
Salvini e la compagna Verdini hanno fatto un affare. Hanno trovato – ha spiegato lo staff del ministro – l’annuncio su un sito e comprato alla cifra fissata dai venditori: 1,35 milioni di euro per quasi 700 metri quadrati. La villa si compone di un seminterrato abitabile, un piano terra, un primo e secondo piano, in tutto 28 vani. Lì Francesca Verdini, figlia dell’ex senatore pluricondannato Denis, ha spostato anche la sede legale della sua creatura societaria, Casa Rossa srl. Nell’atto di acquisto, firmato dal notaio Alfredo Maria Becchetti (leghista doc), viene indicata la classificazione dell’immobile: A7. Formalmente non si tratta quindi di una villa, e così la normativa prevede un risparmio. Vantaggi inaccessibili per chi abita un immobile di tipo A/8. Ma questo è dovuto alla classificazione che prescinde dalla volontà dei compratori. Certamente una revisione del catasto porterebbe a una redistribuzione delle risorse e dei carichi fiscali, revisione alla quale sia Salvini che Meloni si oppongono.
Anche la presidente del Consiglio ha comprato casa pagandola 1 milione e 250mila euro. Meloni, però, si ferma a 433 metri quadri totali, 18 vani, una scala interna, una piscina (che il vicepremier non ha) e tre corti di pertinenza esclusiva, di cui una al piano terra e due al piano seminterrato. Anche la zona è diversa.
La presidente del Consiglio ha comprato a pochi passi dal quartiere Spinaceto, nella zona residenziale di Mostacciano. Non proprio esclusiva e rinomata come quella scelta dal leghista: zona Camilluccia, Roma nord.
Prima di lui era arrivato in quel quadrante di lusso e riservatezza un altro leghista, il potente sottosegretario, Claudio Durigon. Già uomo di governo nel governo Conte I e in quello del premier Mario Draghi, poi dimissionario. Niente villa per lui, ma un appartamento principesco. Immobile comprato a un prezzo scontatissimo all’interno di un complesso residenziale di proprietà dell’Enpaia, ente previdenziale del settore agricolo. L’atto d’acquisto è del 23 giugno 2022. Durigon e la moglie Alessia Botta hanno acquistato per appena 469mila euro un appartamento di otto vani, di 170 metri quadri catastali complessivi, con terrazzo angolare e balcone. Compreso nel prezzo anche un box auto: solo quest’ultimo, a prezzi attuali di mercato, vale oltre 50mila euro.
Nell’atto di vendita si leggeva: «Il prezzo di vendita è stato determinato con le riduzioni di sconto previste nelle linee guida rispetto al valore determinato», dalle stime di una società terza, la Arc Re, che ha fatto la valutazione del patrimonio che Enpaia ha messo sul mercato. Durigon conosceva benissimo quell’immobile perché dal novembre 2017 ne era affittuario. All’epoca il politico era vicesegretario del sindacato di destra Ugl e si avvicinava alla Lega. Sconti, lavori e affari che proprio Domani aveva svelato, così come il colpo grosso messo a segno dai coniugi di La Russa e Santanchè, coppia indivisibile.
Si è trattato di un acquisto mordi e fuggi: la villa, in zona Forte dei Marmi, è una residenza di lusso immersa nel verde del Parco della Versiliana, 350 metri quadrati su tre livelli, con giardino e piscina.
La consorte del presidente del Senato, Laura Di Cicco, e il compagno della ministra, Dimitri Kunz, hanno comprato e hanno rivenduto in meno di un’ora guadagnando un milione di euro. L’affare si è chiuso il 12 gennaio 2023. Il compratore è l’imprenditore Antonio Rapisarda, che acquistava a 3,45 milioni. Kunz e Di Cicco avevano comprato quello stesso immobile per 2,45 milioni. E lo avevano fatto solo 58 minuti prima di cedere quello stesso immobile a Rapisarda. Un fiuto per gli affari da Guinness dei primati. Sull’operazione la procura di Milano aveva aperto un fascicolo, non sono mai stati iscritti i politici e i loro familiari, ma ora i pm hanno chiesto l’archiviazione. Sempre in Toscana l’ex primo ministro Matteo Renzi aveva comprato la sua magione, da 1,3 milioni di euro, grazie a un prestito da 700mila euro ricevuto dalla madre di un imprenditore già finanziatore della fondazione Open, soldi poi tutti restituiti. Tutto regolare, ovviamente. Il piano casa per chi va al governo è sempre pronto.
Il destino di questi giganti è irreversibile, ormai anche il Perito Moreno si ritira. Così perdiamo un’ispirazione interiore e la capacità di resistere alla crisi climatica

(Mario Tozzi – lastampa.it) – El Calafate (Patagonia), novembre 2025. Una comoda passerella di metallo permette da qualche anno di arrivare proprio in faccia al fronte glaciale del Perito Moreno, uno dei ghiacciai più famosi del mondo, non solo per le sue cospicue dimensioni, ma soprattutto perché negli ultimi secoli era rimasto più o meno stabile o, addirittura, risultava in avanzamento. In un contesto naturale che vede i ghiacciai di tutto il mondo arretrare sotto i colpi della crisi climatica, il Perito Moreno, figlio dello Hielo Patagonico Sur, con i suoi 260 chilometri quadrati e i 30 km di lunghezza era un’eccezione, che gli valeva il ruolo di testimone per i negazionisti del riscaldamento globale: ma quale arretramento, non lo vedete che, invece, il Perito Moreno avanza?
La passeggiata davanti al ghiacciaio avviene in una cornice particolare: puoi scorgere prima il fronte attraverso le bacche rosse del bosco antistante e accoglierne infine l’ampiezza, quasi frontalmente, alla fine del percorso. A causa della densità e della composizione, il ghiaccio assume tinte blu-azzurre intense e le mantiene anche nei frammenti che vanno alla deriva sul lago Argentino. Ogni tanto forti schiocchi e colpi veri e propri raccontano meglio di molte immagini come il ghiacciaio si stia muovendo. Ai colpi può seguire l’apertura di fratture e il distacco di piccoli iceberg che si allontaneranno progressivamente. Così che, a distanza di qualche chilometro, sarà il contrasto fra l’azzurro del ghiaccio, il colore lattescente delle acque di fusione ricche di particelle minerali e il verde della prateria l’attrazione cromatica ineludibile di un territorio sconfinato.
Mi fermo a osservare il fronte: una sessantina di metri di spessore che finiscono in una cuspide che divide in due bracci lo specchio d’acqua antistante. Improvvisamente un altro colpo sordo e l’affondamento di un pezzo di ghiaccio fra spruzzi e polvere, poi il riemergere di un parallelepipedo ialino che dondola, si assesta e poi si arrende al distacco.
Francisco Pascasio Moreno, nominato Perito perché esperto in questioni territoriali, era stato chiamato a dirimere problematiche di confine con il Cile nel 1896. Insieme all’omologo «perito» cileno (Diego Barros Arana) doveva decidere l’esatto andamento del confine nazionale sulla Cordigliera andina lungo la linea degli spartiacque più alti. Esistevano già studi corposi a riguardo, ma Moreno decise di battere palmo a palmo il territorio per verificare la soluzione più giusta.
La sua metodologia ebbe successo soprattutto per gli argentini e venne così salutato come un eroe nazionale, attribuendo il suo nome al ghiacciaio che, peraltro, egli non riuscì mai neanche a visitare. Nel 1903 venne ricompensato con una enorme dazione di terre in Patagonia, ma Francisco Moreno non volle possederle, decidendo di donarle per costituire il primo parco nazionale argentino e battendosi per la conservazione e la tutela dell’ambiente naturale patagonico fino alla sua morte nel 1919.
Del ghiacciaio Perito Moreno erano famose due caratteristiche, l’avanzamento costante e la drammatica rottura del fronte. Quest’ultima consisteva in un fenomeno apparentemente ciclico che avveniva ogni 4-5 anni: la penisola di Magellano, che divide in due il braccio d’acqua al fronte del ghiacciaio, si salda temporaneamente con la terraferma antistante per via del movimento dei ghiacci. La diga regge per qualche anno, ma viene improvvisamente rotta dalla pressione dell’acqua del braccio settentrionale che si riversa in quello meridionale, nel frattempo abbassatosi di livello attraverso i suoi emissari.
Per quanto riguarda l’avanzamento, secondo alcuni studiosi il fenomeno derivava dalla “cattura” di parte della neve che avrebbe alimentato altri ghiacciai vicini, secondo altri soprattutto da una specie di «cuscino» di acqua di fusione costantemente presente alla base della lingua glaciale che avrebbe conferito una maggiore mobilità al ghiacciaio nel suo complesso.
Giova ricordare che un ghiacciaio è un elemento geomorfologico dinamico della crosta terrestre che registra fedelmente ogni variazione di temperature dell’atmosfera e degli oceani. I ghiacciai si muovono scorrendo sulla superficie e raspando materiali rocciosi di ogni tipo, che possono essere spostati al fronte quando avanza, o lasciati indietro quando il ghiacciaio si ritira.
Quando fa più caldo il ghiacciaio si frattura sempre più vistosamente e il fronte si rompe dando luogo al fenomeno dei frammenti alla deriva che chiamiamo iceberg, un termine che non ha corrispettivo italiano (dove gli iceberg non sono noti), ma che in lingua argentina si chiamano tempanos (sostantivo coniato proprio in Patagonia, dove erano conosciuti fino dal tempo degli spagnoli).
Da qualche anno anche il Perito Moreno si è arreso alla crisi climatica. Almeno dal 2007, quando alcuni ricercatori hanno misurato una perdita di circa 15 metri di spessore ai margini della lingua glaciale principale: il ghiacciaio che avanzava si era bloccato. Nel 2019 è stato rilevato che il contatto della base glaciale con il suo fondo roccioso si era perso e che il ritiro stava accelerando. Nel 2024 nuovi rilievi radar e satellitari mettono in luce una media di ritiro di 5,5 metri/anno fra il 2019 e il 2024, contro gli 0,34 metri fra il 2000 e il 2019. Si è infine scoperto che una dorsale subglaciale potrebbe essere stata alla base dell’anomalo comportamento del Perito Moreno, cioè della sua precedente stabilità rispetto agli altri ghiacciai del mondo. Questa stessa dorsale, oggi di fronte a una profondità di acqua maggiore, potrebbe essere un elemento di ulteriore accelerazione dei processi di fusione attuali. Anche il Perito Moreno arretra.
Con un battello adattato mi faccio strada fra gli iceberg dei ghiacciai patagonici, navigando su acque profonde fino a 150 metri e con temperature di circa 5°C. Rimango affascinato dal colore azzurro profondo dei piccoli iceberg e riesco a distinguere il rumore dei processi di fusione in atto: uno sgocciolamento continuo che misura il tempo inesorabile della loro scomparsa. Ci vorrà per fortuna ancora del tempo, ma il destino di questi giganti custodi del nostro clima è segnato e irreversibile, almeno alla scala dei tempi dell’uomo. E ci ricorda che i ghiacciai più piccoli sono già da anni sul viale del declino: qualche decennio ancora e quelli alpini saranno perduti.
Con i ghiacciai svanisce la capacità di resistere al riscaldamento climatico e la riserva più rilevante di acqua dolce che ci sia al mondo. Ma si perde anche una bellezza irripetibile, un ritmo armonico, un’ispirazione interiore che facciamo appena in tempo a consegnare alla memoria di chi ci ha prestato il pianeta e non immaginava certo di riaverlo indietro senza questi protagonisti all’apparenza imperturbabili.

(di Antonio Pitoni – lanotiziagiornale.it) – Chi l’avrebbe mai detto che ci saremmo trovati a lodare la Banca centrale europea, unica istituzione Ue rimasta immune dalla deriva bellicista che ha ormai contagiato dalla Commissione von der Leyen in giù, compresi (quasi) tutti i sedicenti leader (si fa per dire) degli Stati membri, e nientepopodimeno che il leader della Lega, Matteo Salvini, per essersi messo di traverso in Consiglio dei ministri, facendo saltare l’ennesimo pacchetto di aiuti, tanto inutili quanto dispendiosi, a sostegno della causa (e della guerra) persa ucraina.
Il doppio psicodramma, per l’esecutivo europeo e quello italiano, si è consumato nel giro di poche ore. Tutto è iniziato quando il Financial Times ha anticipato la decisione della Bce di respingere al mittente la proposta (escogitata dalla solita bomb der Leyen) di un prestito da 140 miliardi all’Ucraina con la garanzia degli assets russi congelati nelle banche dell’Unione. L’ultimo di una lunga serie di fallimenti collezionati dalla presidente della Commissione Ue – dal naufragio del Green Deal allo sconsiderato accordo sui dazi Usa – tenuta sempre più spesso in vita, nelle votazioni dell’Europarlamento, dalla stampella dei conservatori e delle destre.
E pensare che, fino a poche ore prima, Ursula scommetteva sul via libera alla proposta dal prossimo Consiglio Ue del 18 dicembre. Poi è toccata alla sua alleata italiana Giorgia Meloni incassare lo sgambetto del vice premier Matteo Salvini. “Mettere fine al conflitto tra Russia e Ucraina è un bene per i ragazzi che muoiono al fronte. È un bene per l’economia italiana ed europea. Chi si mette di mezzo per impedire un accordo tra Russia, Ucraina e Stati Uniti non fa il bene dell’Italia e dell’Europa”, ha detto il leader della Lega. E l’ennesimo decreto, con il nuovo pacchetto di aiuti all’Ucraina, è sparito dall’ordine del giorno del Consiglio dei ministri.
Ora, non serviva Salvini per capire quello che tutti sanno già ma che al governo fingono di non sapere. Ce lo ha ricordato ieri il Centro Studi di Confimprenditori: finora la guerra in Ucraina ci è costata tra gli 85 e i 110 miliardi di euro, l’equivalente di tre Manovre finanziarie. Mentre continua a crescere pure la povertà alimentare e sanitaria. Ottimi motivi per darci un taglio.

(di Milena Gabanelli e Francesco Tortora – corriere.it) – I paradisi fiscali non stanno solo in sperdute isole dei Caraibi. La maggior parte del denaro sottratto al fisco finisce in Paesi occidentali che garantiscono regimi tributari vantaggiosi e un’elevata dose di segretezza, e dove ogni anno le multinazionali trasferiscono in media 1.100 miliardi di dollari, il 16% dei loro profitti (Qui pag. 19 e 21). Parliamo di centinaia di miliardi che ogni anno vengono rubati agli Stati. Di fatto sono dunque loro, i grandi colossi, a mettere le mani in tasca ai cittadini, sottraendo risorse destinate ai servizi pubblici essenziali come scuola, sanità e infrastrutture. Vediamo come funzionano i meccanismi ai confini della legalità negli Stati Uniti, in Gran Bretagna e nell’Unione europea.
Si chiama pianificazione fiscale aggressiva ed è una forma di elusione che sfrutta le differenze e le lacune tra i vari ordinamenti a vantaggio delle grandi aziende. Secondo l’ultimo rapporto del Tax Justice Network, organizzazione non governativa che da anni monitora l’effetto dei paradisi fiscali sull’economia mondiale, tra il 2016 e il 2021 le grandi aziende hanno trasferito oltre 6.550 miliardi di dollari in Paesi a bassa tassazione, facendo sparire circa 1.717 miliardi di entrate fiscali. In testa della classifica ci sono le corporation statunitensi, che hanno sottratto al fisco 495 miliardi di risorse pubbliche.
Ma come funziona in pratica questo meccanismo che si chiama Transfer pricing, e consente di non pagare tutte le tasse dove gli utili sono stati effettivamente prodotti? La multinazionale americana che opera in diversi Stati europei gonfia i costi delle sue controllate ubicate in Paesi ad alta tassazione (come Italia o Francia) attraverso la vendita dei diritti di brevetto o altri beni immateriali. In questo modo riduce gli utili locali e trasferisce i profitti alla filiale del gruppo situata in Lussemburgo, dove le imposte sono enormemente più basse. Grazie a queste strategie, le aziende statunitensi hanno registrato il 24% dei loro profitti globali in Paesi dove le imposte sono minime. Le destinazioni più gettonate sono l’Irlanda, Gibilterra e gli stessi Stati Uniti.
Proprio gli Usa sono diventati uno dei principali paradisi fiscali al mondo. Da anni ormai 6 Stati (Delaware, Wyoming, New Mexico, Nevada, Alaska e South Dakota) offrono tassazione agevolata o anonimato societario.
Il salto di qualità è arrivato nel 2017, durante la prima presidenza Trump, con l’entrata in vigore del Tax Cuts and Jobs Act, norma federale che ha ridotto l’aliquota sui redditi delle aziende dal 35% al 21% e introdotto un ulteriore sconto sul rientro dei profitti generati all’estero. Le prime ad approfittarne sono state le Big Tech, che hanno riportato in patria buona parte dei profitti parcheggiati principalmente in Lussemburgo, Bermuda, Paesi Bassi e Porto Rico. Quindi sommando la riduzione dell’aliquota e lo sconto per il rimpatrio, Meta lo scorso anno ha avuto una tassazione dell’8,4%. Nel 2016 la sua aliquota effettiva sugli utili superava il 33%. Chi non ha ottenuto vantaggi sono i cittadini americani: i salari pagati dalle multinazionali sono rimasti stazionari, l’occupazione non è cresciuta, mentre il fisco ha perso 574 miliardi di dollari, di cui quasi la metà imputabili ad aziende statunitensi.
Con Trump II per le multinazionali Usa va ancora meglio: il presidente ha annunciato il ritiro dall’accordo Ocse sulla Global Minimum Tax approvata da più di 140 Paesi in tutto il mondo nel 2021 e l’uscita degli Stati Uniti dai negoziati per l’istituzione di una Convenzione quadro delle Nazioni Unite sulla cooperazione fiscale internazionale. In più ha minacciato dazi doganali ai Paesi che impongono tasse sul digitale o stabiliscono limiti normativi all’operatività delle aziende tecnologiche statunitensi: «Gli Stati Uniti – taglia corto il Tax Justice Network – sono diventati una chiara minaccia alla sovranità fiscale dei Paesi, inclusa la propria».
Il Regno Unito è responsabile del 23% delle perdite fiscali globali generate dai grandi gruppi (Qui pag.8). Ad esempio, le Isole Vergini Britanniche e le Isole Cayman non applicano alcuna imposta sul reddito delle società e non richiedono la presentazione e la pubblicazione dei bilanci aziendali. E infatti in queste due isole c’è la più alta concentrazione al mondo di società registrate in rapporto alla popolazione. Se la cavano bene anche le isole del Canale (Man, Jersey e Guernsey). Alle Bermuda non si pagano tasse su dividendi e plusvalenze. Questi territori autonomi, tra l’altro, facilitano il trasferimento di flussi finanziari illeciti e sono usati per ripulire utili che provengono da evasione fiscale e riciclaggio di denaro. Al centro di tutta la rete c’è la City di Londra, che fa da snodo finanziario: qui le società convogliano i profitti «dopo averli dirottati attraverso le giurisdizioni satellite, in modo da pagare meno tasse altrove» (Qui pag.25). Ma questo enorme flusso di denaro che viaggia da una parte all’altra del mondo non produce alcun beneficio alla popolazione britannica. Complessivamente le multinazionali che operano nel Regno Unito hanno causato allo Stato tra il 2016 e il 2021 una perdita di gettito di oltre 53 miliardi di dollari. Dall’anno fiscale 2024 saranno tenute però a pagare la Global Minimum Tax che impone ai gruppi con un fatturato globale superiore a 750 milioni di euro una tassa minima del 15% sui profitti, indipendentemente da dove vengono realizzati.
Anche nella Ue si applicherà la tassa minima globale e come per Londra la prima dichiarazione dovrà essere presentata entro il 30 giugno 2026. In più le multinazionali dovranno pubblicare un report annuale con informazioni su ricavi, utili e imposte versate in ciascun Paese membro in modo da incentivare la trasparenza fiscale. Nell’Unione il quadro resta tuttavia variegato: oggi esistono 27 sistemi fiscali distinti e grandi differenze sulle imposte societarie che vanno dal 29,9% della Germania al 9% dell’Ungheria.
Le multinazionali nella Ue sono obbligate a:
1) versare la Global Minimum Tax
2) pubblicare un report annuale con informazioni su ricavi, utili e imposte versate in ogni Paese membro
Tasse societarie in Europa (in %, 2025)935
252525,825,8252520,620,629,929,920202222191927,827,8252516162222101021219930,530,52323212112,512,516162020181821212222222219,619,625,825,8252512,512,53535
Il potere di introdurre, eliminare o modificare le imposte resta di competenza degli Stati
Fonte: Tax Justice Network, “Europa Parassita” di Angelo MincuzziCreato con Datawrapper
Per adottare direttive fiscali comuni serve l’unanimità, ma gli sforzi di Bruxelles per armonizzare le aliquote sono ostacolati da una lunga lista di Paesi considerati veri e propri paradisi fiscali all’interno dell’Unione, tra cui Lussemburgo, Irlanda, Olanda, Belgio, Malta e Cipro. Il Lussemburgo è la seconda piazza finanziaria al mondo per fondi d’investimento (5,6 trilioni di euro di asset gestiti), sede di 115 banche internazionali e di numerose multinazionali, tra cui ArcelorMittal, Amazon, Spotify e la holding Aylo, la più grande società mondiale nel settore del porno online. Qui l’imposta nominale sulle società è del 23,87%, ma la tassazione effettiva di tante holding risulta molto più bassa perché il Granducato offre imposte ridotte o nulle su royalties, dividendi e interessi. Nel 2014 lo scandalo LuxLeaks ha svelato accordi segreti tra il fisco lussemburghese e almeno 350 aziende e banche internazionali tra cui Apple, Amazon, Ikea, Pepsi, UniCredit e Intesa Sanpaolo, che pagavano anche meno dell’1% di tasse sugli utili.
L’Irlanda è la sede dei quartier generali europei di Apple, Microsoft, Meta, Google, Shein e di giganti farmaceutici come Pfizer e Eli Lilly. Qui si applica un’aliquota sulle società del 12,5%, una delle più basse d’Europa. Nel corso degli anni molte multinazionali hanno ridotto ulteriormente il carico fiscale ricorrendo a complesse triangolazioni finanziarie che garantiscono forti deduzioni e detrazioni così da abbassare drasticamente la base imponibile. Apple era arrivata a pagare come imposta societaria lo0,05%, tant’è che nel 2016 la Commissione europea le ha inflitto una multa da 13 miliardi di euro.
L’esito finale di questo sistema è una perdita secca per i maggiori Paesi dell’Unione, quelli più popolati e che più hanno bisogno di gettito fiscale per garantire servizi di qualità ai loro cittadini.
Sempre dal 2016 al 2021 alla Francia sono stati sottratti 116 miliardi, alla Germania 110, alla Spagna 33, all’Italia 22 e alla Polonia 17.
dataroom@corriere.it

(di Michele Serra – repubblica.it) – Se si sommassero tutte le dichiarazioni di guerra (e le elucubrazioni strategiche sulla guerra fatte in favore di telecamera) degli ultimi due o tre anni, con i russi loquacissimi e gli europei che piano piano ci prendono gusto, la guerra tra Russia e Unione Europea sarebbe già cosa fatta.
Dice che è solo propaganda, ovvero un fracasso di fondo, una fanfara metallica, che si fa per assordare “gli altri” e galvanizzare “i nostri”. Ma per quanto si sia abituati, o meglio rassegnati alla stupidità e alla vuotezza della propaganda, l’ininterrotto battibecco su quella che sarebbe, grosso modo, la terza guerra mondiale, fa una certa impressione, perché l’argomento ormai quotidianamente agitato — la guerra — è nei fatti lo sterminio “ufficiale” di buona parte dei “loro” e dei “nostri”, con preferenza programmatica per la morte dei maschi tra i venti e i trent’anni più l’aggiunta, dovuta alle recenti conquiste tecnologiche, di parecchi civili, compresi i bambini. (Il mezzo milione di caduti dalle due parti in Ucraina è un abominio ormai normalizzato. È la guerra, no?)
Parlarne come se fosse una delle tante beghe ordinarie tra quelle versioni moderne della tribù che sono le Nazioni, magari ha lo scopo calcolato di abituare “noi” e “loro” a considerare la guerra tra le opzioni della politica. Magari, invece, è solo sciocca irresponsabilità, imputabile a classi dirigenti sempre più mediocri e di conseguenza sempre meno responsabili. Nel conto si metta, poi, anche l’ipotesi che ai maschi di potere la parola “guerra” qualche brivido lo dia a prescindere.
Non serve una Costituzione tutta nuova. Serve piuttosto prendere sul serio il suo principio fondativo: la sovranità popolare

(di Michele Ainis – repubblica.it) – La democrazia italiana è ormai un corpo essiccato. Ne rimane la forma, ne osserviamo le sembianze; e ci appaiono illese rispetto a come vennero disegnate otto decenni fa, per mano dell’Assemblea costituente. Persiste la medesima forma di governo — “parlamentare”, è questa la sua denominazione.
E in effetti a Roma continua ad abitare un Parlamento, così come un governo e un capo dello Stato, le cui prerogative formali non sono mai state negate, né corrette. Al centro non meno che in periferia si tengono elezioni per rinnovare una quantità di organi (anche troppi), e si tengono a cadenza regolare. Nella terra di mezzo tra società politica e società civile disputa una quantità di partiti e sindacati (anche troppi), ciascuno con la propria bandierina. E su tutti vigila una quantità di tribunali e controllori della più varia risma (anche troppi).
Ma le apparenze ingannano, come si suol dire; e non è mai stato così vero. Giacché la sostanza della democrazia italiana, di ciò che ne rimane, è divaricata dal suo aspetto formale. Le leggi le scrive il Consiglio dei ministri, inondando le Camere d’una pioggia di decreti. Le ulteriori regole della nostra convivenza provengono dalla magistratura, che una legislazione confusa e alluvionale obbliga a scegliere fiore da fiore, e anche a stabilire di che colore è il fiore.
Ciascuno s’esercita nel mestiere altrui, è questo lo spettacolo perenne. D’altronde anche gli eletti si sono impossessati del mestiere che un tempo toccava agli elettori. Le consultazioni nazionali avvengono sotto dettatura, con i listini bloccati dove i capipartito decidono l’elenco dei promossi. Ma pure quelle locali trovano un esito per lo più scritto in anticipo, e infatti non c’è stata alcuna sorpresa nelle sette elezioni regionali degli ultimi due mesi.
Insomma, la democrazia è divenuta una finzione. E allora perché mai dovremmo crederci? Difatti il teatro si sta svuotando dei propri spettatori. Ci allarmammo, propagando alti lamenti, quando la partecipazione crollò al 60 per cento del corpo elettorale. Adesso viaggia poco sopra il 40 per cento. E di questo passo lo sciopero del voto finirà per risucchiarci in una crisi terminale della democrazia, come nel Saggio sulla lucidità di José Saramago, dove un diluvio di schede bianche viene contrastato con le maniere forti dal governo.
Tuttavia l’astensionismo è l’effetto della crisi, non la sua scaturigine. Le cause dipendono dal senso d’impotenza che ti morde alla gola quando scopri che il copione è già tutto scritto, e a te resta soltanto d’applaudire. Dipendono dal ritiro della delega verso politici che percepisci come mediocri o in malafede, salvo magari consegnare i tuoi destini, per un’ultima speranza o per disperazione, al capo carismatico che saprà risollevarli.
E dipendono, infine, dal brodo culturale nel quale siamo immersi. Questo è il tempo della disintermediazione, che ha messo in crisi tutti i gruppi sociali dei quali facevamo parte — la scuola, il quartiere, l’oratorio, la fabbrica, il partito. Ed è un tempo digitale, nel quale ogni attività della nostra esistenza — il lavoro, la corrispondenza, gli acquisti, le riunioni — si svolge attraverso lo schermo d’un computer.
Sicché è questa l’urgenza che ci attende. Dobbiamo ricostruire una democrazia bene ordinata, in cui ciascuno s’attenga al proprio ruolo, senza invadere le competenze altrui. Una democrazia responsabile, fondata sull’accountability, sul rendere conto dei fatti e dei misfatti; e con meccanismi che la rendano cogente, dato che alle nostre latitudini, dal Garante della privacy in giù (o in su), non si dimette mai nessuno.
Sarebbe prezioso, per esempio, l’antico istituto del recall — ossia la revoca degli eletti immeritevoli, attraverso un referendum personale indetto in corso di mandato — che tutt’oggi trova applicazione in mezzo mondo, dalla Svizzera agli Stati Uniti, dal Canada al Giappone.
E infine dobbiamo usare l’innovazione digitale contro se stessa, contro la sua vocazione autoritaria. Come? Rafforzando il referendum e consentendo il voto online in ogni consultazione elettorale, come avviene in Estonia e in varie altre contrade.
Ma per rinvigorire la democrazia italiana non serve una Costituzione tutta nuova. Serve piuttosto prendere sul serio il suo principio fondativo: la sovranità popolare.
Il mezzo specchio dei cambiamenti

(di Massimo Fini – ilfattoquotidiano.it) – Non salgo più su un tram: ho il terrore che mi cedano il posto.
L’altra mattina ero sul “tram numero 10”. “Il tram numero 10” non è un tram come tutti gli altri, è un mito, perché con le sue 35 fermate attraversa da nord a sud tutta Milano. Rasenta molti quartieri e quindi tutti i milanesi lo conoscono e ne conoscono i percorsi. Se uno straniero si è perduto intorno alla Stazione Centrale basta dirgli “prendi il 10 e vedrai che ti porta vicino al posto che cerchi” (Lucio Dalla canta “nel centro di Bologna non si perde neanche un bambino”, nel centro di Milano sì, perché scarsi sono i portici – invenzione di Nerone – che ti facciano da segnaletica).
Se mi chiedessero qual è il simbolo di Milano non risponderei il Duomo, risponderei: il tram. L’indicazione del “numero 10” corrisponde al vecchio “chiedilo al ghisa”, antropologia anch’essa scomparsa da Milano, insieme al Commissario di quartiere.
Quando, bambino di tre anni, arrivai a Milano, dopo aver vissuto sulle colline delle Prealpi (l’emergenza degli “sfollati”) ciò che più di tutto mi colpì, anzi la sola cosa che mi colpì, furono i tram, questi strani veicoli che non hanno ruote gommate, vanno su rotaie e si congiungono con quello che a me pareva un bastone (‘archetto’) a un reticolo di fili che stanno qualche metro sopra il tram. Così io, bambino, dicevo “Milano ha il cielo con la rete” e, trasportato dalla mia fantasia infantile, dicevo che da grande volevo fare il tranviere. Purtroppo lo dissi anche a mia madre che per tutta la vita è rimasta convinta che avessi fallito i miei obiettivi perché tranviere non ero diventato (sconsiglio a tutti di avere una madre nata in epoca zarista).
Il tram ha una particolarità che non appartiene a nessun altro veicolo: il suo sferragliare, anche lontano, molto lontano, in una notte buia e tempestosa, con la città deserta (i milanesi, a differenza dei romani, non abitano la notte) ti dà coraggio. È il leitmotiv di tanti racconti di Dino Buzzati, quando il protagonista, immerso in quegli incubi che solo lo scrittore di Belluno sa creare, si trova in un qualche guaio.
I tram, parlo sempre del dopoguerra, erano affollati fino all’inverosimile, la gente si stipava non solo sui predellini, ma si attaccava anche a delle corde che penzolavano dietro a ogni tram. Chi era stato sotto i bombardamenti americani non aveva certo paura di farsi la bua cadendo sul selciato. Comunque il pericolo era in qualche modo mitigato aggiungendo una carrozza a quella principale (il “doppio tram”, una goduria che oggi non esiste più).
Questo sovraffollamento era dovuto alla prima migrazione, principalmente dal Veneto e dall’Emilia (Milano, insieme a Torino e Genova, faceva parte del “triangolo economico”). Poi arrivò la migrazione dal Sud Italia, che a Milano, a differenza della fredda, in tutti i sensi, Torino (i “letti caldi”) non causò problemi. Chi veniva dal Sud Italia aveva voglia di lavorare e i milanesi, si sa, hanno sempre apprezzato chi rusca, per dirla in dialetto lombardo, anch’esso scomparso. La polemica era bonaria e linguistica: loro erano i “terroni”, noi i “polentoni”. Un po’ come i milanisti erano i Casciavit e gli interisti i Bauscia.
Nel dopoguerra, dopo una guerra persa nel peggiore dei modi, noi italiani eravamo poveri, non però al punto di soffrire la fame, questo se l’è inventato Giampiero Mughini. Ma bisognava stringere la cinghia, nel senso letterale del termine. Il nostro non consumismo non era una scelta, ma un obbligo. Eravamo asciutti e quindi più belli. In quel periodo di ristrettezze il pater familias passava il suo cappotto al fratello maggiore e costui ai minori. Insomma si scopava e il tasso di natalità non era ridotto, come oggi, al misero 0,63 per cento. Un’asciuttezza che c’era anche nel comportamento. Si vadano a vedere i funerali di Fausto Coppi, 1960. Chi assisteva ai funerali del “campionissimo”? La “gente comune”, come odiosamente si dice oggi. Nessun sgangherato applauso all’uscita della bara. Il popolo onora in silenzio e con grande compostezza il suo campione. Oggi, nel frastuono incessante che ci circonda, non sopportiamo più il silenzio, applaudiamo anche i morti, di che cosa, d’esser morti?
C’è stato un periodo in cui a Milano si volevano abolire, per non so quale ragione, i tram. Per fortuna arrivò la crisi energetica del ’73 a porre fine a questo progetto insensato. Ritornarono in auge i tram, che non vanno a petrolio e persino i cavalli; ne erano rimasti solo alcuni, spelacchiati, con relativo calesse, davanti alla Scala, solo decorativi insomma.
Torniamo al tram dell’altra mattina. C’era una signora anziana, in piedi, in evidente difficoltà, perché i tram saranno anche una bellissima cosa, ma non possono evitare gli sbalzi del pavé. Davanti a lei, sedute, tre o quattro ragazze, nessuna che si sia sognata di alzarsi per cederle il posto. Per cui oggi un vecchio può tranquillamente salire su un tram senza il timore di essere considerato un vecchio inutile.
Si frigna molto sui giovani di oggi e loro stessi frignano su se medesimi e il loro futuro incerto. Il fatto è che le generazioni che si sono succedute alla mia non hanno conosciuto, non dico la guerra, questo era anagraficamente impossibile, ma nemmeno le ristrettezze del dopoguerra. Non hanno affrontato cioè nessun evento fondante, di quelli che temprano le persone, ne formano il carattere. Per cui l’unica cosa onesta, anche se modesta, che possono fare è una sola: invecchiare.

(di Gi. Ros. – ilfattoquotidiano.it) – Il paradosso è che alla fine ci saranno tutti tranne lei, Elly Schlein. Che invece era stata invitata per prima da Giorgia Meloni, ma dopo il pasticcio del confronto a due saltato, la segretaria dem ha rinunciato ad Atreju, la festa di FdI che quest’anno vedrà l’edizione più lunga di sempre, dal 6 al 14 dicembre. E dove, tra un panel e l’altro, sfilerà molta opposizione: Giuseppe Conte, Angelo Bonelli, Carlo Calenda, Riccardo Magi, Gaetano Manfredi, Debora Serracchiani (parlerà di separazione delle carriere con Antonio Di Pietro: i due un tempo erano su posizioni opposte), Lorenzo Guerini e i neo governatori Antonio Decaro e Roberto Fico. Ci sarà anche Silvia Albano, la giudice considerata “nemica” dei centri migranti in Albania.
“Sei diventata forte – l’Italia a testa alta” è il titolo della kermesse che si aprirà sabato prossimo a Castel Sant’Angelo, a Roma. L’ospite clou è il presidente dell’autorità nazionale palestinese Abu Mazen (venerdì 12), preceduto (domenica 7) da Rom Braslavski, israeliano rapito il 7 ottobre e rimasto prigioniero di Hamas per 738 giorni. Atteso anche il ritorno di Gianfranco Fini davanti alla platea di ex An: venerdì 8 dialogherà con Francesco Rutelli. Tra gli ex ci sarà pure Luigi Di Maio, ora inviato Ue nel Golfo. Marco Travaglio intervisterà Guido Crosetto. Poi alcuni volti dello spettacolo: Carlo Conti, Ezio Greggio, Mara Venier. Raoul Bova e Francesca Barra saranno protagonisti di un panel sull’odio social con Arianna Meloni. Presenti anche Gigi Buffon e Ilaria D’Amico.
La classe dirigente, malgrado il tracollo intellettuale e morale, ha una dote importante. Il senso di appartenenza produce lealtà e solidarietà all’interno, tra i politici, anche se appartengono […]

(di Elena Basile – ilfattoquotidiano.it) – La classe dirigente, malgrado il tracollo intellettuale e morale, ha una dote importante. Il senso di appartenenza produce lealtà e solidarietà all’interno, tra i politici, anche se appartengono a campi avversi, tra analisti, tra diplomatici, funzionari amministrativi, tra giornalisti e guru dei talk show. Nel mondo dell’opposizione alle destre e al centrosinistra a esse molto simile, anche se in genere si riscontra un livello di onestà intellettuale maggiore, non esiste la collaborazione tra piccoli leader, giornalisti, analisti, tribuni ammessi da mamma tv. Si tratta di segmenti schizzati, ciascuno va per sé. Gli oppressi sono monadi che non sfuggono al magnetismo del potere. Come non ricordare l’analisi lucida e disperata di Primo Levi della zona grigia, delle complicità che non salvano gli offesi?
Mi balza agli occhi quotidianamente questa grave debolezza del mondo composito di movimenti e associazioni che condividono la critica alle politiche europee bellicistiche, pronte a una guerra con una potenza nucleare, la Russia, collaborazioniste col criminale di guerra Netanyahu. Se il dissenso fosse unito, se elaborasse anche dal punto di vista teorico un’istanza politica credibile, se cooptasse l’intellighenzia che esiste e lavora nell’ombra, potrebbe attirare il non voto, costituire una speranza per la rifondazione della democrazia. Ogni qualvolta ascolto uno scrittore, un intellettuale, un analista illuminato che, pur tentando di appellarsi alla oggettività delle dinamiche internazionali, si vede obbligato a fare concessioni alla propaganda del regime Nato, pronunciando condanne astoriche di Hamas oppure arrendendosi allo slogan aggredito/aggressore, sento che la zona grigia avanza e ci inghiotte. E allora torniamo a dirlo, nella purezza delle nostre convinzioni, che non c’è nulla di etico nell’immonda difesa della continuazione della guerra in Ucraina da parte delle oligarchie europee. L’Ucraina è stata sin dal 2014 la vittima dei progetti di dominio neoconservatori Usa che volevano pervenire allo smantellamento della Federazione russa. Un Paese è stato utilizzato per un esperimento bellico, un popolo è divenuto carne da cannone. La Russia ha violato il diritto internazionale (annessione della Crimea 2014 e invasione dell’Ucraina nel 2022) in quanto il colpo di Stato a Kiev ha reso evidente che gli oligarchi occidentali avrebbero facilmente posto sotto il loro controllo la base di Sebastopoli, strategica per Mosca dai tempi dello Zar. Dopo sette anni di diplomazia, di presa in giro occidentale (confessata da Merkel e Hollande), degli accordi di Minsk e di guerra civile, di massacri da parte dell’esercito di Kiev di civili russofoni, colpita da sanzioni economiche che altro non sono che la dichiarazione di guerra della Nato a Mosca, la Russia ha invaso l’Ucraina nel febbraio del 2022 per arrivare a un compromesso nel marzo dello stesso anno. Dopo un mese, l’Ucraina, senza perdere territori, avrebbe potuto essere un Paese neutrale e europeo. Le élite globali hanno deciso che essa doveva invece sanguinare per i progetti di dominio di Washington, per salvare il capitalismo piegato dal debito, bisognoso di nuove materie prime. Mosca ha violato le frontiere di uno Stato fantoccio, che aveva ormai rinunciato a rappresentare gli interessi del popolo ucraino, divenendo uno strumento foraggiato di armi, intelligence e mercenari per l’attacco alla Russia. Una guerra esistenziale dunque, quella di Mosca, per difendere la propria sovranità. Il diritto onusiano, sbandierato da noi occidentali per l’invasione della Libia, la responsabilità di proteggere, è stato invocato dalla Russia a cui le popolazioni russofone bombardate si erano rivolte.
Ascolto Tajani e Gentiloni, che ho conosciuto come ministri degli Esteri, invocare la continuazione del sacrificio dei ragazzi ucraini al fronte contro i tentativi di mediazione in corso tra Trump e Putin e mi sembra impossibile che due uomini moderati, miti di carattere, possano sporcarsi le mani di sangue e sostenere la nuova Europa scandinava, baltica, polacca, che ha abbracciato la retorica bellicista del ventennio fascista. I territori, la pace giusta! Il ceto politico, che ho avuto modo di conoscere, ha alcuni tratti comuni, la moderazione e l’obbedienza gerarchica. Soltanto in questo modo si fa carriera, si diviene classe dirigente. Mai si difendono posizioni personali, un’etica personale. Altrimenti si è automaticamente fuori dai circuiti che contano. Come è allora possibile che queste classi dirigenti europee si ribellino all’egemone Trump, e al di fuori del quadro istituzionale della Nato, e in spregio alla Costituzione, caldeggino la guerra? Ritorna la domanda che inquieta: a chi rispondono? Questo il nodo. Le polemiche contingenti, viva la Schlein, abbasso la Meloni, servono a poco se non abbiamo risposte ai quesiti essenziali.

(di Marco Travaglio – il Fatto Quotidiano) – Mancava solo il fermo di Federica Mogherini e dell’ambasciatore Stefano Sannino per corruzione e frode negli appalti, per dare un’idea almeno parziale della Ue con il decisivo contributo dell’Italia. La Mogherini, ministra Pd degli Esteri del governo Renzi con benedizione di Napolitano e poi Alta rappresentante per la politica estera europea pareva già dieci anni fa il punto più basso mai toccato dall’Ue. Ma solo perché non avevamo ancora visto i successori: il “socialista” Josep Borrell […]
Consultazione pubblica rivolta a ragazzi e ragazze tra i 14 e i 18 anni promossa dall’Autorità Garante per l’infanzia e l’Adolescenza allo scopo di indagare le loro percezioni sulla guerra e sui conflitti

(ilsole24ore.com) – Il 68% degli adolescenti di un campione provvisorio di 4.000 non si arruolerebbe se l’Italia entrasse in guerra. E a sorpresa è la televisione e non internet il mezzo da cui si informano. Sono i primi risultati della consultazione pubblica rivolta a ragazzi e ragazze tra i 14 e i 18 anni promossa dall’Autorità Garante per l’infanzia e l’Adolescenza allo scopo di indagare le loro percezioni sulla guerra e sui conflitti. Alla domanda “Se il mio Paese entrasse in guerra mi sentirei responsabile e se servisse mi arruolerei. Quanto sei d’accordo con questa affermazione?” la maggioranza esprime il proprio disaccordo. Tra i maschi la percentuale è del 60,2% e tra le femmine il 73,6%.
“L’iniziativa è stata avviata per colmare un vuoto di informazione sul sentiment degli adolescenti in relazione ai conflitti in corso e allo scopo di fornire alle istituzioni spunti di riflessione” dice l’Autorità garante Marina Terragni. Come ti informi sulla guerra? Quali emozioni provi davanti alle immagini dei conflitti? Cosa pensi del ruolo della tua generazione nella costruzione della pace? Qual è il tuo rapporto con la violenza, la paura e l’idea di responsabilità? Come gestisci i conflitti quotidiani in famiglia, a scuola, tra coetanei e online?
Il questionario si articola in 32 domande ed è stato realizzato nel settembre scorso in collaborazione con la Consulta delle ragazze e dei ragazzi dell’Autorità garante e con il supporto dello psicologo e psicoterapeuta Diego Miscioscia, socio fondatore dell’istituto Il Minotauro, autore di “La guerra è finita Psicopatologia della guerra e sviluppo delle competenze mentali della pace”, e da sempre impegnato nella costruzione della pace, spirito pienamente condiviso da Agia. “Da una primissima analisi dei dati – la rilevazione è ancora in corso sul sito iopartecipo.garanteinfanzia.org e si chiuderà il prossimo 19 dicembre – emerge che la guerra è una delle principali preoccupazioni per i ragazzi: una preoccupazione superiore a quella per il climate change. Inoltre, è la televisione – e non internet o i giornali – il medium a cui prevalentemente si rivolgono per avere informazioni credibili” osserva Terragni.

(Adnkronos) – Botta e risposta tra Carlo Calenda e Alessandro Di Battista, con i riflettori accesi sulla Russia e sulle posizioni dell’ex parlamentare grillino. “Credo che occorra chiarire se Alessandro Di Battista – il cui ‘libro’ riprende il nome della campagna di propaganda del Cremlino in Occidente – sia legato in qualche modo a: società di propaganda russe; aziende che fanno business in Russia”, scrive Calenda in un post su X. “Considerato anche il fatto che è ospite fisso di numerose trasmissioni televisive e che in passato, come Salvini, ha firmato un accordo di collaborazione formale con Russia Unita a nome dei 5S. Ci sono io credo gli estremi per una verifica approfondita degli organi preposti alla sicurezza dello Stato”, aggiunge il senatore, leader di Azione.
“Carletto quindi stai chiedendo agli ‘organi preposti alla sicurezza dello Stato’ di verificare i miei legami con la Russia perché non ti piace il titolo del mio libro? Fantastico”, la risposta di Di Battista, a cui dopo alcune ore segue il nuovo messaggio perentorio di Calenda: “Alessandro, vorrei solo sapere se la propaganda ai russi la fai gratis o pagato. Trasparenza e Onestà insomma, ti ricorda qualcosa?”.
(Alessandro Di Battista) – Il Senatore della Repubblica Carlo Calenda ha appena chiesto “agli organi preposti alla sicurezza dello Stato” di verificare se vi siano legami tra me e la Russia in particolare con “società di propaganda russa” o “aziende che fanno business in Russia” il tutto perché non gli piace quel che scrivo e in particolare il titolo del mio ultimo libro “La Russia non è il mio nemico”. Questi finti democratici sono campioni di tentativi di censura e vili intimidazioni dall’alto dei loro ruoli. Io credo nelle miei idee e scrivo tutto quel che penso intitolando i miei libri come voglio. A Calenda non va giù che vi siano in Italia cittadini che non si sono bevuti le balle Ue e Nato e che hanno il coraggio di esporsi noncuranti delle puerili rappresaglie mediatiche e politiche.
P.S. Nel 2016, Carlo Calenda, da ministro dello Sviluppo economico si recò in Russia e disse queste parole: “Nessuno ha mai chiuso bottega (con la Russia), in qualunque circostanza. Questo credo è il segno di un’amicizia veramente profonda. L’Italia è sempre stata per costruire un rapporto e per lavorare affinché la situazione si normalizzi il prima possibile. Chiaro che sulla questione delle sanzioni c’è un tema preciso che sono gli accordi di Minsk. Però per esempio quello che noi abbiamo fatto e stiamo facendo è di dire attenzione il rapporto con la Russia è molto più grande di questo”.
E quando la giornalista russa di Rossija 1 (il principale canale dell’azienda televisiva statale) domandò a Calenda se il governo italiano avesse subito pressioni per bloccare gli affari con Mosca questi rispose così: “Secondo lei abbiamo ricevuto pressioni? Qui ci sono tutte le grandi aziende, c’è il presidente del Consiglio, c’è il ministro dello Sviluppo economico, ci sono le grandissime imprese, le associazioni di imprese, le banche, più di cosi non potevamo portare. Dovevamo traslocare il Colosseo”. Rammento che questo lo disse dopo che la Russia aveva annesso la Crimea.
Lo storico denuncia la “militarizzazione dell’informazione” che ha trasformato il dibattito sull’Ucraina

(ilfattoquotidiano.it) – “Guerra tra Russia e Ucraina? Da quando Biden decise che bisognava passare dalla guerra strisciante iniziata nel 2014 alla guerra aperta nel 2022, c’è stata la militarizzazione dell’informazione e anche della cultura in maniera molto netta dall’oggi al domani. Questa militarizzazione ha preteso che ci si schierasse, pena l’essere emarginati.” Sono le parole di Luciano Canfora, professore emerito di filologia greca e latina presso l’Università di Bari, durante la presentazione del suo nuovo libro, Il porcospino d’acciaio. Occidente ultimo atto (Laterza), in dialogo con lo storico Armando Pepe.
Da questo nucleo si irradia l’intera analisi dello studioso, che descrive un Occidente avvitato in una retorica bellica capace di colonizzare l’informazione e perfino l’ambiente culturale. Canfora ricorda come, “dal primo giorno della guerra in Ucraina, il 24 febbraio 2022”, i grandi giornali si siano lanciati in una copertura totalizzante e faziosa, “mettendoci dentro tutto il patetismo e la faziosità possibile occultando i dati”: tra questi, la dichiarazione di Papa Francesco secondo cui la Nato “abbaia ai confini della Russia” o le parole pronunciate da Sergio Mattarella a Mosca nel 2017 per invitare a fermare un conflitto che era già in atto.
La rimozione di questi elementi, secondo Canfora, crea un clima che non incoraggia la discussione ma la disciplina.
“Quelli che tentano di spiegare spesso subiscono reprimende aspre e fastidiose – osserva, evocando l’esempio del professor Angelo d’Orsi – Lui, che è un notevole storico italiano, quando per la sua generosità accetta di andare in qualche trasmissione viene letteralmente aggredito o gli viene tolta la parola o appena parla tutti quanti gli danno addosso. Quindi, il clima è da guerra e non mi stupisce che storici più o meno profondi nel loro mestiere si siano voluti collocare come soldati in trincea, ma questo non ha niente a che fare con la ricerca storica”.
E aggiunge episodi personali: “Ricevo spesso lettere da personaggi insospettabili che hanno responsabilità anche di carattere ufficiale. Uno ieri mi ha detto: ‘Sono io che ho perso il senno o finalmente si può dire che la guerra era incominciata in Ucraina nel 2014?’. Io l’ho consolato dicendo che sì, effettivamente ci sono le prove oggettive di questo. Dunque non c’è da stupirsi”.
Lo storico sottolinea: “Del resto, questo è accaduto anche in occasione di altri conflitti epocali. Penso alle coalizioni contro la prima repubblica francese descritta come del luogo del crimine, alle guerre contro Bonaparte, che era definito ‘il tiranno’. Con il tempo questo modo di esprimersi e di giudicare lascerà spazio a menti più fredde”.
Quando Pepe sposta l’attenzione su Gaza, la riflessione assume lo stesso registro critico. Canfora osserva come ogni tentativo di analisi venga subito neutralizzato dall’accusa di antisemitismo: “La cosa non mi sorprende, visto che oggi i principali e più accesi difensori dell’aggressore israeliano sono i partiti di estrema destra“.
Il professore cita il caso di Marine Le Pen, notando la sua paradossale posizione: “Marine Le Pen appartiene a una dinastia apertamente antisemita rispetto alle vicende della seconda guerra mondiale. Allora vuol dire che è cambiato qualche cosa. Non è che la virtù, il dolore o il martirio si ereditano. Ogni generazione risponde per sé – spiega – Le generazioni affiorate al governo dello Stato d’Israele hanno scelto una politica di carattere razzistico e terroristico da quando hanno occupato i territori dopo la Guerra di sei giorni e non li hanno mai mollati. Hanno creato una specie di apartheid in Cisgiordania e tutto questo non può non essere denunciato, parlarne non è antisemitismo, semmai il contrario. Anna Foa ha scritto un bellissimo libro Il Suicidio di Israele, in cui denuncia esattamente questa torsione terroristica dello Stato d’Israele. Parla la figlia di Vittorio Foa, famiglia ebraica, democratica, insospettabile”.
Il dialogo approda poi al cuore del libro. “La origine di questo lavoretto non era propriamente politica, ma storiografica”, spiega Canfora, illustrando il percorso che lo conduce dalle guerre antiche — dai Greci contro Priamo alle guerre persiane, da Cartagine a Cleopatra — fino alle demonizzazioni moderne, dalle letture distorte dell’Impero bizantino alle fratture interne dell’Occidente tra Rivoluzione francese e Prima guerra mondiale. Il concetto di Occidente emerge come “assolutamente prescientifico, propagandistico”, impiegato da chi, di volta in volta, intende aggredire.
È qui che Canfora richiama Arnold Toynbee e il suo Il mondo e l’Occidente, ricordando come tre quarti del pianeta abbiano conosciuto l’Occidente principalmente sotto forma di aggressione coloniale. E indica nella fase attuale una nuova lacerazione: “il presunto sempre molto aggressivo Occidente è dilaniato ancora una volta al proprio interno”.
La guerra dei dazi, le divergenze su Ucraina, gli appetiti per le ricchezze del Paese: “Il tutto si ammanta come guerra santa”, mentre giornali e telegiornali riproducono con zelo una narrazione puramente retorica.
ActionAid ha consegnato un esposto alla magistratura contabile e un altro all’Anac per per presunte irregolarità nell’affidamento dell’appalto di gestione delle strutture

(di Franz Baraggino – ilfattoquotidiano.it) – Il flop dei centri in Albania si è trasformato in un potenziale danno erariale al vaglio dei magistrati contabili. ActionAid ha consegnato alla Corte dei Conti un esposto di sessanta pagine indirizzato alla procura regionale del Lazio, per denunciare quello che definisce “uno sperpero ingiustificabile di denaro pubblico” e che, dati alla mano, si sarebbe potuto limitare se non addirittura prevedere. L’obiettivo è far accertare se esistano i presupposti per un’azione erariale rispetto alle violazioni contestate nella gestione dei centri. Parallelamente, un’altra segnalazione è stata inviata all’Autorità Nazionale Anticorruzione (ANAC) per presunte irregolarità nell’affidamento dell’appalto di gestione. La richiesta di intervento alla Corte dei Conti e all’ANAC è ritenuta “cruciale nel caso di persone formalmente in custodia dello Stato, ma concretamente in mano a società private e cooperative”.
I dati inediti sono pubblicati in un focus all’interno del progetto “Trattenuti” di ActionAid e Università di Bari. Che denuncino un quadro di spese fuori scala e organizzazione caotica fin dall’iniziale allestimento dei centri, partito con uno stanziamento di 39,2 milioni di euro, poi lievitati rapidamente a 65 milioni con il “Decreto PNRR 2”, trasferendo la competenza dai ministeri dell’Interno e della Giustizia alla Difesa. Per un impegno complessivo che è così salito a 73,48 milioni di euro. A fronte degli stanziamenti, la Farnesina ha pubblicato bandi per 82 milioni, firmato contratti per oltre 74 milioni – quasi tutti tramite affidamenti diretti – ed erogato più di 61 milioni per i soli allestimenti. Con una capienza reale di 400 posti a fine marzo 2025, il costo per singolo posto supera i 153.000 euro. Costo che ActionAid giudica del tutto ingiustificabile: “Oltre undici volte” il costo dell’allestimento di un posto nel Ctra di Modica (inaugurato nel 2023) a pieno regime, dove la spesa superava di poco ai 6.400 euro.
Il quadro peggiora guardando poi ai costi giornalieri. Nel Cpr di Gjader la spesa per detenuto è quasi tripla rispetto a un Cpr in Italia. Se a Macomer, in Sardegna, vitto e alloggio per il personale di polizia costano 5.884,80 euro al giorno, in Albania – per appena 120 ore di effettiva operatività tra ottobre e dicembre 2024 – la spesa è stata di 105.616 euro al giorno, quasi diciotto volte di più. Tutto questo mentre, alla fine del 2024, un quinto dei posti disponibili nei Cpr italiani risultava comunque vuoto. Non solo. Le stesse procedure che si voleva trasferire in Albania avevano già evidenziato ostacoli giuridici nazionali ed europei e risultati operativi fallimentari nei centri italiani: nessuna convalida per i trattenuti a Modica nel 2023, e appena 5 rimpatri su 166 persone transitate tra Modica e Porto Empedocle nel 2024, circa il 3%. Insomma, come sarebbe finita era ampiamente prevedibile.
Come non bastasse, le risorse risultano sottratte ad altri capitoli fondamentali: 15,8 milioni arrivano dal Fondo per esigenze indifferibili, previsto per le emergenze; 10 milioni dal Fondo straordinario della Difesa; 47,7 milioni da tagli ai bilanci di dodici ministeri. L’avvocato Antonello Ciervo, coordinatore del team legale di ActionAid, parla di “soldi pubblici sottratti alla salute, alla giustizia, al welfare e ai servizi, ma anche ai fondi per la gestione delle emergenze”, sottolineando come la distorsione nell’uso delle risorse sia aggravata dall’illegittimità del modello dei centri albanesi. Fabrizio Coresi, esperto di migrazioni per ActionAid, aggiunge che “l’ostinazione nel tenere in vita un progetto inumano, inefficace e giuridicamente inconsistente”, attraverso continui nuovi stanziamenti, spostamenti di competenze e cambi di regole, ha prodotto una perdita per l’erario che non può essere liquidata come un semplice errore tecnico. A confermare l’impatto del “passaggio aggiuntivo” rappresentato dalla detenzione off-shore è il dettaglio delle spese accessorie: il ministero della Difesa ha sostenuto oltre 2,6 milioni di euro tra manutenzione della nave Libra, trasferte e indennità di missione per Carabinieri e personale della Marina. Il ministero della Giustizia ha firmato contratti per quasi 2 milioni ed erogato 1,2 milioni, fino a maggio 2025, per il penitenziario di Gjader, una struttura mai utilizzata e mai completata. Anche il ministero della Salute ha autorizzato spese per quasi 4,8 milioni ed effettuato pagamenti per 1,2 milioni, nonostante gli uffici dell’Usmaf in Albania siano vuoti da marzo.
C’è poi la questione della trasparenza. “Scarsa”, secondo ActionAid, quella per l’affidamento dell’appalto di gestione da 133 milioni di euro. La cooperativa Medihospes si è aggiudicata la procedura – negoziata senza bando – dopo una manifestazione di interesse, risultando l’unica tra le tre cooperative selezionate dalla Prefettura di Roma a presentare un’offerta. La segnalazione ad ANAC rileva che non sarebbe stata neppure verificata la rilevanza internazionale dell’appalto, che al contrario avrebbe imposto una procedura più aperta. A oltre un anno e mezzo dall’aggiudicazione, poi, non è stato ancora stipulato alcun contratto, e gli unici documenti emessi per consentire la partenza dei lavori sono i due verbali di esecuzione anticipata in urgenza. Il report “Trattenuti” avverte anche del rischio di “cattura istituzionale”, “cioè che le scelte pubbliche finiscano per dipendere troppo da un solo operatore, che risulta quindi necessario coinvolgere”, si legge. Secondo il rapporto, la Prefettura di Roma ha finito per dipendere in modo strutturale da Medihospes, che ha concentrato quote altissime della gestione dei centri di accoglienza straordinaria (Cas) di Roma e mantenuto la posizione dominante “nonostante sanzioni e infrazioni documentate” e continuando a ottenere incarichi e ad ampliarsi, fino a risultare l’unica partecipante alla gara per l’operazione albanese. Dinamica che, si legge, ha ridotto quasi a zero la concorrenza, espellendo di fatto le piccole cooperative sociali incapaci di reggere i volumi e i ribassi economici richiesti.

(ANSA) – MOSCA, 02 DIC – “La Russia non ha intenzione di combattere con l’Europa, ma se l’Europa inizierà, saremo subito pronti”. Lo ha detto il presidente Vladimir Putin, citato dall’agenzia Ria Novosti.
Slitta decreto per prorogare cessione di armi all’Ucraina
(ANSA) – ROMA, 02 DIC – Slitta il decreto legge per prorogare l’autorizzazione a cedere mezzi, materiali ed equipaggiamenti militari all’Ucraina. Il provvedimento era fra i 18 all’ordine del giorno della convocazione – inviata ai ministeri questa mattina – della riunione tecnica preparatoria prevista per domani, alla vigilia del Consiglio dei ministri.
Da poco è stata inviata una convocazione aggiornata, con solo 17 provvedimenti in esame, e senza quel decreto. Secondo quanto spiegano fonti di governo, l’ordine del giorno era già molto carico di questioni urgenti e, poiché l’autorizzazione alla cessione di armi a Kiev scade a fine mese si è deciso di rinviare il decreto.