Non serviva un esperto per prevederlo: il piano di pace riscritto dai volenterosi è stato respinto dal Cremlino

(di Antonio Pitoni – lanotiziagiornale.it) – Non serviva un esperto di geopolitica per capire come sarebbe finita. Il famoso piano di pace riscritto dai volenterosi, cioè un gruppo di leader europei capeggiati da Ursula Bomb der Leyen, con al seguito il guerrafondaio britannico Starmer – che ha appena invitato i sudditi di sua Maestà ad abituarsi all’idea di subire perdite umane nella prossima guerra contro la Russia – è stato respinto dal Cremlino.
Cose che capitano quando gli sconfitti, abbandonati al proprio destino dall’alleato Trump che ha rinnegato la scelta scellerata di provocare il conflitto in Ucraina, pretendono di dettare le condizioni al vincitore. Secondo il cenacolo di statisti riuniti l’altra sera dal cancelliere Merz, Putin dovrebbe rinunciare ai territori occupati e accettare la presenza di truppe Nato sul territorio ucraino. Cioè la principale causa che nel febbraio 2022 scatenò l’invasione russa dell’ex repubblica sovietica.
L’ennesimo tentativo di sabotaggio da parte europea del negoziato di pace in corso che, qualora andasse a buon fine, certificherebbe non solo il fallimento totale dei leader Ue, che non hanno mai neppure tentato una soluzione diplomatica del conflitto, ma renderebbe impossibile spiegare alle opinioni pubbliche europee il già inviso piano di riarmo da 800 miliardi, firmato Bomb dei Leyen, che proprio ieri ha visto un’accelerazione grazie al voto del Parlamento Ue.
Intanto l’Italia stanzia altri 3,5 miliardi per le spese militari. Un capitolo che ha ormai raggiunto le dimensioni di una mini-manovra, mentre il governo continua a riscrivere la Finanziaria per raschiare il fondo del barile. Per le armi, invece, i soldi si trovano sempre.

(di Gianvito Pipitone – gianvitopipitone.substack.com) – “Più in basso di così c’è solo da scavare”. Quando le parole non bastano più a descrivere razionalmente ciò che accade, si fa prima a evocare un poeta o un artista, come se la loro voce potesse restituire la vertigine di questo tempo. Per il resto, non rimane che un respiro profondo e il tentativo di riconnettersi al mondo in maniera laterale: attraverso la meditazione, lo yoga, le filosofie orientali. Non per anestetizzarsi di fronte a una realtà che ha cambiato pelle in modo radicale, ma per imparare a digerire – con atteggiamento stoico – le narrazioni grottesche e la follia che si riversano ormai a piene mani su questo scorcio di secolo che ci è toccato vivere.
È roba che nemmeno un complottista della prima ora avrebbe potuto immaginare, neppure nell’iperbole più acuta della sua visionarietà più malata. Eppure non si tratta di un complotto, ma della più triste delle verità: la realtà che ci circonda.
Donald Trump, nel suo secondo mandato, sta demolendo ciò che resta dell’impalcatura della democrazia americana, trascinando con sé quel poco che rimane del vecchio Occidente verso un futuro che di radioso non ha nulla. E proprio mentre ci abituiamo a questo scenario, si insinua un pensiero ancora più inquietante: potrebbe andare peggio. Trump non ha fatto altro che imprimere la spinta finale a una trottola che già da tempo, per inerzia e per l’imperizia dell’alternativa democratica, aveva iniziato a girare velocemente verso destra.
L’uomo “che non deve chiedere mai” ci ha ormai abituati a ogni eccesso. Le sue ultime uscite – dall’Arco di Trionfo più grande di quello di Parigi alle parole vergognose pronunciate nel giorno della morte violenta del compianto Bob Reiner e della moglie – non suscitano più né indignazione né ironia. Non ci fanno ridere, non ci fanno tremare di paura. Ci consegnano soltanto l’immagine di un uomo privo di misura, incapace di contenere la propria deriva, ormai lontano da qualsiasi razionalità.
Eppure, al netto di questa quotidiana follia, nemmeno la prospettiva di un futuro più roseo pare offrirci sollievo. Quando penseremo che, finalmente, sarà passata ’a nuttata, non è affatto scontato che la generazione del post Trump – e del suo brother-in- arms Putin – possa essersi lasciata alle spalle il peggio.
Il sospetto è che, continuando di questo passo, i successori in pectore non porteranno ad alcun sollievo. Al contrario, peggioreranno, se possibile, le cose. Non c’è speranza per chi varca quella soglia di dantesca memoria, pare: il mondo, consegnato nelle loro mani, sembra avviato verso un disimpegno totale, un abbandono a sé stesso, un “go with the flow” drammatico che trascina tutto come un fiume in piena, travolgendo qualunque cosa vi si opponga.
Troppo pessimista, dite? Può essere. E mi auguro sinceramente di sbagliare. Ma sapete com’è: la predictio malorum – specie di questi tempi – è sempre da preferire. Chi parlò si salvò, si dice dalle mie parti.
Pensavamo di averle sentite e viste tutte. Non abbastanza, evidentemente. Nessuno avrebbe potuto immaginare che le teorie strampalate – per non dire assurde e vergognose – di Curtis Yarvin, ideologo della tecnodestra americana, non solo sarebbero potute uscire dalle fogne in cui parevano confinate insieme all’odio e all’orrore, ma che sarebbero diventate materia di ascolto per settori dell’amministrazione Trump.
Precursore del concetto di “Illuminismo oscuro”, Yarvin ha sempre trattato la democrazia come un fallimento storico, da sostituire con forme di governo autoritarie e tecnocratiche. Le sue visioni, imbevute di riferimenti a Matrix, alla cultura geek e alle teorie del fascista Julius Evola, non sono soltanto provocazioni intellettuali: sono proposte deliranti.
Non tutti gli uomini sono uguali, dice Yarvin, perché il maschio caucasico avrebbe un QI più alto e quindi il diritto di comandare sul resto delle razze. Una teoria che riecheggia a spanne quelle del Terzo Reich. E ancora: una soluzione per togliere di mezzo gli uomini a basso quoziente intellettivo dalla strada o dalla droga? Semplice: rinchiuderli 24 ore su 24 in strutture di realtà virtuale, sorta di “pollifici” umani … incapaci di produrre persino un uovo. Un incubo delirante, fuori da ogni razionalità, che non dovrebbe nemmeno essere pronunciato e che invece trova spazio e ascolto.
Ci si può solo chiedere come sia stato possibile arrivare a questo punto, e come figure che dovrebbero restare confinate nei sottoboschi più oscuri della rete più profonda possano d’un tratto diventare mainstream.
Il quadro, già cupo, non si chiude senza l’ascesa – prevedibile e insieme perturbante – di una figura finora rimasta in penombra: il vicepresidente degli Stati Uniti, J.D. Vance, che molti già indicano come il prossimo candidato alla presidenza. Vance, dietro il suo sorriso freddo e sornione, con l’aria di un felino annoiato ma pronto a colpire, non rinuncia a stoccate nette e letali. Lo si è visto durante la prima visita-imboscata di Zelenski alla Casa Bianca, quando la sua postura implacabile ha rivelato la stoffa di chi sa trasformare l’attesa in un balzo al centro della scena.
Freddo, scarsamente empatico, Vance non urla, non improvvisa, non ha bisogno di eccessi. Lui prega – dall’alto del suo sbandierato cattolicesimo – per quanto molte delle sue preghiere paiano intersecare gli insegnamenti religiosi più conservatori e fondamentalistia: antiabortista, ferocemente contro i diritti LGBTQ+, contro la fecondazione assistita, radicalmente contro le politiche migratorie e …chi più ne ha più ne metta.
Alla Conferenza di Monaco di febbraio scorso, ha dichiarato – in uno dei suoi frequenti attacchi contro la cultura del political correct – che “in Europa la libertà di parola è in ritirata”, accusando l’Unione di bullizzare le Big Tech. Non un dettaglio: brandire la libertà di parola come arma significa legittimare, in quel caso, gli estremisti neonazisti di AfD, erodere gli anticorpi istituzionali, scavare nel cuore della democrazia.
Per completare il quadro, l’allineamento con forze populiste europee e la narrazione dei “valori occidentali traditi” costituisce l’ulteriore terreno ideologico da preparare: delegittimare media, istituzioni e organismi sovranazionali, aumentare la polarizzazione, contro l’inclusione, ridurre la capacità di mediazione della democrazia.
Ecco perché la sua figura – in divenire – potrebbe incutere, se possibile, più paura dell’attuale scenario già da incubo. Perché non solo conferma la direzione verso cui sta andando l’umanità di Trump, ma la legittima con un peso di natura intellettuale. Vance, cioè, non parla più alla pancia della gente, come Trump, ma alla testa delle persone.
Sembrano lontani i tempi in cui ci lamentavamo del bacchettonismo woke che proveniva dalle Università fricchettone dell’America libera e liberale, o della ultra-normativizzazione della Comunità Europea. Non vorremmo doverci pentire di aver scambiato quelle lamentele per il peggio, quando il peggio, quello vero, non solo non è oggi, ma potrebbe ancora dover arrivare.

Si conclude sabato 20 dicembre alle 17.30, presso il Palazzo Vescovile, la rassegna di cultura, Avellino letteraria giunta alla quinta edizione, ideata ed organizzata da Annamaria Picillo, direttore artistico dell’evento. Un programma ricco e complesso quello del 2025. La tematica di quest’anno è stata: “Resistere”. Si è discusso di tanti temi di vita sociale, numerosi confronti su letteratura, arte, musica, teatro, incontri con i protagonisti. Una iniziativa nata dalla voglia di favorire e promuovere la diffusione della cultura, attraverso i libri e la lettura. Una quinta edizione che ha riscontrato un importante partecipazione da parte del pubblico, di critici, di editori e scrittori, creando così un punto fermo per gli anni futuri. Insieme agli autori, al pubblico presente, agli appassionati di cultura, si è vissuto momenti di condivisione, di emozioni, di confronto, proposte che potrebbero, anzi dovrebbero essere un’occasione soprattutto per l’universo giovanile di avvicinarsi alla lettura, alla conoscenza, alla socialità ed alla riflessione comune. Sarà l’autore, Angelo Cristofano, a chiudere questa edizione con il libro: “Noè… Noè… ma dove vuoi portarci!!!???”. Dopo i saluti di Monsignor Arturo Aiello, vescovo di Avellino, Giuliana Perrotta, commissario straordinario del comune di Avellino, Edgardo Pesiri, presidente Aps Carlo Gesualdo e Gianni Festa direttore del Corriere dell’Irpinia, interverranno: Ada Ciaglia, dirigente scolastico e Antonella Prudente, docente di lettere. Dialoga con l’autore, Milena Montanile, docente Università degli Studi di Salerno. Interludio musicale, con le dolci note di canti natalizi, riscalderanno l’atmosfera. La danza vedrà protagoniste: Beatrice Giordano, Clarissa Di Iorio e Claudia Barbato. Coordina la giornalista, Daniela Apuzza. Sostiene la serata “Oliviero dolciaria”, la lunga tradizione irpina, ed il celebre torrone, simbolo del Natale italiano. Gran finale, ed un brindisi ideale, che sarà di buon auspicio per la sesta edizione di Avellino letteraria.
Pasolini “vate dei porci”. Era questa la definizione data nel 1968 da Giovane Italia (l’organizzazione juniores del Movimento Sociale Italiano) in un comunicato stampa. Ma ad Atreju di Pasolini, come di Gramsci, si è parlato. Sapete perché? Perché la destra ha bisogno di un “presepe culturale” e lo sta rubando anche alla sinistra, che, tanto per cambiare, glielo lascia fare

(di Fulvio Abbate – mowmag.com) – Giorgia Meloni sembra detestare chiunque non le somigli. E, si sappia ancora, non è l’unica a provare risentimento, se non proprio livore, per tutti noi che, per semplici ragioni di eleganza e stile, non possiamo perdonarle di non avere mai mostrato discontinuità rispetto a una sua, interamente sua, matrice neofascista, temo ostentata come fosse un peluche festivo. Altrettanto meschini, anzi, “rosiconi” risultiamo agli occhi dei suoi molti instancabili sostenitori, cioè in chi ha votato il suo miracoloso partito che, fin dal nome, mostra pretese familiari, forse anche familistiche, quasi fossimo in presenza di un patto tra consanguinei, sorta di prima comunione e cresima identitarie: Fratelli d’Italia. Implicitamente, assodata la narrazione da rotocalco popolare e populista, perfino “sorelle”, in questo caso non meno italiane, cristiane, convinte che prima d’ogni altri debbano essere gratificati i nostri dirimpettai connazionali, implicito disprezzo verso l’immigrati, concepiti come immondizia umana, indesiderabili.
Giorgia Meloni, come molti fanno inutilmente notare, dimentica, forse strumentalmente, di trovarsi da tre anni in una posizione apicale, addirittura alla presidenza del Consiglio, ciononostante tutto ciò non le impedisce di attribuire agli altri, ai cosiddetti, sempre parole sue, “rosiconi” e “sinistri”, “residenti delle ZTL”, appunto, i propri limiti, i doverosi compromessi che realismo politico impone; d’altronde il vittimismo risentito è tra le armi principali di chi, notava il liberale Ennio Flaiano, vive in uno stato di perenne profondo senso di inferiorità culturale, oltre che politico. Non si dimentichi che agli occhi di molti il luogo ideale di chi non abbia mai marcato distanza dalla memoria dell’orbace mussoliniana prende il nome di “fogna”. Per antifrasi, gli stessi “camerati”, anni addietro, ritennero giusto chiamare una loro fanzine altrettanto identitaria proprio “La voce della fogna”. Non sembra che, diversamente da Gianfranco Fini, abbiano mai definito il fascismo “male assoluto”. Quanto ai rapporti con la “comunità” non si sono mai interrotti.

Accanto al vittimismo temperato di rabbia mal trattenuta, il Minculpop intestato a una creatura fantasy di Giorgia Meloni da settimane ormai lavora ad ampliare le sale del proprio pantheon già prossimo scenograficamente a una cripta, includendo accanto all’immaginario già sufficientemente citato – “Il Signore degli Anelli” di J. R. R. Tolkien, e ancora “La storia infinita” di Michael Ende: da cui trarre il “logo” Atreju per le proprie manifestazioni-vetrina-showroom – figure del tutto improprie rispetto al patrimonio genetico iniziale.
L’appropriazione di Antonio Gramsci, in funzione della legittimazione di una propria egemonia venata di revanchismo tuttavia non meno nibelungico come già nelle premesse “non conformi”, è in questo senso esemplare, ed essendo condotta in un contesto segnato dalla post-verità dell’Intelligenza artificiale che tutto concede e consente appare in definitiva irrilevante che storicamente non possano esserci punti di contatto da il promotore dell’“Ordine Nuovo” nei giorni dell’occupazione armata delle fabbriche torinesi, Gramsci, e chi giunge invece dal “bunker” di Colle Oppio, alle cui pareti figuravano semmai i ritratti votivi di Corneliu Codreanu, leader ultranazionalista e ideologo antisemita romeno de la “Guardia di Ferro” o di Léon Degrelle, quest’ultimo un politico belga, fondatore del rexismo, movimento nazionalista di ispirazione ultra-cattolica, pronto a virare ideologicamente verso il fascismo, combattente nella seconda guerra mondiale nel contingente vallone delle Waffen-SS. Oppure, in un caso più “colto” ed estetizzante nel controluce mortuario della destra “sublime”, suggerendo quindi temperature eroiche, Robert Brasillach, scrittore francese collaborazionista e come tale fucilato nel febbraio 1945 al forte di Montrouge. Sorge perfino il dubbio che il culto di Ezra Pound cui molta destra fa riferimento, come fiore all’occhiello al posto delle “cimice” del trascorso Pnf, non ne riguardi con esattezza l’opera poetica straordinaria, si pensi alla complessità immaginifica dei “Cantos”, semmai l’immagine ben più prosaica e vittimistica del “prigioniero in gabbia”, catturato dai partigiani italiani e consegnato ai militari statunitensi che lo internarono nel campo di prigionia di Coltano, nei pressi di Pisa.

C’è anche il caso del non meno improbabile tentativo di appropriazione di Pier Paolo Pasolini, poeta, scrittore, cineasta, critico letterario, semiologo civile, intellettuale (anzi, “intelletuale”, così come scrisse un anonimo segretario di sezione friulana sulla sua tessera di militante comunista del 1947), polemista “corsaro” e “luterano” e legato “sentimentalmente” all’epica resistenziale. Basterebbe in questo caso leggere la sua dichiarazione di voto del giugno 1975 per abbattere ogni dubbio: “Voto comunista perché ricordo la primavera del 1945, e poi anche quella del 1946 e del 1947. Voto comunista perché ricordo la primavera del 1965 e anche quella del 1966 e del 1967. Voto comunista, perché nel momento del voto, come in quello della lotta, non voglio ricordare altro”.
Rispetto a un possibile Pasolini “conservatore”, se non “reazionario” o addirittura “fascista e delatore”, come ha suggerito Federico Mollicone, deputato di Fratelli d’Italia e presidente della commissione Cultura alla Camera – “Sì, in pochi lo sanno. E tuttavia è un fatto. Non certo una mia opinione” – ritengo che basti citare un remoto “comunicato stampa” della Giovane Italia, organizzazione juniores del Msi, stilato intorno al 1968, per “manifestare contro il clima di sporcizia morale che ha invaso il cinema italiano servo del P.C.I. e dei preti del dialogo”, dove Pasolini viene indicato come “vate dei porci” per rispondere nel merito senza fatica alcuna. Evidentemente anche in questo caso “le radici non gelano”, semmai si prova a rimuoverle. Il documento che trovate qui allegato lo abbiamo ricevuto dal nostro amico Umberto Croppi, intellettuale, lui sì, ingovernabile che tuttavia giunge da Destra.

Ma è forse ciò che definiremo “presepe familiare” è ciò che più di ogni altra cosa restituisce il nucleo del consenso che la Meloni riesce a ottenere: come ho avuto modo di notare nei giorni scorsi anche altrove, l’apparizione della madre di “Giorgia”, Anna Paratore, tra il pubblico di Atreju è in questo senso rivelatorio ed esemplare, Anna Paratore ci consegna infatti sia l’immagine di una Madre Coraggio capitolina sia, per postura e stazza (e non sembri “body shaming”, semmai un dato oggettivo) la sagoma di Sora Lella che accompagna Mimmo al seggio elettorale in “Bianco rosso e Verdone”, così in un paese mai pienamente pervenuto alla convinzione che Dio Patria e Famiglia, categorie queste presenti nella pochette meloniana, siano valori regressivi, proprio di un’angustia piccolo-borghese soffocante proprio di un tempo antecedente le più significative conquiste civili. Temo invece che, al contrario, l’immagine della Ur-Madre Anna nel caso di “Giorgia” sembra essere un sigillo ulteriore di verace “autenticità”. In verità, ci sarebbe da citare altrettanto, sempre lì ad Atreju, la presenza tra il pubblico dell’ex compagno, nonché padre della figlia Ginevra, Andrea Giambruno… Irrilevante che la piccina sia nata fuori dal vincolo matrimoniale. La Destra non sottilizza molto in tema di morale confessionale quando si tratta di sé stessa; il peso del sentire clericale lo riserva infatti ad altri, magari evocando l’uso del “Maalox” per questi ultimi.
Peccato che a dispetto di questo deposito di retorica populista da sottoscala, a Sinistra prevalga il timore di pronunciare parole che possano indispettire, o ancora peggio amareggiare, i perbenisti, lasciando agli altri il monopolio di una presunta irrefrenabile libertà, così Donald Trump potrà letteralmente continuare a “cacare in testa” in effigie a chiunque – testuale come da video postato tempo addietro – tra i sorrisi impliciti della cara “Giorgia”.
Dagli attacchi personali alle sanzioni economiche: così si colpisce la relatrice Onu per rendere irrilevanti i suoi rapporti su Gaza

(di Giulio Cavalli – lanotiziagiornale.it) – Ma davvero sono solo polemiche quelle contro Francesca Albanese? Non proprio. Bisogna partire dall’inizio per provare a fare un po’ di chiarezza. Nel maggio 2022 Francesca Albanese assume l’incarico di Relatrice speciale delle Nazioni Unite sui diritti umani nei Territori palestinesi occupati.
È un mandato strutturalmente esposto allo scontro politico: unico incarico geografico a tempo indeterminato, destinato a durare fino alla fine dell’occupazione israeliana, con il compito esplicito di indagare le violazioni della potenza occupante. In questa cornice, la reazione ostile era più che prevedibile, praticamente scontata. Ma quello che si è dispiegato nei tre anni successivi segue invece una traiettoria diversa: una strategia coerente, progressiva, riconoscibile, che non mira a contestare i rapporti ma a svuotare di legittimità chi li produce.
La delegittimazione di Albanese procede per accumulo. Ogni passaggio prepara il successivo, ogni attacco rende plausibile quello dopo. Non è una polemica. È un’architettura.
Il primo livello è reputazionale. La campagna prende avvio con la riesumazione di un post social del 2014, scritto durante l’operazione militare israeliana “Margine di Protezione”. L’operazione è condotta in modo sistematico da organizzazioni come UN Watch, diretta da Hillel Neuer, e rilanciata da network affini come NGO Monitor e International Legal Forum.
Una frase infelice, già chiarita e corretta dalla stessa Albanese, viene isolata dal contesto e trasformata in prova permanente di antisemitismo. Il tempo trascorso, il chiarimento successivo, la distinzione tra critica politica e odio antiebraico diventano irrilevanti. L’obiettivo è fissare un’etichetta, a nessuno interessa realmente discutere del contenuto. E così l’etichetta rimane, come un’ombra, la prima. Missione compiuta.
Il secondo livello è mediatico e politico. I dossier prodotti da queste Ong vengono amplificati da diverse testate fino a diventare argomento di interrogazioni parlamentari e richieste formali di rimozione. Negli Stati Uniti la pressione arriva fino a dichiarazioni pubbliche di funzionari e parlamentari; in Europa coinvolge direttamente governi come quelli di Germania e Francia, che nel 2024 sollecitano chiarimenti al Segretario generale Onu António Guterres. La critica si sposta definitivamente dal merito dei rapporti alla presunta inaffidabilità morale della Relatrice. In questa fase il nome di Albanese viene reso “tossico”: chi la invita, chi la ascolta, chi la difende è a sua volta sospetto.
Il terzo livello è istituzionale. Israele le nega l’accesso ai Territori occupati, consolidando una prassi già applicata ai predecessori Richard Falk e Michael Lynk, ma estendendo l’ostracismo anche dopo il 7 ottobre 2023. Negli Stati Uniti la pressione diplomatica si traduce in un salto di qualità: nel luglio 2025 il Dipartimento del Tesoro inserisce Albanese nella lista Ofac – Specially Designated Nationals, attivando l’Executive Order 14203, lo stesso strumento usato contro la Corte penale internazionale. È la criminalizzazione finanziaria di un mandato ONU.
Dentro questo schema si inserisce il caso italiano. Nel dicembre 2025, dopo incontri con studenti in scuole superiori toscane per presentare il libro “Quando il mondo dorme”, il ministero dell’Istruzione dispone ispezioni ministeriali citando articoli di stampa e ipotizzando profili di reato. L’innesco arriva da una campagna mediatica di alcuni organi di stampa di area centrodestra, rilanciata politicamente dalla Lega. La sequenza è lineare: attacco mediatico, reazione politica, intervento amministrativo. L’autonomia scolastica viene sospesa in nome di un controllo che non riguarda la didattica ma il contenuto politico di una voce ritenuta scomoda.
L’effetto va oltre il singolo episodio. Anche in assenza di sanzioni formali, l’ispezione produce un messaggio chiaro: invitare Albanese comporta un rischio. Il procedimento diventa esso stesso punizione, deterrente, avvertimento preventivo rivolto a dirigenti, docenti, amministrazioni locali che le avevano conferito cittadinanze onorarie.
Nel frattempo la pressione si estende alla sfera privata. UN Watch apre un fronte contro il marito di Albanese, Massimiliano Calì, economista alla Banca Mondiale, accusandolo di conflitto di interessi per precedenti consulenze con l’Autorità nazionale palestinese e chiedendone pubblicamente il licenziamento al presidente Ajay Banga. Anche qui il messaggio è esplicito: il prezzo del mandato ricade anche sui familiari.
II punto di rottura arriva con il rapporto Onu del 2 luglio 2025, “From Economy of Occupation to Economy of Genocide”, in cui Albanese cita un elenco di aziende per il loro ruolo economico e tecnologico nell’occupazione e nella guerra a Gaza. Quando l’analisi tocca le corporation e i flussi finanziari globali, la risposta diventa immediata e sproporzionata. Neutralizzare la fonte è la soluzione più veloce e più comoda.
E siamo a oggi. Non si tratta solo di Francesca Albanese: la sua vicenda mostra un modello ripetibile. Scavo nel passato, etichettatura morale, isolamento fisico, lawfare, pressione economica, attacco ai familiari. Una sequenza che trasforma il diritto internazionale in un terreno ad alto costo personale. Il messaggio è rivolto al futuro: chi esercita quel mandato sa cosa lo aspetta. Non per quello che dirà, ma per il solo fatto di dirlo.

(da “Un giorno da pecora” – Rai Radio1) – La mia disponibilità ad ospitare i membri della Famiglia del bosco? “Quando la offrì una signora mi disse che avrei dovuto aspettare il 16 dicembre, che è oggi. Quindi vediamo cosa diranno”. A parlare, ospite di Rai Radio1, a Un Giorno da Pecora, è il cantante e imprenditore Al Bano Carrisi, intervistato da Giorgio Lauro e Geppi Cucciari.
“Io sono sempre disponibile per ospitarli nel mio bosco – ha ribadito l’artista -, quando e come vogliono”. Sarebbe disposto a trovare anche un lavoro ai genitori? “Se vogliono il lavoro troveremo anche quello”, ha assicurato Al Bano a Un Giorno da Pecora.
L’UE e la trattativa di pace in Ucraina? “Visto che esistiamo dobbiamo anche esser presenti, altrimenti quando fanno l’appello rispondono solo in pochi”. A parlare, ospite di Rai Radio1, a Un Giorno da Pecora, è il cantante e imprenditore Al Bano Carrisi, che molte volte si è esibito in Russia, intervistato da Giorgio Lauro e Geppi Cucciari. Zelensky dovrebbe accettare di perdere un po’ di territorio?
“Da quello che so quel territorio è stato un regalo della zarina Caterina circa trecento anni fa’, quindi sarebbe un ritorno alle origini. Il dramma del Donbass è che per anni sono andati d’amore d’accordo, poi a seguito di una presa di coscienza sbagliata, quelli dell’ovest hanno iniziato a sparare a quelli dell’est”. Chi vuole meno la pace tra il leader ucraino e quello russo? “Se si mettono d’accordo dovranno volerla entrambi”.

(Bartolomeo Prinzivalli) – Di Maio rappresenta per circa la metà dell’elettorato, quello che non vota più, il prototipo del politico italiano: furbo, opportunista, privo di scrupoli.
Ha saputo cogliere un’opportunità, forse inizialmente persino in buona fede, e ne ha fatto un trampolino per la carriera individuale, sacrificando senza alcun rimorso reputazione e rispetto di coloro che in lui riponevano ogni speranza.
Ha cavalcato l’onda del cambiamento diventandone alfiere ed è stato lesto ad imparare quali slogan fossero più efficaci, quali parole risuonassero maggiormente nelle orecchie di un popolo stanco di essere sfruttato maltrattato e deriso in modo da poterlo truffare per l’ennesima volta.
Ha assaporato il potere che giurava di combattere divenendone estimatore, dipendente, infine succube; per raggiugere tale scopo ha tradito ogni sguardo, supporto, faticoso contributo di chi si era illuso che in Italia una rivoluzione pacifica e reale fosse possibile.
Come c’è riuscito?
Un po’ per merito suo, mettendo a frutto la tipica furbizia di chi sa insinuarsi in ogni spiraglio riuscendo nel contempo a distinguersi fra schiere di contendenti ed ostacolando eventuali rivali, ma molto per colpa di un popolo di creduloni che dall’idea iniziale di un’organizzazione orizzontale è finito con l’adorare nuovi idoli ergendoli ad eroi infallibili ed insostituibili, tanto da rifiutarsi di riconoscerne evidenti limiti, errori madornali ed ambiguità.
Da lì ad attuare la frase simbolo di Wanna Marchi il passo è breve, persino naturale; lui l’ha fatto forse in maniera palese, eccessivamente roboante perché ha puntato in alto, altri si sono accontentati di molto meno rimanendo in sordina, tutto qua.
Una ferita aperta che diventa repulsione, disillusione, nichilismo, infine urna vuota.
Come invertire la tendenza? E chi dovrebbe farlo?
Non lo so. Forse mia nonna, se fosse ancora viva…

(Sassi nello stagno – lafionda.org) – Ormai siamo alla follia. L’UE non si limita più a censurare le voci scomode, ma ha iniziato a stilare vere e proprie liste di proscrizione, utilizzando lo strumento delle sanzioni – nato come misura commerciale – per mettere di fatto “fuori legge” semplici cittadini colpevoli di avere opinioni divergenti dalla narrazione di regime. Era già accaduto a tre giornalisti tedeschi. Ora, con l’ultimo pacchetto di sanzioni, è toccato anche al noto analista ed ex colonnello svizzero Jacques Baud, accusato di fare “propaganda filorussa” per il solo fatto di avere una lettura del conflitto in Ucraina diversa da quella ufficiale (e – addirittura! – di aver concesso interviste a canali d’informazione russi).
Per questo – in un salto logico che lascia esterrefatti – viene ritenuto “responsabile delle azioni della Federazione Russa”. È evidente che ci troviamo di fronte a un attacco alla libertà di espressione e allo Stato di diritto senza precedenti nell’Europa del dopoguerra. Né sorprende che dietro questa deriva vi sia l’UE, che da oltre trent’anni rappresenta il principale strumento di smantellamento della democrazia nel continente.
È importante sottolineare che le sanzioni dell’UE non sono comminate da alcun tribunale. Si tratta di punizioni emanate direttamente dal potere esecutivo, nei confronti di individui che non sono stati giudicati colpevoli di alcun reato da nessuna corte: l’elaborazione e la proposta delle misure fanno capo all’ufficio di Kaja Kallas. Le conseguenze per i sanzionati sono devastanti: non solo viene loro impedito l’ingresso e il transito nel territorio dell’Unione – il che significa, per chi si trovi già in un Paese UE, non poterne uscire – ma, cosa ancora più grave, subiscono il congelamento dei beni e dei conti bancari.
Se non ci ribelliamo a questa terrificante deriva totalitaria, presto potrebbe essere troppo tardi per farlo.

(ANSA) – WASHINGTON, 16 DIC – Donald Trump ha firmato più ordini esecutivi in meno di un anno di presidenza di quanti ne avesse firmati nell’intero primo mandato, aggirando ripetutamente il Congresso e costringendo i tribunali a confrontarsi con i limiti costituzionali del suo potere.
Lo scrive il Washington Post. Lunedì Trump ha firmato un provvedimento che dispone la designazione del fentanyl come “arma di distruzione di massa”, il 221/mo ordine esecutivo del suo secondo mandato.
Dalla sua inaugurazione, Trump ha utilizzato questi ordini per imporre dazi su larga scala, cercare rappresaglie contro quelli che considera i suoi nemici e intervenire su questioni culturali di ogni tipo, dalle leggi sull’immigrazione alla regolamentazione della pressione dell’acqua nelle docce.
Secondo un’analisi del Wp basata su dati delle organizzazioni non profit CourtListener e JustSecurity, un terzo degli ordini esecutivi di Trump è stato esplicitamente impugnato in tribunale entro il 12 dicembre.
I presidenti statunitensi hanno progressivamente concentrato il potere esecutivo per aggirare il Congresso sin dall’inizio del XX secolo. Tuttavia, Trump ha accelerato una tendenza che si è intensificata negli ultimi decenni, in un contesto di calo dell’attività legislativa e di crescente scontro partitico.

(ANSA) – Liste d’attesa, carenza di personale e disomogeneità territoriale mettono ancora a rischio l’effettività del diritto alla salute. Emerge da due Rapporti presentati oggi da Cittadinanzattiva.
Dall’analisi sul 2024 di oltre 16mila segnalazioni dei cittadini emerge che il 47,8% riguarda difficoltà di accesso alle prestazioni, soprattutto per le liste d’attesa: fino a 360 giorni per una Tac, 720 per una colonscopia e 500 giorni per le prime visite specialistiche. Secondo un’elaborazione su dati Agenas 2025, però, nella fascia di priorità urgente la colonscopia supera, per 1 paziente su 4, i 105 giorni rispetto al limite delle 72 ore.
Superato senza correttivi anche l’esame delle commissioni Affari costituzionali e Giustizia del Senato

(di Gianni Trovati – ilsole24ore.com) – La riforma della Corte dei conti supera senza correttivi anche l’esame delle commissioni Affari costituzionali e Giustizia del Senato; ed è quindi pronta per il voto finale nell’Aula che dovrebbe arrivare entro la fine dell’anno, una volta chiusa la sessione di bilancio. L’obiettivo di Governo e maggioranza è di condurre in porto le nuove regole senza modifiche rispetto al testo approvato alla Camera, per farle entrare in vigore prima del 1° gennaio 2026 ed evitare così l’ennesima replica dello scudo…
Chigi vuole la legge anti-giudici entro il 31 quando scade lo scudo erariale, ma gli eletti non vogliono tornare dalle vacanze

(di Giacomo Salvini – ilfattoquotidiano.it) – Sul calendario di Giorgia Meloni c’è una data cerchiata in rosso: 30 dicembre. Non oltre. Con possibilità di anticipare tutto anche prima di Natale. Così non sarà perché il Senato, tra uno slittamento e l’altro, fino al 23 è impegnato con la legge di Bilancio. Ma la premier non demorde: entro la fine dell’anno la maggioranza a Palazzo Madama deve approvare la riforma della Corte dei Conti che contiene la riduzione dei poteri di controllo (e non solo) dei giudici contabili, l’allargamento dello scudo erariale presumendo la “buona fede” degli amministratori pubblici e la limitazione delle sanzioni.
Una riforma a cui il governo tiene molto per rivendicare il superamento della cosiddetta “paura della firma” e su cui Meloni punta anche per la campagna referendaria della separazione delle carriere che si concluderà a marzo. La premier ne aveva parlato anche dopo lo stop della Corte dei Conti alla delibera del Cipess sul Ponte sullo Stretto usando la riforma come ritorsione nei confronti dei giudici contabili: “La risposta più adeguata a un’intollerabile invadenza che non fermerà l’azione del governo sostenuta dal Parlamento”, aveva scritto Meloni il 29 ottobre in una nota ufficiale.
Ma c’è una ragione più specifica per cui Palazzo Chigi vuole approvare la riforma della Corte dei Conti entro il 31 dicembre: quella data, infatti, scade lo “scudo erariale” per gli amministratori nelle condotte legate ai progetti del Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza. I giudici contabili si sono più volte espressi contro questa misura (che esclude la punibilità per la “colpa grave”) introdotta dal governo Conte-2 nel 2020 e prorogata da tutti i governi che sono venuti dopo. La riforma che è già stata approvata alla Camera e in commissione al Senato non lo proroga, ma di fatto lo “supera” eliminando una parte consistente dei poteri di controllo e successivi dei giudici contabili e riducendo al minimo le responsabilità erariali per gli amministratori: viene introdotta la “presunzione della buona fede” per gli amministratori pubblici che, in assenza di dolo, non andranno incontro a contestazioni erariali. È per questo che Palazzo Chigi vuole far diventare legge la riforma entro la fine dell’anno: per evitare di lasciare “scoperti” gli amministratori che devono finire di “mettere a terra” i progetti del Pnrr.
Ma c’è un ostacolo: per approvarla il 29 e 30 dicembre, i senatori dovranno tornare dalla settimana bianca e dalle vacanze natalizie rischiando di rovinarsi i viaggi per le mete esotiche in vista di Capodanno. Così, sotto traccia, è iniziato uno scontro molto duro tra Palazzo Chigi e la maggioranza al Senato per decidere se rientrare o meno tra Natale e Capodanno.
D’altronde molti senatori avevano già programmato le ferie, prenotato alberghi e voli (anche in luoghi molto lontani dall’Italia) con largo anticipo perché consapevoli del fatto che quest’anno, a differenza dello scorso, avrebbero dovuto approvare la manovra entro il 23 dicembre chiudendo i battenti prima di Natale.
La protesta, in queste ore, non riguarda solo i senatori di maggioranza ma anche delle opposizioni che vogliono essere in aula per contrastare la riforma della Corte dei Conti considerata “punitiva” contro i giudici contabili. E il governo teme che, in cambio di un approccio “collaborativo” sulla legge di Bilancio, l’opposizione chieda di rinviare la riforma della Corte dei Conti ad anno nuovo.
La decisione sarà presa questa mattina nella conferenza dei capigruppo prevista per le 12 al Senato a cui prenderanno parte, oltre ai presidenti dei gruppi di maggioranza e opposizione, anche il presidente di Palazzo Madama Ignazio La Russa e il ministro coi Rapporti col Parlamento Luca Ciriani. Ufficialmente è convocata per decidere solo l’iter dei prossimi giorni della legge di Bilancio che dovrebbe arrivare in aula lunedì prossimo (mercoledì ci saranno le comunicazioni di Meloni prima del Consiglio europeo, domenica il concerto), ma si discuterà anche se rientrare o meno dalle ferie natalizie.
Completati solo 3 interventi sui 25 previsti in Veneto. La strada tra Belluno e la perla delle Dolomiti

(Giampaolo Visetti – repubblica.it) – Cortina d’Ampezzo (Belluno) – Olimpiadi invernali? Mai sentite nominare: non sono del posto». I cortinesi, per non cedere allo sconforto, scherzano. Mancano 53 giorni dall’inaugurazione dei Giochi: stando alle promesse, dovrebbero già vivere «nella più moderna località turistica delle Alpi». Si svegliano invece «nel caos del più vasto cantiere montano d’Europa, tra lavori in corso privi di un termine prevedibile».
Nel 2019, all’assegnazione di Milano-Cortina, nei caffè affacciati sul salotto di Corso Italia si erano stappate le bottiglie. «Sono passati sei anni — dice la consigliera comunale Roberta de Zanna — e oggi la gente non vede l’ora che arrivi fine marzo, sperando di sopravvivere. Alle bugie della politica è seguita la disorganizzazione dei manager: atleti e televisioni di tutto il mondo, al posto dello spettacolo delle Dolomiti, saranno accolti da una foresta di gru, impalcature, prati squarciati e colonne di auto bloccate nel traffico».

L’incubo-incompiuta minaccia di debuttare già prima di Natale. Decine i cantieri aperti e le interruzioni stradali tra Belluno e Cortina. Non un tunnel aperto, o una circonvallazione percorribile: quasi due ore di macchina per coprire una sessantina di chilometri, velocità media 30 all’ora. «Con festività e Giochi — dice Silverio Lacedelli, ex dirigente regionale — l’assalto si profila ingestibile. Il ritardo delle opere ha messo in ginocchio la viabilità, i cantieri hanno cancellato i parcheggi. Albergatori, rifugisti, commercianti e gestori degli impianti di risalita non credono a ciò che vedono: un affare, nell’immediato, ridotto a un disastro anche economico».
Ad allarmare non sono solo le 105 licenze, tra pubblico e privato, concesse per opere olimpiche in corso, ancora da appaltare, in attesa di finanziamenti, o neppure progettate. Cortina d’Ampezzo conta 5 mila residenti e oltre 50 mila letti per turisti: non più di 1400, entro la cerimonia inaugurale del 6 febbraio, i posti auto accessibili. Non solo cortinesi e ambientalisti, preoccupati anche da caldo anomalo e ritardo della neve, denunciano il rischio-flop. Uno studio dei costruttori dell’Ance documenta l’emergenza veneta e invoca «una programmazione adeguata a gestire almeno le grandi opere del dopo Olimpiadi, per un valore di 1,4 miliardi». Cifre shock, scovate da Open Olimpics nei report elaborati da ministero delle Infrastrutture, Rfi e dalla stessa Simico, la società pubblica che gestisce i lavori previsti per i Giochi. Per il Veneto, un’imbarazzante Caporetto: solo 3 su 25 le opere concluse, 7 quelle ancora in fase di progettazione, 4 le incompiute che si dovranno perfino sospendere durante le gare. I lavori finiti in tempo sono appena il 12%, i progettati ?il 28%, in via di esecuzione il 60%: di questi, solo 4 su 10 gli ultimati entro febbraio.

«Basta interventi in emergenza — l’attacco di Alessandro Gerotto, presidente dei costruttori — per non fermarci dopo i Giochi e la fine del Pnrr, serve programmazione». Un dopo-Zaia subito bollente, nelle mani del neogovernatore veneto Alberto Stefani.
Simboli della crisi, la cabinovia olimpica di Socrepes, la nuova pista da bob, il parcheggio sotto l’ex stazione dei treni e la ristrutturazione del trampolino inaugurato nel 1956. A questi si sommano le varianti di Longarone e della stessa Cortina: lavori per oltre un miliardo, consegna promessa tra il 2029 e il 2032, o neppure ipotizzabile.
«Milano-Cortina si rivela il pretesto per l’ennesima cementificazione — dice Luigi Casanova, presidente di Mountain Wilderness — solo il 13% degli oltre 3 miliardi spesi sono giustificati dallo sport. In Veneto i Giochi lasceranno opere inutili, o finanziate e non realizzate».

Ai piedi delle Tofane il colpo d’occhio conferma gli allarmi. Dal Cadore una colonna di tir sale tra cumuli di scarti non smaltiti degli scavi, davanti a cartelli che assicurano “Innoviamo il presente, costruiamo il futuro”. Le impalcature nascondono il trampolino-icona di settant’anni fa: milioni per un restyling televisivo, senza ascensore i turisti non potranno salire. Nemmeno un pilone della cabinovia di Socrepes, finanziata con 35 milioni, è in piedi sopra la spaccatura di una frana che cala su Cortina alla velocità di 2 metri all’anno. Simico conferma il collaudo entro fine dicembre, imposto dall’avvio dei Giochi. «Peccato manchino ancora progetto esecutivo — dice Marina Menardi, direttrice di Voci di Cortina — e certificato di immunità di frana. La trattiva privata ha affidato l’opera a un imprenditore controverso e a un’azienda turca senza requisiti: il piano B, che impone di caricare su navette il pubblico delle gare, è già il piano A».
Ottimisti il sindaco, Gianluca Lorenzi, e il commissario olimpico straordinario Fabio Massimo Saldini, ad di Simico. «A Cortina — ripete — la situazione si è rivelata più complessa che altrove. Io sono arrivato solo 20 mesi fa, ma sono certo che le opere sportive necessarie a svolgere i Giochi saranno completate».
A rischio tutto il resto, ossia il grosso di lavori e appalti: strade, gallerie e parcheggi, ribattezzati “piano di accessibilità a Cortina”, le infrastrutture “accessorie” della pista da bob, palazzetto del ghiaccio, nuova cabinovia e villaggio olimpico a Fiames. «Gli atleti finiranno in container privi di spazi comuni — dice lo storico fotografo Diego Gaspari Bandion — le sciatrici di Italia e Usa alla fine hanno preferito stare in hotel».
Data segnata in rosso, l’Epifania. Dopo il 6 gennaio e fino a metà marzo chiuderanno l’area-sci delle Tofane, piste e rifugi compresi, palaghiaccio e palestre, l’intera zona considerata olimpica. I 700 agenti reclutati per la sicurezza saranno alloggiati a 40 chilometri: anche per studenti e pendolari si profila un’odissea quotidiana. A Roma il governo parla di un «miracolo del nostro saper fare». A Cortina si ingrossano le fila di chi ammette un «fallimento del loro saper parlare».
La verità, forse, tra sette anni: in Veneto il fine lavori slitta a dopo le Olimpiadi invernali 2030, contese tra Nord America e Norvegia.
Giuli e Roccella alla festa di FdI. Il ministro: “Noi egemonici nell’ironia”. Roccella: “Gli altri? Un piccolo potere spaventato”

(di Gabriella Cerami – repubblica.it) – Missione del dibattito: arruolare Pier Paolo Pasolini. O per meglio dire liberarlo e consegnarlo alla nazione in quanto «conservatore». Sul palco della sala Livatino della festa di Atreju lo scrittore viene descritto come un uomo che «ha subito una vita di costrizioni dal punto di vista politico». E quindi ecco che Fratelli d’Italia si intesta questa battaglia.
Il ministro della Cultura, Alessandro Giuli, fa da grande stratega di questa operazione: «La cultura di destra oggi rappresenta anche quella di sinistra che non c’è più. Ci accusano di “amichettismo”, ci accusano di qualsiasi nefandezza, come prenderci dei personaggi», per esempio Pasolini, «che loro hanno rifiutato. Quindi noi coniamo il termine “nemichettismo”». Sinistra uguale nemica della cultura […]
Insomma, di fronte alle accuse nei confronti di chi intende praticare ancora il gioco degli steccati culturali, Giuli risponde così. Se l’ironia non dovesse bastare a vincere il nemico, allora, c’è sempre la tradizione popolare che corre in aiuto: «Agli attacchi della sinistra rispondiamo con un detto arabo: i cani abbaiano, la carovana passa», sintetizza il ministro che dopo il dibattito su Pasolini e Mishima si concede un passaggio alla radio di Atreju dove intona Albachiara di Vasco Rossi. E chissà se anche il cantante di Zocca sarà corteggiato dai Fratelli d’Italia.
(di Daniela Ranieri – ilfattoquotidiano.it) – Ha detto il deputato di FdI Federico Mollicone sul palco di Atreju, il parco a tema fantasy degli eredi dell’Msi: “Pasolini sarebbe stato qui stasera!”. Come no: a parlare con Arianna e Raoul Bova di deep fake e web reputation. “Pensate al culto del corpo che aveva Pasolini, si allenava!”, ha urlato, a significare che la disciplina fisica e l’adorazione della forza, care alla destra e alla compagine di governo (basta guardare l’aitante Tajani), sono ancor’oggi estranee agli egemonici intellettuali di sinistra, notoriamente flaccidi e/o mingherlini. In effetti l’altra salma trafugata dai tombaroli di FdI è stata quella di Yukio Mishima, il grande scrittore giapponese la cui visione superomistica avrebbe fatto pendant con l’estetica espressa dal trapianto tricologico di Lollobrigida. Mishima purtroppo si è già suicidato nel 1970 col seppuku (il taglio rituale del ventre con un pugnale), altrimenti l’avrebbe fatto volentieri a Castel Sant’Angelo, sede della kermesse, dopo aver sostenuto la separazione delle carriere insieme al ministro Nordio.
L’operazione Pasolini, già saccheggiato da CasaPound, è chiara: è la furba appropriazione di un totem della sinistra per i suoi tratti reazionari. E quindi “a noi!” il Pasolini anti-modernista, nostalgico della società rurale, anti-abortista, il moralista di Valle Giulia (i carabinieri figli del popolo, gli studenti figli di papà) etc. Come ci ha spiegato la Roccella (per far arrabbiare gli aristodem, che infatti hanno pavlovianamente reagito), Pasolini era sì reazionario e anti-femminista (contrario alla libertà sessuale femminile, persino), ma è stato anche il regista di Salò o le 120 giornate di Sodoma, cruda allegoria di un potere fascista sadomasochistico, basato sull’abuso dei forti sui deboli, il consumismo sessuale, la torva stupidità dei potenti, la schiavizzazione dei poveri; è la visione oscena del fascismo realizzato, che non avrebbe avuto più bisogno di fez e manganelli per imporsi. Il punto, ignorato dai presunti intellettuali di presuntissima sinistra che rivendicano la proprietà di Pasolini, è che quella società degenerata è la profezia dello stato terminale e totalitario della società neoliberista nella quale siamo immersi, prevista e deprecata da Pasolini sulla spiaggia di Sabaudia; cioè siamo più vicini a Salò noi oggi di quanto lo fossero gli italiani del dopoguerra. Non è infatti la prima volta che si fa scempio della memoria di Pasolini: nel 2017 venne aperta un’incredibile “Scuola di Partito Pier Paolo Pasolini”, dove il partito era il Pd renziano, la testa d’ariete del neoliberismo in Italia.
(Andrea Scanzi) – Un’altra grande notizia che vi farà sognare. La Meloni e fratelli di italia avevano promesso di opporsi all’amichettismo e di premiare la meritocrazia. Come sempre (non) sono stati di parola.
Leggete questa bellissima storia di talento e democrazia che ci racconta stamani sul Fatto Lorenzo Giarelli.
Formula 1, teatro, metropolitana e stadio: La Russa jr. fa il collezionista di poltrone

È un periodo d’oro per Antonino Geronimo La Russa, primogenito del presidente del Senato, avvocato e da qualche tempo ricercatissimo componente di consigli d’amministrazione pubblici e privati. Se lo contendono tutti: Comuni, ministeri, teatri, macchine. Non c’è terra inesplorata per Geronimo, il cui conta-poltrone, a 45 anni, ha preso un’andatura degna di Marco Pantani sull’Alpe d’Huez.
Tocca partire dal fondo, cioè dalle ultime soddisfazioni per La Russa junior. La scorsa settimana Geronimo è stato nominato membro del Consiglio Mondiale per lo Sport Automobilistico della Fia, cioè l’organo che tra l’altro organizza il campionato di Formula 1. La Russa ci è arrivato con un plebiscito, secondo nome più votato dalle 146 federazioni nazionali aventi diritto. La nomina è diretta conseguenza dell’impegno quasi decennale di Geronimo in Aci, l’Automobile Club d’Italia. Prima nella sezione milanese, che presiede dal 2018, poi nell’Aci della Lombardia (è presidente dal 2023) e infine nel nazionale, dove è planato proprio pochi giorni fa dopo mesi di melina intorno a una nomina che sembrava scontata ma che invece l’ha fatto sudare a lungo (guadagnerà 230 mila euro l’anno).
E ancora. Dal 2023 La Russa junior è consigliere d’amministrazione della Fondazione Piccolo Teatro di Milano, il gioiello fondato da Giorgio Strehler, per merito di una nomina del ministero della Cultura. Milano e ancora Milano. Dal 2021, il figlio del presidente del Senato è anche nel cda di Spv Linea M4 Spa, la società costituita per realizzare e gestire la nuova linea della metropolitana di Milano. Se prima era il ministero della Cultura, quindi centrodestra, qui è Comune di Milano, il progressista Beppe Sala.
Serve accelerare per poter dar conto del resto della lista. Fino all’anno scorso, La Russa faceva parte pure della Corte Sportiva di Appello e della Corte federale di Appello della Federazione italiana Motonautica. Poi ci sono tutti gli incarichi privati, come quello di vicepresidente di Sara Assicurazioni. E ancora le poltrone legate all’Inter, al Milan e ai Berlusconi: dal 2014 al 2017 consigliere di amministrazione di M-I Stadio Srl, l’ente gestore dello stadio San Siro; e al contempo nel cda di Milan Entertainment, partecipata da Ac Milan e concessionaria dei marchi e della vendita di biglietti e abbonamenti. Poi, insieme ai più giovani dei fratelli Berlusconi (Luigi, Eleonora e Barbara) siede nel cda di H14, una holding di partecipazioni finanziarie che è anche azionista di Fininvest.
Un simile curriculum (soltanto qui abbiamo contato 8 incarichi attivi e tre cessati) ha permesso a Geronimo La Russa di guadagnarsi, nel 2021, l’onorificenza di Cavaliere della Repubblica consegnata dal Capo dello Stato Sergio Mattarella su proposta dell’allora premier Mario Draghi. Quando si dice essere trasversali.
Finalmente oggi si premiano talenti, meriti e competenze. E non certo cognomi e/o collocazioni politiche.
Daje Meloni, daje La Russa. Viva l’Italia, viva il merito!
Martedì l’evento “A trent’anni dal Tatarellum” al Senato con La Russa e Balboni. Il testo sarebbe pronto, incognita del “listone”. I dubbi di Lupi e Salvini, la sponda di Calenda

(Giulia Merlo – editorialedomani.it) – Lo spettro dei comunisti evocato più volte da Giorgia Meloni nel suo violento comizio di chiusura ad Atreju è più spaventoso che mai, nella testa di Fratelli d’Italia. E per renderlo innocuo la strada è una sola, per quanto impervia: cambiare la legge elettorale che oggi – non importa quanto la premier sia forte– rischia di riportare l’Italia al centrosinistra o almeno di rendere contendibile la sfida.
Come? Dentro il partito le tesi sono due, corroborate anche dalle simulazioni fatte dall’ufficio studi della Camera. La prima, che però poco piace interamente perché sa molto di prima Repubblica, è quella del proporzionale puro con premio di maggioranza. Lineare sulla carta, ma tutta da scrivere e potenzialmente poco vantaggiosa per Fratelli d’Italia.
La seconda, invece, è quella che più viene spinta da una componente trasversale nel partito di Meloni rappresentata dai cosiddetti “tatarelliani”: gli allievi di Pinuccio Tatarella, patriarca della svolta conservatrice e autore della legge elettorale delle regioni, il Tatarellum, che ancora oggi rimane pur con alcuni correttivi. E proprio per spingere questa seconda ipotesi non è passato inosservato a occhi attenti il convegno “A trent’anni dal Tatarellum”, organizzato dal nipote Fabrizio Tatarella a palazzo Giustiniani, con invitati che danno la dimensione di come questa strada sia molto più che una ipotesi: insieme a Luciano Violante, infatti, saranno presenti il presidente della commissione Affari costituzionali al Senato Alberto Balboni e soprattutto il presidente del Senato, Ignazio La Russa. Entrambi estimatori del padre nobile di An, entrambi ascoltati a palazzo Chigi.
Del resto, anche lo stesso capo dell’organizzazione Giovanni Donzelli, all’indomani dell’ultima tornata delle regionali, aveva parlato della necessità di riformare la legge elettorale sulla falsariga di quella delle regioni.
A spiegare i pregi della legge Tatarella – candidato presidente espresso in lista, soglia di sbarramento al 3 per cento con 80 per cento dei seggi distribuiti col proporzionale e 20 per cento assegnati come premio di maggioranza tra i candidati di listino – è un dirigente meloniano. «É la formula perfetta per ottenere un cambio di forma di governo modificando solo la legge elettorale: è la traduzione concreta del premierato», della madre di tutte le riforme che Meloni rincorre con scarse fortune da inizio legislatura.
Nei capannelli di dirigenti accorsi a Roma per Atreju, parlando di legge elettorale l’argomento principale è stato quello che «bisogna fare in fretta, anche prima del referendum». Cioè: i parlamentari in ansia per la rielezione sono convinti che non si debba nemmeno aspettare marzo, ma che una proposta vada presentata ai primi di gennaio. E quale proposta migliore di un testo chiavi in mano come il primo Tatarellum del 1995. «Non penso che sarà in commissione a gennaio», ha frenato il capogruppo di Fratelli d’Italia al Senato, Lucio Malan, ma senza toni assoluti.
L’operazione, del resto, non è semplice. C’è il problema di Noi Moderati di Maurizio Lupi, che difficilmente potrà arrivare al 3 per cento. Poi c’è la Lega, che non vuole l’indicazione del candidato presidente sulla scheda perché Matteo Salvini sa bene che provocherebbe un’ulteriore emorragia di voti verso FdI su trascinamento di Meloni. «Si farà quel che si fa in politica: mediazioni e compensazioni», spiega un parlamentare. Tradotto: offrire a Lupi posti blindati nel listino bloccato e barattare la Lombardia con la Lega.
Ci sono poi anche questioni tecniche da risolvere, visto che la legge nasce per regioni che non hanno la doppia camera. Il listino bloccato previsto dal Tatarellum assorbirebbe i collegi uninominali e potrà essere su base regionale per il Senato, mentre per la Camera servirà un “listone” nazionale, che però sa molto di partitocrazia. «Se questa fosse l’unica obiezione, saremmo a cavallo», è l’analisi di chi si sta occupando del dossier per FdI e non vuole sbilanciarsi.
Eppure, dentro FdI c’è fiducia. Del resto, all’evento al Senato a nessuno è sfuggita la presenza del leader di Azione Carlo Calenda, segno che il dialogo con altre forze politiche è aperto. A Calenda, del resto, lo sbarramento al 3 per cento andrebbe benissimo e anzi, lo farebbe decidere per una possibile corsa autonoma rispetto all’odiato campo largo. «Con noi o da solo, a noi basta che non corra con Schlein», è il ragionamento di FdI. Eppure, dentro Azione, un dibattito sulla legge elettorale non è nemmeno cominciato e se venisse aperto – confida una fonte interna – il rischio è che volino stracci.
Sul fronte del Pd, Elly Schlein ha negato sia l’intenzione di modificare la legge sia di abboccamenti con la maggioranza. Ciò su cui fanno leva i sostenitori del Tatarellum, però, è il fatto che la polarizzazione che questa legge produrrebbe possa giovare anche ai dem, incoronando la segretaria come l’unica avversaria di Meloni.Sarà la premier, infine, a fare la tara tra dubbi e vantaggi e decidere come procedere, con un occhio al calendario del nuovo anno.