I democratici chiedono conto del ruolo di Becchetti, leghista che ha firmato il rogito e anche l’atto sulla Stretto di Messina. «Chiarezza sul prezzo della casa. E vogliamo sapere come e da chi sono state pagate le diverse prestazioni del professionista»

(Nello Trocchia – editorialedomani.it) – L’acquisto di una villa da 674 metri quadrati a un prezzo stracciato, il notaio leghista che firma il rogito e che è lo stesso che ha vergato l’atto di riaccensione della società Stretto di Messina Spa. Su questi due punti l’opposizione, dopo le inchieste di Domani, passa al contrattacco e ha depositato un’interrogazione indirizzata proprio a Matteo Salvini, ministro delle Infrastrutture, e ad Adolfo Urso, titolare del dicastero del Made in Italy.
Il testo inizia elencando il disagio abitativo che riguarda una larga fetta della popolazione italiana e il piano casa più volte annunciato dal governo e mai realizzato. «Il combinato disposto dei bassi redditi, della carenza di case in affitto e gli elevati costi di acquisto fanno sì che l’emergenza casa in Italia riguardi oltre 4 milioni di persone», scrivono i deputati dem, Andrea Casu e Anthony Barbagallo, per poi entrare nel merito dell’affaire di villa Salvini: «Si chiede di sapere se non appare del tutto incoerente l’azione del ministro e del governo rispetto al tema casa e se non si evidenzi un enorme conflitto di interessi».
Puntando sul groviglio di rapporti pubblici e privati tra Salvini e il notaio Becchetti, leghista, nominato in una società pubblica dal ministero del Made in Italy e, appunto, che ha firmato il verbale di assemblea che ha riacceso la società che si occupa di realizzare il Ponte sullo Stretto.
Sull’acquisto il ministro Salvini è intervenuto con la sua solita ironia: «Mi stanno stressando perché ho avuto l’ardore e l’ardire di trovare casa su Immobiliare.it. Quindi ho avuto questo favore: sono andato come qualche altro milione di italiani su immobiliare.it. Peraltro da fesso, pagando esattamente la cifra richiesta», ha detto Salvini ai cronisti commentando le rivelazioni di questo giornale.
L’operazione immobiliare è diventata un caso. Il ministro, insomma, si lamenta per aver pagato precisamente il prezzo richiesto dai venditori. Eppure anche tra i sostenitori del Capitano l’acquisto di un villa (classificata A7) da 674 metri quadrati, in tutto 28 vani al costo di 2mila euro a metro quadrato, ha suscitato sentimenti ambivalenti: qualche mugugno, molti sorrisi, un certo scalpore. Soprattutto perché lontana anni luce dall’immagine che il leader leghista ha costruito negli anni: il politico tra la gente, diviso tra sagre e feste paesane, che rivendicava di vivere in un bilocale a Milano, che militava nel partito diventato del “Roma ladrona”.
Ora più che ladra, è la città in cui Salvini si trova a suo agio. In quel sistema di potere che abita proprio negli atti di compravendita della magione acquistata con la compagna Francesca Verdini.
Le venditrici, infatti, sono le sorelle Acampora, figlie di Giovanni Acampora, scomparso lo scorso anno. Avvocato e affarista condannato, insieme a Cesare Previti, ex ministro e fondatore di Forza Italia, per corruzione nei processi Imi-Sir e Lodo Mondadori. La villa che fu del sodale di Previti ci riporta a una girandola di società che arrivano fino al paradiso fiscale del Lussemburgo.
Da questo intreccio da Prima Repubblica, quando Salvini era un giovanissimo militante padano, l’immobile ora vive una seconda vita con nuovi proprietari sempre di alto profilo, come sono Salvini e Verdini.
Nonostante le lamentele del ministro, nella zona di Roma nord dove c’è la sua villa alla Camiluccia, in un comprensorio esclusivo e ambito, le case costano in media 3.800 euro al metro quadro, il leghista ne ha spesi appena 2mila.
Il rogito infatti indica quale prezzo finale dell’acquisto 1,35 milioni di euro per, appunto, 674 metri quadri. Lo studio legale Previti, fondato proprio dall’ex berlusconiano e ora gestito dal figlio e da un team di professionisti, ha avuto una procura finalizzata a rappresentare le sorelle Acampora di fronte al notaio, Alfredo Maria Becchetti.
Becchetti è stato coordinatore cittadino a Roma e candidato, non eletto, alla camera dei Deputati per la Lega. Ora guida Infratel, società di Invitalia, quest’ultima interamente posseduta dal ministero dell’Economia e delle Finanze. E, nel 2023, ha firmato l’atto con il quale è stata riaccesa la società Stretto di Messina spa, con a capo Pietro Ciucci.
Da qui l’interrogazione del Partito democratico firmata dai deputati Casu e Barbagallo. Scrivono di «un enorme conflitto di interesse» e, a questo proposito, chiedono di sapere il ruolo e i rapporti con il «notaio, già candidato alle elezioni politiche nelle liste del partito di cui il ministro è segretario nazionale, che ha riesumato la società del Ponte sullo Stretto, che attualmente è alla guida di una società pubblica e che cura affari privati dello stesso ministro».
In attesa della risposta, le opposizioni hanno criticato Salvini anche per l’annunciata riforma dell’edilizia. «Porta il condono in Consiglio dei ministri», ha attaccato Angelo Bonelli, leader di Alleanza Verdi-Sinistra. Il riferimento è alle norme che dovrebbero introdurre una nuova sanatoria per gli abusi storici e prevedere procedure semplificate. In fondo, è noto, la destra ha sempre avuto una certa passione per la materia. Oltreché per gli affari immobiliari.

(di Antonio Pitoni – lanotiziagiornale.it) – Sembra passato un secolo da quando le destre si strappavano le vesti solo a sentir parlare di Mes. Il famigerato (e temutissimo) Fondo Salva-Stati, che per mesi, un giorno sì e l’altro pure, imputavano al governo Conte di voler attivare col favore delle tenebre – cosa peraltro mai avvenuta – nel periodo dell’emergenza Covid, mettendo un cappio intorno al collo dell’Italia.
Ora ad evocare il Mes è il ministro degli Esteri Tajani. Mica per potenziare la Sanità alla canna del gas, però. Stavolta il nodo scorsoio dovremmo stringercelo intorno alla giugulare per finanziare il riarmo. Il sillogismo tajaneo è più o meno questo. Poiché “sui beni russi congelati ci sono delle riserve giuridiche per usarli come garanzia per le armi all’Ucraina”, come peraltro “ha ribadito anche la Bce”, allora “si possono usare i fondi” del Salva-Stati. Anche se “noi eravamo contrari per diversi motivi alla riforma del Mes”, questa “è la posizione dell’Italia”.
Apriti cielo. Il leghista Borghi liquida l’ideona di Tajani con un tweet su X: “Ovviamente è stato frainteso perché non è possibile che il ministro abbia detto che la posizione dell’Italia è l’utilizzo del Mes per comprare armi dal momento che mai questa idea è stata discussa”. È il primo cortocircuito della giornata, cui segue in serata la bagarre sulla cannabis light, per mesi al centro di una vera e propria crociata da parte delle destre. Fino all’emendamento alla manovra, a firma Fratelli d’Italia, che di fatto rilegalizza la vendita di “infiorescenze fresche o essiccate e prodotti” che contengono Thc in quantità “non superiore allo 0,5%”.
Ma con una novità: una maxi-imposta di consumo in misura pari al 40% del prezzo di vendita al pubblico. Insomma, se fino a ieri la cannabis, compresa quella light, nuoceva gravemente alla salute, una volta tassata farà addirittura bene, di sicuro alle casse dello Stato. Un pasticcio che in serata FdI prova a risolvere così: nessuna “volontà occulta di legalizzazione”, l’obiettivo resta “contrastare la diffusione e la vendita” attraverso la “super tassazione al 40%”. La classica toppa peggio del buco che costringe, alla fine, il partito di Meloni ad annunciare che l’emendamento sarà ritirato. Ora dite la verità, dopo una giornata così, non vi verrebbe voglia di farvi una canna? Ovviamente light.
Intervista al presidente dei senatori del M5s: “La verità è che il meccanismo europeo di stabilità non funziona. Prendiamo quei soldi per fare altro”

(di Gabriella Cerami – repubblica.it) – Utilizzare i soldi del Mes, del Meccanismo europeo di stabilità, come garanzia sugli asset russi congelati «è una dinamica che non ha senso». Stefano Patuanelli, presidente dei senatori del Movimento 5 Stelle, respinge l’idea avanzata dalla Commissione europea e subito appoggiata dal ministro degli Esteri, Antonio Tajani.
I soldi degli asset russi congelati sarebbero destinati a un prestito che l’Unione europea girerebbe a Kiev per coprire deficit e avviare la ricostruzione, perché non ha senso dotarli di una garanzia?
«Avrebbe più senso dire che il Mes non esiste più. All’interno del Meccanismo europeo di stabilità esistono però risorse già versate dagli Stati membri, si possono utilizzare questi per ricostruire l’Ucraina».
Quindi bisogna abolire il Mes?
«Ha delle condizionalità eccessive. Poi bisogna vedere come questi soldi verrebbero declinati in caso di utilizzo come garanzia sugli asset russi».
Anche la Lega si è detta contraria all’utilizzo dei fondi del Mes come garanzia sugli asset russi. Potreste essere accusati di avere una posizione filo-putiniana?
«Basta con queste accuse ridicole. Anzi, paradossalmente mi sembra più filo-russo chi vuole utilizzare i soldi del Mes come garanzia».
Per quale ragione?
«L’Europa vuole mettere dei soldi a garanzia perché sa bene che questo processo di confisca degli asset russi verrà giù come un castello di carta. O si decide che questi beni confiscati alla Russia vengono portati via e si capisce chi è l’ente preposto a dire che è lecito conquistarli, oppure è meglio muoversi in altro modo. Non ha senso dire “abbiamo conquistato degli asset però mettiamo i soldi come garanzia”. Perché il rischio di doverli dare alla Russia è altissimo. Porto un esempio».
Quale?
«Nel porto di Trieste c’è lo yacht di un oligarca russo. Il sequestro sta già costando all’Italia delle cifre spropositate. Quando sarà confiscato potrà essere venduto e si incasseranno i soldi. Solo allora si potranno utilizzare. Ma utilizzare i soldi russi dovendo però mettere quelli del Mes a garanzia è un ragionamento che non torna».
Forse questa sua posizione è legata anche al “no” M5S all’invio delle armi in Ucraina?
«Sono due discorsi diversi. Noi vogliamo aiutare l’Ucraina finanziariamente e nella fase della ricostruzione. Già nel governo Conte II eravamo contrari all’utilizzo del Mes perché ha condizioni non convenienti. Ma rimane una tipologia di prestito meno impegnativo, più diretto e rapido, senza dover attendere i ricorsi dei russi e la restituzione non solo dei soldi degli asset ma anche di quelli del Mes».
Lo studio riservato della maggioranza con le simulazioni di voto. Con norme e sondaggi attuali il successo diventa improbabile

(di Lorenzo De Cicco e Serena Riformato – repubblica.it) – ROMA – Sulla legge elettorale il centrodestra fa sul serio. Sottotraccia, l’accelerazione per cambiare le regole del gioco è già stata impressa. Uno studio riservato è sulla scrivania dei principali esponenti di FdI, FI e Lega da qualche settimana. Repubblica, che l’ha visionato, è in grado di svelarlo. Il dossier, curato dagli uffici parlamentari della maggioranza, s’intitola così: “Analisi sulla legge elettorale per il 2027”. Vengono scandagliati i possibili risvolti delle prossime elezioni Politiche, attraverso tre diversi sistemi di voto: l’attuale legge elettorale, il Tatarellum con un listino bloccato e poi la terza ipotesi, il proporzionale con maxi-premio di maggioranza. L’analisi non è asettica. Spulciando il rapporto, una decina di pagine, si intuisce quale sia l’idea prevalente ai vertici della coalizione di governo. L’opzione numero tre, il proporzionale con un premio del 15% per chi arriva primo e prende il 40% dei voti.

Secondo lo studio, con l’attuale legge elettorale, sondaggi alla mano, per la maggioranza «è evidente che si corrono grandi rischi» di stabilità. Lo stesso discorso vale per il secondo scenario analizzato. È una versione rivista e corretta del Tatarellum, modello che è stato utilizzato per l’elezione dei presidenti di Regione insieme ai consigli regionali. Verrebbero cancellati tutti i collegi uninominali attualmente in vigore. Nella formula attenzionata dal centrodestra, è prevista l’indicazione del candidato premier e c’è un listino di coalizione, vale a dire un elenco di nomi blindati, che senza preferenze o collegi plurinominali strappano il seggio se sono appaiati alla coalizione che ha più consensi. Anche questa ipotesi sembra però già essere stata scartata a destra. O almeno, confermano fonti azzurre, sembra suscitare più tentennamenti che entusiasmi. Il motivo sembra essere tutto politico, come si legge nel dossier: si rischiano tribolate «trattative con gli alleati» per decidere come spartire i posti nel listino. Il quale per altro, è una considerazione che viene riportata, rischia di essere un paracadute a vantaggio dei partitini della coalizione, più che per le forze politiche principali.
È il terzo scenario quello che il centrodestra dunque sembra pronto a sposare, senza troppe trattative (che in teoria dovrebbero ancora cominciare): via tutti gli uninominali, sì a un sistema con un proporzionale puro. Si prevede che la coalizione che otterrà «il 40% dei voti validi» incassi «il 55% dei seggi». Non compare il listino, in questo scenario. Mentre, c’è scritto, sarebbero riproposti i collegi plurinominali, con le ripartizioni territoriali disegnate dal vecchio Rosatellum, il sistema con cui si è votato nel 2018. Per vincere, sarebbe necessario ottenere «100 collegi alla Camera e 52 al Senato». Anche con questo marchingegno elettorale, è Palazzo Madama il cruccio della coalizione di governo. Perché per Costituzione, articolo 57, il Senato è eletto su base regionale, a differenza della Camera. Per evitare rischi, viene già suggerita un’asticella: il premio deve essere «di almeno 29 seggi» a Palazzo Madama. Altro dettaglio chiave: la soglia di sbarramento ipotizzata è «il 3% sia per i partiti coalizzati che non coalizzati». Sarebbe una buona notizia per Carlo Calenda e la sua Azione, che intende correre fuori dai due blocchi.
Il documento mostra che lo stato delle interlocuzioni tra i partiti di maggioranza è molto avanzato. In maniera informalissima, sono stati messi a parte dello studio anche alcuni maggiorenti dell’opposizione. Non Elly Schlein. La segretaria del Pd ieri faceva capire che però qualche margine di negoziato c’è: «Non ci hanno fatto vedere nulla, ma se e quando arriverà una proposta in Parlamento la valuteremo, siamo una forza seria». Non è un’apertura di credito sbilanciata: «La legge elettorale perfetta non esiste – dice la leader del Pd – ma il presupposto sbagliato è il premierato». E in un’intervista al TgLa7 va all’affondo: «Il governo risolva i problemi degli italiani, non i suoi».

(di Michele Serra – repubblica.it) – Nel tentativo (forse un po’ patetico, a una certa età) di non rimanere escluso da quanto dicono e pensano le generazioni successive alla mia, leggo che sarebbe in corso una vivace discussione social sulla figura del “maschio performativo”: che di primo acchito parrebbe il maschio che smania per sembrare “er mejo fico der bigoncio”, come si dice a Roma.
È invece, al contrario, il maschio che ostenta modi e gusti “femminili” con lo scopo recondito di attirare le ragazze. Un simulatore, insomma, che ha scelto la performance più subdola (la mimesi) a scopo di predazione. Un porco travestito da farfalla.
Pare che la discussione sia nata (in America) con intenzioni semi-giocose, assumendo presto i toni e la grevità di una ispezione morale — l’ennesima — sui comportamenti erotici e sentimentali.
Già Edoardo Prati, qualche giorno fa su questo giornale, si domandava se sia proprio il caso di catalogare le persone, e i loro comportamenti, con tanta pedanteria, appiccicando etichette a ciò che non è etichettabile (siamo, per fortuna, ognuno fatto alla sua maniera, e come cantava quel genio di Dalla, l’anno che verrà «faremo l’amore ognuno come gli va»).
Nell’accodarmi a Prati, vorrei porre ai partecipanti a questo dibattito, spero pochissime e pochissimi, un paio di interrogativi che li spingano a occuparsi d’altro.
Per esempio: se uno legge Jane Austen ma rutta tra un capitolo e l’altro, rientra nella categoria? E se beve una tisana, ma in canottiera traforata e con i bicipiti unti d’olio? E se suona il violino, peggio ancora la viola, ma pratica il sollevamento pesi? Infine, ultima domanda: e se la si smettesse di classificare gli umani come si classificano i coleotteri?
Bonelli, “sconcertante ddl Pd, chi critica Israele è antisemita”

(ANSA) – “Trovo sconcertante il disegno di legge n. 1722 presentato da alcuni senatori del Pd, intitolato ‘Norme per il contrasto all’antisemitismo’. Se questo testo diventasse legge, chi contesta radicalmente i comportamenti dello Stato di Israele verrebbe definito antisemita e quindi sanzionato.
La proposta, come altre già in discussione – della Lega, di Maurizio Gasparri e di Ivan Scalfarotto – adotta la definizione di antisemitismo scritta dall’IHRA (International Holocaust Remembrance Alliance), che qualifica come antisemita ogni critica radicale contro Israele”. Lo scrive in una nota Angelo Bonelli, uno dei leader di Avs.
Nello stesso comunicato si spiega come la proposta di legge in questione, “all’articolo 2, delega il governo Meloni a varare uno o più decreti legislativi con prescrizioni all’Autorità per le Garanzie nelle Comunicazioni (Agcom) ‘in materia di prevenzione, segnalazione, rimozione e sanzione dei contenuti antisemiti diffusi sulle piattaforme online di servizi digitali in lingua italiana’.
Gli articoli 3 e 4 prevedono che ogni università nomini una sorta di controllore che vigili su eventuali attività interne, anche didattiche, considerate illegittime sempre sulla base dei criteri definitori dell’antisemitismo fissati dall’IHRA”.
“L’antisemitismo va certamente perseguito e contrastato, come ogni forma di razzismo – commenta Bonelli -, ma non si possono colpire e perseguire le opinioni di chi critica Israele, il cui governo ha commesso crimini contro l’umanità e atti di natura genocidaria.
Se la proposta dei senatori del PD diventasse legge, come ha fatto notare l’ex senatore dem Roberto Della Seta in un articolo sul quotidiano Il Manifesto, tanti giornalisti e intellettuali autorevoli – Anna Foa, Gad Lerner, Stefano Levi Della Torre – e anche il sottoscritto verrebbero sanzionati per le opinioni espresse sulla deriva suprematista e criminale dello Stato di Israele, nell’operato del governo attuale guidato da Netanyahu, che ha distrutto Gaza uccidendo oltre 60 mila civili, in maggioranza donne e bambini, e sostenendo le occupazioni violente e criminali dei coloni in Cisgiordania, oltre alle violenze del suo sistema carcerario. Spero che questo disegno di legge venga ritirato”
AL SENATO DEPOSITATI TRE DDL SULL’ANTISEMITISMO DA PD, LEGA E FI
(ANSA) – Sei articoli per definire le misure sul contrasto all’antisemitismo. Sono contenuti nel disegno di legge comunicato dai senatori del Pd alla presidenza lo scorso 20 novembre. Firmatari Graziano Delrio, Simona Malpezzi, Antonio Nicita, Alessandro Alfieri, Alfredo Bazoli, Pier Ferdinando Casini, Tatiana Roijc, Filippo Sensi, Valeria Valente, Walter Verini e Sandra Zampa.
Il ddl applica la definizione operativa di antisemitismo approvata dall’alleanza internazionale per la memoria dell’Olocausto (International Holocaust Remembrance Alliance – IHRA) in coerenza con la risoluzione del Parlamento europeo del primo giugno 2017 e con la delibera del Consiglio dei ministri del 17 gennaio 2020.
Inoltre, delega il governo in materia di rafforzamento degli interventi relativi ai contenuti antisemiti diffusi sulle piattaforme on line. Stabilito tra l’altro il monitoraggio delle azioni di prevenzione e contrasto all’antisemitismo nelle università e nelle scuole. In questo caso, l’organismo di vigilanza di ogni università individua al suo interno un soggetto preposto alla verifica e al monitoraggio delle azioni per contrastare i fenomeni di antisemitismo. L’articolo 5 prevede il monitoraggio delle azioni di prevenzione e contrasto all’antisemitismo in ambito scolastico.
Al Senato sono stati presentati altri due disegni di legge in materia, uno della Lega e uno di Fi. Entrambi partono dallo stesso presupposto del ddl dei senatori dem chiedendo di adottare la “definizione operativa” di antisemitismo formulata dall’Alleanza internazionale per la memoria dell’Olocausto nel 2016.
In particolare, la proposta della Lega definisce le misure per la lotta all’antisemitismo. Ad esempio creando una banca dati sugli episodi di antisemitismo, prevedendo sanzioni contro le espressioni online di odio contro gli ebrei e anche con l’aggiornamento delle regole di accesso alle piattaforme dei social media. L’articolo 3 prevede che il diniego all’autorizzazione di “una riunione o manifestazione pubblica per ragioni di moralità” può essere motivato anche in caso di valutazione di “grave rischio potenziale per l’uso di simboli, slogan, messaggi e qualunque altro atto antisemita”.
Il testo proposto da Fi prevede misure di prevenzione e segnalazione di atti razzisti o antisemiti in ambito scolastico e universitario, con relative sanzioni, sia per i docenti e ricercatori che per il resto del personale. (ANSA).
Antisemitismo: Boccia, ddl Delrio è a titolo personale
(ANSA) – “Il gruppo del Pd al Senato non ha presentato alcun disegno di legge in materia di antisemitismo. Il senatore Delrio ha depositato, a titolo personale, il ddl “Disposizioni per la prevenzione e il contrasto dell’antisemitismo” che non rappresenta la posizione del gruppo né quella del partito”. Così il presidente dei senatori del Pd Francesco Boccia.
Antisemitismo: Picierno, su ddl Pd soliti inquinatori di pozzi
(ANSA) – “Leggo che in queste ore c’è parecchia confusione, prodotta dai soliti e noti inquinatori di pozzi, sulla proposta di Graziano Delrio per un quadro normativo serio e garantista per contrastare l’antisemitismo, soprattutto nelle scuole, nelle università e on line.
Vale la pena ricordare alcuni punti: il testo non sanziona nessuno e non limita il dibattito, anzi, invita le Università a essere luoghi di confronto libero; rende più efficace la rimozione di contenuti razzisti e d’odio già prevista dal Digital Service Act; richiama la definizione Ihra assunta dal Parlamento europeo e dal governo Conte nel 2020. Le critiche strumentali che leggo sanno di giustificazionismo e ipocrisia.
Per contrastare il nuovo antisemitismo servono serieta’ e strumenti concreti contro odio e discriminazioni. Grata a Delrio e quanti ci lavorano, anche in Italia, con determinazione. Avanti!”. Lo scrive su X la vicepresidente del Parlamento europeo ed esponente dem, Pina Picierno.
Fassino da Knesset, ‘Israele democrazia’. Dem, non era lì per Pd
(ANSA) – ROMA, 03 DIC – “Non si trattava di una missione del Partito democratico”. Lo afferma Peppe Provenzano, responsabile Esteri del Pd, interpellato a Montecitorio dall’ANSA sulle parole pronunciate dal deputato Piero Fassino in collegamento dalla Knesset durante una conferenza stampa promossa ieri dall’Unione Associazioni Italia-Israele.
Nel corso della conferenza stampa, organizzata per approfondire le proposte parlamentari sull’antisemitismo e per presentare i lavori del congresso dell’Unione, Fassino si è collegato per un saluto insieme ai parlamentari Paolo Formentini della Lega e Andrea Orsini di Forza Italia con i quali ha partecipato a una missione di ricognizione del Gruppo di coordinamento del Protocollo di Cooperazione tra Knesset e Camera dei Deputati.
Durante il suo intervento, Fassino ha detto: “Noi siamo qui come gruppo di cooperazione tra Knesset e Camera per sviluppare le relazioni tra le due istituzioni parlamentari. Quello che emerge chiaramente è che Israele è una società aperta, una società libera, una società democratica, una società che anche su questi due anni e sulle prospettive ha una dialettica democratica”.
Parole sulle quali torna il responsabile Esteri del Pd Provenzano, che aggiunge: “Le nostre posizioni sono molto chiare, a partire dalla denuncia della torsione autoritaria ed estremista del Governo israeliano, e dalla necessità che i crimini commessi a Gaza e in Cisgiordania non rimangano impuniti.
In queste ore, stiamo chiedendo al Governo italiano di riconoscere la Palestina in occasione della visita di Abu Mazen e di unirsi alla pressione internazionale per la liberazione del leader palestinese di Marwan Barghouti”. Interpellato dall’ANSA, Fassino precisa: “Abbiamo parlato da un’aula della Knesset dove facevamo gli incontri con i nostri interlocutori. Era una missione istituzionale e di rappresentatività parlamentare. Non c’è stato nessun avallo delle politiche del governo israeliano”.

(dagospia.com) – A che serve quel filo-putiniano di Salvini? Serve eccome a Giorgia Meloni per apparecchiare, al di là delle frontiere, il miracolo del Camaleontismo senza limitismo.
Se in casa la Lady Macbeth de’ noantri getterebbe quel rompicojoni della Lega dal balcone di Palazzo Chigi, in politica estera il copione cambia e il suo disprezzo si trasforma in amore.
C’è da votare in Parlamento il decreto sulla fornitura di armi a Kiev? Ed ecco che l’ostilità dichiarata del leader del Carroccio al sostegno dell’Ucraina diviene un perfetto pretesto per la Ducetta per rinviare il provvedimento all’ultimo consiglio dei ministri dell’anno, quello del 23 dicembre.
In cuor suo, la Premier alla Fiamma sotto sotto è felice come una Pasqua per il secco rifiuto del “moscovita” padano a votare il decreto, agitando la solita minaccia di una crisi di governo.
Sul decreto la Ducetta ha fatto lo struzzo (“Sarà fatto entro la fine dell’anno in ogni caso perché serve. Non vuol dire lavorare contro la pace. Vuol dire che finché c’è una guerra aiuteremo l’Ucraina a potersi difendere da un aggressore.
C’è più di un Consiglio dei Ministri che lo consente e quindi cerchiamo sempre di spalmare i provvedimenti del Consiglio dei Ministri in maniera tale da lavorare su quello che è più urgente. È una questione logistica”), mentre Salvini ha agitato lo spauracchio di una crisi di governo: “Ne parliamo tra venti giorni.
Dipenderà dal contesto, per esempio dallo sviluppo delle inchieste di corruzione. E soprattutto dal negoziato portato avanti da Trump”.
(A proposito di Trump, dimenticavamo la “special relationship” della Giorgia dei Due Mondi con l’aspirante al Nobel della Pace Trump, che aveva assicurato il mondo intero, già al momento di far il suo ingresso nella Casa Bianca, che nel giro di 24 ore avrebbe risolto tutte le guerre, Ucraina compresa.)
Quando poi riciccia il famigerato Mes Salva-Stati, si scapicolla la Lega per togliere le castagne dal fuoco al Camaleonte della Sgarbatella. È bastato che quel budino dal volto umano di Antonio Tajani, da Bruxelles, annunciasse l’ipotesi di utilizzare il Meccanismo Europeo di Stabilità (cui manca da tre anni solo la ratifica del governo di Roma), a garanzia dei rischi che potrebbero derivare dall’utilizzo degli asset russi congelati, per scatenare l’inferno.
Subito si straccia le vesti il responsabile economico della Lega, il no-euro Alberto Bagnai (lo stesso che si adoperava per far sloggiare i consiglieri di Mps, contrari all’Opa su Mediobanca):
“È uno strumento obsoleto. Riteniamo che il fondo vada liquidato: ieri il Mes “sanitario”, oggi il Mes “bellico” o “postbellico”, domani magari il Mes “climatico” o “energetico”. Per la Lega, è illogico pensare di ricorrere a questo meccanismo per garantire prestiti legati agli asset russi congelati’’.
Anche qui la posizione anti-europeista del “patriota” orbaniano Salvini si rivela un ottimo schermo per la Melona per giustificarsi con Ursula von der Leyen e agli amici del PPE, piagnucolando: ‘’Non è colpa mia se non sostengo gli aiuti a Kiev o non firmo la riforma del Mes: purtroppo ho un alleato di governo come Matteo Salvini che è un pazzo irriducibile e non posso correre il rischio di far cadere il governo…bla-bla-bla”
Supercazzole di camaleontismo senza frontiere che funzionano per chi ha la memoria corta e si è dimenticato quanto i Fratelli d’Italia abbiamo sempre detestato il trattato del Mes. La stessa Meloni accusò in Parlamento Giuseppe Conte e il suo governo di aver firmato nel 2021, con “il favore delle tenebre”, la riforma del Mes da dimissionario e “contro il parere del Parlamento”…

(Giuseppe Gagliano – lafionda.org) – A Bruxelles c’è uno scandalo che non conosce stagioni. Non va in vacanza, non chiude per festività, non rispetta turni. È il Qatargate, che tre anni dopo continua a fare più audience di qualunque Commissione d’inchiesta e soprattutto a dimostrare una verità imbarazzante: l’Unione Europea è bravissima a parlare di trasparenza, purché nessuno si azzardi a indagare davvero.
La nuova puntata è andata in onda il 3 dicembre, quando una commissione parlamentare ha deciso che l’immunità dell’eurodeputata Alessandra Moretti poteva tranquillamente saltare. Voto maggioritario, solenne indignazione di lei (“è un voto politico”), autosospensione dal partito come da manuale e tutti pronti a fingere stupore. Curiosamente, la decisione arriva proprio quando la stessa area politica è già travolta dallo scandalo che coinvolge Mogherini e Sannino. Ma sarà certamente un caso, come sempre a Bruxelles.
Per Elisabetta Gualmini, invece, è andata diversamente: immunità salva, applausi in sala e sospiri di sollievo. La differenza? Ufficialmente, la mancanza di prove sufficienti. Ufficiosamente, la solita geometria variabile delle maggioranze europee, dove un voto vale più della giustizia e i numeri decidono ciò che la morale non riesce nemmeno a inquadrare.
Nel frattempo, Evangelia Kaili, la protagonista originaria del Qatargate, continua a rilasciare interviste da Abu Dhabi come se nulla fosse. Dice che il Belgio non è un posto sicuro per i politici. Curiosa opinione, soprattutto da parte di chi è stata trovata con le valigie piene di contanti, ma in Europa funziona così: più uno scandalo è grave, più chi ne è dentro può permettersi di dare lezioni. A Bruxelles la logica è un optional, un po’ come il rigore morale.
Il quadro generale è sempre lo stesso: valigie di soldi, ONG di nome ma non di fatto, parlamentari che si indignano solo quando tocca a loro, avvocati che gridano al complotto, procure che si incartano da sole, giudici che si dimettono per conflitti d’interesse degni di un romanzo noir. Per non parlare delle faide interne ai gruppi politici, con accuse reciproche di corruzione, complotti e strumentalizzazioni che sembrano uscire da un copione di teatro dell’assurdo.
Ogni giorno c’è una nuova mano che sbuca da dietro il sipario: paesi del Golfo che corteggiano l’Europa come se fosse un supermercato di voti, lobby che si moltiplicano come funghi dopo la pioggia, partiti che usano il Qatargate come un randello elettorale. Il tutto mentre la giustizia belga, teoricamente al centro dell’inchiesta, fatica ancora a capire se l’indagine sia legittima o no. Nel dubbio, nessun processo è realmente cominciato. Tre anni di scandalo, zero processi. Sembra quasi un record europeo.
A metà dicembre, il Parlamento deciderà sulle immunità come se fosse una finale di Champions, ma il vero match si gioca nelle stanze dove nessuno può entrare. Se la Corte d’Appello boccerà parte dell’inchiesta, potremmo assistere al più grande autogol giudiziario degli ultimi anni: anni di scandalo, titoli di giornale, reputazioni bruciate e, alla fine, tutto svanisce per un vizio procedurale. Una metafora perfetta dell’UE: complessa, solenne, e assolutamente incapace di guardare se stessa allo specchio.
Intanto, la politica continua a litigare su chi sia più corrotto di chi, senza mai accorgersi che l’unica cosa realmente compromessa è la credibilità delle istituzioni. Una credibilità che, a giudicare dalle ultime settimane, non vale nemmeno il prezzo di una valigetta piena di contanti.
In fondo, il Qatargate non è solo un caso giudiziario: è lo specchio di un’Europa che adora parlare di valori ma inciampa sui propri interessi. E mentre tutti gridano al complotto, alla persecuzione, all’attacco politico, l’unica domanda sensata resta la più semplice: com’è possibile che uno scandalo così enorme, dopo tre anni, sia ancora fermo al semaforo?
Ecco, forse perché quel semaforo lo controlla chi non ha alcuna fretta di far passare la verità.
Il destino del continente si gioca sulla capacità di scegliere la pace senza umiliare l’Ucraina né consegnarsi a Mosca.

(di Gianvito Pipitone – https://gianvitopipitone.substack.com) – Matteo Salvini è forse l’ultima persona a cui darei credito in questo governo, per le cose che dice, per quelle che pensa e per lo stile che incarna. Eppure, anche un orologio fermo due volte al giorno segna l’ora giusta. Stavolta la sua voce – pur intrisa di un amore mai nascosto per Mosca e di attestati di stima verso Putin, che sembrano più il tributo a un padre, a un maestro o a un artista che non a un leader politico – tocca un punto che non può essere liquidato con leggerezza.
Inaugurando la sede dell’Enac, ha auspicato di “riaprire i commerci e il dialogo con un paese con cui non siamo in guerra”, sottolineando che l’Italia non ha alcun interesse a nuove guerre, ma piuttosto a ricostruire ponti, magari prima di altri. È un auspicio che viene spontaneo condividere, perché l’alternativa resta una guerra che non solo continua senza tregua, ma rischia di trascinare con sé l’intera Europa. Certo, il ministro Salvini non spiega nulla sul come arrivarci, sul percorso concreto da seguire; ma in fondo, se il fine è la pace, allora persino il mezzo – il suo sconsiderato “amore” per Putin – diventa parte del gioco.
Al contrario, va registrato che l’Europa che conta continua a fare orecchie da mercante. Lo dimostrano gli appunti di una conferenza telefonica riportati da Der Spiegel: Merz e Macron hanno messo in guardia Zelenskyj, avvertendolo che gli Stati Uniti potrebbero tradire tanto l’Ucraina quanto l’Europa. “Devi essere molto prudente, stanno giocando con te e con noi”, si legge nelle carte. Parole tutt’altro che distensive, che rivelano la profonda diffidenza europea verso i mediatori americani e, in filigrana, verso lo stesso Putin. Ma soprattutto parole che non portano alcun passo avanti concreto verso la pace.
E invece, c’è oggi un bisogno urgente di Realpolitik, concetto tanto caro ai tedeschi e nato proprio da quelle parti. Terminata la tutela d’oltreoceano, l’Europa deve finalmente imparare a pensare con la propria testa. Non può continuare a vivere di regali della Nato o di favori di Trump che ne condizionino la volontà. I leader del continente – da Merz a Macron fino a Meloni e altri- hanno il dovere di mantenere la lucidità necessaria: non cadere nelle provocazioni di Putin e, al tempo stesso, non lasciare che sia Zelensky a dettare per intero l’agenda.
Mentre Putin continua a ribadire che “l’Occidente non deve minacciare la sicurezza della Russia e deve accettare nuove realtà territoriali”, l’Europa ha il dovere di affrettarsi a definire una posizione autonoma e una soluzione credibile: una via che non mortifichi la resistenza ucraina e, al tempo stesso, riconosca all’orso russo solo ciò che rappresenta il massimo sacrificabile.
Se il prezzo da pagare per evitare che questa catastrofe si prolunghi all’infinito è sacrificare una parte di territorio, allora si abbia il coraggio di lavorare in quella direzione. Bisogna essere realistici e non inseguire illusioni. Allo stesso tempo, la diplomazia deve attivarsi per garantire le migliori forme di sicurezza contro il ritorno di un attacco da parte di Mosca. La pace, insomma, non può avere alternative: occorre limitare i danni. Se il congelamento del fronte è il compromesso necessario per riportare un minimo di stabilità, ci si adoperi subito, perché troppo tempo è stato perso e troppe vite civili e militari sono state immolate sull’altare della “difesa della patria”.
I problemi si potranno riaffrontare in futuro, a bocce ferme, ma oggi serve una pace concreta, possibile. E lo ripeto, come sa chi mi segue, con un senso di responsabilità personale: mi vergognerei di più a dover spiegare a mio figlio di nove anni che, per colpa di una diplomazia testarda e ottusa, l’Europa e l’Italia sono entrate in guerra; piuttosto che raccontargli che, a causa di un regime arcaico e di un leader prepotente, due popoli – quello russo e quello ucraino – stanno pagando un prezzo altissimo.
Una posizione sensata, se l’obiettivo principale fosse davvero quello di scongiurare il rischio di trascinare Europa, Russia e America in una terza guerra mondiale capace di cancellare ogni traccia di umanità dal pianeta. Ma se, invece, l’obiettivo di questa Europa fosse un altro – salvare tardivamente la faccia dopo una sconfitta cocente, o restare ancorati alle proprie poltrone perché finché c’è guerra c’è speranza di sopravvivenza politica – allora sì che avremo un problema.
Un grande problema, Houston …
Aldovino Lancia aveva 73 anni, l’incidente in bicicletta: secondo l’accusa il primo cittadino ha sottovalutato il tema della manutenzione e della segnaletica di pericolo

(lastampa.it) – L’ex sindaco di Collegno, Francesco Casciano, e un dirigente del Comune sono accusati di omicidio stradale per la morte in bicicletta di Aldovino Lancia, nel 2023. Pensionato di 70 anni, era caduto a causa di una buca sull’asfalto mentre pedalava tra strada vicinale di Berlia e via Rosa Luxemburg. Ricoverato in condizioni già gravi (non indossava il casco da bicicletta), è morto il giorno dopo l’arrivo in pronto soccorso.
L’indagine è coordinata dalla sostituta procuratrice Antonella Barbera. Secondo la procura gli imputati sono responsabili di non essersi preoccupati della manutenzione e del controllo delle strade, «per negligenza e imperizia». Inoltre, non si sarebbero occupati «dell’apposizione e della manutenzione della segnaletica». Lungo il tratto di strada dove il ciclista settantenne è caduto non c’erano segnali che indicavano i pericoli sull’asfalto.
Il processo, cominciato ieri, mercoledì 3 dicembre, riprenderà a febbraio. In aula ha testimoniato Roberto Testi, il medico legale che ha eseguito l’autopsia sul corpo di Aldovino Lancia. Per l’avvocato della difesa dell’ex sindaco, in carica fino al 2004 con il Pd, «Casciano non ha responsabilità nell’incidente» e il Comune non avrebbe mai sottovalutato il problema delle buche nell’asfalto e della manutenzione.
Controlli severi sulle abitazioni sfuggite al catasto. Ma intanto una folta pattuglia di parlamentari della maggioranza lavora alla sanatoria annunciata sotto elezioni

(Sergio Rizzo – lespresso.it) – Avevano anche aperto uno striscione, davanti all’ingresso del palazzo di Montecitorio: «No tasse sulla casa». L’arringa era affidata a Luca Ciriani. «La Camera dei deputati voterà oggi la riforma del catasto, che noi abbiamo contrastato fino all’ultimo minuto», esordiva il presidente dei senatori di Fratelli d’Italia, con al suo fianco il collega capo dei deputati Francesco Lollobrigida. «È una tassa occulta sulla casa, ovvero sul patrimonio delle famiglie italiane». E poi giù una stilettata sul mitico Piano nazionale di ripresa e resilienza: «Si dice che ce lo chiede l’Europa come riforma legata al Pnrr. Ma noi sappiamo che non è così. La casa non si tocca. Né oggi, né domani». Parola del futuro ministro per i Rapporti con il Parlamento.
Era il 22 giugno 2022, e quel «domani» presto sarebbe diventato un «oggi». Ma con una prospettiva radicalmente diversa. Dal 22 ottobre 2022 Ciriani e Lollobrigida sono al governo con Giorgia Meloni. E quel tabù, «la casa non si tocca» segue il destino di tante altre cose che dall’opposizione si vedono in un certo modo e che dal governo si vedono in un modo completamente diverso. Tipo le accise sui carburanti che dovevano essere abolite e ora invece sono diventate, quelle sì, intoccabili.
Ecco quindi scattare con il governo Meloni l’aggiornamento delle rendite catastali per le abitazioni che hanno usufruito del superbonus. Si affretta a precisare il ministro dell’Economia Giancarlo Giorgetti il 16 ottobre 2024: «Niente di nuovo, c’è già nell’ordinamento». Cioè, esattamente quello che aveva previsto la riforma del governo di Mario Draghi e che gli attuali ministri Ciriani e Lollobrigida, allora all’opposizione, contestavano in piazza. Del resto la revisione dei valori catastali italiani non è una specie di ossessione della tanto criticata Unione europea, che l’ha chiesta ancora a giugno?
E presto dovrebbe scattare anche la fase due di quella riforma già messa all’indice da Ciriani, ossia la ricerca dei fabbricati non dichiarati al catasto. Guarda caso, proprio con la motivazione di «dare attuazione al Pnrr», come stabiliva la delega Draghi e come dice pure, nero su bianco, un emendamento alla manovra presentato dal senatore veronese di Fratelli d’Italia, Matteo Gelmetti. Il quale propone che l’Agenzia delle Entrate metta in moto controlli a tappeto, anche con rilevazioni aeree, per scoprire gli immobili nascosti al catasto.
Encomiabile, in teoria. A meno che questo non serva solo a rendere più potabile il condono edilizio spuntato, sempre nella manovra, alla vigilia delle elezioni regionali del 23 e 24 novembre. La quarta sanatoria di questo tipo dopo quelle del 1985, 1994 e 2003. Che potrebbe avere, come le precedenti, conseguenze facilmente immaginabili. Perché la casa è la casa. E nonostante la revisione del catasto sempre incombente, non si tocca.
Nei 22 anni trascorsi dall’ultimo condono l’offensiva dell’abusivismo non ha registrato soste. Secondo Legambiente, inoltre, appena il 15,3 per cento dei 70.571 immobili per cui è stato decretato l’abbattimento è stato demolito. La regola è che demolizione e smaltimento delle macerie siano a carico di chi ha costruito. Ma quando ciò non si verifica, vale a dire praticamente sempre, deve provvedere l’amministrazione a proprie spese per poi rivalersi sul responsabile dell’abuso. Quale Comune può farvi fronte senza problemi? Renato Natale, l’ex sindaco antimafia di Casal di Principe rieletto dopo la bufera giudiziaria che aveva colpito i clan criminali casalesi, valutò una decina d’anni fa che per liberare fisicamente il territorio dalle costruzioni abusive sarebbero stati necessari almeno 300 milioni. Caso limite, che però fa ben comprendere la situazione.Un recente rapporto dell’Istat sostiene che in
Italia sono abusive 15 abitazioni su 100. La ricerca rivela che in media il tasso di abusivismo nel Mezzogiorno è superiore fino a dieci volte quello riscontrabile nelle Regioni settentrionali. In Campania, per esempio, tocca il 50,4 per cento. Soltanto in Basilicata e Calabria si trovano livelli più alti.
Nessuna sorpresa, perciò, che l’idea del quarto condono edilizio sia stata partorita in Campania. Dove peraltro la creatività per aggirare certe inflessibilità delle regole raggiunge livelli sconosciuti altrove. Le cronache narrano episodi letteralmente strepitosi. Nel 2017 il governo di Paolo Gentiloni ha impugnato una legge regionale che introduceva, testuale, «linee guida per supportare gli enti locali che intendono azionare misure alternative alla demolizione degli immobili abusivi». Qualche tempo prima il Senato ha addirittura approvato una legge nazionale che decreta le priorità da rispettare negli abbattimenti degli immobili abusivi. Prima di tutti quelli pericolosi. Quindi quelli non ancora ultimati. Poi quelli dei mafiosi e via via i villaggi turistici frutto di lottizzazioni abusive, le seconde case, gli immobili commerciali. In fondo all’elenco le case abusive occupate da chi ci abita, ma non senza «contestuale comunicazione alle competenti amministrazioni comunali in caso di immobili in possesso di soggetti in caso di indigenza». Insomma, un salvacondotto formidabile.
La legge, poi evaporata, portava la firma di una trentina di deputati campani. In testa a tutti Ciro Falanga, avvocato di Forza Italia nato a Torre del Greco. Città con il record di irregolarità edilizie della provincia di Napoli e una richiesta di condono inevasa ogni 6,5 abitanti, che nel 2019 aveva cercato di sfruttare una legge regionale per «scacciare l’incubo abbattimenti», secondo il sito metropolisweb.it.
Ma Torre del Greco, per una singolare coincidenza, è anche la città originaria di Antonio Iannone, deputato di Fratelli d’Italia promosso a marzo sottosegretario alle Infrastrutture per sostituire Galeazzo Bignami, trasferito all’incarico di capogruppo alla Camera. È l’autore dell’emendamento alla finanziaria che spiana la strada al nuovo condono edilizio riaprendo i termini dell’ultima sanatoria di Silvio Berlusconi, quella del 2003. Fedele al potente viceministro degli Esteri Edmondo Cirielli, candidato «governatore» della Campania alle ultime Regionali, Iannone l’ha presentato alla vigilia delle elezioni.
Ma la trovata elettorale ha radici più profonde. L’emendamento è infatti quasi la fotocopia di una proposta di legge avanzata cinque mesi fa da Imma Vietri, deputata di Fratelli d’Italia di Salerno, area dove l’influenza politica di Cirielli nel suo partito non ha eguali. Proposta a sua volta pressoché identica alla norma sul condono edilizio del 2023 targato Berlusconi. Il principio è lo stesso: si riaprono i termini e la sanatoria sarà gestita dalle Regioni che con proprie leggi regionali ne fisseranno i paletti. Tutto ciò a dispetto dei rischi cui si andrà incontro lasciando mano libera alla politica locale. Per non parlare di ciò che si riverserà sulle amministrazioni comunali. È opportuno ricordare che a quarant’anni dall’avvio della stagione dei condoni ci sono ancora nei cassetti dei Comuni alcuni milioni di domande in attesa di risposta. Lecito supporre che molte siano rimaste sul binario morto perché la sanatoria non potrebbe mai venire concessa, con le conseguenze del caso.
Ma anche per quel problema c’è chi ha una soluzione geniale. Il ministro delle Infrastrutture Matteo Salvini, nientemeno: «Entro 30 giorni i Comuni con alcuni milioni di pratiche arretrate decidano. Sennò, silenzio-assenso». Geniale. A quel punto il caos, complice anche il nuovo condono, si rovescerà direttamente sul catasto.
E la riforma degli estimi? Il tempo, prima o poi, verrà. Perché la casa davvero non si tocca. Chi ha mai detto il contrario?

(Mario Catania – lindipendente.online) – «Noi vecchietti siamo stanchi degli abusi e dei ricatti». Finisce così una mail che ci ha scritto una lettrice, lamentando i disagi che ha passato per poter tornare in Italia, via aereo, dalle Canarie. La signora, ignara delle nuove regole varate dalla compagnia low cost Ryanair, che dal 12 novembre obbliga gli utenti a viaggiare con biglietto digitale scaricabile dall’applicazione dedicata – pena una multa che arriva a 55 euro – ha dovuto farsi assistere dal figlio, al telefono, per riuscire nel completare tutta la procedura. Perché, se per i nativi digitali possono sembrare passaggi semplici, anche scaricare una applicazione dedicata e validare le proprie credenziali, prima di fare il check in online, può essere complicato. Figuriamoci quando il problema diventa quello di usare lo SPID (Sistema Pubblico di Identità Digitale), ad esempio per accedere al proprio fascicolo sanitario elettronico, inserendo codici di verifica come gli OTP (One-Time Password) precedentemente impostati, o il riconoscimento facciale. Quelle che possono sembrare operazioni banali, per chi non ha le conoscenze digitali necessarie, possono diventare epopee senza fine, che, tra frustrazione e incomprensioni, spesso non portano al risultato desiderato.
Tornando ai biglietti d’aereo la signora scrive: «Considero questa “novità” un ricatto vergognoso: dover installare una app per fruire di un titolo di viaggio». E si domanda: «E gli altri vecchietti? E chi non ha nessuno che li assiste? E chi non ha un telefonino “moderno”? E se si scarica? Queste “novità” diventano sempre più escludenti nei confronti dei più deboli e discriminatorie. A mio parere anche illegali». Ed è proprio questo il punto: il rischio che, nella progressiva digitalizzazione di pratiche e servizi, i più anziani restino esclusi da un sistema che sembra essersi dimenticato della loro esistenza.
Il problema viene evidenziato innanzitutto dai dati. Secondo l’Istat i problemi iniziano già dall’accesso a internet, visto che, tra le famiglie composte solo da anziani (65+), solo il 60% ha una connessione: in 4 su 10 nemmeno possono accedere al web. Nella fascia sopra i 75 anni solo il 31,4% usa internet. Secondo una ricerca portata avanti dall’Università Bocconi sul digital divide, riportata anche su EPALE (European Platform for Adult Learning), in Italia solo il 33% degli over 65 usa internet “regolarmente”, collocando il Paese tra quelli con maggiore esclusione digitale nella fascia anziana.
Ma il vero collo di bottiglia sono le competenze digitali. Sempre secondo i dati Istat, risalenti però al 2023, tra chi ha usato internet in un’indagine dai 16 ai 74 anni, solo il 45,7% ha competenze digitali almeno di base. Percentuale che crolla mano a mano che l’età si alza: tra i 20 e 24 anni le possiedono il 61,7%, ma tra i 65 e i 74 è appena il 19,3%. La ricerca spiega che in Italia il 68% delle persone con più di 65 anni dichiara di non avere le competenze digitali di base per usare smartphone, computer o tablet. E quindi, anche quando c’è accesso a Internet, 2 anziani su 3 si auto-percepiscono privi delle competenze minime necessarie.
Un articolo sul digital divide e l’alfabetizzazione digitale per la salute pubblicato sulla Rivista Trimestrale di Scienza dell’Amministrazione sottolinea 3 punti principali. Il primo è che il divario digitale non è solo mancanza di dispositivi, ma un intreccio di fattori economici, culturali, relazionali (isolamento, mobilità ridotta, basso reddito); il secondo è che per gli anziani, l’uso di tecnologie sanitarie (telemedicina, fascicolo sanitario elettronico) richiede competenze cognitive e digitali complesse, spesso non supportate; e infine che servono strategie differenziate: formazione continua, supporto di reti associative, ma anche mantenimento di soluzioni non digitali per chi, anche dopo la formazione, resta in difficoltà. Lo stesso studio della Bocconi sui programmi di alfabetizzazione digitale per over 67 spiega che la partecipazione a corsi mirati aumenta non solo le abilità pratiche, ma anche la fiducia nell’uso di servizi comehome banking, telemedicina e PA online. Gli ostacoli principali sono scarsa consapevolezza dell’offerta formativa e bisogno di percorsi lenti, personalizzati, con formatori specializzati nella fascia anziana.
Analizzando insieme dati quantitativi e studi qualitativi, le difficoltà degli anziani nell’uso della tecnologia – e in particolare di SPID e dei servizi pubblici digitali – si possono sintetizzare così: accesso a internet, dove il problema non è solo la connessione, ma in molti casi riguarda la mancanza di smartphone o PC aggiornati, o connessi in modo stabile; le scarse competenze digitali; le procedure complesse per accedere a servizi come lo SPID (email, password complesse, OTP via SMS o app, riconoscimento facciale o video, che si trasforma in una barriera aggiuntiva; portali poco intuitivi, con interfacce affollate, linguaggio burocratico, passaggi ridondanti; e infine la dipendenza da familiari o amici con rischi per la privacy e l’impossibilità di agire da soli in caso di urgenza.
Queste sono le principali raccomandazioni che emergono da rapporti ufficiali e studi:
E quindi implementare corsi ad hoc, per rendere gli anziani più indipendenti, e semplificare le interfacce dei portali, come confermato dall’indagine Doxa commissionata dal comune di Bologna nel 2021, dal quale risulta che il 38,3% degli anziani intervistati ritiene necessario disporre di strumenti più semplici, progettati specificamente per loro.
Uno studio pubblicato quest’anno su Science, si è occupato di analizzare come l’Unione Europea stia affrontando la duplice sfida dell’invecchiamento della popolazione e della rapida trasformazione digitale. I risultati principali indicano che «l’uso dei servizi di e-government in età avanzata è tutt’altro che universale: solo una minoranza degli anziani utilizza tali servizi. Il coinvolgimento è più frequente tra individui con specifiche risorse personali e posizionali – come un più alto livello di istruzione e una maggiore padronanza digitale – ed è fortemente influenzato dalla qualità dei servizi pubblici digitali, che varia considerevolmente da un Paese all’altro».
Non solo, perché i ricercatori mettono l’accento sul fatto che: «I risultati confermano che le competenze digitali comunicative costituiscono una risorsa chiave per gli adulti più anziani che accedono ai servizi di e-government […] sottolineando come le competenze rappresentino un prerequisito per un coinvolgimento digitale significativo». L’iniziativa deve essere lasciata ai singoli Stati, data la grande eterogeneità nelle infrastrutture e nelle competenze digitali tra le popolazioni anziane, mentre l’Unione Europea potrebbe svolgere un ruolo strategico facilitando linee guida condivise, coordinando iniziative transnazionali e sostenendo la diffusione delle pratiche efficaci. Con una conclusione chiara: «Affrontare queste limitazioni in future ricerche è fondamentale per costruire un e-government realmente inclusivo e capace di ridurre – anziché aggravare – le disuguaglianze sociali e il rischio di esclusione nella terza età».
Un emendamento dei meloniani alla Legge di Bilancio cancella la norma del Decreto Sicurezza che la equiparava alla droga e propone di affidarne la vendita a negozi autorizzati dall’Agenzia delle Dogane e dei Monopoli

(di Enrico Mingori – tpi.it) – Fratelli d’Italia sembra aver cambiato idea sulla cannabis light. Con un emendamento alla Legge di Bilancio 2026, il partito della premier Giorgia Meloni fa marcia indietro sulla norma – introdotta appena otto mesi fa con il Decreto Sicurezza – che ha reso di fatto illegale l’intera filiera dei “prodotti da infiorescenze di canapa”: FdI adesso chiede di riammettere la cannabis light nell’ambito della legalità e di affidarne la distribuzione all’Agenzia delle Dogane e dei Monopol
Il cambio di rotta – inaspettato e abbastanza sottaciuto dai meloniani – arriva dopo che due tribunali si sono espressi contro il divieto del Decreto Sicurezza e in attesa che si pronuncino sul punto la Corte costituzionale e la Corte di Giustizia europea.
Cosa prevede l’emendamento di FdI
Il primo a dare notizia della giravolta dei meloniani è stato Mario Catania sulla testata specializzata dolcevitaonline.it. L’emendamento è firmato dal senatore Matteo Gelmetti, lo stesso che aveva prima presentato e poi ritirato la proposta di introdurre alcuni paletti al diritto di sciopero nel settore dei trasporti.
Gelmetti propone di abrogare in toto la norma del Decreto Sicurezza – in vigore dallo scorso aprile – che di fatto equipara la cannabis light alle sostanze stupefacenti. Dunque i prodotti costituiti da infiorescenze di canapa tornano dentro l’alveo della legalità. In base all’emendamento, la vendita della cannabis light è ammessa solo da parte di tabaccai e negozi specializzati previa autorizzazione dell’Agenzia delle Dogane e dei Monopoli.
A questi prodotti, inoltre, viene applicata la supertassa del 40% già prevista per le sigarette. E ancora: la cannabis light non può essere venduta ai minorenni né fumata nei luoghi in cui vige divieto di fumo. Sulle confezioni dovranno comparire avvertenze per la salute e sono vietate la pubblicità e la vendita a distanza.
Cannabis light, i timori delle piccole imprese
In Italia si stima siano 800 le imprese che coltivano canapa per produrre la materia prima, a cui si aggiungono altre 1.500 aziende operanti nella lavorazione. Secondo le stime delle associazioni di settore, nella filiera della cannabis light lavorano circa 10mila persone a tempo indeterminato e 5mila lavoratori stagionali, per un fatturato annuo complessivo che – prima del Decreto Sicurezza – si aggirava intorno al mezzo miliardo di euro.
L’emendamento di Fratelli d’Italia è accolto con soddisfazione dalle aziende del settore, che vedono all’orizzonte la possibilità di tornare a non essere considerate fuorilegge. D’altra parte, il timore diffuso nella filiera è che la tassa del 40% possa mettere in ginocchio molti operatori, traducendosi così in un favore alle grandi multinazionali del settore.
Cosa dicono i giudici
Nei mesi scorsi la norma del Decreto Sicurezza sulla cannabis light ha ricevuto due sostanziali bocciatura da parte dei tribunali di Torino e Palermo, che hanno assolto alcuni produttori poiché non si potrebbe vietare per legge la commercializzazione di un prodotto come stupefacente senza analisi che ne provino l’effetto drogante.
Sulla norma in questione si pronunceranno prossimamente anche la Corte costituzionale e la Corte di Giustizia europea. La Consulta è stata interpellata da un giudice di Brindisi relativamente a un sequestro di cannabis light a danno di un’azienda, mentre alla Corte di Lussembergo si è appellato il Consiglio di Stato.
Il ministro degli Esteri che si stava per blindare con i congressi da tenere a febbraio era sereno. Mai farlo con la la presidente di Mondadori. Prima c’era solo lui per la leadership, ora ci sono almeno cinque possibili candidati. Forza Italia esce rivitalizzata dai pranzi con la Cavaliera

(Carmelo Caruso – ilfoglio.it) – Tony Tajani fa volare. Forza Italia è il nuovo Pd. Meloni ha il burraco, ma Marina Berlusconi ha Tony ballerino. Desiderano tutti andare a pranzo dalla Cavaliera per accreditarsi e mangiare gli gnocchi dello chef Ruggero. Marina li lascia fare (e fa le primarie) ma Tony Tajani soffre. Roberto Occhiuto (che è vice di FI) si vede già segretario, ma Tony, che capisce la musica, chiama Alberto Cirio (altro vice di Fi) e gli suggerisce: “Vai a prendere un pasticcino con Marina”. Tony che combina? Corre pure lui a Corso Venezia. L’effetto è “vanno e vengono”, i retroscena aumentano. Ne torna uno e dice: “Marina vuole me”. Torna l’altro “eh, no. Sono io”. Il ministro Zangrillo tace perché ha un rapporto personale (anche lui è andato da Marina). Gianni Letta si diverte come un bimbo. E’ adrenalina e calorie.
Finalmente in Forza Italia è grande politica. Cominciamo dalla svolta di Napoli. Avete presente il video virale di Tony Tajani che saltella, insieme a Meloni, al grido “chi non salta comunista è”. Ebbene, quando lo hanno visto dalle parti della Cavaliera è stato un “cribbio”. Il resto lo fa l’infinito Gianni Letta che ha un’idea ben precisa di FdI: “Non vogliono appartenenza ma solo militanza”. Ergo, il partito del fu Cav. deve lottare (anche perché Meloni non ha ascoltato i consigli saggi quando ha fatto le nomine in Sace). Tony Tajani che si stava per blindare con i congressi da tenere a febbraio era sereno. Mai farlo con Marina B. e Pier Silvio (a proposito, ci danno notizie non buone riguardo a Realpolitik, programma Mediaset di Tommaso Labate, ultimo esperimento di Mauro Crippa, Oppheneimer. Capi autori che cambiano, fughe, ripensamenti. Urge pezzo). Eravamo rimasti che Tony ballerino guida il partito con piglio, ma in Puglia non quaglia. I risultati non sono dei migliori. La Lega è rimasta a galla. In Sicilia è un falò con Schifani che si è affidato a Cuffaro. Cosa aveva quel gran genio di Schifani? Alle Europee ha puntato tutto su Edy Tamajo, mister 120 mila preferenze, solo che Tamajo ha superato Caterina Chinnici (la figlia di Rocco, vanto di Tony Tajani) che si è sempre opposta ad accordi fra FI e Cuffaro. E’ finita male per Cuffaro, malissimo per Schifani (la sua giunta traballa ogni giorno) e ancora peggio per Tony che non ha messo un freno agli accordi Schifani-Cuffaro. FI in Sicilia esplode e si parla di commissariamento, ispettori mandati da Roma (ieri Tajani ha incontrato Schifani per evitarlo).
Un cinema. Silvio, quanto ci manchi… Meloni ama il burraco, ma la Cavaliera ha un partito, lascito di papà e c’è adesso la battaglia della vita, il referendum sulla giustizia. Marina cosa chiede a Tony, da sempre? Un partito più liberale, dai diritti, al fisco. Ogni volta che Tony va a trovarla (ultima questo fine settimana, la notizia la dà Vittorio Amato dell’Adnkronos) la Cavaliera risponde che c’è piena fiducia accompagnata dai risultati fin qui conseguiti. Solo che poi incontra anche Occhiuto (che sta organizzando un mega evento a Palazzo Grazioli) ed esprime pieno gradimento anche a Occhiuto. Non serve neppure dirlo: pagine di quotidiani per Occhiuto. Il nord può essere da meno? Anche Cirio, presidente del Piemonte, che vuole fare il ministro, si fa ricevere da Marina. Altre pagine “Cirio da Marina”. Lo chef di Marina, Ruggero, fa gli straordinari. Se permettete al nord, c’è il ministro Zangrillo, Paolo, fratello di Alberto, medico che ha tenuto la mano di papà Silvio.
Marina stravede anche per Zangrillo. Come stravede per Cristina Rossello, che ha curato la gestione dell’eredità. Volete mettere che si dimentichi anche di Alessandro Cattaneo, Deborah Bergamini, Stefania Craxi, Letizia Moratti? La Cavaliera incontra anche loro. Tony Tajani è disperato. Tra i preferiti di Marina c’è anche Giorgio Mulè, ex direttore di Panorama, vicepresidente della Camera. Che fa Tony? Lo nomina a capo della campagna referendaria sulla giustizia e da giorni dicono che Tony e Mulè si mandano i cuoricini sul telefono. Tajani aveva annunciato i congressi regionali per blindarsi, ma obiezione. Il tesseramento scade il 19 dicembre e i congressi cadrebbero in piena campagna referendaria. Non si può fare. Non dimentichiamo che in Veneto la spallata di FI non c’è stata e Flavio Tosi, coordinatore di FI in Veneto, è stato surclassato da Zaia. Ancora giornali, pagine (cara Marina, ma comprati Repubblica! L’editoriale del lunedì di Paolo Gentiloni lo affidiamo a Gianni Letta e Gentiloni inviato a Montepulciano da Elly Schlein).
I parlamentari di Forza Italia hanno capito il gioco. Siete scontenti? Andate da Gianni Letta che magari poi gira la vostra richiesta a Marina B. Si sta mettendo alla grande. Prima c’era solo Tony Tajani ma adesso abbiamo almeno cinque possibili leader: Occhiuto, Cirio, Zangrillo, Bergamini, Mulè. I pranzi con Marina hanno rivitalizzato Forza Italia e provocato un’impennata comunicativa. La dispensa dello chef Ruggero ne soffre ma a casa B. non si bada al cibo. La morale: Marina si diverte e oltre ai libri Adelphi adesso, grazie a Occhiuto, il calabrese, legge anche Corrado Alvaro. Si mangia a più non posso, si impaginano i giornali. Resta solo una domanda: aumenteranno di voti o di peso?
Atreju non è più solo la festa dei giovani di destra: è un luna park politico, un villaggio natalizio dove Fdi accoglie tutti, da Calenda a Conte, trasformando la politica in show, intrattenimento e “società aperta” senza confini

(di Gianmarco Serino – mowmag.com) – Ma cosa è diventato Atreju? C’è qualcosa che ci sfugge in tutto questo, perché se da una parte c’è il pratone di Pontida, dall’altro le giacche e le cravatte di Forza Italia e il grigiume della festa dell’Unità, Atreju è un villaggio natalizio dove la politica è sterilizzata, trasformata in un luna Park dove Nordio, La Russa, ma pure Matteo Renzi, Giuseppe Conte e chi più ne ha ne metta (gli ospiti sono più di 400) diventano degli showmen, degli special guest inoffensivi messi lì come delle belle statuine, anzi, dei bei manichini che però danno da scrivere ai giornalisti accanto a personaggi provenienti da altri multiversi, come Carlo Conti, oppure Raoul Bova, in dialogo con Arianna Meloni a proposito della “web reputation”. Mica scemi quelli di Atreju. Hanno creato una sorta di zona economica speciale per attirare gli investimenti temporanei in visibilità degli altri partiti, un luogo aperto di “confronto”. Un festival della destra, popolare e dell’establishment al tempo stesso. Però viene da chiedersi chi è che partecipa ad Atreju oltre agli ospiti che salgono sul palco? Un po’ tutti evidentemente. Un posto per grandi, piccini e per le colonne romane dei grandi ospiti. Dunque, da Calenda a Renzi, da Conte ai leader riformisti dell’assente Schlein, i seguaci di questi politici siederanno tra gli spettatori, sottomessi, in silenzio? Si asterranno dal lanciare pietre sul palco? Ma certo, si confonderanno tra la folla, anestetizzati dall’aria natalizia, per non destare sospetti e si godranno quell’atmosfera di comunità aperta a tutti quelli che si vogliono unire alla causa. I cancelli della libertà sono aperti a tutti, e per chi volesse tesserarsi, si può fare al volo, un marchio a fuoco sulla schiena e ci siamo, ma viene da chiedersi come sia possibile. Non per incredulità, ma per stupore sincero di qualcosa che, ancora una volta, è la vita nelle sue mille forme.

Forse perché Atreju non è soltanto la festa dei giovani di destra, ma un luna-park per famiglie, sistema integrato con bancarelle natalizie, intrattenimenti di ogni tipo, una sorta di “Un Posto al Sole” della comunicazione politica perfetto per spegnere il cervello e smettere di pensare. Addirittura Hoara Borselli “modererà” un dibattito inesistente tra Gianfranco Fini e Rutelli, per “uno sguardo del passato verso il futuro”. Di cosa parleranno esattamente? Rutelli non può parlare più di tanto perché l’attuale sindaco è suo collega di coalizione. Fini altrettanto, perché l’attuale presidente di regione è suo collega. Cosa gliene frega agli italiani di sapere cosa è successo nel consiglio comunale romano trent’anni fa? Rutelli-Fini ad Atreju è un po’ come Rocky 4. Ma forse il senso profondo della kermesse targata Fdi è un altro. Atreju non è solo un’occasione di entusiasmo collettivo, un’ubriacatura pop nazionalista, ma il riflesso, la conseguenza finale di una teoria politica che ha cambiato la storia della democrazia. “La società aperta e i suoi nemici” di Karl Popper, dove il filosofo tedesco prevedeva un nuovo tipo di democrazia, quella neoliberista che l’ottimo Diego Fusaro, ai tempi d’oro, definiva turbo-capitalista. Popper descriveva un certo tipo di globalizzazione dove merci e persone, più o meno la stessa cosa, dovevano circolare liberamente oltre i confini degli stati, ormai inutili, e dove non bisognava assolutamente escludere, ma includere, creare business dove si poteva, aprire i mercati nazionali al commercio internazionale al fine di rendere inutile la guerra.

Bando ai totalitarismi e critica alla repubblica dei filosofi di Platone ecc ecc. Questo disegno filosofico, poi, è stato fatto proprio anche dal suo allievo a Londra, George Soros, il magnate a capo della tanto chiacchierata società filantropica Open Society, quella che stava dietro le varie rivoluzioni colorate in giro per il mondo. Massi tutti vi ricordate di Soros, no? L’acerrimo nemico di Salvini, Orban e compagnia bella. Ora non se ne parla più perché evidentemente non è più influente come una volta, ma chi lo sa, o forse perché il complotto giudaico-massonico è troppo demodé. Bene, Atreju, nel suo piccolo è un esperimento di popperiana memoria applicato non ad uno stato, ma ad un partito politico, Fdi, che si fa casa di tutti, senza confini. Popper parla dei cittadini del mondo, Atreju fa la stessa cosa ma senza spiegazioni palesi, gli basta di invitare personaggi che fino a qualche anno fa sarebbero stati linciati, ma che oggi hanno recepito l’antifona e fanno i simpatici, vedi David Parenzo, Carlo Calenda, Giuseppe Conte (il dittatore dei Green Pass, dei dpcm e del distanziamento sociale). Ma è tutto ormai caduto nell’oblio, ora galleggiamo tra i canali della televisione, dei telegiornali, come cadaveri in pace con tutto il resto. Allora lasciamoci assorbire da questa nuova versione dell’establishment, da questa società aperta ideata da Fdi, dal Natale, dai suoi colori caldi e dal suo gelo così familiare.