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Riecco la secessione dei ricchi. Ha vinto Zaia e in manovra riparte l’autonomia: schiaffo alla Consulta


Sei articoli aggirano la sentenza della Corte e cristallizzano le disuguaglianze per legge. L’opposizione: ostruzionismo

(di Marco Palombi – ilfattoquotidiano.it) – La scoppola è stata pesante e i parlamentari del Sud di FdI e FI, specie di Campania e Puglia, a mezza bocca la attribuiscono anche al ritorno di fiamma del governo Meloni per l’autonomia differenziata: sei contestati articoli ad hoc infilati nella manovra e, poco prima del voto, pure le pre-intese firmate da Roberto Calderoli con Veneto, Lombardia, Piemonte e Liguria per devolvere poteri in 4 ambiti (gestione delle risorse sanitarie, protezione civile, professioni non ordinistiche e previdenza complementare) in cui non vanno precedentemente definiti – a parere dell’esecutivo e dei suoi tecnici – i famosi Lep, cioè i Livelli essenziali delle prestazioni che vanno garantiti a tutti i cittadini.

Il problema di quegli eletti del Sud è che se loro hanno perso, e male, il vincitore delle Regionali a destra è Luca Zaia, il vero padre della cosiddetta “secessione dei ricchi”: scontentarlo ora sarà difficile, tanto più che Giorgia Meloni potrebbe volerlo usare in chiave anti-Salvini. Per questo la premier che pronuncia la parola “nazione” con la maiuscola sta per far votare in Parlamento che le disuguaglianze territoriali sono stabilite per legge, immutabili.

Per capire il livello della forzatura firmata Calderoli serve un piccolo riassunto. Come il lettore ricorderà, un anno fa la Corte costituzionale ha fatto a pezzi la legge per l’autonomia differenziata: ne ha cancellati sette punti e ha dato una lettura “costituzionalmente orientata” (e cioè contraria a quella di Calderoli) su tutto il resto. In particolare la Consulta ha ribadito che il Parlamento va coinvolto nelle intese e può emendarle, che il governo non può decidere i Lep a colpi di Dpcm, che la devoluzione non può avvenire in blocco per materie ma per singole funzioni, che vada sempre dimostrata la maggiore efficienza della gestione locale, che alcune materie non possano proprio essere trasferite anche se sono citate nella Costituzione versione 2001 (tutela dell’ambiente, energia, porti e aeroporti, etc.) e molto altro.

La prima reazione di Calderoli e soci è stata scrivere una nuova legge, che da settembre giace su un binario morto in Senato. La seconda è stata infilare nella legge di Bilancio, complice il collega di partito Giancarlo Giorgetti, sei articoli in cui si definiscono i Lep in alcune materie, il passo preliminare prima di devolverle alle Regioni: l’orizzonte del piano è il 2027, l’anno in cui si tornerà al voto. La scoperta di quei sei articoli ha irritato parecchi dentro Fratelli d’Italia e Forza Italia, ma prima del voto nelle Regioni non si poteva dir nulla: ora, però, è troppo tardi. Nel frattempo, come detto, Calderoli gli ha fatto ingoiare pure la firma di quattro “pre-intese” con le regioni ordinarie del Nord, tutte amministrate dal centrodestra. Questa settimana, infine, si inizia a votare la manovra in Senato e l’autonomia tornerà sulle prime pagine: le opposizioni chiedono lo stralcio di quegli articoli e hanno deciso di fare (un po’ di) ostruzionismo se non saranno accontentate.

Le proteste sono il minimo, perché il piattino preparato da Calderoli è decisamente indigesto: un irrispettoso surf tra le virgole della sentenza dalla Consulta per aggirarla, violarla in qualche caso, e stabilire che l’autonomia differenziata si fa a risorse vigenti, cioè perpetuando le diseguaglianze territoriali che tutti conoscono: per evitare problemi, politici e di bilancio, basta scrivere in una legge che i Lep sono quelli garantiti dai soldi che spendiamo ora. Siamo nel migliore dei mondi possibili e non lo sapevamo. In un articolo ad esempio, il 124 per la precisione, si stabilisce che i Lep nella sanità esistono già e sono i cosiddetti Lea, livelli essenziali di assistenza. Poco importa che i Lea non vengano rispettati in gran parte delle Regioni, quasi sempre per mancanza di personale, macchinari e risorse: “Al finanziamento dei Lea si provvede mediante le risorse disponibili a legislazione vigente”. Cioè non si provvede e dove la sanità non funziona pace. Intanto i Lep ci sono e si può regionalizzare quel poco che era rimasto allo Stato.

Lo schema viene ripetuto, e in maniera persino più esplicita, altre tre volte. In materia di assistenza si stabilisce, per dire, che i Lep sono un assistente sociale ogni 5mila abitanti e, nelle equipe multidisciplinari, uno psicologo ogni 30mila abitanti e un educatore socio-pedagogico ogni 20mila (a questo fine si stanziano 200 milioni dal 2027). Il Lep dell’assistenza domiciliare agli anziani non auto-sufficienti è invece dichiaratamente una presa in giro: un’ora a settimana, ma compatibilmente con le risorse esistenti… Contemporaneamente vengono però ribaditi tutti quei bei piani teorici per le Case di comunità, i Progetti di assistenza individuale, i servizi di supporto alle famiglie tanto notturni che diurni. Tutta roba che gran parte degli italiani non ha mai visto e mai vedrà: “La disposizione – dice la Relazione tecnica – non comporta nuovi oneri, ma valorizza le risorse esistenti”.

Il giochino si ripete per il sostegno ad alunni e studenti con disabilità: il Lep, dice la manovra, sono le ore dedicate a ciascun studente. In futuro si vedrà, intanto “in via transitoria” il Lep è fissato alle ore che si possono fare coi fondi già a disposizione: 50 ore all’anno per studente, calcola la Ragioneria generale, che specifica peraltro come si tratti di “un obiettivo” la cui “attuazione è subordinata alla disponibilità delle risorse”. Quanto alle borse di studio per studenti universitari, se non altro i fondi aumentano di 250 milioni l’anno: resta che saranno ripartiti come al solito sul costo storico, che è una fonte di riconosciuto squilibrio (dallo stesso ministero) a danno dei territori più poveri. L’orizzonte per la devoluzione di queste materie, come detto, è il 2027 delle prossime Politiche. E come si decide la distribuzione dei fondi? Niente paura, ci penserà il governo via Dpcm con tanti saluti alla Consulta.


La guerra in Ucraina davanti al suo appuntamento finale


Il silenzio delle armi dice più delle negoziazioni

(Giuseppe Gagliano – lafionda.org) – A Ginevra, nelle sale illuminate da luci neutre e immerse nella ritualità diplomatica, le delegazioni occidentali e ucraine si sfidano attorno a progetti di pace rivisti, corretti, respinti e riscritti. Ma mentre il teatro diplomatico va in scena, la verità decisiva si esprime altrove, là dove i mezzi corazzati scavano il terreno e dove le mappe cambiano ogni settimana. Sono le linee del fronte, e non le dichiarazioni politiche, a fissare già oggi i termini della pace che verrà: il campo di battaglia scriverà la pace. Ed è questo scarto, tra il linguaggio del terreno e quello delle cancellerie, a rivelare tutta la profondità della crisi europea.

Un fronte che avanza mentre l’Europa distoglie lo sguardo

Le ultime settimane hanno messo in evidenza una realtà che molti preferiscono ignorare. Diverse città considerate essenziali per la stabilità delle difese ucraina sono cadute o sono ormai accerchiate. A nord, la spinta russa attorno a Kupyansk apre due possibili sacche che minacciano migliaia di soldati ucraini. A est, le forze russe sono penetrate in varie località che Kiev presentava come bastioni. A sud, l’avanzata verso Zaporizhzhia si è riattivata con un’intensità inattesa, approfittando di trincee insufficienti e di linee logistiche ormai esauste.

Il silenzio mediatico che accompagna questi sviluppi è rivelatore. Quando nessuno parla del campo di battaglia, significa spesso che la situazione evolve in una direzione difficile da accettare. Quel silenzio è il sintomo più evidente del collasso della narrativa occidentale sull’equilibrio strategico. E chi siede oggi ai tavoli negoziali lo fa da posizioni sempre più lontane dalla realtà militare.

L’avanzata russa come strumento di negoziazione

L’accelerazione russa non ha nulla di fortuito. È strettamente legata ai negoziati in corso. Più il fronte avanza, più la Russia accumula “fatti compiuti” che diventeranno la base di qualsiasi accordo futuro. Il concetto centrale è semplice: la linea di controllo nel giorno dell’armistizio. Mosca lo conosce da decenni. Washington ha imparato a conviverci. Kiev tenta disperatamente di evitarlo.

Per questo gli assalti si moltiplicano, le pressioni convergono verso Zaporizhzhia e il Donbass torna a essere un labirinto di corridoi esposti. Sul campo, la Russia vuole entrare nella trattativa come potenza che ha imposto la propria lettura dei fatti, non come attore costretto a compromessi astratti.

Un esercito ucraino vicino all’esaurimento

Kiev oggi combatte non soltanto contro una potenza superiore, ma anche contro un declino logistico profondo. Gli attacchi russi contro le locomotive hanno paralizzato la distribuzione delle munizioni. Le trincee mancano in varie zone chiave. Le rotazioni dei reparti diventano rare. Le armi occidentali arrivano col contagocce. E soprattutto cresce tra i soldati una domanda: cosa difendiamo ancora, se le posizioni cedono e gli arsenali si svuotano?

La convinzione morale non basta più. L’esercito ucraino ha bisogno di un sistema di sostegno che non possiede più. E questa fragilità militare si riflette immediatamente in fragilità politica.

Gli Stati Uniti preparano l’uscita, non il rilancio

Il piano statunitense ha introdotto un cambiamento di linea. Prevede neutralità per l’Ucraina, limitazioni sulle future alleanze, una riduzione drastica delle forze armate e concessioni territoriali fondate sulla situazione del fronte. La logica è chiara: chiudere il conflitto, non prolungarlo. Washington vuole liberare risorse per la competizione strategica con la Cina, riaprire canali di dialogo con Mosca su dossier globali e porre fine a una guerra che, per gli Stati Uniti, è diventata più un ostacolo che un vantaggio.

L’Ucraina, in questa visione, non è un tema esistenziale. Lo è invece per la Russia, e questa asimmetria spiega il nuovo equilibrio diplomatico.

Un’Europa spettatrice, non protagonista

L’Europa appare paralizzata. Da un lato, capitali che evocano una possibile guerra diretta con la Russia. Dall’altro, paesi che non dispiegheranno alcun soldato e che vedono nella continuazione del conflitto una minaccia mortale per economie già indebolite dal costo dell’energia. La frattura è totale. E soprattutto l’Unione Europea non ha alcun ruolo reale nelle negoziazioni. I suoi documenti vengono ignorati. Le sue prese di posizione non spostano nulla. L’Europa non è al tavolo: l’Europa è sul tavolo.

E quando una regione divisa, indebolita e lenta non può influenzare la diplomazia, la pace si decide altrove.

Verso una nuova ripartizione delle zone d’influenza?

Tra Washington e Mosca si delinea un accordo che va molto oltre la questione ucraina. Ciò che sta prendendo forma potrebbe essere una nuova ripartizione delle sfere di influenza, una sorta di Yalta aggiornata. L’Ucraina sarebbe solo il primo capitolo, non l’ultimo. L’Europa, politicamente e militarmente indebolita, rischia di tornare a essere terra di mezzo tra due grandi potenze. Ciò che non è riuscita a diventare — una potenza autonoma — la trasforma oggi in un oggetto geopolitico.

La pace nascerà dal terreno, non dai comunicati

La conclusione è amara ma inevitabile. Le negoziazioni non stanno scrivendo la fine della guerra. La stanno registrando. È il campo di battaglia ad aver parlato. E la pace — qualunque ne sarà la forma — sarà la traduzione diplomatica di ciò che gli eserciti hanno già deciso.

La guerra non finisce nelle conferenze stampa. Finisce là dove si combatte. E oggi questa verità è più visibile che mai.


Asse occulto Usa-Russia: qual è il piano per smantellare la Ue?


Asse occulto Usa-Russia: qual è il piano per smantellare la Ue?

(di Milena Gabanelli e Claudio Gatti* – corriere.it) – Uno spettro si aggira per il vecchio continente: è quello della disgregazione dell’Unione Europea. Nel suo recente non-paper, dal titolo «Il contrasto alla guerra ibrida: una strategia attiva», il ministro della Difesa Guido Crosetto ha parlato di «Stati autoritari» che, in modo «subdolo», alimentano la «delegittimazione» dei processi democratici interni e delle «alleanze sovranazionali come l’Ue». Il ministro ha fatto i nomi: Russia, Cina, Iran e Corea del Nord. Ma c’è un convitato di pietra: a minare l’Unione Europea, insieme a Putin, c’è anche l’America di Donald Trump e dei suoi suggeritori strategici, a partire dalla Heritage Foundation, think tank ultraconservatore che ha prodotto il «Project 2025». Si tratta del documento programmatico che Trump ha adottato per affermare la supremazia presidenziale, sopprimendo molti degli anticorpi che la Costituzione Usa ha creato a protezione della democrazia.
Lo smembramento dell’Unione Europea è da vent’anni uno degli obiettivi strategici della Heritage Foundation. In tempi più recenti la Foundation ha sviluppato un’alleanza con quelle stesse associazioni e amministrazioni dell’ultradestra sovranista europea coltivate da Vladimir Putin.

L’alleanza anti Ue

Per decenni il leader russo ha usato le forniture di gas per esercitare un’influenza politica sui singoli Stati membri dell’Ue e, dopo l’invasione della Crimea, ha fatto leva sulla dipendenza della Germania da quel gas (il 50% dei consumi fino al 2022) per spingerla a opporsi a sanzioni più severe chieste dagli Stati confinanti con la Russia. Così come oggi Putin sta usando la dipendenza dell’Ungheria dal suo petrolio per spingere Orbán a mettere i bastoni tra le ruote di una politica unitaria continentale.
Ma un’Unione Europea forte si scontra anche con la strategia dell’America First sostenuta da Donald Trump, che ha tutto l’interesse a indebolire il coordinamento istituzionale e il potere collettivo europeo. La miglior riprova di questa apparentemente paradossale coincidenza di interessi tra Putin e Trump è stata fornita dalla Brexit. L’uscita dalla Ue della Grand Bretagna è stata infatti fortemente sostenuta da entrambi. Ed entrambi hanno usato lo stesso canale per favorirla: Nigel Farage, il politico inglese che il presidente americano continua ancora oggi a sponsorizzare e il cui fedele luogotenente Nathan Gill è stato appena condannato a 10 anni per essere stato portatore della propaganda del Cremlino sulla guerra in Ucraina.
A febbraio di quest’anno Donald Trump ha dichiarato senza alcuna remora diplomatica che «l’Unione Europea è stata creata per fregare gli Stati Uniti: quello è il suo scopo» (qui) e che «è per molti versi peggio della Cina». Si potrebbe pensare che si tratti di esternazioni tipiche del personaggio, ma gli stessi promotori del manuale strategico di Trump ritengono la Ue un avversario da smantellare. 

Heritage Foundation: il programma

L’attività anti Ue della Heritage Foundation, che ricordiamo è considerato il centro studi ultraconservatore più grande e influente a livello internazionale, è diventata più esplicita negli ultimi 20 anni, con un’accelerazione dal 2022. Passiamo in rassegna fatti e documenti.
Giugno 2005: l’ex vicedirettore per le comunicazioni strategiche della Heritage Foundation Lee Casey scrive: «Dal punto di vista degli Stati Uniti, la mancata approvazione della Costituzione Europea ai referendum in Francia e Olanda rappresenta un duro colpo allo stesso progetto europeo (…). Ed è giunto il momento che i politici americani mettano in discussione tale progetto».
Dicembre 2006, in un rapporto intitolato «L’Ue è amica o nemica dell’America?», il ricercatore della Heritage Foundation John Blundell scrive: «Le differenze politiche tra Europa e Stati Uniti si sono moltiplicate e approfondite. (…) non c’è alcun motivo per cui gli Stati Uniti, che hanno fatto da levatrice alla nascita di questo neonato politico, non debbano svolgere un ruolo nella sua scomparsa» (qui).
Febbraio 2007, il dirigente Nile Gardiner scrive: «La crescente centralizzazione politica dell’Europa rappresenta una minaccia fondamentale per gli interessi degli
Stati Uniti (…). Nulla è mai certo nella storia. La spinta verso un’Unione sempre più stretta può ancora essere fermata».

I soci europei

Nel 2020 il primo ministro dell’Ungheria, Victor Orbán, grande nemico dell’integrazione europea, cede una quota del 10% della compagnia petrolifera ungherese Magyar Olaj (Mol) al Mathias Corvinus Collegium (Mcc), un centro studi schierato su posizioni di chiaro euroscetticismo. Ed è soprattutto dagli utili della Mol, per lo più dovuti alla vendita di petrolio russo, che arrivano i finanziamenti annuali del Collegium. L’emittente tedesca Zdf ha calcolato che nel solo 2023 ha ricevuto da Mol 50 milioni di euro in dividendi (qui).
A novembre 2022, in un discorso tenuto a Budapest davanti un pubblico di euroscettici ungheresi, il presidente della Heritage Kevin Roberts afferma: «Lo Stato-nazione ha due principali avversari, da un lato c’è il nemico che viene dall’alto: le organizzazioni sovranazionali (…) dall’altro c’è il nemico che viene dal basso: i propagandisti woke (…). E non esiste una cricca di élite globalista più pericolosa dei totalitari woke di stanza a Bruxelles.» (qui). Il 19 settembre 2024 l’Heritage organizza una conferenza a Varsavia per contrastare il «pericoloso progetto» di consolidamento della Ue assieme al think tank euroscettico polacco Ordo Iuris. Come il confratello ungherese, anche l’Ordo Iuris ha legami con Mosca tramite il World Congress of Families, associazione finanziata dall’oligarca russo Konstantin Malofeev e strettamente legata al politologo putiniano Aleksandr Dugin (qui). Lo stesso sito di Ordo Iuris scrive che «al termine della conferenza sono state prese alcune decisioni preliminari su attività congiunte da intraprendere» (qui)

2025: si scoprono le carte

E veniamo a quest’anno. Pochi giorni dopo il suo insediamento Trump dichiara pubblicamente: «Gli europei sono come i democratici, ci odiano (…) per decenni il nostro Paese è stato saccheggiato, depredato, violentato e spogliato (…). Denunceremo l’Unione Europea.».
L’11 marzo l’Heritage Foundation riunisce a Washington alcune delle maggiori associazioni euroscettiche d’oltreatlantico per discutere di come riformare le attuali strutture dell’Ue. In quell’occasione, in un «workshop a porte chiuse» si dibatte un rapporto prodotto da Mcc e Ordo Iuris intitolato «Il Great Reset: ripristinare la sovranità degli Stati membri nel XXI secolo». Il documento invoca «lo scioglimento dell’Ue nella sua forma attuale» (qui)
Nell’aprile 2025, il dirigente dell’Heritage Foundation Nile Gardiner elogia Trump dicendo che «è l’unico presidente americano ad essersi opposto attivamente al progetto europeo» (qui).
Il 1 maggio, a un mese dal ballottaggio delle elezioni presidenziali polacche, in un incontro nello Studio Ovale Donald Trump fa l’endorsement a Karol Nawrocki, il candidato euroscettico e contrario a una maggiore integrazione europea (qui). Pochi giorni dopo, in un convegno a Varsavia, la segretaria alla Sicurezza Interna americana Kristi Noem, elogiando pubblicamente Nawrocki, esorta i polacchi a votare per lui. La rivista online DeSmog, che ha ottenuto un file audio dell’evento, scrive: «I relatori hanno parlato in termini apocalittici del futuro dell’Unione Europea e uno di loro ha promesso di “liquidare” la Commissione Europea» (qui).

110 milioni di dollari contro Bruxelles

L’agenzia di stampa britannica Reuters rivela che in quegli stessi giorni una delegazione del Dipartimento di Stato incontra a Parigi alti funzionari del Rassemblement National di Marine Le Pen, il partito più euroscettico della Francia (qui). La delegazione è guidata da Samuel Samson, il funzionario dell’Ufficio per la democrazia, i diritti umani e il lavoro (Drl) del Dipartimento di Stato. Samson fa parte di un gruppo di giovani ultraconservatori che stanno scalando i ranghi dell’amministrazione Trump. Nella pagina Substack del Drl Samson scrive: «Il regresso democratico dell’Europa inficia la sicurezza e l’economia americana, oltre che i diritti di libertà di espressione dei cittadini e delle aziende americane» (qui).
Poche settimane dopo, in un’intervista a Fox News, il presidente dell’Heritage Kevin Roberts dichiara: «Siamo all’inizio di un’era d’oro, non solo per gli Stati Uniti – un’era d’oro di autogoverno in tutto il mondo, in particolare in Europa. Pensiamo a Santiago Abascal, leader del partito Vox in Spagna, pensiamo a Nigel Farage, che probabilmente sarà il prossimo primo ministro del Regno Unito» (qui a 3’31”). Farage è il principale promotore della Brexit e Abascal è tra i leader europei che più invocano «un cambiamento di rotta radicale nell’Ue» nel nome della «sovranità nazionale».
Consultando gli archivi dell’agenzia delle entrate americana e i documenti del Parlamento europeo, Giorgio Mottola di Report ha scoperto quanto hanno investito in Europa negli ultimi 5 anni i maggiori think tank conservatori statunitensi: 109,8 milioni di dollari, con un vertiginoso aumento di flussi a partire dal 2022.

(…) un modello europeo forte potrebbe essere di intralcio al modello americano sulla scena internazionale (…) mentre per Mosca un’Europa divisa consente più libertà di trattare da una posizione di forza con i singoli Paesi Ue (…).

La coincidenza di interessi

Raphaël Kergueno, ricercatore di Transparency International fa notare che «La maggior parte di queste organizzazioni non è iscritta nel registro delle lobby dell’Ue, vuol dire che non è dato sapere come spendano le loro risorse e quali siano i loro obiettivi. Possiamo solo monitorare il numero di incontri segnalati dai deputati europei, e sappiamo che con l’arrivo di Donald Trump ha registrato un forte aumento». Il fatto che gli interlocutori europei preferiti da Putin siano gli stessi di quelli dei Maga non può essere ritenuto casuale: «Per entrambi un’Europa liberal-democratica unita e funzionante rappresenta una minaccia». Secondo i più esperti analisti, un modello europeo forte potrebbe essere di intralcio al modello americano sulla scena internazionale, e Washington non vuole competitor; mentre per Mosca un’Europa divisa consente più libertà di trattare da una posizione di forza con i singoli Paesi Ue, e di influenza sui suoi ex vicini sovietici.

Claudio Gatti è un giornalista investigativo che risiede a New York dal 1978. Il suo ultimo libro, «Noi, il popolo – Terra dei nativi. Lavoro dei neri. Libertà dei bianchi» è pubblicato da Fuoriscena.

dataroom@corriere.it


Il grande affare di Salvini


La dimora di 28 vani e 674 metri quadri pagata 1,35 milioni. Ma in quella zona i prezzi sono quasi il doppio. La casa era degli Acampora. Il padre fu condannato con Previti, il cui studio ha gestito l’operazione

Il ministro Matteo Salvini e Francesca Verdini

(Nello Trocchia – editorialedomani.it) – Gli stilisti, le stelle del calcio, i vip, le ville di lusso avvolte nel silenzio e nella totale riservatezza. L’ultimo arrivato nel cuore di Roma nord, tra ricchezza e discrezione, è Matteo Salvini, il ministro delle Infrastrutture e numero due del governo. Proprio alla Camilluccia, zona rinomata e ambita, ha comprato una villa regale insieme alla compagna Francesca Verdini, figlia dell’ex senatore e pluricondannato, Denis: l’immobile di 674 metri quadri, con 28 vani più due box, è stato pagato 1,35 milioni di euro. In pratica una reggia, pagata 2mila euro a metro quadro: come un appartamento in zone periferiche e meno centrali della Capitale. Quei prezzi infatti, emerge da una verifica sui siti specializzati, si trovano in quartieri distanti dal benessere della città. Insomma il ministro ha ottenuto un super prezzo per la zona in cui si trova e per le dimensioni dell’immobile.

L’acquisto sancisce definitivamente la romanizzazione del leader leghista, che entra così nei salotti dell’alta società della Capitale. Le carte del grande affare, che Domani ha letto, sono un viaggio lungo 30 anni. Ma andiamo con ordine e raccontiamo prima di tutto il gran colpo di Salvini.

Che affare

La cifra chiesta al leader leghista era già stabilita dai proprietari, che avevano affidato la procura agli avvocati dello studio Previti: fondato dall’ex ministro della Difesa (il fedelissimo di Silvio Berlusconi, Cesare Previti), ora in mano al figlio Stefano (totalmente estraneo alle vicende berlusconiane). Salvini ha infatti sborsato 1,35 milioni di euro, 300mila euro li ha versati con due bonifici; il resto con un mutuo. Un’occasione imperdibile visto che la casa vale certamente di più. Alla fine è costata 2mila euro a metro quadrato mentre in quella zona la media è di 3.800 euro a metro quadrato, come emerge dai dati ufficiali dell’Agenzia delle Entrate di ottobre 2025.

Salvini ci tiene a precisare che nulla sapeva riguardo la proprietà della villa. «Matteo e Francesca hanno individuato l’immobile sul noto sito specializzato immobiliare.it, e da lì sono entrati in contatto con l’agenzia Rivolta che aveva il mandato per vendere la casa. È proprio l’agenzia che ha seguito in prima persona tutte le fasi della vendita insieme al notaio, comprese quelle con avvocati o mediatori che hanno affiancato esclusivamente i venditori. A proposito del prezzo, si precisa che è stata pagata esattamente la cifra pubblicizzata nell’annuncio visibile sul web e quindi accessibile a chiunque. La proprietà era sul mercato da tempo, era stata visitata da numerosi altri potenziali acquirenti e necessitava di numerosi interventi, di tipo urbanistico e strutturale», ci scrive lo staff del ministro.

Dal bilocale ai 28 vani

Sono lontani gli anni del Salvini uomo del popolo con la microcasa: «Buona Pasqua, semplicemente. È un video di ringraziamento fatto dal mio prestigioso bilocale di Milano. Sono in un condominio come tanti, alle mie spalle palazzi, dal piano di sotto arrivava il profumo di torta. Più che una casa, è un accampamento. Ecco la sala da massimo venti metri quadrati», diceva nel 2020. La villa romana è tutt’altra cosa: si eleva su «quattro livelli, ai piani seminterrato, terra, primo e secondo, collegati tra loro mediante scala interna, con annessa area circostante di pertinenza ricompresa nell’unitaria consistenza del villino, della estensione catastale complessiva di vani 28 (ventotto) compreso accessori», più la titolarità di due box auto.

Per ricostruire la storia di questo immobile di prestigio bisogna tornare indietro a metà anni Novanta. Quando inquirenti rovinarono il sogno di vita di Giovanni Acampora e consorte, in procinto di sposarsi. Le cronache raccontarono l’arrivo dei poliziotti per cercare tracce di bonifici e conti correnti. La donna nulla c’entrava con le indagini. La villa era di proprietà di una società che aveva sede in Lussemburgo.

La lussuosa dimora, infatti, acquistata dalla coppia Salvini-Verdini era della famiglia di Giovanni Acampora, scomparso lo scorso anno. Acampora era un avvocato, uno degli uomini fidati di Previti, anche lui come l’ex ministro e fondatore di Forza Italia indagato e condannato nei processi Imi-Sir e lodo Mondadori: una delle più grandi corruzioni della storia italiana.

Insomma, la storia di questa reggia finita in mano al ministro ci porta a uno dei più potenti e influenti uomini d’affari e politica del nostro paese: Cesare Previti, tessitore di relazioni e trame, l’uomo che con Marcello Dell’Utri sussurrava al presidente Berlusconi. Quel Berlusconi che non lo ha mai abbandonato nonostante le inchieste con le condanne definitive scontate tra domiciliari e servizi sociali. Il tutto grazie alla legge Cirielli, una norma ad personam, la ribattezzarono opposizioni e giuristi, visto che salvava dal carcere gli ultrasettantenni, tra questi anche l’amico di sventure. In fondo Previti attraversò processi e sentenze con l’unico scopo di proteggere l’impero imprenditoriale di Berlusconi.

Nel nome di Acampora

Il 2011 è un anno cruciale per il destino di quella che diventerà villa Salvini-Verdini. In quell’anno la signora Mary Badin, compagna di Acampora, sposta la sede della Valim in Italia: entrano come socie le figlie e in pancia della srl viene trasferita anche la proprietà della dimora da sogno. È il 2016 quando la società Valim srl viene messa in liquidazione. A liquidarla c’è Giovanni Acampora in persona, l’uomo del Cavaliere. Nell’assemblea dei soci si decide di trasferire la villa dalla srl alle socie, Giulia e Valeria Acampora. Nel 2018 arriva un primo guaio con un pignoramento che viene poi cancellato quattro anni dopo.

C’è un altro contenzioso che si apre. Il trasferimento dell’immobile alle due Acampora viene contestato da un creditore, la società Meit di Terni che chiede al tribunale di revocare l’atto: l’immobile è quanto di valore in possesso dalla società in liquidazione. Di questo contenzioso si trova traccia nei bilanci di Valim. La Meit aveva effettuato lavori nell’immobile ritenuti in parte non pagati, il tribunale aveva condannato inizialmente Valim a pagare 53mila euro, decisione poi appellata. Il trasferimento della dimora di lusso dalla Valim alle due Acampora alla fine si formalizza definitivamente.

«Non ci siamo occupati di prezzo né di aspetti commerciali, interamente gestiti da un’agenzia immobiliare come da prassi. Le venditrici vivono all’estero e per questo motivo ci siamo occupati di rappresentarle davanti al notaio. Ovviamente non c’erano questioni pendenti che potessero impedire la stipula dell’atto», chiariscono a Domani dallo studio Previti.

Proprio le due proprietarie firmano una procura speciale agli avvocati Stefano Previti, Carla Previti, Daniele Franzini perché vendano la villa «in suo nome, vece e conto, chi vorranno, per il prezzo complessivo di Euro 1.350.000», si legge. E alla fine l’atto viene siglato. A sottoscriverlo ci sono Franzini, per la parte venditrice, Verdini Fossombroni e Salvini come acquirenti.

Per il ministro, un tempo padano, è il definitivo salto nell’alta società di quella che un tempo definiva «Roma ladrona». Gli insulti, spiegò Salvini, non erano rivolti alla città, ma al sistema di potere che la regge. Il sistema di potere che abita negli atti della sua villa da sogno.


L’indignazione è già finita, le bombe no: cosa succede se ci dimentichiamo di Gaza


Il mondo crede che tutto vada bene, ma dal 10 ottobre sono stati uccisi 354 palestinesi. Usa e arabi si muovono per interessi

A Khan Younis na donna palestinese cucina per la famiglia

(Anna Foa – lastampa.it) – Sembra che ci siamo dimenticati di Gaza. Dopo tante manifestazioni a sostegno della Palestina che hanno riempito di grandi folle le strade italiane come quelle di molte altre parti dell’Italia e del mondo, dopo tanto parlare e scrivere, dopo che la distruzione di Gaza e l’uccisione di tante migliaia di palestinesi erano diventate l’argomento del giorno nelle nostre scuole, nelle nostre università, nei nostri talk show televisivi, a partire dal 10 ottobre, data di inizio della tregua, su Gaza e sulla questione palestinese è sceso il silenzio, o almeno qualcosa di molto simile al silenzio.

Forse perché la tregua regge? Perché non ci sono più bombardamenti sulla Striscia martoriata di Gaza? Non è così, la tregua regge, ma una tregua che consente ancora bombardamenti e uccisioni. Dal 10 ottobre ad oggi sono stati uccisi 354 palestinesi. Sembra poco, se paragonati ai numeri precedenti, ma provate ad immaginarveli tutti in fila, nei loro sudari.

O forse perché i rifornimenti bloccati alla frontiera sono stati lasciati passare, la popolazione rifornita di cibo ed acqua, i medicinali tornati in ciò che resta degli ospedali? Non è così, Israele apre e chiude i valichi, e le chiusure corrispondono ai momenti di tensione, quasi i rifornimenti fossero in realtà ostaggio dello svolgimento delle operazioni legate alla tregua. Non restituisci tutte le salme degli ostaggi, noi teniamo in ostaggio cibo, acqua, medicine sembra dire la chiusura a singhiozzo dei valichi.

Ma gli ostaggi sono tornati, e con loro sono stati liberati i prigionieri palestinesi chiusi nelle carceri di Israele. È un risultato importante. Che gli ostaggi nascosti da Hamas nei tunnel di Gaza tornino alle loro famiglie, che si possano seppellire i morti, è cosa che ha fatto tirare un sospiro di sollievo ad Israele, come ha fatto tirare un sospiro di sollievo ai palestinesi la liberazioni di famigliari spesso detenuti sulla base di semplici sospetti e in condizioni che gli ultimi scandali ci hanno rivelato non aver poi molto da invidiare a quelle degli ostaggi israeliani di Hamas.

Eppure, sia Gaza che Israele hanno accolto con speranza e favore la tregua. Perché ha significato l’idea, almeno l’idea, di non essere più in guerra. Ma più le settimane passano, più questo sollievo diminuisce, più le speranze sfumano. Ma se possiamo capire e condividere il sollievo che la tregua ha procurato ad israeliani e palestinesi, riesce meno facile capire perché anche il mondo sembra credere che tutto stia andando per il meglio.

Le grandi manifestazioni, importanti nonostante le sbavature politiche e gli accenni antisemiti, sembrano aver dato luogo al vecchio copione dei gruppi sociali che se la prendono a caso con tutti quelli che considerano espressione del “potere”, come dimostra la devastazione di questo giornale, devastazione che di “Pro-Pal” ha solo il nome e ci ricorda invece l’inizio del fascismo un secolo fa, con gli attacchi e le devastazioni squadriste a l’Avanti, l’organo del Partito Socialista.

Sul fronte dell’alta politica, gli Stati dell’Ue tacciono, o sono invece impegnati a disquisire sull’antisemitismo crescente, senza vedere che soprattutto di una conseguenza di quanto succede si tratta, non di una sua spiegazione. Solo Trump e in parte i Paesi arabi insistono, e per motivi loro, tutti diversi. E se fosse tutto, sul fronte mediorientale, si potrebbe anche trarre un sia pur piccolo sospiro di sollievo.

Ma, intanto, se Gaza non è più sulle bocche di tutti, la Cisgiordania è in fiamme, e non solo ad opera dei coloni che aspettano il Messia sbarazzandosi dei palestinesi e distruggendone case e campi, ma ormai direttamente ad opera dell’esercito. I video che ci arrivano mostrano episodi che suscitano in noi una sorta di inorridita incredulità, come quello dei due palestinesi – terroristi o no, che importa, dal momento che si arrendevano con le mani alzate? – assassinati a sangue freddo dai militari. A Gaza è subentrata la Cisgiordania, ma sembra che non susciti nel mondo una pari indignazione. O forse, l’indignazione è a tempo, ad un certo punto si esaurisce, la clessidra ha versato tutta la sua sabbia, parliamo d’altro.

Si parlasse almeno dell’altro fronte di guerra, quella scatenata dallo Zar della Russia. Ma di quella si è già smesso di parlare da tempo. E non perché fosse arrivata la questione di Gaza, evidentemente. È perché l’attenzione di chi vive tranquillo nel tepore della sua casa è limitata. La abbiamo consumata già tutta? E su quanto succede oggi in Cisgiordania, niente o poco da dire?


L’ammiraglio Cavo Dragone: “La Nato valuta un attacco preventivo alla Russia”


(repubblica.it) – “La Nato sta valutando un attacco preventivo contro la Russia in risposta agli attacchi ibridi. Forse dovremmo essere più aggressivi del nostro avversario”. Lo ha dichiarato al Financial Times l’ammiraglio Giuseppe Cavo Dragone, capo del Comitato Militare della Nato. “Stiamo valutando di agire in modo più aggressivo e preventivo, piuttosto che reagire”, ha affermato Dragone. Alcuni diplomatici, soprattutto provenienti dai paesi dell’Europa orientale, chiedono all’Alleanza di smettere di limitarsi a “reagire” e di contrattaccare. Secondo l’ammiraglio italiano, un “attacco preventivo” può essere considerato “azione difensiva”. Tuttavia, “questo va oltre il nostro solito modo di pensare e di comportarci”, ha osservato. “Forse dovremmo agire in modo più aggressivo del nostro avversario, le domande riguardano il quadro giuridico, la giurisdizione: chi lo farà?”, ha aggiunto.
Il Financial Times cita la missione Baltic Sentry della Nato, che pattuglia il Mar Baltico e ha impedito il ripetersi di incidenti dovuti al taglio dei cavi. “Dall’inizio dell’operazione ‘Baltic Sentry’ non è successo nulla. Questo significa che la deterrenza funziona”, ritiene Dragone. Tuttavia, ha ammesso che uno dei problemi è che i paesi della Nato hanno “molti più vincoli rispetto ai nostri avversari, a causa di etica, leggi e giurisdizione”. “Non voglio dire che questa sia una posizione perdente, ma è più complicata di quella del nostro avversario”, ha valutato l’ammiraglio. “Dobbiamo analizzare a fondo come si ottiene la deterrenza: attraverso azioni di ritorsione o attraverso un attacco preventivo?”, ha concluso il capo del Comitato Militare della Nato.


Caso Mediobanca, Pellegrini (M5s): “Come i furbetti del quartierino”


I 5 Stelle rievocano la scalata di 20 anni fa

(di Marco Franchi – ilfattoquotidiano.it) – “Ho la massima fiducia nel ministro Giorgetti, che si è sempre comportato correttamente. Attaccarlo è fuori luogo”. Mentre scoppia il bubbone del risiko bancario fatto emergere dall’inchiesta sulla scalata Mps a Mediobanca benedetta dal governo, il centrodestra serra i ranghi. E nelle giornata in cui Forza Italia si dice fiduciosa di poter ottenere i correttivi alla manovra richiesti da casa Berlusconi, non stupisce che il primo a spendersi per il ministro leghista dell’Economia Giancarlo Giorgetti, in queste ore al centro delle polemiche, sia proprio il segretario Antonio Tajani. Che gli conferma piena fiducia, prima di buttarla lì: “Non vorrei che si trattasse di un’inchiesta ad orologeria” dice il vicepremier azzurro che dà la linea anche a Matteo Salvini: “Mi stupisce che certa magistratura fosse distratta mentre qualcuno stava azzerando il Monte di Paschi di Siena e si sia risvegliata quando grazie alla Lega e al Governo, è stata non solo salvata, ma rilanciata”.

Ma la domenica resta incandescente: fioccano le interrogazioni parlamentari e le richieste delle opposizioni perché sulla “Bancopoli” svelata dall’inchiesta, Giorgetti riferisca in Parlamento: i 5Stelle usano la clava evocando il precedente dei “furbetti del quartierino” ancora scolpito nella memoria collettiva. “Ascoltare l’Ad di Mps, Luigi Lovaglio, che al telefono si complimenta con Francesco Gaetano Caltagirone per la scalata di Mps a Mediobanca, genuflettendosi ricorda i dialoghi del 2005 tra l’allora Governatore Antonio Fazio e il banchiere Gianpiero Fiorani, all’epoca punta di diamante della finanza leghista” incalza il pentastellato Marco Pellegrini: “Sono passati 20 anni e, come nulla fosse successo, il Governo Meloni ha totalmente riproposto l’agghiacciante canovaccio dei furbetti del quartierino, mettendo le mani in pasta in un risiko bancario in cui una banca ancora partecipata dal Mef, e salvata con i soldi degli italiani, è stata messa disposizione dei gruppi Caltagirone e Delfin (famiglia Del Vecchio) per scalare Mediobanca e arrivare a comandare in Generali”.


Ma mi faccia il piacere


(di Marco Travaglio – il Fatto Quotidiano) – Vogliamo il colonnelli. “Evviva i militari in Parlamento. Meno propaganda politica, più colonnelli” (rag. Claudio Cerasa, Foglio, 29.11). Peccato che il colonnello Tejero sia appena morto.

Il genio. “Gentile Travaglio, perché sta con l’invasore?” (Michele Magno, Italia Oggi, 28.11). Questo pensa che chi dice che il Milan ha battuto la Lazio sia milanista.

Ripetizioni di storia. “In 100 anni la Russia ha attaccato 19 Paesi di cui nessuno ha mai attaccato la Russia” (Kaja Kallas, rappresentante Ue per la politica estera, 29.11). Ci sarebbe la Germania nazista, ma che sarà mai.

È fatta1/. “L’ultima arma di Putin: la Russia testa i piccioni-drone per sorvegliare le città” (Open, 26.11). Li trasportano in spalla gli homeless jakuti ubriachi sui loro caratteristici motorini o a dorso di mulo.

È fatta/2. “Così l’Ucraina inganna i Kinzhal di Putin: 19 missili ipersonici russi abbattuti da una canzone-parodia della propaganda del Cremlino” (Messaggero, 22.11). Pensa che musica di merda.

Il giureconsulto. “La Procura di Roma dovrebbe occuparsi di Scarpinato per violazione del segreto istruttorio” (Carlo Nordio, ministro FdI della Giustizia, 27.11). Se non fosse stato abrogato dal Codice Vassalli appena 36 anni fa.

Nichi Sventola/1. “Io sono un soldato, un militante di Sinistra italiana, ho sempre risposto alle chiamate del mio partito, della mia comunità, della mia gente. Mi ha molto colpito, girando tutta la Puglia, presentando il mio libro di poesie, che la gente si avvicinava – i ragazzi, le vecchiette – e all’orecchio mi dicevano: ‘Perché non torni? Perché non torni?’” (Nichi Vendola, candidato Avs trombato in Puglia, TeleSveva, 12.9). Poi non l’han votato manco quelli.

Nichi Sventola/2. “Vendola: ‘Perso per un soffio, la lista Decaro ci ha penalizzato’” (Repubblica, 27.11). Se non c’erano altre liste, vinceva lui.

CoeRenzi. “Meloni vuole cambiare la legge elettorale perché, se il centrosinistra sta insieme, lei perde” (Matteo Renzi, leader Iv, 25.11). “Sono senza pudore: lo fanno per tenersi Palazzo Chigi” (Maria Elena Boschi, deputata Iv, Repubblica, 25.11). Ma tipo quei due che, per non perdere le elezioni, fecero l’Italicum e il Rosatellum e le persero lo stesso?

BHL pronte consegne. “Il piano che Trump voleva far siglare a Kiev portava la firma del Cremlino. L’Ucraina non svenderà le terre” (Bernard-Henri Lévy, Stampa, 30.11). Anche perché le ha perse.

Benvenuti fra noi. “Senza un negoziato, Putin sventrerà l’Ucraina” (Alessandro Orsini, 21.3.22). “L’Ucraina sventrata da Putin” (Foglio, 20.11.25). Non sapevamo che Orsini scrivesse sul Foglio.

Sambuca colpisce ancora. “L’assalto dei Pro-Pal alla Stampa è una ferita profonda. Pro- Pal arma dei regimi: l’attacco è all’Occidente. È la guerra ibrida” (Maurizio Molinari, Libero, 30.11). E niente, mi sa che ha stato Putin.

Ha stato Stalin. “Podolyak: ‘In Ucraina la corruzione è eredità sovietica’” (Stampa, 30.11). Ma infatti: se gli ucraini rubano, è colpa dei russi.

Orologiai. “Inchiesta Mps, il governo compatto su Giorgetti: ‘Questa è giustizia a orologeria’” (Stampa, 30.11). Infatti si vota fra appena un anno e mezzo.

Al netto. “Al netto di Tangentopoli, non mi pare che Conte abbia la grandezza politica di Craxi” (Francesco Merlo, Repubblica, 26.11). Gli mancano le mazzette, le condanne e la latitanza.

Gentile omaggio. “Elly Schlein ha regalato a Conte la presidenza di due regioni, Sardegna e Campania” (Merlo, Repubblica, 27.11). Con tutti i candidati vincenti che aveva lì.

Che bei nomi. “Augusto Barbera: ‘Voterò sì al referendum. Tanti nel Pd sono d’accordo’” (Corriere della sera, 27.11). “Paola Concia: ‘La separazione delle carriere è di sinistra’” (Verità, 21.11). “Giulio Gallera: ‘Il nostro comitato del Sì’” (Identità, 29.11). Oh sìììì, ancoraaaa!

Mo’ me lo segno. “Ricordiamoci che i 5 anni dall’invasione degli stati baltici decorrono esattamente dal momento della firma dell’‘accordo di pace’” (Luca Bottura, Stampa, 26.11). Gliel’ha detto suo cugggino.

Il titolo della settimana/1. “La Procura boccia i pm del caso Open Arms” (Libero, 27.11). Quindi bisogna assolutamente separare le carriere dei pm da quelle dei pm.

Il titolo della settimana/2. “Putin, ironia sui negoziati e minacce all’Europa” (Corriere della sera, 28.11). Infatti Putin ha detto che è ridicolo pensare che la Russia voglia attaccare l’Europa, ma è pronto a mettere nero su bianco che non lo farà. Per non minacciarci, deve dire che ci attacca.

Il titolo della settimana/3. “‘Milano meets Riyadh’, il Salone in Arabia Saudita: vince la diplomazia del design” (Corriere della sera, 30.11). Mirabile l’installazione con la forca e la sega elettrica

Il titolo della settimana/4. “Prove di campo largo verso il voto: Gualtieri va da Calenda” (Repubblica, 26.11). Dev’essere l’estrema unzione.

Il titolo della settimana/5. “Cameron e il cancro alla prostata: ‘Gli uomini non ne parlano’” (Corriere della sera, 25.11). Invece le donne non parlano d’altro.


Israele, Netanyahu chiede la grazia al presidente Herzog. È sotto processo per corruzione, frode e abuso


Era stato Trump il primo a chiedere a Herzog di graziare il premier. Che in un primo momento aveva negato di voler chiedere il perdono presidenziale

(ilfattoquotidiano.it) – Sotto processo per corruzione, frode e abuso, chiede la grazia al capo dello Stato. È quello che ha fatto il premier israeliano Benyamin Netanyahu con una una richiesta formale di perdono al presidente Isaac Herzog. Lo riporta News of Israel citando fonti della presidenza.

La richiesta è contenuta in un documento di 111 pagine inviato dell’avvocato di Netanyahu, Amit Hadad, accompaganto da una lettera firmata dallo stesso premier israeliano. L’ufficio di Herzog pubblica il testo completo della richiesta. “Accettare questa richiesta consentirà al Primo Ministro di dedicare tutto il suo tempo, le sue capacità e le sue energie a fare progredire Israele in questi tempi critici”, scrive Hadad. “Inoltre, accogliere la richiesta contribuirà a ricomporre le fratture tra i diversi settori dell’opinione pubblica, aprendo la strada a un allentamento delle tensioni, il tutto allo scopo di rafforzare la resilienza nazionale del Paese”. Secondo l’ufficio di Herzog, Hadad ha presentato la richiesta al Dipartimento Legale della Residenza del Presidente. Il Dipartimento per le Grazie del Ministero della Giustizia “raccoglierà i pareri di tutte le autorità competenti del Ministero”, afferma l’ufficio di Herzog, quindi invierà le proprie raccomandazioni al consulente legale del presidente.

Successivamente, i loro pareri saranno trasmessi al Consulente Legale dell’Ufficio presidenziale e al suo team per formulare un parere aggiuntivo per il presidente. “Data l’importanza di questa richiesta straordinaria e le sue implicazioni, i documenti vengono resi pubblici (in ebraico)”, si legge nella nota dell’ufficio presidenziale. L’ufficio di Herzog ha fatto sapere che il presidente esaminerà la richiesta “con responsabilità e sincerità, dopo aver ricevuto tutti i pareri pertinenti, consapevole che si tratti di una richiesta straordinaria che comporta implicazioni significative“.

Netanyahu è sotto processo dal 2020 con le accuse di corruzione, frode e abuso di fiducia, in tre distinti casi. Il presidente può concedere la grazia dopo la condanna e, solo in rarissimi casi di interesse nazionale, anche durante il procedimento. E comunque sempre su richiesta della persona interessata o di un suo familiare stretto. A metà novembre Donald Trump aveva inviato una lettera a Herzog affinché concedesse la grazia a Netanyahu. Il capo dello Stato aveva risposto che il premier avrebbe dovuto “presentare una richiesta formale secondo le procedure stabilite”. Netanyahu, però, aveva spiegato di non voler chiedere la grazia nel suo processo per corruzione perché ciò avrebbe significato ammettere la propria colpevolezza. Evidentemente ha cambiato idea.


Vomero: il fallimento del progetto “Porta a Porta 5 frazioni”


Senza controlli marciapiedi e carreggiata invase da bidoncini

        Gennaro Capodanno, presidente del Comitato Valori collinari, già presidente della Circoscrizione Vomero, a un anno dalla partenza del progetto sperimentale denominato “Porta a Porta 5 frazioni” nell’ambito del solo quartiere Vomero, essendo stato al momento escluso da tale progettualità l’altro quartiere che fa parte della municipalità 5: l’Arenella, dopo le tante segnalazioni pervenutegli dai residenti, ha realizzato un vero e proprio dossier fotografico sulle disfunzioni del nuovo sistema di raccolta dei rifiuti solidi urbani, che si registrano quotidianamente nel quartiere collinare.

            ” Più che un “Porta a Porta” – sottolinea Capodanno – quello che sta andando in onda al Vomero si può definire un “Marciapiede a Carreggiata”, visto che girando per le strade e per le piazze del quartiere collinare, al momento si contano centinaia di bidoncini carrellati per la raccolta differenziata, diversi dei quali pieni di rifiuti, abbandonati per l’intera giornate su carreggiate e marciapiedi, creando anche notevoli difficoltà di deambulazione ai pedoni, segnatamente alle persone diversamente abili con carrozzine.

            ” Per esemplificare – afferma Capodanno –  in piazza Vanvitelli, piazza simbolo del quartiere collinare, nei pressi dell’ascensore a servizio della stazione del metrò collinare, si osserva la presenza costante di numerosi bidoncini carrellati, utilizzati nell’ambito della raccolta differenziata porta a porta. Analoga situazione in via Merliani mentre in molti altri casi la loro presenza riduce notevolmente il marciapiede a disposizione dei pedoni. Uno dei casi più eclatanti  si registra in via Stanzione, dove i bidoncini occupano buona parte del marciapiede, rendendolo oltremodo difficoltoso il passaggio dei pedoni, segnatamente delle persone diversamente abili non deambulanti “.

            ” Eppure – sottolinea Capodanno -, nelle disposizioni emanate al riguardo, che disciplinano la raccolta differenziata, sono indicati i giorni e gli orari durante i quali bisogna esporre su strada i bidoncini, da ritirare però subito dopo che sono stati svuotati “.  

          ” Invece  – puntualizza Capodanno – i contenitori segnalati, che rappresentano solo alcuni dei tanti casi riscontrati, visto che il problema appare diffuso sull’intero territorio del quartiere collinare, sono permanentemente esposti sulla pubblica via, dando peraltro un’immagine indecorosa, pure per la presenza di cumuli d’immondizia, anche ai tanti turisti che vengono a visitare il quartiere collinare “.

            Capodanno, con l’occasione, sollecita gli uffici competenti dell’amministrazione comunale e dell’Asìa affinché effettuino, in tempi rapidi, tutti gli accertamenti del caso, tracciando la provenienza di tutti i bidoncini che si trovano depositati in strade e piazze fuori dai giorni e dagli orari consentiti, individuando gli eventuali trasgressori, rimuovendo quelli che dovessero risultare privi di assegnazione e, nel contempo, comminando ai trasgressori le sanzioni previste, eliminando così definitivamente i disservizi riscontrati.


Guardia Sanframondi: che fine ha fatto la costituzione del consorzio “GustaSannio”


Accadde oggi: 30 novembre 2001

L’associazione Rinascita Guardiese continua la pubblicazione di  documenti  inerenti la storia guardiese per coltivare la memoria e …progettare il futuro partendo dal passato

Il Sindaco Ceniccola chiede al Consiglio Comunale di approvare la costituzione di un consorzio denominato  “GustaSannio”.

Sala consiliare Comunale  di Guardia Sanframondi

Il Sindaco Ceniccola chiede al Consiglio Comunale di approvare la deliberazione n°58 avente ad oggetto: “Atto di indirizzo programmatico per la costituzione di un consorzio  denominato GustaSannio” per realizzare un modello di sviluppo turistico caratterizzato da una sinergia tra le Istituzioni e le forze imprenditoriali.

Fono-registrazione del discorso pronunciato  il  30 novembre 2001

     Sig. Presidente, Sigg. Consiglieri

come voi ben sapete  l’Amministrazione comunale da ben 5 mesi si è fatta carico di organizzare una manifestazione, a cadenza mensile, che vuol  essere una sorta di mostra-mercato dei prodotti tipici del Sannio, denominata “GustaSannio”, con la quale si è voluto  candidare Guardia Sanframondi come “punto d’incontro” tra la domanda e l’offerta delle eccellenze eno-gastronomiche sannite e immaginando il cuore antico di Guardia  come una sorta di

“Parco commerciale naturale permanente”.

Una mostra-mercato dove poter fare shopping, l’ultima domenica del mese, del prodotto “Sannio”, degustare i prodotti tipici locali e, nel contempo, trovare servizi pubblici e privati per meglio vivere e gustare la terra sannita. Una manifestazione che dal 15 luglio u.s. ha già suscitato grande interesse e straordinari risultati per la provincia di Benevento. E’ necessario, però,  superare questa fase “volontaristica” che in questi 5 mesi ha visto impegnata in prima fila la Pro Loco guidata dall’amico, dal maestro Filippo Pengue,  conosciuto come  “Pippetto”, a cui  rivolgo un ringraziamento sincero per il grande lavoro svolto a servizio della nostra comunità.

    Oggi, c’è bisogno di un cambio di passo e far in modo che le stesse aziende espressione della “tipicità” del territorio  siano coinvolte in questa nostra iniziativa.

    Da ciò, quindi, l’idea di costituire una Società consortile denominata “GustaSannio” al fine di promuovere il territorio in sinergia con le forze imprenditoriali. Un ente consortile per dare agli imprenditori eno-gastronomici la possibilità di essere  co-protagonisti di scelte che possono in qualche modo interagire con quella che è la stessa politica aziendale. In poche parole,  “GustaSannio” vuol essere il brand per la promozione e vendita delle eccellenze eno-gastronomiche sannite e lo strumento per far diventare il centro storico di Guardia Sanframondi  il crocevia tra la domanda e l’offerta del prodotto “Sannio”.   

    Il nostro scopo è duplice: da un lato ci interessa valorizzare la tipicità e le tradizioni popolari della nostra gente  facendo riscoprire la cultura e gli antichi sapori del Sannio e dall’altro rivitalizzare il cuore antico di Guardia (che oggi é abbandonato e scarrpat’) cercando di individuare  una funzione specifica di questa parte del nostro paese.

     In conclusione, facciamo diventare il castello dei Fremondo e il cuore antico di Guardia Sanframondi la vetrina del “made in Sannio” ed offrirlo all’attenzione degli appassionati della buona tavola e, naturalmente, a tutti coloro che si considerano fini intenditori di vino.

P.S. I governanti subentrati al Sindaco Ceniccola, in preda ad una vera e propria furia distruttiva, non esitarono ad affossare anche questo “straordinario” progetto di promozione territoriale. E il Sindaco di Lonardo pur avendo stipulato un “contratto politico” con il gruppo Rinascita Guardiese inserendo la costituzione del consorzio “GustaSannio” tra i progetti coerenti, di rapida attuazione del programma presentato in campagna elettorale, a distanza di 5 anni, non ha fatto niente per concretizzare tale proposta di governo.                       


Ballando con la morte


(di Marcello Veneziani) – Il suicidio assistito di Alice ed Helen Kessler è stato salutato dai media italiani con un’ondata di ammirazione corale, come un atto razionale, civile, etico, esemplare. Ma la loro fine programmata e curata nei particolari, fino a disdire gli abbonamenti ai giornali, lascia un interrogativo gemellare, ambiguo. Che figuro in un’immagine, il ricordo infantile di un teatrino delle marionette: Pulcinella balla con la sua Colombina, felice di stringerla tra le sue braccia ma quando nella danza la sua amata si girava, Pulcinella si accorgeva di ballare con la Morte e se ne ritraeva inorridito. La stessa ambiguità sembra suscitare ora il ricordo delle Kessler: erano l’espressione di un’epoca spensierata, di un’Italia canterina e ballerina, tra dadaumpa e notti piccole, immersa nell’atmosfera gioiosa e giocosa di un sabato sera festoso e luccicante; e alla fine sono diventate le testimonial di una decisione macabra e cupa, definitiva: il suicidio assistito.

Le gemelle Kessler erano la rappresentazione più iconica, come oggi si dice – spesso a sproposito – di un’epoca, di un clima, di un modo di vivere allegro e sbarazzino. Nell’immaginario collettivo il duo Kessler era il più bel quadrupede umano apparso in video. Le loro quattro gambe sincronizzate facevano sognare gli spettatori e suggellavano a passo di danza la fiduciosa leggerezza con cui un Paese marciava insieme verso l’avvenire.

Ma col gesto premeditato di togliersi la vita alle soglie dei novant’anni, quel modello di ottimismo e fiducia si è capovolto in un funesto messaggio: decidere e programmare la propria morte per prevenire malattie, dolori e decorso naturale della vita e per risparmiarsi l’ombra malinconica della depressione senile. Così le due tedesche sono diventate sui media un modello di riferimento per la popolazione anziana che s’inoltra nella vecchiaia, suggerendo di anticipare le malattie letali e la morte, scegliendo la scorciatoia di una morte pilotata. Non siamo davanti ai casi limite di malati terminali e incurabili, tra sofferenze atroci o accanimento terapeutico; qui si tratta di un deliberato suicidio assistito, in piena lucidità, motivato da uno stato depressivo e dagli inevitabili acciacchi dell’età. Un gesto di sovrana autonomia nel disporre della propria vita e della propria morte.

L’unica particolarità che colpisce nel suicidio gemellare è la decisione di morire insieme, dichiarando che nessuna delle due avrebbe voluto sopravvivere all’altra; diventando così un ulteriore suggerimento per le anime gemelle, non necessariamente tali per ragioni biologiche ma anche solo affettive, per legame di coppia.

La vera questione è la convinzione che la nostra vita sia interamente ed esclusivamente nelle nostre mani; tocca a noi decidere quando, come e magari con chi andarcene per sempre. Dopo aver dichiarato morto Dio con la religione e il fato, morta la Natura col suo ordine, la realtà e le sue leggi, morta la famiglia con i genitori, i figli e i loro legami, morta la tradizione con la storia, la memoria e le comunità, il messaggio finale che resta è morire in libertà, per autodecisione, anticipando Dio e la Natura, il destino e il decorso della vita. Se non siamo autocreati, possiamo però esercitare la sovranità opposta, la libertà di sopprimerci, quando riteniamo che sia giunto il momento per farlo. Disponiamo solo del potere negativo sulla vita; e nel nome del pensiero negativo prevalente lo esercitiamo fino alla morte. L’eutanasia o il suicidio assistito è oggi l’unico messaggio dominante che riguarda il passaggio tra la vita e la morte. Non c’è più il mistero di Dio, la scommessa sulla fede, la contemplazione della morte, il destino dell’uomo, la sua memoria e le impronte, le eredità che lascia, e nemmeno il naturale decorso biologico ma la possibilità del singolo di tagliare la corda, di recidere il cordone della vita, come si recidono i cordoni ombelicali per mettere la mondo i neonati. La recisione ha un significato inverso, come inverso è ormai il canone odierno: non prelude alla nascita ma alla morte. L’eutanasia/suicidio è l’ultimo decisionismo dell’occidente; una decisione-recisione volta solo a negare, a sottrarsi, a trovare una via di fuga individuale. Autonomi nella negazione, libertà come facoltà di morire.

Fino a pochi anni fa l’unica sfida alla morte, riconosciuta e rispettata, era morire per un motivo che fosse più importante della nostra vita individuale: morire per testimoniare la fede, come facevano i martiri, morire per la patria, come facevano gli eroi, morire per l’onore, per i propri cari o per una Causa che trascende la vita singola. Perché la vita personale era meno importante rispetto a principi, valori, legami che sopravvivevano al destino dei singoli individui. Inconcepibile oggi. Chi offriva la propria vita sapeva che la sua morte non coincideva col nulla, ma era solo la fine di una foglia, forse di un ramo, non dell’albero, con le sue radici e il suo tronco e le sue stagionali rinascite; la sua morte rientrava nel ciclo delle stagioni, in cui si rinnova la pianta.

Nessuno vuol rimpiangere quel mondo. Ma il fatto che oggi poniamo la questione solo a livello individuale e racchiudiamo la visione della morte nell’atto di andarcene in libertà, quando lo vogliamo noi e non quando lo dice la sorte, Dio o la malattia, è il tema del nostro tempo e ci investe profondamente e radicalmente. La scelta non divide solo i credenti dagli atei, ma chi crede che la nostra vita sia interamente nostra e chi invece ritiene che non fummo noi a decidere di venire al mondo, e non saremo noi a decidere di lasciarlo e a stabilire quando.


I giovani continuano a scappare dal Sud


Il Sud cresce più del resto del Paese ma la grande fuga dei giovani continua: allarme Svimez. Presentato stamane alla Camera il rapporto annuale. Effetto Pnrr: tra il 2021 e il 2024 quasi mezzo milione di posti di lavoro è stato creato nel Mezzogiorno, ma 175mila under 35 sono andati via, in cerca di opportunità

Il Sud cresce più del resto del Paese ma la grande fuga dei giovani continua: allarme Svimez

(di Rosaria Amato – repubblica.it) – ROMA – Un aumento del Pil dell’8,5% tra il 2021 e 2024, contro il 5,8% del Centro-Nord, e un incremento dell’occupazione dell’8%: nel Mezzogiorno si rileva oltre un terzo del milione e quattrocentomila nuovi occupati a livello nazionale. Spinta dal Pnrr, l’economia del Sud corre, ma non allo stesso passo dei giovani, che continuano a fuggire in cerca di migliori opportunità. Quella del Mezzogiorno, sottolinea il Rapporto Svimez 2025, è una doppia emigrazione, verso il Nord, e verso l’estero. E quasi sempre è un biglietto di sola andata. Mentre in quei quattro anni, quasi mezzo milione di posti di lavoro è stato creato nel Mezzogiorno, 175mila giovani sono andati via. Il titolo scelto quest’anno per il rapporto è “Freedom to move, right to stay”. Per introdurre il tema il direttore Luca Bianchi sceglie la vicenda di Gaetano, il giovane napoletano interpretato da Massimo Troisi in “Ricomincio da tre”, e che suo malgrado si ritrova condannato nel ruolo di emigrante, perché non gli si dà la possibilità di aspirare ad altro.

«Le analisi elaborate dalla Associazione, fornendo dati e proposte mirate al superamento delle criticità di alcune aree del nostro Paese, – ha osservato in un messaggio il presidente della Repubblica Sergio Mattarella – sono occasione preziosa per individuare linee di sviluppo per la comunità nazionale, significativo contributo al consolidamento della coesione».

Più lavoro, ma più povero

Perché le opportunità che il Sud adesso è sempre più in grado di offrire non convincono i giovani, soprattutto i laureati? Quello del Mezzogiorno rimane comunque lavoro povero: la caduta del potere d’acquisto dei salari è stata del 10,2% contro l’8,2% nel Centro-Nord. In Italia i lavoratori poveri sono 2,4 milioni, di cui 1,2 milioni al Sud. Tra il 2023 e il 2024 aumenta il numero dei lavoratori poveri: +120mila in Italia, +60mila al Sud. Non basta avere un’occupazione per uscire dalla povertà: bassi salari, contratti temporanei, part-time involontario e famiglie con pochi percettori ampliano la vulnerabilità.

Inoltre moltissimi dei nuovi posti di lavoro sono legati al Pnrr e riguardano, quindi, la costruzione di infrastrutture. Il Piano destina 27 miliardi di opere pubbliche al Sud, e i Comuni hanno dato il massimo: tre cantieri su quattro sono in fase esecutiva, in linea con il dato del Centro-Nord. Il 25% dei progetti al Centro-Nord è già alla fase del collaudo; il 16,2% al Mezzogiorno.

Nel Mezzogiorno, nel 2021-2024, sei nuovi occupati under 35 su dieci sono laureati, contro meno di cinque nel resto del Paese. Tuttavia, la prima porta d’ingresso al lavoro rimane il turismo: oltre un terzo dei nuovi addetti giovani si colloca nella ristorazione e nell’accoglienza, settori a bassa specializzazione e bassa remunerazione. Al tempo stesso, crescono i giovani laureati nei servizi Ict e nella pubblica amministrazione, grazie al Pnrr e alla riforma degli organici pubblici. La qualità delle opportunità resta però insufficiente: il mercato del lavoro meridionale continua a offrire sbocchi concentrati nei comparti tradizionali, con scarsa domanda di competenze avanzate. Se si vuole che i giovani rimangano, invece è proprio qui che bisogna investire, «indirizzando gli investimenti in direzione coerente con le politiche industriali europee», sottolinea Luca Bianchi.

Otto miliardi di capitale umano persi ogni anno

Le migrazioni dei laureati comportano per il Mezzogiorno una perdita secca di quasi 8 miliardi di euro l’anno, calcola la Svimez. I giovani che restano, troppo spesso, trovano lavori poco qualificati e mal retribuiti. Con i salari reali che calano aumentano i lavoratori poveri: un milione e duecentomila lavoratori meridionali, la metà dei lavoratori poveri italiani, è sotto la soglia della dignità. Emerge sempre di più l’emergenza sociale del diritto alla casa.

Le università del Mezzogiorno stanno diventando più attrattive, ma dopo la laurea il quadro torna critico: oltre 40mila giovani meridionali si trasferiscono ogni anno al Centro-Nord, mentre 37mila laureati italiani emigrano all’estero. Con l’emigrazione di questi laureati, una parte del rendimento potenziale dell’investimento pubblico sostenuto per la loro formazione viene dispersa. Il bilancio economico di questo movimento è pesante: dal 2000 al 2024 il Mezzogiorno ha perso 32 miliardi di euro di capitale umano, contro un saldo positivo di 80 miliardi per il Centro-Nord.

Il futuro: tecnologia, energia e Zes

Si apre quindi la questione del dopo Pnrr. Nuove strade si stanno aprendo con gli investimenti nelle nuove tecnologie. La revisione di medio termine offre una finestra per sostenere investimenti delle grandi imprese in tecnologie di frontiera – dalle tecnologie critiche Step al dual use, dalla decarbonizzazione industriale agli Ipcei: la Svimez sottolinea come questa sia una opportunità da cogliere, soprattutto per il Mezzogiorno.

In Italia, le grandi imprese rappresentano il motore dell’export (76% delle esportazioni manifatturiere) e un perno di interi sistemi produttivi, grazie alle esternalità positive che generano lungo le filiere. Nel Mezzogiorno il loro peso è ancora limitato, ma significativo: quasi 600mila addetti e 46 miliardi di valore aggiunto, concentrati in pochi poli industriali. Nei comparti a più elevata tecnologia l’incidenza occupazionale dei grandi impianti al Sud supera il 50% (30% nelle altre aree). Un dato che conferma come, nelle produzioni avanzate, la dimensione aziendale resti decisiva per la capacità di competere nei mercati globali.

Un ruolo importante può giocarlo anche la nascita della Zes Unica: l’obiettivo è quello di accelerare gli investimenti attraverso semplificazioni e autorizzazioni rapide, e indirizzarli verso filiere e tecnologie coerenti con le priorità nazionali ed europee. I primi dati, rileva la Svimez, mostrano una macchina amministrativa che ha iniziato a macinare risultati: i tempi autorizzativi si sono dimezzati (da 98 a 54 giorni) e tra marzo 2024 e novembre 2025 sono state rilasciate 865 autorizzazioni, per oltre 3,7 miliardi di investimenti. Puglia, Campania e Sicilia emergono come i poli più reattivi, mentre restano indietro Sardegna, Abruzzo e Basilicata.

I settori produttivi che emergono

La distribuzione settoriale riflette la struttura produttiva del Sud, con più di un quarto degli interventi nell’agroindustria, seguita dall’automotive. Cresce però anche la presenza di progetti in tecnologie ad alto contenuto innovativo: elettronica & Ict e cleantech. «Possiamo sperare in nuove politiche espansive, magari europee, oppure investire nelle tecnologie avanzate, puntando sui settori di qualità, con politiche selettive per non disperdere l’esperienza del Pnrr».

Restare, un’aspirazione che viene anche dal basso

Investire nei settori emergenti, creare nuove opportunità di lavoro di valore può aiutare i giovani che vogliono restare. Una parte di loro si è costituita in movimento: pochi giorni fa 45 organizzazioni siciliane hanno firmato il “Patto per restare”. Un’iniziatiiva che è il risultato di un percorso avviato nel 2022 e promosso dal Centro Studi Giuseppe Gatì attraverso il progetto “Questa è la mia terra”. Negli ultimi tre anni, decine di associazioni, fondazioni e spazi culturali si sono incontrati in festival, assemblee e cantieri territoriali per costruire una visione comune e proposte concrete per affrontare le cause dello spopolamento e della fuga dei giovani dal Mezzogiorno.


Le parole di chi rimuove la pace


(di Fabio Mini – ilfattoquotidiano.it) – Da “irricevibile” a “dignitoso”, da “ibrido” a “bastardo”. Capire il vocabolario di chi vuole continuare la guerra in Ucraina aiuta a svelare le ragioni di quasi 4 anni di combattimenti

Nei momenti di bisogno si vedono gli amici e in quelli di crisi si vedono chi ha i nervi a posto e chi è nel panico. Indicatore fondamentale dello stato mentale è il linguaggio. C’è una logica nel linguaggio diplomatico ampolloso, criptico, incomprensibile ai più e talmente ambiguo da poter essere interpretato in un modo e nel suo opposto.

Il linguaggio deve dimostrare lucidità, distacco, freddezza e deve annullare le emozioni che potrebbero tradire il panico che è sempre una vulnerabilità in più offerta all’avversario. Oggi nel momento più delicato della guerra ucraina e delle altre crisi che hanno già sconvolto l’Europa e il Medio Oriente e si accingono a espandersi nel resto del mondo, il linguaggio adottato dagli europei denota soltanto panico. Si coniano nuove espressioni e si attribuiscono nuovi significati a vecchie espressioni. Una parolina ormai abusata è “irricevibile” riferita a qualsiasi cosa non collimi con i propri pensieri. Interessante è che nel momento in cui si definisce irricevibile, la proposta è stata già ricevuta e valutata. Altro termine è “ibrido” riferito alla minaccia da contrastare che prende a prestito un termine scientifico per descrivere qualcosa che nel quadro bellico è assolutamente normale e quasi banale: la natura multiforme della guerra. Inoltre, se si riferisce alla nostra guerra, il termine ha carattere benigno e salutare inteso come incrocio anche migliorativo, se riferito all’avversario assume un significato maligno, qualcosa di infido, subdolo, illecito perché possa meglio spaventare e diffondere il panico. L’ibrido dell’avversario è più vicino al termine “bastardo” che al mix di capacità. In questa accezione in lingua inglese è un epiteto peggiore del più noto “figlio di p…”. Infatti quest’ultimo ha un senso commerciale che lo rende quasi accettabile per una cultura mercantilistica come quella anglosassone. Il “figlio di p…” è frutto di un rapporto negoziale legittimo: sesso in cambio di denaro. La meretrice è una impresaria di sé stessa e il figlio è semplicemente frutto di una distrazione, noncuranza o del malinteso sulla protezione assicurata dal pappone o da quella che l’incauta madre riteneva di godere portando al collo la medaglietta di San Nicola di Mira. Il bastardo è invece un figlio illegittimo, non voluto, frutto di un tradimento, di un contratto (il matrimonio) violato. Di recente, rappresentanti politici europei in preda al panico hanno riesumato il termine “ripugnanti” nella sua accezione più negativa di schifose, obbrobriose, vomitevoli, per definire le proposte di pace americane per l’Ucraina piegata da una guerra “bastarda”. In effetti deve essere realmente ripugnante l’idea di far cessare un conflitto che promette ricchezze e soddisfazioni per pochi operatori e politici ibridi (multiformi) e le loro schiere di sostenitori e megafoni ibridi (bastardi).

L’amico e collega prof. Giuseppe Romeo nei suoi lucidi post ha chiesto ragione di un altro termine abusato e distorto dal panico europeo: “Inaccettabile”. “L’Unione europea – scrive Romeo – rivendica un posto da protagonista in un conflitto che ha combattuto seguendo prima gli Stati Uniti neo-conservatori e poi continuando sulla pelle degli ucraini, sostenendo un regime di dubbia legittimità. Ma è un posto che non le spetta avendo rinunciato sin dall’inizio delle ostilità ad assumere quel ruolo di principale negoziatore che lo spirito dei trattati del 1957 e delle successive ambizioni di affermarsi come fattore di stabilità continentale le avevano riconosciuto e nel quale si doveva credere e sperare. L’Europa, ovvero la UE, può indignarsi quanto vuole. Per la Kallas le condizioni sono inaccettabili? Può sempre decidere di combattere e così regolare i conti con Mosca, ma dovrebbe spiegare come e in che misura abbia avuto un padre ministro comunista nella Estonia sovietica e oggi motivare questo cambio di direzione, questo odio poco riconoscente. E se è inaccettabile un tentativo di negoziato se non considerando solo le condizioni poste dall’Unione europea, che non conta caduti se non quelli altrui, bisogna ricordare che è inaccettabile, oltre che irresponsabile, aver provocato la Russia trattandola da pezzente. Inaccettabile è stato rifiutare ogni possibile negoziato dopo aver affondato Minsk e Istanbul, costringendo l’Ucraina a rifiutare ogni tipo di accordo (si ricordi Boris Johnson e Starmer, Stoltenberg o il nuovo Rutte). Inaccettabile è stata una diplomazia europea miope e supponente che dopo aver seguito pedissequamente le ultime ambizioni americane di ciò che restava della prospettiva neocon affidate a Biden, dopo essere stata abbandonata da Trump tenta di fare la voce grossa giocando sulla paura del domani. Inaccettabile è aver permesso che il sangue di una guerra inutile corresse di nuovo sul continente come inaccettabile è l’aver usato il sangue degli ucraini, quelli onesti costretti a pagare gli errori e le ambizioni di pochi. Inaccettabile è aver bruciato risorse che avrebbero permesso di rilanciare l’economia europea e tutelarne la competitività, di migliorare la qualità della vita dei cittadini europei e di mantenere l’efficienza operativa degli strumenti militari europei di cui da oggi, e per i prossimi anni, non potremmo disporre, Rearm-EU nonostante. Inaccettabile è il non aver avuto almeno un piano di controllo delle risorse affidate al governo ucraino per evitare fenomeni di corruzione che sembrano tutt’altro che occasionali. Inaccettabile è l’improvvisazione, il dilettantismo dimostrato da leadership inadeguate non solo a portare avanti uno spirito europeista concreto, ma ad affrontare le prossime sfide da pari con Paesi che non intendono essere considerati secondi a nessuno. Oggi, coloro che rifiutano la proposta di Trump e sono alla ricerca di una “pace giusta”, poi ricorretta in “pace dignitosa” – e si spera non si trasformi in una pace obbligata e senza condizioni – dovrebbero spiegare perché ci sono voluti quattro anni e un milione di morti per raggiungere un risultato che si sarebbe potuto raggiungere dopo sei mesi solo se gli Stati Uniti di Biden ma, soprattutto, una troppo compiacente Unione europea l’avessero voluto”. (Il mondo visto da Sud. Una pace giusta? 23.11.25).

Ed ecco due termini riapparire dai recessi della storia della diplomazia: uno, “compiacere”, era da bandire in quanto sinonimo di servitù e piaggeria e l’altro, “dignitoso”, era da preservare in quanto pilastro delle relazioni internazionali e dei negoziati quando le parti riconoscevano di avere il dovere di rispettare la dignità altrui per salvaguardare la propria. Oggi il primo termine si riafferma nelle forme peggiori d’incompetenza e servilismo e il secondo si perde non tra le rovine della guerra, ma tra quelle della politica contagiata dal panico della burocrazia.


Dostoevskij, solitudine e pistole: così va la vita


“Beata solitudo, sola beatitudo” (san Benedetto da Norcia)

(di Massimo Fini – ilfattoquotidiano.it) – Parecchi anni fa Gianfranco Funari, intervistato in strada da Roberto Poletti, disse: “Io sono un uomo solo”, e pur non conoscendomi affatto, riprese: “Se penso a un altro uomo solo penso a Massimo Fini”.

Qui faccio una lunghissima digressione. Col pool di Mani Pulite, Francesco Saverio Borrelli e Di Pietro in testa, Gianfranco Funari fu uno dei protagonisti di quella stagione, insieme a un non ancora indementito Vittorio Feltri, diventato, a 82 anni suonati, un pugile. Feltri era quest’anno alla Festa del Fatto, da remoto, e si vedeva benissimo che gli tremavano le mani. Evidentemente c’è una certa voluttà in alcuni uomini nel rendersi ridicoli, è una parte dell’animo umano. “Tutte le situazioni abiette, degradanti e soprattutto ridicole hanno sempre suscitato in me, insieme a una collera smisurata, una voluttà altrettanto smisurata”. Confessione del principe Stavrogin, nei Demoni di Dostoevskij.

Tutti i protagonisti di Mani Pulite hanno fatto una brutta fine: Funari fu esiliato a Odeon, Di Pietro si mise in politica, ma non era la sua parte, perché da uomo onesto qual è non è capace delle furfanterie che sono il pane della politica, inoltre gli comprarono uno dei suoi senatori. Feltri si salvò a modo suo, il suo solito modo: cambiando gabbana. Da iperforcaiolo che era stato da direttore dell’Indipendente (gli attacchi ai figli di Craxi, Stefania e Bobo, il “cinghialone” appioppato a Bettino trasformando una legittima inchiesta della Magistratura in una sorta di “caccia sadica”, il democristiano Enzo Carra sbattuto in manette in prima pagina) divenne ipergarantista quando passò alla corte di Berlusconi, che è morto, ma il berlusconismo esiste ancora, anzi, è più forte che mai e irradia le sue malefatte, come il Dio di Plotino. Il berlusconismo non va confuso con la Destra, che può essere una cosa seria, ma è un modo da canaglie di affrontare il mondo, violando tutti gli articoli del Codice penale e anche, con opportuni aggiornamenti, del Codice di procedura penale, senza pagar dazio.

Ero quindi “un uomo solo”, come diceva il buon Gianfranco e, seguendo il brocardo di San Benedetto, avrei fatto meglio a restarlo. Ma la vita dell’asceta non è fatta per me. Sugli asceti c’è poi una barzellettina che mi auguro diverta il lettore. Siamo sull’Himalaya e tre Illuminati decidono di arrampicarsi su quegli altissimi picchi per lasciarsi alle spalle la confusione del mondo. Passano sette anni in assoluto silenzio. Primo Illuminato: “Che pace c’è qui”. Passano altri sette anni, secondo Illuminato: “Hai ragione”. Passano altri sette anni, terzo Illuminato: “Se continuate a fare casino me ne vado”.

Quindi mi sono immerso nella vita, come tutti. Ho avuto persino una moglie, fidanzate e, sia pure in dosi minori, fidanzati. E poi ci sono stati gli amici e ci sono, sempre meno, dei fan che mi pongono, come se fossi Domineddio, domande impossibili, prive di senso, per esempio “che senso ha la vita?”. E che cazzo ne so io, della vita. Non so nemmeno se esista o non sia piuttosto una nostra allucinazione. Mi chiedono poi consigli come se fossi Gesù nel Tempio, e non potessi quindi più dare cattivo esempio, sui loro percorsi professionali. La sola cosa sensata, appunto, è che non contano gli obiettivi, tanto non vengono mai raggiunti, ma un percorso che ti dia, nel momento in cui lo stai facendo, non la “felicità” (parola proibita che non dovrebbe mai essere pronunciata) ma armonia, calma, serenità, tutte cose molto difficili da raggiungere in un mondo basato, sostanzialmente, sulla competizione economica.

Di tutto quel casino che è stata la mia vita, che rimane se non la solitudine? Ha avuto un senso darsi tanto da fare? La solitudine si apparenta, in qualche modo, al suicidio. Il suicidio del giovane ha un suo valore estetico e anche etico, perché si gioca tutto ciò che ha, la vita. Quello del vecchio è avvilente, perché si gioca solo degli spiccioli. Una cosa è la solitudine come libera scelta, altra quando è obbligata.

Quando avevo ventisette anni, l’età limite secondo me, avevo una rivoltella, ma sono un vigliacco e non ho mai avuto il coraggio di usarla. Ho perso la battuta.

La lascio in eredità alla mia giovane assistente.