L’Organizzazione delle Nazioni Unite punta sull’inviato Ue nel Golfo. L’ex vicepremier è in pole position per il ruolo di coordinatore delle varie entità dell’Onu che si occupano del futuro di Israele e dei territori palestinesi, con l’incarico anche di supportare l’implementazione del Piano Trump

(ilfoglio.it) – In attesa di Tony Blair, in arrivo c’è Di Maio. La notizia è gustosa. Luigi Di Maio, attuale rappresentante speciale dell’Unione europea per il Golfo Persico, ex vicepremier, ex ministro del Lavoro, ex ministro dello Sviluppo, ex ministro degli esteri, nonché ex delfino di Beppe Grillo del M5s prima della rottura nel 2022, è in pole position per ottenere un importante incarico internazionale alle Nazioni Unite. Il ruolo in palio è quello di coordinatore speciale delle Nazioni Unite per il processo di pace in Medio Oriente (Unsco), carica che comprenderebbe anche la nomina a vicesegretario generale dell’Onu (la posizione ha base a Gerusalemme). Senso del ruolo: coordinare le varie entità che si occupano nelle Nazioni Unite del futuro di Israele e dei territori palestinesi e supportare l’implementazione del Piano Trump. Luigi Di Maio è stato contattato dalle Nazioni Unite poche settimane fa. Le parti coinvolte nell’operazione hanno già dato parere positivo, compreso il governo italiano. La procedura è ancora in corso. In attesa di Blair, in medio oriente c’è un Di Maio in arrivo.
La Rai paga 30 milioni di euro e il Cda protesta. Anica preoccupata per i fondi al cinema. La società Sport e salute ottiene 100 milioni e potrà finanziare altri concorsi a pronostici. All’Aci vengono “restituiti” altri 50 milioni

(Stefano Iannaccone – editorialedomani.it) – Tagli di 20 milioni di euro alle tv locali, che vengono sconfessati dallo stesso governo che li ha previsti, e di altri 30 milioni alla Rai. Misure tampone su affitti brevi e tasse sui dividendi, che risultano un compromesso forzato.
Fondi elargiti agli amici di sempre, dall’Aci del futuro presidente Geronimo La Russa fino all’immancabile Sport e salute, società sempre più a trazione meloniana, che addirittura può finanziare i «concorsi a pronostici sportivi». Benvenuti nell’ultima puntata del caos manovra, ennesimo esercizio di dilettantismo del governo Meloni.
La strategia del diversivo sull’oro della Banca d’Italia non funziona più di fronte ai fatti. Una situazione grottesca con il ministro dell’Economia, Giancarlo Giorgetti, costretto ad affrontare la questione con la presidente della Bce, Christine Lagarde. Ed esprimendo soddisfazione ammette che l’emendamento-Malan «ha un effetto simbolico» per quanto ritenuto «fondamentale». Nel frattempo, si accumulano ritardi: prima di lunedì non si inizieranno le votazioni in commissioni Bilancio al Senato.
La valanga di emendamenti di governo ha prodotto un ulteriore ingarbugliamento. Anche perché la maggioranza ha usato uno strumento “al limite” per rattoppare i temi più delicati, come il rifinanziamento dei fondi per l’editoria, e lo stop all’aumento della cedolare secca per gli affitti brevi.
Al di fuori del tecnicismo, sono stati presi emendamenti già presentati dai senatori e ribaltati a proprio piacimento dal governo. A cercare di mettere ordine nel marasma è stato il sottosegretario all’Economia, Federico Freni. Missione impossibile.
La tensione è molto alta e la riduzione di 20 milioni di euro alle tv locali, per destinarli al fondo dell’editoria, ha creato spaccature nel governo. Il ministero delle Imprese e del made in Italy, guidato da Adolfo Urso, ha fatto trapelare la netta contrarietà rispetto alla misura. Il Mimit «ha espresso da sempre la propria ferma contrarietà alla proposta ritenendo il taglio intollerabile» ed «è stata ribadita anche nelle scorse ore, in sede di riformulazione dell’emendamento». Urso non è comunque solo.
Fratelli d’Italia ha bocciato l’iniziativa, che però è stata inserita nel testo dallo stesso governo. «L’emittenza radiofonica e televisiva locale, rappresenta un pilastro fondamentale del pluralismo informativo e della vita democratica dei territori», ha detto Nicola Calandrini, senatore di FdI e presidente della commissione Bilancio a palazzo Madama.
La battaglia si sposta sui subemendamenti: la maggioranza potrebbe correggere la misura, ma lasciando scoperto di 20 milioni di euro l’aumento del fondo. La coperta è corta. Cortissima. Non va meglio sulla Rai: il consiglio di amministrazione, espressione della destra, ha manifestato «preoccupazione per il taglio finanziario (10 milioni all’anno, ndr)» che può avere ripercussioni soprattutto sui «grandi eventi».
I cahiers de doléances continuano su altri fronti. Nemmeno la riduzione del taglio, da 150 a 90 milioni di euro, al settore audiovisivo è stata accolta con particolare giubilo. I problemi restano. Così come la drastica diminuzione degli stanziamenti al fondo per il cinema.
«Le risorse che sono state parzialmente trovate (60 milioni di euro, ndr) non sono sufficienti, ma non è mai stato questo il vero problema. Bisognerà vedere quale azienda seria deciderà di rimanere a lavorare in Italia», ha sottolineato l’Anica. La preoccupazione è legata alla mancata risposta sulle proroghe all’attuale sistema. Insomma, il ministro della Cultura, Alessandro Giuli, non è riuscito a silenziare i malumori.
E se c’è chi paga il conto, si reperiscono finanziamenti a pioggia per gli amici di sempre. Il caso più emblematico è quello dell’Automobile club d’Italia: in attesa del completamento della nomina di La Russa jr. alla presidenza, la legge di Bilancio ha garantito qualche fondo in più. Nella precedente manovra il governo aveva chiesto un contributo fisso all’Aci di 50 milioni di euro all’anno.
La norma, dopo l’ultimo emendamento del governo, avrà valore solo per il 2026: dall’anno successivo sarà sostanzialmente cancellata. In tre anni affluiscono altri 100 milioni di euro in totale per Sport e salute, la società pubblica – cassaforte dello sport – presieduta da Marco Mezzaroma, amico di vecchia data della presidente del Consiglio, Giorgia Meloni. Una quota finirà invece al Coni dell’era post-Malagò, oggi è infatti guidato da Luciano Buonfiglio.
A farla da padrone c’è poi l’Olimpiade Milano-Cortina 2026: da un emendamento alla manovra arrivano altri 60 milioni di euro. Peraltro i Giochi invernali avevano già ricevuto 84 milioni di euro attraverso il decreto Anticipi, appena approvato dalla Camera, con un prelievo di risorse addirittura dalle multe dell’Antitrust, che dovrebbero risarcire i consumatori danneggiati da pratiche sleali di mercato.
Nel calderone è finita l’ennesima commissione tecnica per valutare le richieste di indennizzi per i risparmiatori danneggiati: la spesa messa in conto dal ministero dell’Economia, per garantire i compensi, è di altri 120mila euro. Il piatto della legge di Bilancio piange, ma non per tutti.

(Sondaggio Izi sui nemici dell’Europa) – L’unione europea resta un’istituzione utile e tutela gli interessi dei cittadini per la maggioranza degli italiani che vedono negli Stati Uniti di trump il pericolo principale , ancora di più che la Russia di Putin.
La stragrande maggioranza degli intervistati è poi fortemente contraria all’affermazione del presidente americano che ha descritto l’Europa come decadente e guidata da leader deboli. È quanto emerge da un sondaggio sulla fiducia nell’Ue realizzato da Izi, azienda di analisi e valutazioni economiche e politiche, presentato questa mattina nel corso della trasmissione l’Aria che Tira condotta da David Parenzo su La 7.
Per il 55% degli intervistati l’Unione Europea resta utile per lo sviluppo dell’Italia e ne tutela gli interessi, anche se il 46% rivela che negli ultimi 3 anni, la fiducia riposta nell’unione è peggiorata, contro il 40% per cui è rimasta invariata. Sulla questione chiave del voto in Consiglio Europeo il 58% degli intervistati ritiene che gli Stati membri debbano esprimersi a maggioranza e non all’unanimità, mentre per oltre l’85% l’attuale conformazione politica dell’Unione non rispecchia l’idea dei padri fondatori.
Al numero uno della classifica dei principali nemici dell’Ue si posiziona Trump , con il 39,5% degli italiani che lo ritiene un pericolo, mentre il 29,5% vede Putin come principale ostacolo all’Unione , e al terzo posto ci sono i paesi sovranisti (23,4%). La stragrande maggioranza degli italiani ,più dell’81% si dice contraria alle affermazioni di Trump sulla debolezza dell’Europa e dei suoi leader .

(di Gianvito Pipitone – gianvitopipitone.substack.com) – Un chiarimento è d’obbligo. Dopo l’ultimo articolo “Un Rutte ci seppellirà” – più ironico e sferzante del solito – che prende di mira il segretario Mark Rutte e la funzione stessa della Nato, ho ricevuto qualche messaggio privato: “ma sei davvero diventato putiniano allora?” mi chiedeva qualcuno, fra il serio e il provocatorio. Come se non bastasse, diversi fra gli account che mi seguivano assiduamente hanno deciso di interrompere l’abbonamento su Substack. Della serie: ne fa più fuori la penna che la guerra. Allo stesso tempo, però, ho notato un buon numero di nuovi sottoscrittori in entrata. Segno di quanto il dibattito sia oggi irrimediabilmente polarizzato.
Rispondo nel merito, non perché le mie posizioni personali abbiano particolare importanza, ma nella convinzione che parlando di me e delle mie idee qualcuno possa riconoscersi o confrontarsi.
Non ho mai avuto esitazioni su ciò che accadde dal 22 febbraio 2022: l’aggressione russa contro l’Ucraina, accompagnata dai crimini di guerra che il regime di Mosca continua a infliggere a Kyiv. A mente fredda, come molti, ho ritenuto inevitabile l’aiuto militare della Nato e dell’Europa: non si poteva abbandonare l’Ucraina nelle mani di Putin. Su questo punto la mia convinzione non è mai mutata: stare dalla parte di Kyiv era ed è un dovere. Eppure, rimane intatta anche un’altra certezza: ogni giorno dedicato alla guerra è un giorno sbagliato, un giorno irrimediabilmente perduto.
Con il tempo, lontano dall’emotività iniziale, ho iniziato a guardare con più distacco alla narrazione. Ho distribuito le responsabilità nelle giuste caselle. Ho approfondito – come molti – che già dal 2014 la pressione della Nato sul Donbas e sull’Ucraina non fosse affatto disinteressata. Ma, sia chiaro, nulla giustifica l’aggressione russa. Mosca porta la responsabilità di aver trasformato una guerra – fino ad allora – sotterranea in un conflitto ad alta intensità, uno scenario da incubo con centinaia di migliaia di vittime civili e militari. Inaccettabile.
Un punto fermo dunque: l’Ucraina e Zelensky, pur tra scandali e terremoti politici che verranno, andavano aiutati a difendersi. Una posizione morbida allora avrebbe incoraggiato l’orso russo a spingersi oltre il Donbas, fino a ingoiare l’intera Ucraina e – chissà – coltivare mire egemoniche sui Paesi dell’ex Patto di Varsavia. Io sono ancora lì. È quello il mio frame di riferimento. Per quanto continui a pensare che la guerra non sia mai una soluzione.
Ciò che è davvero mutato – ed è sotto gli occhi di tutti, come ho ricordato in decine di articoli – è la percezione di una follia che ormai sembra dilagare anche in Europa. I venti di guerra soffiano gelidi nelle capitali europee. La decisione del riarmo – Rearm EU, con il 5% del budget destinato alla difesa – ha improvvisamente acceso una retorica preoccupante. La diplomazia si è inabissata nelle pieghe più ottuse del silenzio. Leader che parlano apertamente di armamenti, che rispondono muscolarmente e in modo scomposto alle provocazioni di Putin: così il rischio di escalation diventa concreto, e l’intera Europa potrebbe finire in fiamme. Anche senza volerlo. Il contrario di ciò che penso io, e – spero – la maggior parte degli uomini di buona volontà.
Pertanto, non per favorire il regime criminale di Mosca, ma per fermare l’emorragia di morti civili e scongiurare una pericolosa escalation che potrebbe portarci alla terza guerra mondiale, la mia posizione è a favore del congelamento del fronte. Ne ho scritto più volte: accettare cioè – almeno temporaneamente – che una parte del Donbas resti sotto Mosca. Normalizzare l’area. Ricostruire. E porre così termine, con un pacchetto di garanzie di sicurezza per l’Ucraina e per l’Europa, a una delle guerre più ingiuste che abbiano mai preso piede sulla terra. Se mai ci sia stata una guerra giusta da combattere.
È una posizione di realpolitik, che mette al centro il valore della vita più che la giustizia assoluta. Non significa lisciare il pelo a Putin, né ammettere che abbia vinto la legge del più forte. Significa, piuttosto, ribaltare l’assunto: vincere mettendolo nelle condizioni di non fare più male.
Ecco perché ogni posizione come quella di Mark Rutte – ragazzone olandese amante della musica e dell’arte – va contrastata. Perché da quelle premesse muscolari non si arriva da nessuna parte, se non dritti verso la terza guerra mondiale.

(Giuseppe Gagliano – lafionda.org) – Mark Rutte, segretario generale della Nato, ha deciso di rispolverare l’elmetto della retorica più logora e di indossarlo con zelo. Secondo lui, la Russia potrebbe attaccare un Paese dell’Alleanza entro cinque anni e l’Occidente dovrebbe prepararsi a una guerra “come quella dei nostri nonni”. Detto da un commentatore televisivo sarebbe folklore. Detto dal capo politico-militare della Nato è qualcosa di più serio: è propaganda allo stato puro, con effetti potenzialmente devastanti.
Il punto non è stabilire se Mosca sia buona o cattiva, pacifica o aggressiva. Il punto è capire perché questa improvvisa escalation verbale arrivi proprio ora. E qui il quadro si chiarisce. Le parole di Rutte cadono a ridosso della nuova National Security Strategy americana, che con Donald Trump alla Casa Bianca prova – almeno sulla carta – a riaprire un canale di stabilizzazione con la Russia e a chiudere una guerra per procura che dura da anni, costa centinaia di miliardi e ha dissanguato l’Ucraina senza avvicinarla di un millimetro alla vittoria.
Il messaggio di Rutte non è rivolto ai cittadini europei. È un messaggio diretto a Washington, cioè a Trump. Un avvertimento: guai a parlare di distensione, guai a rimettere in discussione la narrazione dell’emergenza permanente. È la voce del partito della guerra, quello che vive di allarmi continui, di minacce ingigantite e di scenari apocalittici. Un partito trasversale, senza confini nazionali, che ha trovato nella Nato il suo megafono ideale.
Dietro questa isteria strategica c’è una realtà molto concreta: il riarmo. Un riarmo che non è neutro, ma orientato, selettivo, funzionale a interessi precisi. Le grandi industrie militari statunitensi ed europee prosperano come non mai, sostenute da fondi di investimento che siedono silenziosamente nei consigli di amministrazione. BlackRock e Vanguard non sfilano in mimetica, ma decidono flussi di capitale che trasformano ogni crisi in opportunità. Senza un nemico alle porte, tutto questo castello rischia di sgretolarsi.
Il problema è che la propaganda bellicista non resta mai senza conseguenze. Quando il segretario generale della Nato evoca guerre mondiali e invasioni imminenti, alimenta esattamente ciò che dice di voler prevenire. A Mosca quelle parole vengono lette come prova di un’aggressività occidentale strutturale, giustificando rafforzamenti militari e irrigidimenti politici. È il classico meccanismo della profezia che si autoavvera: si urla al pericolo per rendere il pericolo più probabile.
Il paradosso è che a parlare sono figure politicamente intercambiabili, prive di visione e di memoria storica. Rutte oggi, Kallas ieri, qualcun altro domani. Tutti pronti a evocare la guerra dei nonni senza aver capito neppure quella dei padri. Leader che confondono la deterrenza con l’isteria e la strategia con il comunicato stampa.
Alla fine resta una domanda semplice: a chi giova questa narrazione? Di certo non agli europei, che pagano il conto economico e sociale del riarmo. Non agli ucraini, sacrificati sull’altare di una guerra senza sbocco. E nemmeno alla sicurezza globale. Serve invece a chi ha bisogno di una minaccia eterna per giustificare potere, profitti e carriere. Tutto il resto è retorica. E anche piuttosto stanca.
Tutelare il lavoro, la democrazia e il diritto dei cittadini a un’informazione plurale

Il taglio annunciato di 20 milioni di euro alle risorse destinate alle emittenti radiotelevisive locali, inserito nel perimetro di una proposta emendativa alla legge di Bilancio, rischia di produrre un dannoso effetto strutturale sul sistema dell’informazione italiana. Non si tratta di una riduzione neutra, ma di un intervento che incide direttamente sulla tenuta del pluralismo informativo, sull’equilibrio dei territori e sulla sopravvivenza di un comparto già messo a dura prova negli ultimi anni.
La criticità è particolarmente accentuata in Campania, dove le televisioni locali convivono da tempo con un mercato pubblicitario fragile, spesso insufficiente a garantire continuità economica. In un contesto in cui la raccolta pubblicitaria si concentra sempre più sulle grandi piattaforme nazionali e digitali, le emittenti territoriali faticano a sostenersi, nonostante svolgano una funzione essenziale di informazione di prossimità.
Le realtà locali rappresentano infatti un vero avamposto del pluralismo informativo. Raccontano i territori, danno voce alle realtà periferiche, seguono la cronaca giudiziaria, amministrativa e sociale che raramente trova spazio nei palinsesti nazionali. Senza questo presidio, intere aree del Paese rischiano di diventare mediaticamente invisibili.
Particolare attenzione meritano poi le emittenti storiche, attive da decenni e profondamente radicate nel tessuto sociale locale. Queste realtà costituiscono un patrimonio informativo e culturale che va oltre il valore economico: custodiscono memoria, identità e continuità del racconto pubblico dei territori.
Il rischio più immediato riguarda i livelli occupazionali. Tecnici, giornalisti, operatori della comunicazione lavorano in strutture già sottodimensionate, dove ogni taglio si traduce in riduzioni di organico, licenziamenti o chiusure definitive.
Difendere l’informazione radiotelevisiva locale significa quindi tutelare il lavoro, la democrazia e il diritto dei cittadini a una informazione plurale, libera e radicata nei territori.
COMITATO CO.RE.COM CAMPANIA

(Dott. Paolo Caruso) – La Ministra dell’Università e della Ricerca Anna Maria Bernini è stata contestata ad Atreju da un gruppo di studenti di Medicina che le rimproveravano la superficialità, la dabbenaggine e l’improvvisazione del Semestre Filtro per l’accesso alla facoltà di Medicina. Durante l’intervento della Ministra si sono verificati momenti di tensione, e la contestazione si è fatta più rumorosa quando la Bernini rievocando una frase del sempre vivo Berlusconi ha accusato i giovani “di essere dei poveri comunisti”, ritenendo le loro parole soltanto “slogan vuoti utili solo ad attuare la strategia del caos”. La Bernini conferma l’atteggiamento arrogante di una destra poco dialogante e mai propensa al confronto. Negare l’evidenza del fallimento del “Semestre Filtro” portando il discorso sul terreno scivoloso della provocazione ha acceso la miccia della contestazione. I risultati del primo appello del cosiddetto “Semestre Filtro” sono inequivocabili con percentuali basse di promossi (22-23%) in chimica e biologia e del 10-15% in fisica. Gli studenti accusano lezioni non in presenza con tempi ridotti a un paio di mesi, con materie complesse soprattutto come fisica e chimica. Secondo i dati diffusi dai singoli atenei infatti circa il 90% dei candidati pare non abbia superato il punteggio minimo obbligatorio e dovranno riprovare come ultima possibilità nella seconda sessione. Nonostante le assicurazioni della Ministra “Che tutti i posti della graduatoria di Medicina verranno coperti sulla base delle valutazioni di merito” resta sempre il sospetto di una sanatoria camuffata. Questo caos all’accesso alla facoltà di Medicina tra l’alro era già stato preventivato dal sindacato dei Medici, Anaao Assomed, che aveva proposto dei corsi di preparazione organizzati a titolo gratuito e online dal MUR con tempistiche idonee e soprattutto senza perdere un anno nel caso dei non idonei. Un numero di ammissione che non sia ottusamente chiuso come si è proceduto fino adesso che tanto danno sta procurando alla funzionalità del Servizio sanitario nazionale, bensì un razionale numero programmato con una visione della professione medica proiettata agli anni futuri. E’ inutile l’atteggiamento arrogante e aggressivo della Ministra Bernini che forte della propaganda non riesce a riconoscere gli errori del Ministero che presiede. La causa di questa debacle non può essere ascritta all’ignoranza dei candidati iscritti a Medicina, ma è piuttosto il risultato di varie concause che hanno provocato una cattiva organizzazione del Semestre Filtro. La Ministra se ne faccia una ragione e riconosca le proprie rsponsabilità.
Le novità nella manovra di Bilancio e dal Consiglio Ue. In entrambi i casi lo scopo è limitare gli acquisti a basso costo (fino a 150 euro) sulle piattaforme online, in particolare dai Paesi asiatici

(di Enrico Marro – corriere.it) – È in arrivo una tassa sui pacchi?
«Sì. Il governo ha presentato un emendamento alla legge di Bilancio 2026. Se il testo verrà approvato al Senato e poi alla Camera, dal prossimo anno, scatterà una tassa di 2 euro su ogni pacco con valore dichiarato non superiore a 150 euro in arrivo da Paesi fuori dall’Unione europea».
Qual è lo scopo della tassa?
«Limitare gli acquisti a basso costo sulle piattaforme online, in particolare dai Paesi asiatici, e proteggere i commercianti italiani da forme di concorrenza sleale».
Chi dovrebbe pagare la tassa?
«Il venditore, ma è evidente che essa verrebbe caricata sul prezzo finale al consumatore».
Quanto stima di incassare il governo?
«La relazione tecnica allegata all’emendamento spiega che la tassa riguarderà circa 327 milioni di spedizioni e porterà un gettito di 122,5 milioni nel 2026 (perché ci vorranno sei mesi per avviare il sistema di monitoraggio) e di 245 milioni a regime dal 2027 in poi. Le nuove entrate dovrebbero essere utilizzate anche per migliorare i controlli doganali sulle microspedizioni».
La tassa si applicherebbe anche sulle spedizioni dall’Italia verso Paesi extra Ue?
«Tecnicamente sì, altrimenti la norma sarebbe in contrasto con le normative internazionali».
L’Unione europea prevede dazi su questo tipo di spedizioni?
«Al momento, no. Ma ieri un portavoce del Consiglio Ue ha annunciato che gli Stati europei hanno raggiunto un accordo per l’introduzione, a partire dal primo luglio 2026, di un dazio doganale fisso temporaneo di 3 euro sui pacchi di valore inferiore a 150 euro che entrano in Europa da Paesi extra Ue. La misura rimarrà in vigore fino all’entrata in vigore di un’intesa alla quale si sta lavorando nell’Unione per eliminare la soglia di franchigia doganale».
La tassa prevista in Italia è compatibile con il dazio Ue?
«L’emendamento del governo si richiama al «rispetto della normativa Ue in materia doganale e fiscale» e quindi la tassa italiana, se verrà approvata, dovrà poi essere armonizzata con le nuove regole europee».

(Giancarlo Selmi) – L’argomento del giorno è il congelamento degli ormai celeberrimi “asset russi”. Il metodo del prono giornalismo italiano (in quel prono c’è tutto e ci sono quasi tutti), è quello di dare le notizie senza spiegare cosa c’è dietro. In questo modo si dà la parte della notizia che più conviene, non si producono obiezioni, si può dire tutto e il suo contrario. Nessuno ha spiegato cosa diavolo siano questi “asset russi”. Oggi Mentana ha detto, ripeto testualmente, “dentro c’è un po’ di tutto”, ergo spiegando senza spiegare un bel niente.
Molti teleutenti e lettori dei giornalini italiani, pensano che siano soldi degli oligarchi e, in parte, è quello che, velatamente, la disinformazione ha voluto che la gente capisse e credesse. Invece no. La quasi totalità degli “asset russi” sono asset sovrani. Sono investimenti effettuati all’estero dallo stato russo, dalle aziende di stato russe, dalle banche russe. Molti sono titoli del debito sovrano di altri paesi, forse anche del nostro. È esattamente quello che succede e quello che fanno i fondi sovrani di tutto il mondo.
Faccio un esempio: il fondo sovrano dell’Arabia Saudita, il famosissimo PIF (Public Investment Fund), acquista titoli, obbligazioni, valuta estera, oro, partecipazioni azionarie, in ogni angolo della terra. Investe, detto nella maniera più semplice possibile, il denaro dello stato Saudita, quindi del popolo Saudita. Gli “asset russi” sono esattamente la stessa cosa. Va detta una cosa: i mercati, soprattutto quello finanziario, funzionano e si basano sostanzialmente sulla fiducia. Nessuno investirebbe in un titolo che potrebbe essere “congelato” da chi lo ha emesso.
Peggio ancora se ci fosse il rischio che, per un motivo qualunque, quell’investimento possa essere sequestrato dalla banca che lo ha in pancia, ovvero in deposito. O dai governi dei paesi dove l’investimento è stato effettuato. Il congelamento è già un problema, l’incameramento di quegli “asset” costituirebbe una vera e propria tragedia. Una epocale tragedia che manderebbe in tilt i mercati di tutto il mondo. Si costituirebbe un pericoloso precedente che spingerebbe a disinvestimenti massivi e vendite massive nell’area europea.
D’altra parte, c’è qualcuno che manterrebbe i suoi risparmi in una banca che sequestra i depositi dei suoi correntisti? Non importa il motivo (e fatto una volta i motivi possono essere di qualunque tipo) non si fa e basta. A questo si devono le resistenze del Belgio che ha la maggior parte di quegli asset. A questo si deve il deciso niet della BCE. Da questa follia, che possiamo intestare interamente alla bomberleyen, il cui eccessivo utilizzo di lacca le ha evidentemente immobilizzato anche il cervello, l’Italia con le dimensioni del suo debito, dovrebbe stare lontana.
In quanto alla bomberleyen, un incarico da pettinatrice di foche monache, proprio no?
Preoccupano i numeri che dalle parti dell’esecutivo, nella migliore delle ipotesi, fingono di non vedere e, nella peggiore, sottovalutano.

(di Antonio Pitoni – lanotiziagiornale.it) – Che il governo contesti le cifre sullo sciopero di ieri, che secondo la Cgil ha sfiorato il 70% di adesione, fa parte del gioco delle parti e non stupisce più di tanto. Preoccupano molto di più altri numeri che dalle parti dell’esecutivo, nella migliore delle ipotesi, fingono di non vedere e, nella peggiore, sottovalutano.
Presi dalla frenesia di difendere una Manovra di galleggiamento che per il 2026 metterà sul tavolo poco più di 18 miliardi, contro i quasi 33 (fonte Osservatorio Milex) destinati alle spese militari – cioè quasi il doppio delle risorse della Finanziaria – a destra sorvolano, interpretano o minimizzano i dati che raccontano il disastro del Paese. Qualche esempio? Sbandierano il record dell’occupazione (che nel terzo trimestre l’Istat certifica in calo di 45mila unità), ma non spiegano come mai, parallelamente, sia crollato il Pil (nel 2027 saremo il fanalino di coda d’Europa, secondo le stime della Commissione Ue) mentre per 32 dei primi 36 mesi di governo Meloni, la produzione industriale abbia inanellato un calo dietro l’altro.
Se lo facessero, dovrebbero infatti ammettere che a crescere è soprattutto il lavoro povero. Quello degli oltre 6 milioni di italiani che percepiscono meno di mille euro al mese. O del 50% degli occupati del Sud che non superano i 15mila euro di reddito lordo annuo. Per effetto di un costante calo dei redditi reali che, solo tra gennaio 2021 e settembre 2025, hanno registrato una perdita dell’8,8% del loro potere d’acquisto. Ma non è tutto. Parlano di investimenti poderosi nella Sanità, ma si limitano a strombazzare il dato in valore assoluto anziché in rapporto al Pil che di questo passo, secondo la Fondazione Gimbe, scenderà nel 2028 sotto la soglia psicologica del 6%.
Numeri che spiegano, da un lato perché 5,8 milioni di italiani abbiano rinunciato alle cure (per le liste d’attesa troppo lunghe nel pubblico e i costi proibitivi del privato) e, dall’altro, l’impennata della spesa sanitaria delle famiglie – quelle che potevano permetterselo – che nel 2024 hanno sborsato 40 miliardi di euro per pagarsi le cure. Ma per raccontare il Paese reale bisognerebbe scendere dal palco della propaganda. Al governo lo sanno talmente bene che ci si sono incollati sopra.
La sfida solitaria della Cgil. Cortei in cinquanta città, Landini a Firenze alza i toni: «Siamo al regime». Il governo parla di «flop». Ad Atreju un manipolo di volontari ha improvvisato un flash mob per dileggiare le ragioni della protesta

(Daniela Preziosi – editorialedomani.it) – «Io sciopero» recitano gli striscioni rossi che aprono i cortei di cinquanta città, nella giornata dello sciopero generale indetto dalla Cgil. Messaggio identitario, per un’astensione indetta in solitaria, nel periodo più buio del sindacato. Il governo tira dritto.
L’ultima manovra è stata comunicata a pacchetto chiuso (delle proposte sindacali, accolta solo la detassazione degli straordinari). I salari sono al palo, anzi scendono perché i contratti non recuperano l’inflazione (secondo uno studio di Corso d’Italia, siamo il paese Ue in cui sono diminuiti di oltre 800 euro rispetto al 1991, in Germania salgono di 12mila, in Francia di 11mila).
Con Cisl e Uil i rapporti sono freddi, almeno fra segreterie nazionali. C’è l’insidia da sinistra dei sindacati di base, che ambiscono a farsi partito. Ma la Cgil sa portare le persone in piazza: mezzo milione i lavoratori che venerdì 12 dicembre hanno sfilato in tutta Italia contro la manovra «sbagliata e ingiusta».
A Firenze, al corteo dove è arrivato il segretario Maurizio Landini (e il presidente della regione, Eugenio Giani), erano 100mila. Per il sindacato, l’adesione allo sciopero è stata del 68 per cento. Le richieste: aumentare salari e pensioni, fermare l’innalzamento dell’età pensionabile, contrastare la precarietà, una riforma fiscale equa e progressiva, dire no al riarmo e più investimenti in sanità e istruzione.
Per «bucare» i media, Landini ha alzato i toni: «Siamo a un regime, ci raccontano un paese che non c’è, ci raccontano una quantità di balle, che tutto va bene, tutto sta funzionando. Non è così. Bisogna dare voce al Paese reale, a chi questo Paese lo tiene in piedi».
I ministri hanno parlato di flop, da destra sono piovute a valanga le critiche di rito. Il ministro dei Trasporti Matteo Salvini ha attaccato un’astensione da «irresponsabili», indetta «in un momento delicato»: qui si è tradito, rivelando che il racconto del tutto va bene è falso.
Poi ha attaccato con il refrain dello «sciopero del venerdì». Anche lui, come Giorgia Meloni, ha finto di non sapere che non si indice uno sciopero di venerdì per favorire il weekend lungo a chi aderisce, ma per non far perdere un’altra mezza giornata di lavoro a chi si sposta per i cortei. Ha parlato di «bassissime percentuali di adesione».
Ma l’avvertimento al mondo del lavoro è arrivato da Atreju, la festa di FdI a Roma. Un piccolo episodio, ma emblematico: un manipolo di volontari che si autodefiniscono «felpe blu» ha improvvisato un flash mob satirico, nelle intenzioni, contro Giovanni Donzelli, responsabile organizzazione. Lui è arrivato con il megafono e ha recitato una parte da avanspettacolo. Scandendo: «Si aspettavano i sabato di Mussolini, sono arrivati i venerdì di Salvini». Siamo al dileggio delle ragioni della lotta.
Ma non è solo il tentativo denigratorio della destra a fare dello sciopero generale una giornata comunque difficile per Landini. Cisl e Uil non hanno aderito.
Ciascuna per una ragione diversa: il sindacato di Daniela Fumarola per collateralismo con il governo, quello di Pierpaolo Bombardieri per evitare l’accusa di gregario alla vigilia del congresso del 2026. Per di più stavolta anche i partiti dell’opposizione sono rimasti freddini.
Avs ha schierato Nicola Fratoianni e Angelo Bonelli in piazza a Firenze; il Pd ha sparso i suoi dirigenti. Ma in piazza stavolta non c’erano né Elly Schlein né Giuseppe Conte.
Il fatto è che, dopo la sconfitta referendaria, a partire da un’analisi diversa del risultato, qualcosa si è incrinato fra sinistra e sindacato. Landini non si è fatto impressionare e, dal palco di Firenze, ha rilanciato anche la sua proposta meno popolare (a sinistra) e più attaccata (da destra): quella della patrimoniale sulle ricchezze oltre i 2 milioni.
Una tassa dell’1,3 per cento che riguarderebbe 500mila italiani e genererebbe un gettito di 26 miliardi da investire in sanità, scuola e welfare. Dopo lo sciopero «non ci fermano e siccome siamo convinti di rappresentare la maggioranza del Paese, andremo avanti fino a quando questa battaglia l’abbiamo vinta». Contro la manovra, e poi verso il referendum contro la riforma della giustizia. La Cgil sarà della partita del No, ma è un’altra battaglia difficile, come quella dei referendum dello scorso giugno, e dall’esito del tutto incerto.
Lo scrittore interviene sulla proposta della norma, presentata da una deputata di Fratelli d’Italia, sull’estensione dell’articolo 416 bis che introduce il reato di «apologia e istigazione» dei comportamenti mafiosi

(di Roberto Saviano – corriere.it) – C’è una teoria rozza, antica e sempre pronta a riemergere quando la politica smette di comprendere la realtà: raccontare equivale a promuovere il male. È una teoria volgare perché confonde la descrizione con l’adesione, lo sguardo con la complicità, la narrazione con la propaganda. È su questa base che nasce la proposta di legge presentata da Maria Carolina Varchi, deputata di Fratelli d’Italia. La proposta di legge prevede l’estensione dell’articolo 416 bis introducendo il reato di «apologia e istigazione» dei comportamenti mafiosi. La norma punirebbe con 6 mesi/3 anni di carcere e multe fino a 10 mila euro chiunque, anche attraverso opere artistiche, media, musica o social, rappresenti o «esalti» la criminalità organizzata. Le pene sarebbero aggravate se il contenuto fosse diffuso tramite stampa o strumenti digitali.
Di fatto, la legge esporrebbe fiction, libri, canzoni, post online al rischio di sanzioni penali e il confine tra racconto, analisi e apologia resterebbe vago e discrezionale. Una proposta che va chiamata con il suo vero nome: legge Omertà, e non perché protegga il silenzio mafioso in modo diretto, ma perché trasforma il racconto del crimine in un sospetto penale senza intaccare il potere criminale, colpendo invece chi lo osserva, chi lo racconta, chi lo rende intelligibile.
Inserire nell’articolo 416 bis il reato di «apologia» esteso alla rappresentazione culturale significa produrre un effetto devastante: impedire di parlare del male se non nei linguaggi autorizzati dal potere. Secondo questa logica, della criminalità organizzata possono occuparsi solo i tribunali, solo le sentenze, solo i giudici e magari qualche politico, che scriverà un libro in cui pretende di spiegarci cosa sia, per fare un esempio a caso, la mafia nigeriana.
Tutto il resto — arte, letteratura, cinema, musica — diventa una zona grigia, potenzialmente criminale. Non serve particolare acume per capire che si tratta di una forma di gravissima censura mascherata da tutela morale e la storia ci viene in soccorso per mostrarci quanto questo meccanismo sia stato già ampiamente adoperato.
Nell’Ottocento, Gustave Flaubert fu processato per Madame Bovary: accusato di diffondere l’immoralità perché aveva osato raccontare l’adulterio senza condannarlo apertamente. Il processo a Madame Bovary nel 1857 è uno snodo fondamentale e la difesa di Flaubert fu netta: rappresentare non significa glorificare. Anzi, l’opera mostra la rovina morale e materiale di Emma Bovary, ma senza sermoni, senza giudizi esterni. Proprio questa assenza di moralismo fu ritenuta scandalosa: il lettore doveva essere guidato, non lasciato libero di comprendere.
Lo stesso schema si ripete con il naturalismo e il verismo. Émile Zola fu attaccato per aver reso «affascinante» la miseria, la prostituzione, l’alcolismo. L’Assommoir venne accusato di trasformare il degrado in spettacolo. In realtà, Zola faceva esattamente l’opposto: mostrava come la miseria distrugge i corpi, le famiglie, i destini. Ma lo faceva dall’interno, senza edulcorare, senza filtri morali. Ed è questo che spaventava: non il fascino, ma l’accessibilità. Anche Victor Hugo, con I miserabili, fu accusato di nobilitare criminali e reietti. Jean Valjean, un ex forzato, diventa un uomo giusto: per molti questo era intollerabile perché significava ammettere che il male non è una categoria ontologica, ma una condizione storica, sociale, umana, e che comprenderla significa mettere in discussione l’ordine che la produce.
E Oscar Wilde finì in prigione dopo che Il ritratto di Dorian Gray venne bollato come opera corruttrice: non perché spingesse al vizio, ma perché osava mostrarne il fascino, la seduzione, la decomposizione morale. Wilde lo scrisse con chiarezza: «Non esistono libri morali o immorali. Esistono libri scritti bene o scritti male». Ma il potere non sopporta ciò che non controlla, soprattutto quando illumina le sue ipocrisie. La legge Omertà si iscrive in questa tradizione: usare la morale come clava, fingere di combattere il male mentre si colpisce la sua rappresentazione.
Ma c’è un punto che questa proposta finge di non capire, o che sceglie deliberatamente di ignorare: raccontare il male non significa sostenerlo. Aristotele, nella Poetica, spiega che la rappresentazione del tragico serve alla catarsi: comprendere la paura e la pietà, attraversarle per non esserne dominati. Il male narrato non è un modello da imitare, ma un’esperienza da comprendere. Da sempre la letteratura esplora il fascino del male non per celebrarlo, ma per smontarlo, per mostrarne il prezzo, il vuoto, la distruzione che porta con sé.
Ma l’omertà porta con sé conseguenze disastrose per la collettività perché, come ha sostenuto James Hillman, il male che non viene compreso non scompare, ma ritorna sotto forma di sintomo. È una tesi che attraversa molti suoi libri, in particolare Cento anni di psicoterapia e il mondo va sempre peggio e Il codice dell’anima: carattere, vocazione, destino: ciò che viene rimosso, moralizzato o ridotto a mostruosità esterna non viene elaborato psichicamente e quindi si ripresenta, deformato e più violento.
Per Hillman il punto non è capire «perché esiste il male», ma che cosa ci dice, che funzione svolge nella psiche individuale e collettiva. Non comprenderlo significa condannarsi a subirlo. Questa linea di pensiero trova una formulazione limpida in Hannah Arendt quando afferma: «Comprendere non significa giustificare» («Understanding doesn’t mean condoning»). Arendt lo scrive esplicitamente nell’introduzione a Eichmann a Gerusalemme. La banalità del male, e torna sul punto anche in La vita della mente. Capire, per Arendt, è un atto politico e morale necessario: significa fare i conti con la realtà così com’è, senza consolazioni. Non capire, al contrario, è il primo passo verso la ripetizione del male, perché ciò che non si pensa diventa meccanico, amministrativo, banale.
Dostoevskij porta questa intuizione dentro la letteratura. Non esiste una frase unica e scolpita in forma di aforisma, ma il senso è chiarissimo nei Quaderni e taccuini 1860-1991, nelle lettere e soprattutto nei grandi romanzi: raccontare il crimine significa esplorare il punto estremo a cui può arrivare l’uomo. In una lettera del 1867 scrive che l’uomo è «un essere capace delle più alte vette e degli abissi più profondi», e Delitto e castigo non è la celebrazione dell’omicidio, ma l’indagine radicale su ciò che accade quando un’idea astratta prende possesso di una coscienza. Dostoevskij racconta il male non per assolverlo, ma per misurarne il prezzo interiore, la devastazione psichica, la colpa che non può essere cancellata.
È esattamente questo che l’Inquisizione non tollerava. Nella cultura inquisitoriale il peccato poteva essere nominato solo se astratto e immediatamente condannato: il male doveva essere concettuale, mai vissuto, mai incarnato in personaggi complessi, mai reso comprensibile. Le opere che descrivevano il peccato senza una condanna esplicita e immediata venivano considerate pericolose, perché permettevano al lettore di entrare nella scena del male, di comprenderne le motivazioni, le seduzioni, le contraddizioni.
È il motivo per cui i testi narrativi, teatrali o poetici erano più sospetti dei trattati morali: mostravano, invece di predicare. Del resto, il fascino del male è una costante dell’umano. Fingere che non esista non lo elimina: lo rende più potente, più misterioso, più attraente. È il silenzio che mitizza, non il racconto. È l’assenza di parole che crea leggende. Dire che Gomorra – La serie, Romanzo criminale, Suburra, Mare fuori siano apologia significa non averli capiti, perché queste opere non vendono il crimine: mostrano il suo costo, la sua ferocia, la sua sterilità emotiva.
Mostrano che il potere mafioso non è libertà ma prigionia, non è successo ma condanna. La legge Omertà proposta da Fratelli d’Italia, invece, rovescia il problema: non combatte il crimine, combatte chi lo racconta. Trasforma la cultura in una zona sorvegliata, la narrazione in un rischio penale, il pensiero critico in un sospetto. Ma a ben vedere, questo è proprio il sogno di ogni potere autoritario: non eliminare il male, ma impedire che se ne parli liberamente. Ridurlo a materia tecnica, giudiziaria, sterilizzata. Sottrarlo allo sguardo collettivo. Ma c’è ancora dell’altro che sfugge a questi dilettanti dell’antimafia, e cioè che la mafia prospera nel silenzio, non nella narrazione. Prospera dove nessuno racconta, dove nessuno spiega, dove nessuno mostra i meccanismi del dominio. Dove nessuno osa nominare i criminali, i cui nomi non si pronunciano per paura o peggio, per rispetto. E quindi la legge Omertà non difende la legalità, ma il silenzio.
E ogni volta che il silenzio viene imposto per legge, il potere criminale non perde forza, anzi, ringrazia. E dunque, quando oggi si parla di «fascinazione del male», si ripete lo stesso riflesso inquisitoriale perché raccontare il male non significa sedurre al crimine, ma rendere visibile, intelligibile, dicibile. È questo che viene temuto: non il male in sé, ma la possibilità che venga compreso e dunque criticato alle radici. Certe proposte di legge – tra le più gravi e violente della storia repubblicana – che mirano a colpire non l’atto criminale, ma la sua narrazione, passeranno agli annali come leggi inquisitoriali, perché ripropongono l’illusione che, cancellando il racconto, si cancelli la realtà. Ma la storia della letteratura, da Dostoevskij a Flaubert, da Zola a Hugo, dimostra il contrario: ciò che non si racconta ritorna, e ciò che non si comprende si ripete. Raccontare non è giustificare. È l’unico modo per non mentire.
Il ministro della Difesa incalzato dal direttore del “Fatto Quotidiano” ad Atreju: «Putin parla di pace, ma sgancia 1.200 missili ogni giorno». Cosa ha risposto sulle divisioni nel governo per il sostegno a Kiev. L’attacco durissimo alla relatrice dell’Onu

(Bruno Gaetani – open.online) – Sarà anche la festa di partito di Fratelli d’Italia, ma a intervistare il ministro Guido Crosetto c’è un giornalista che, sulle questioni di politica estera, ha molto da rimproverare al governo italiano: Marco Travaglio, direttore del Fatto Quotidiano. Ad Atreju, l’annuale festa del partito della premier Giorgia Meloni, Crosetto ha parlato anzitutto del conflitto in corso tra Mosca e Kiev. «Io non ho mai creduto a chi diceva che l’Ucraina avrebbe spezzato le reni della Russia. Nessuno ha mai creduto che l’Ucraina avrebbe potuto vincere la guerra, ma l’Ucraina la guerra l’ha vinta nel momento in cui è sopravvissuta», ha detto il ministro della Difesa.
A proposito dei negoziati in corso per porre fine al conflitto, Crosetto si è detto «deluso» dal fatto che gli Stati Uniti siano dovuti intervenire, ma ha anche lanciato una frecciata agli alleati europei: «La mancanza dell’Europa al tavolo dei negoziati è frutto della debolezza dell’Europa e della sua incapacità di parlare con una voce sola. Se domani gli Stati europei dicessero che c’è una persona a rappresentare tutto il negoziato, né Trump né la Russia potrebbero dire di no». Ma anche tra gli attori più direttamente coinvolti, il ministro della Difesa invita a prendere ogni dichiarazione con le pinze, a partire da Vladimir Putin: «Questo che parla di pace ieri ha tirato 1.200 missili sull’Ucraina, ieri anche, domani anche. Da mille giorni questo uomo geniale parla di pace e della volontà di non far male a nessuno e invece continua a colpire scuole e ospedali. Il 93% degli obiettivi è civile».https://mediagol-meride-tv.akamaized.net/proxy/iframe.php/34088/gol
L’intervista si è fatta più concitata quando la conversazione Travaglio ha citato l’allargamento della Nato a Est come una delle cause dietro lo scoppio della guerra, raccogliendo parecchi applausi dalla platea di militanti ed elettori meloniani. «Sembra vero ed è anche bello da dire, ma io ho il dramma di essere troppo razionale», ha ribattuto Crosetto. E rivolgendosi al pubblico: «Se applaudite lui, allora significa che anche qui tra voi è passata qualche panzana sul conflitto». Il ministro della Difesa ha proseguito la sua risposta così: «La Svezia, Paese non allineato e non schierato per 70 anni, ha chiesto di entrare nella Nato. Lo ha fatto dopo l’invasione ucraina e ci sono voluti due anni e mezzo. Se nazioni libere e democratiche decidono di aderire a un’alleanza esclusivamente difensiva, stanno accerchiando qualcuno o si stanno difendendo da chi hanno paura?».
Ma la Nato «ha aggredito la Serbia, la Libia e l’Iraq, alleati della Russia. Guerre che ci hanno inondato di profughi e terroristi», fa notare Travaglio, strappando qualche applauso. Ma Crosetto si fa trovare con la risposta pronta: «La Nato non ha mai dichiarato guerra a una nazione per occuparla». E sempre sull’Alleanza Atlantica, il ministro della Difesa aggiunge: «Due settimane fa, ho detto alla Nato che ha mandato per fare un’esercitazione aerea con dei tipi di aerei che secondo me non dovevamo mandare, perché un conto è un’esercitazione difensiva e un conto è una cosa che può essere vista come una provocazione. Ma io so perfettamente che la Nato si esercita per lanciare un messaggio di deterrenza alla Russa ma mai, mai, un carro armato o un soldato della Nato entrerà in territorio russo».
A proposito delle divisioni interne al governo sull’ok al nuovo round di aiuti per l’Ucraina, Travaglio chiede: «Salvini dirà sì al decreto?». E Crosetto risponde con una risata: «Tutti che mi trattano come se fossi lo psicologo di Salvini…». E poi, pur senza rispondere direttamente, aggiunge: «Giuro che non ho mai avuto un problema con lui in questi tre anni. Su alcune cose lui ha sempre manifestato giustamente le sue idee».
«Chi accusa me e la presidente Meloni di complicità nel genocidio voglio che paghi tutta la vita», aggiunge Crosetto, a proposito dell’ultima polemica sulla relatrice dell’Onu Francesca Albanese e i suoi interventi in due scuole toscane. «Non si permettano di usare un termine così duro verso persone che lavorano per la nazione. Non hanno mai fatto nemmeno un euro di beneficenza», ha continuato il ministro, raccogliendo la standing del pubblico di Atreju. E poi ancora, su Francesca Albanese: «Io non sono per non farla parlare, anche perché ogni volta che lo fa noi guadagniamo voti».
«Ho firmato la denuncia contro una quantità di persone che affiancano il mio nome e quello di Giorgia Meloni alla parola “genocidio” – ha spiegato Crosetto – Siccome il termine “genocidio è un termine pesante e io non ho mai toccato una persona in tutta la mia vita, io queste persone che affiancano il mio nome al termine genocidio voglio che paghino tutta la vita». Poi ha aggiunto: «Questi schifosi che si sono permessi di usare quel termine hanno fatto solo propaganda e mai fatto niente di fattivo».

(di Gianvito Pipitone – gianvitopipitone.substack.com) – Diciamoci la verità: un po’ ce lo aspettavamo, un po’ siamo rimasti a bocca aperta. L’ennesima sparata del ragazzone olandese, quello che ha passato quattordici anni a fare il premier di un Paese pieno di acqua e di piste ciclabili e che nel tempo libero si diletta con Chopin, ci ha colti – con una media paresi facciale – tra l’inquieto e l’incredulo. “Siamo il prossimo obiettivo della Russia e siamo già in pericolo”, ha scandito con l’aria di un professore un po’ alticcio, per quanto ancora prestante, anche se frustrato dall’ansia degli ultimi eventi e – per questo – costantemente sopra le righe. Probabilmente voleva richiamare la classe – gli alleati litigiosi e distratti – a concentrarsi di più sul problema principale, la Russia. Forse intendeva ricordare agli studenti svogliati e impreparati che bisognerebbe studiare più filosofia, con particolare attenzione alla “logica”; e, invece, mi sa che ha finito per impappinarsi sulle citazioni, consegnandosi senza pietà alla incredula platea: “bisogna trovare una mentalità da tempo di guerra come quella dei nostri nonni e bisnonni”. O forse, semplicemente, questa volta ha esagerato.
Alla faccia! In realtà sembrava reduce da una cena natalizia con qualche champagne di troppo. E non sarebbe la prima volta: online, fra le sue celebri frasi, si ricorda che – già da premier – amava concedersi battute improvvise, come quando definì il suo governo “il più noioso della storia”, salvo poi trovarsi a gestire crisi su crisi. E invece stavolta non era una battuta: l’ha detto davvero, con la stessa serietà con cui Trump avrebbe annunciato di voler prendersi la Groenlandia o di aspettarsi l’Istmo di Panama come regalo di Natale.
Ecco la riflessione che si impone: no, non c’è più la vecchia diplomazia. Quella diplomazia fatta di strappi e ricuciture, pazienza e piccoli passi, sembra ormai un ricordo lontano. Oggi, per farsi sentire, non basta più il sussurro o la trattativa, impostate sul buon senso: bisogna solamente abbaiare, e farlo più forte del cane che ci sta già ringhiando contro. Puoi inorridire, puoi rifugiarti dietro i moralismi, ma la logica è questa: o ci stai, oppure sei fuori dal gioco. Tempi alquanto strani e pericolosi. E Rutte – da perfetto medioman, verrebbe da dire – non delude mai: ci è cascato con tutte le scarpe. Lui la percepisce così, e forse – dal suo punto di vista – ci crede pure.
Tuttavia, bisogna ricordargli che è pagato anche per mantenere la calma e per difendere senza sparare ca**ate alla prima occasione utile. Come contraenti di questo simbolico “contratto NATO”, gli abbiamo consegnato le chiavi del nostro giardino, lo abbiamo profumatamente retribuito, e ci aspettiamo – come minimo – che non cada alle provocazioni, che non ceda all’istinto barbaro del sangue nemico, che non sbavi per misurare le sue prestazioni militari sul letto di “noi committenti”. Come massimo, che non appicch0i il fuoco alle sterpaglie del giardino dietro casa nostra, per poi magari vederlo scappare quando la casa è invasa dalle fiamme. E invece? alla prima occasione importante, eccolo che sbrocca, mandando in crash tutto il cucuzzaro e provocando una diarrea collettiva difficile da smaltire.
La verità è che dalla NATO ci si aspetterebbe un minimo di filtro, di equilibrio, di serietà istituzionale. Un po’ di aplomb, insomma. E invece no: come paparino Trump ci ha insegnato, ci ritroviamo a spiattellarci contro tutto e il contrario di tutto. Tali e quali ai bambini che si giurano odio eterno per un litigio a bordo campo, salvo poi tornare ad abbracciarsi a fine partita.
Bisognerebbe invece spiegare al signor Rutte, al dottor Rutte, che il primo dovere nella sua posizione non è quello di abbaiare. La prima regola per lui deve sempre essere la diplomazia. Quella che sembra smarrita da quelle parti. Peccato! Perché a forza di comprare soldatini e disporli sulla tavolozza da gioco, prima o poi si finisce per dichiarare guerra al primo che capita, o per attaccare il Kamchatka con le poche pedine rimaste, pensando che da lì a Mosca sia un tiro di schioppo.
Un consiglio. Fossi in lui, in questo Natale, farei tante saune. Si faccia invitare a Helsinki, dove la NATO è ormai di casa. Provi una di quelle splendide saune finlandesi: chissà che, a forza di scambiare temperatura, non gli torni un po’ di sensibilità in quel corpo aggranchito, segnato da una costante paresi facciale. Anche solo per rimettere in moto il cervello intorpidito. Ogni tanto un po’ d’aria, male non fa. Uno smartbox in tempi di Black Friday, che volete che costi …
Fdi è riuscita a ottenere dal Comune di Roma uno spazio di oltre 12.000 mq per 38 giorni (9 di eventi) per soli 110.365 euro grazie a una tariffa speciale e nonostante i 25 esercizi commerciali e una pista sul ghiaccio. Mentre per l’utilizzo del simbolo del Castello e per la proiezione sulle mura neanche ha avvisato la Direzione Musei

(Carlo Tecce – lespresso.it) – Stavolta il titolo è davvero il programma. «Sei diventata forte, Atreju», scrive il popolo di Giorgia Meloni che dal ’98, fra delusioni e spintoni, s’è fatto largo nella destra, e ne ha abbattuto i miti, ha risucchiato il centro, e ne ha assorbito lo spirito. Allora eccoli qui, potenti al potere, nei giardini e nei fossati di Castel Sant’Angelo a Roma, tronfi, gonfi e parecchio baldanzosi per Atreju la festa della destra italiana – e per destra italiana, si intende Fratelli d’Italia – mai così lunga, grossa, ricca. Mai così forte. Cinque settimane e mezzo di cantieri nei giardini e nei fossati di Castel Sant’Angelo luccicanti dopo gli interventi del Giubileo, lo sfruttamento politico (e commerciale) di un simbolo universale della Roma imperiale e papale.
Al popolo di Atreju, cioè al partito FdI, sarà costato una fortuna? No, certo che no. Ingenui. Quando finalmente si diventa forti è tutto più semplice. E anche tutto più conveniente. Un inventario di Atreju: 38 giorni di occupazione del suolo pubblico per montare e smontare 6.728 metri quadrati (mq) di pedane (14 novembre/22 dicembre); 9 giorni di eventi culturali e politici (6 dicembre/14 dicembre); 82 dibattiti in due tensostrutture di 1.850 mq; oltre 400 ospiti con la chicca Abu Mazen presidente dell’Autorità nazionale palestinese; 24 direttori di giornali di estrazione mista; il governo compatto e in livrea; le opposizioni e i sindacati in ordine sparso; un padiglione di 450 mq per il ristoro; due aree per rifocillarsi con 25 casette di legno con arrosticini fumanti, provolone impiccato, birre artigianali, porchetta, mortadella, cioccolata; 15 casette per volontariato e militanza con un manifesto in memoria di Charlie Kirk; un gabbiotto di 150 mq per la diretta radio; una bottega di presepi napoletani re Carlo III con genitore uno, genitore due e bambinello; due orsacchiotti natalizi illuminati di bianco latte con sciarpa rossa; una stella cometa conficcata a ridosso dell’anfiteatro appena restaurato; un villaggio di Babbo Natale con il signor Santa Claus e scorta di elfi; un albero di Natale enorme rigorosamente tricolore; un proiettore che imprime il logo di Atreju sul bastione San Marco, angolo interno di Castel Sant’Angelo; una pista per il pattinaggio sul ghiaccio che a 16 gradi alla controra diventa sorbetto, serpentone adagiato fra i pini marittimi su 2.400 mq di sterrato per un percorso di 1.250 mq stile gran premio di Monte Carlo con prezzi modici di 10 euro per 60 minuti e 5 per scivolare col pinguino. Riprendiamo il fiato.
Quest’anno la festa di Atreju è tornata a Castel Sant’Angelo – lo scorso anno c’erano i lavori, e fu scelto il Circo Massimo – e ci è tornata moltiplicando il tempo e lo spazio. Per esempio due anni fa è durata soltanto quattro giorni. Il Municipio I, con l’assenso del Comune di Roma e del gabinetto del sindaco Roberto Gualtieri che ne ha la titolarità, ha concesso a Fratelli d’Italia 12.426 mq di superficie pubblica applicando le tariffe previste. Siccome Atreju è una festa ricorrente, secondo il calcolo stabilito da una delibera di Giunta (n.522/2024), ha beneficiato di uno sconto “cliente”.
L’importo è stato ricavato dai prezzi in vigore nel 2024 e da un rincaro limitato al trenta per cento rispetto ai valori 2025 dell’Osservatorio del mercato immobiliare (Agenzia delle Entrate). Dunque Fratelli d’Italia ha pagato 110.365 euro per 12.426 mq, 38 giorni di occupazione di suolo pubblico inclusi i 9 giorni di eventi, circa 20 centesimi di euro al dì per metro quadrato. Nel dettaglio: 87.930 euro per la manifestazione politica; 19.950 euro per la vendita di prodotti; 2.484 euro per la pista di pattinaggio. La Direzione musei statali della città di Roma non ha ricevuto neanche un euro. La risposta automatica, e un po’ nozionistica: i giardini e i fossati di Castel Sant’Angelo sono di competenza del Comune, vero, ma questa struttura del ministero della Cultura gestisce il Castello e ne tutela l’immagine.
Le norme in materia sono assai severe, rigide, e il governo Meloni le ha corrette con due decreti ministeriali durante la stagione di Gennaro Sangiuliano (aprile 2023 e marzo 2024), testi intervenuti proprio sulle «linee guida per la determinazione degli importi minimi dei canoni e dei corrispettivi per la concessione d’uso dei beni in consegna agli istituti e luoghi della cultura del ministero».
Il logo di Atreju per l’edizione 2025 è ispirato alla facciata di Castel Sant’Angelo – c’è addirittura la sagoma dell’Arcangelo Michele – e lo stesso logo è utilizzato sui canali ufficiali di Fratelli d’Italia per reclamizzare la manifestazione politica e anche le attività commerciali (la pista di pattinaggio). Questo caso è calzante con quanto prescritto dalle linee guida, per l’esattezza dal capitolo «riproduzione di beni culturali», pagina 7, tabella 3, punto 8: «Uso promozionale e pubblicitario» di Castel Sant’Angelo. Per la Direzione musei statali città di Roma, invece, è una indicazione stradale: «Il logo di Atreju presenta un segno grafico che richiama in forma stilizzata il profilo del Castello, ma è una rielaborazione creativa graficizzata, non integra gli elementi di una riproduzione del bene culturale. (…) Per come appare pubblicamente, l’immagine sembra essere utilizzata per indicare il contesto urbano in cui si svolge la manifestazione, che quest’anno ha luogo nei giardini adiacenti al monumento. Trattandosi di una manifestazione pubblica gratuita che include nel programma dibattiti, presentazioni e iniziative culturali, aperta da autorità istituzionali, tra cui il sindaco di Roma, l’utilizzo della fotografia può essere ricondotto alle ipotesi di riproduzione non onerosa previste dalla normativa vigente».
Si sono dimenticati le iniziative commerciali, punti di vista (o di svista). Più complicato giustificare la proiezione del logo di Atreju sul monumento: «Abbiamo contattato gli organizzatori e ci è stato riferito che già da ieri (8 dicembre, ndr) la proiezione avviene a terra, non sulla parete; pertanto, non sono necessarie autorizzazioni». Sublime: il vigile che telefona a casa prima di scoccare la multa all’auto in divieto di sosta. Aggiunge la Direzione: «Nel contenuto, già proiettato, non comparivano loghi di partito né marchi commerciali. Qualora fosse pervenuta una richiesta preventiva, l’avremmo valutata sulla base della documentazione e in relazione alle circostanze: uso temporaneo, assenza di scopo commerciale, nessuna occupazione di spazi in consegna all’Istituto, tipologia di evento come descritta». Per la Direzione musei statali città di Roma, quindi, Atreju non è equivalente a un partito, non rimanda a un partito, ovviamente è il protagonista del romanzo “La storia infinita” di Michael Ende (speriamo che gli eredi non chiedano i diritti). E la presenza di 25 negozi di esercenti privati e di una pista di pattinaggio di 1.250 mq, che contribuiscono agli incassi di Fratelli d’Italia necessari a coprire le spese di centinaia di migliaia di euro, per la Direzione non configurano uno «scopo commerciale».
Che siano amici o nemici, per quelli diventati forti, si preferisce interpretare. Stupore non pervenuto. Quello che colpisce è che per un’occupazione di suolo pubblico di 38 giorni, che di fatto ha requisito a turisti e abitanti un luogo che appartiene alla collettività, l’organizzazione di Fratelli d’Italia non abbia ritenuto di interloquire con i vicini della Direzione musei statali città di Roma né la Direzione musei statali città di Roma abbia ritenuto di verificare quello che stava per accadere a una manciata di centimetri dal suo «bene in consegna». Sei proprio diventata forte, Atreju. Complimenti.