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C’è vita oltre il bipolarismo dell’alternanza senza alternativa?


(Giulio Di Donato – lafionda.org) – I più recenti appuntamenti elettorali ci consegnano l’immagine di una dialettica politica ingessata tra eterno ritorno del bipolarismo tradizionale e astensionismo radicale: segno, quest’ultimo, di una secessione di massa dai canali di una post-democrazia senza popolo, priva di propulsione ideale, le cui formule rinsecchite sembrano sempre più riguardare solo i circoli dei ben integrati, le varie tipologie di “aiutantato”, i paladini di single issue e single leader, e gli ambienti più ideologizzati. A contrastare l’assuefazione a questo scivolamento si accendono, di tanto in tanto, fiammate improvvise di energia politica, che tuttavia si spengono altrettanto rapidamente.

È lo stesso copione che, fatta salva la parentesi “populista” degli anni intorno al 2018, ha segnato la vita pubblica del nostro Paese negli ultimi decenni: la contesa propagandistica tra un moderatismo di ispirazione liberal-conservatrice e uno di matrice liberal-progressista. Rimane invece sottotraccia una posizione politico-culturale terza (ma non centrista), capace di sottrarsi al riflesso condizionato delle polarizzazioni farlocche, per scavare in profondità e volare alto, producendo elementi di forte novità: volti, parole d’ordine, linguaggi, pratiche e frontiere antagoniste nuove, a cavallo tra politica, prepolitica e metapolitica. Perché, se si vuole riempire il vuoto profondo di significati, orientamenti e appartenenze del nostro tempo, bisogna condurre una rivoluzione che è insieme politica e spirituale.

Questa opzione diversa e autonoma dovrebbe costruire la propria proposta sul terreno dell’interesse nazionale, in alternativa sia alle forze del vincolo esterno assoluto, sia a quelle del vincolo interno piccolo-piccolo. Un interesse che il governo Meloni proclama, ma che nei fatti appare ristretto, privo di visione e respiro (nel nome del made in italietta); e che l’opposizione di centrosinistra fatica ad assumere fino in fondo (basti pensare alla costante richiesta di superare la “regola dell’unanimità” in sede di Consiglio dell’UE, sulla base di un europeismo cieco e fideistico). Entrambe le parti appaiono ugualmente incapaci di agire con ingegnosità ai margini della disarticolazione degli equilibri consolidatisi nel tempo, là dove potrebbero nascere nuove e più promettenti configurazioni geopolitiche e geoeconomiche. Occorrerebbe invece saper sfruttare fino in fondo questa fase di smottamento, operando con intelligenza e profondità di visione nelle crepe che si sono aperte tra le due sponde dell’Atlantico, per riaffermare una strategia politica saggiamente autonoma.

Si può sostenere questo, filosofeggiando un poco: nell’ambito del centrodestra prevale la logica del concreto e del particolare (sotto forma di provincialismo ristretto e corporativo), mentre tra le forze della sinistra neoprogressista resta ben radicata la logica dell’astratto e dell’indifferenziato, di matrice liberal-globalista (in veste di schematismo ideologico in assenza di ideologia e di aristocraticismo perbenista). Entrambe piantate nelle retroguardie e in un rapporto specularmente distorto e unilaterale con il reale (l’una vi aderisce in modo statico e irriflesso, l’altra, nelle sue punte estreme, tende a dissolverlo in quanto prodotto di una costruzione artificiale), quando ciò che serve, invece, è un salto di paradigma politico-culturale in avanti, scompaginante, ostile tanto all’arroganza dell’universale astratto e indifferenziato quanto al ripiegamento asfittico del particolare concreto, nel nome di un’idea di universale concreto compatibile con una prospettiva di riscatto nazionale-popolare. Un progetto fondato su tre parole: pacegiustizia socialesovranità democratica. Contro il sistema della guerra e contro la logica dell’allerta permanente, cui si ricorre dall’alto per rinsaldare fittiziamente una società sempre più sfibrata, frammentata e inerte.

Socialepopolaredemocratica: sono queste le parole cui occorre riferirsi per declinare i temi che più infiammano il discorso pubblico. A partire da tali premesse si può, ad esempio, parlare di immigrazione nel nome della sostenibilità interna e della solidarietà internazionale; e si possono respingere tanto la logica emergenzialista e tecnocratica del “fate presto” quanto la logica apocalittica del “vade retro”, con la quale vengono spesso assunte formule come “transizione ecologica e digitale”, da rileggere invece criticamente per disvelarne le ambivalenze e i tratti di fanatismo, onde evitare una transizione regressiva nel segno dell’impoverimento generalizzato, piuttosto che verso una stagione di progresso materiale e spirituale ampio e diffuso.

Umanesimo Ã¨ la prospettiva con cui affrontare le nuove istanze di libertà individuale, da sottrarre alle logiche della mercificazione e del nichilismo individualista, immaginando un orizzonte di esaltazione della dignità e di fioritura integrale di libertà oltre il paradigma dell’homo oeconomicus e dell’homo narcissus, di legami comunitari oltre la dimensione del pulviscolo atomistico e, infine, di protagonismo popolare oltre la strategia della mobilitazione passiva.

Realismo critico, invece, è l’ispirazione con cui guardare la scena delle relazioni internazionali: mentre la politica estera statunitense, da sempre oscillante tra isolazionismo imperiale e interventismo globale, sembra attualmente assestarsi, pur tra mille contraddizioni e incertezze, sull’asse “Dottrina Monroe 2.0 / equilibrio competitivo di potenza / politiche di contenimento verso la Cina”, l’iniziativa politica italiana ed europea, ristretta a un nucleo di “nazioni apparentate”, dovrebbe svolgere una funzione di mediazione tra aree geopolitiche diverse, promuovendo condizioni e ragioni di cooperazione piuttosto che di conflitto. Si tratterebbe, cioè, di puntellare con elementi di pace e giustizia una situazione di equilibrio multipolare di potenza, a sostegno di un ordine internazionale di carattere necessariamente pluralistico e policentrico.

Il problema, va ricordato, è che l’Unione europea è stata congegnata proprio perché le fosse impossibile sviluppare una soggettività politica autonoma, oltre che per deprimere il protagonismo e la vitalità dei singoli Stati membri. Nella stagione del ritorno del “lato duro” della geopolitica e del tramonto di un modello di cosmopoli irenica e post-sovrana, basato sul nesso tra globalismo (in forme più o meno alter) e fuga giuridico-moralistica dal politico, l’UE è chiamata a ridefinire i presupposti di fondo del suo processo di integrazione. Di un tale ravvedimento, tuttavia, non c’è traccia nelle classi dirigenti europee. Anzi, si intende procedere verso un ulteriore allargamento oltre il numero già elevato dei 27 Paesi membri. Eppure non dovrebbe sfuggire, se solo non mancasse senso storico-dialettico, che ciò che si guadagna in larghezza ed estensione si perde in intensità e profondità, ovvero in consapevolezza della propria identità, dei propri scopi e dei propri interessi. Oggi, invocare “più Europa” significa, di fatto, invocare più armi, più “pilota automatico” liberal-tecnocratico, più emergenzialismo (ora bellicista).

Gravi e impegnative sono, insomma, le sfide che abbiamo dinanzi: sfide nuove che richiedono sintesi nuove, contaminazioni inedite tra tradizioni di pensiero differenti. Si pensi, ad esempio, alla necessità di un incontro di tipo nuovo tra la tradizione laica di ispirazione neosocialista e i “potenziali di senso” custoditi dalle grandi religioni (qui in Europa, in particolare, da quella cristiana) per cercare ancora una più alta forma di vita in comune oltre i confini del liberal-capitalismo, contro la “subcultura dello scarto”, la “furia del dileguare” nichilistica e quella, rigidamente catecontica, del trattenimento sterile.


Alessandra Ghisleri: la sinistra non “ruba” a destra


La sondaggista: «La presenza di Meloni in campagna elettorale non ha fatto la differenza»

Alessandra Ghisleri: la sinistra non “ruba” a destra

(Alessandro Barbera – lastampa.it) – Alessandra Ghisleri, qui cantano tutti vittoria. La destra per il Veneto, la sinistra per Puglia e Campania. Eppure sono andati a votare meno della metà degli elettori. Leggo le medie: 43,6 per cento contro il 57,6 delle politiche di tre anni fa. Perché?

«Va avanti così da fin troppo tempo. La definirei la tendenza della politica ad eternare sé stessa. E uso la parola non a caso. Invece di cercare nuovi elettori, puntano a fotografare l’esistente».

Pensa che la politica si stia facendo delle domande?

«Temo di no. Non si va oltre la discussione su “abbiamo vinto”. E invece occorrerebbe porsi una questione scomoda: perché in questa tornata di amministrative è sparito il voto di opinione?».

Si spieghi meglio.

«Fatte salve le Marche, che per un po’ sono sembrate contendibili, c’è una sola Regione in cui il voto è andato diversamente dalle attese?».

No.

«Appunto. E la ragione è che si è mobilitato principalmente lo zoccolo duro degli elettori».

Dunque secondo lei non è vera la tesi secondo la quale parte dei voti della destra sono andati a sinistra?

(Ghisleri scoppia a ridere, ndr) «Non è così. Prendiamo la Campania: 580mila elettori in meno delle precedenti regionali. Vincenzo De Luca aveva ottenuto poco più di 1,6 milioni di voti, Roberto Fico poco più di 1,2, dunque 400mila in meno. Il centrodestra, regionali su regionali, guadagna 250mila voti».

Il Pd comunque è andato bene.

«Il voto a favore di Fico è stato trainato da loro e dalle liste civiche: ad esempio “Casa riformista” del sindaco di Napoli Gaetano Manfredi, quella di De Luca e le altre collegate».

E in Veneto?

«La Lega e la coalizione sono andate bene grazie soprattutto alle oltre duecentomila preferenze del presidente uscente Luca Zaia, e nonostante il centrodestra abbia perso 400mila voti rispetto alle precedenti regionali. Il traino è stato per il Carroccio: rispetto al 2020 ha duplicato i voti, addirittura triplicati se confrontati con le europee del 2024».

Quindi cosa dicono questi numeri?

«Vanno bene i candidati che presidiano il territorio, quelli che incarnano precise identità locali. Lo si vede anche dai numeri della Puglia, dove Antonio Decaro, pur dovendo fare i conti con un’astensione altissima, ha ottenuto per il Pd e la sua lista risultati ottimi. Non solo: è l’unico dei governatori vincenti che ha aumentato i voti in termini assoluti. Michele Emiliano ne aveva ottenuti 760 mila, Decaro 830mila».

Ma non si è visto il voto di opinione.

«In queste elezioni è quasi sparito. L’aver votato su quattro date non ha aiutato: se ci fosse stato un election day per tutte le Regioni forse le cose sarebbero andate diversamente».

E dunque questo voto non è significativo guardando alle elezioni politiche del 2027? Per la sinistra il governo è contendibile?

«Difficile dirlo oggi. Di certo non è stato un test nazionale significativo, no. Giorgia Meloni ha partecipato alla campagna elettorale, ma la sua presenza non ha quasi mai fatto la differenza. Il perché è nelle ragioni che le dicevo prima: la gente ha più o meno votato come tutti si aspettavano avrebbe votato».

I temi nazionali non hanno pesato? Ad esempio: il centrodestra non ha pagato l’abolizione del reddito di cittadinanza in Puglia e Campania?

«In Campania parrebbe di sì. Direi che quando un’elezione prende una piega locale determinati temi nazionali è meglio non cavalcarli. Non credo ad esempio abbia fatto bene al Sud la discussione di questi giorni sull’autonomia differenziata, più utile per il consenso in Veneto».

Lei prima accennava alla politica che si eterna. Cosa consiglierebbe a chi vuole ridarle dignità?

«La gran parte dei cittadini pensa sia difficile cambiare lo stato delle cose. Dietro a questa percezione ci sono ragioni profonde, più grandi di noi e per le quali non esistono risposte semplici. Ma…».

Ma?

«Se la politica andasse oltre gli slogan, sarebbe un passo avanti. Non basta più dire: “abbatteremo le liste d’attesa”, oppure “meno tasse per tutti”. Oggi, se creo un’aspettativa, è bene in qualche modo soddisfarla, diversamente il giudizio sarà molto negativo».

Lei ha citato l’esempio della Puglia, dove c’è un serio problema con le liste d’attesa negli ospedali. Come mai allora il candidato del Pd è andato così bene?

«La scelta di Emiliano di non ricandidarsi ha generato una discontinuità nella continuità».

Proviamo a ricapitolare. Questo voto non ha spostato nulla, non è significativo per il governo, ha premiato solo i partiti a cui erano legati candidati credibili sul territorio. E’ così?

«Corretto, ad oggi non c’è stato un significativo spostamento di consensi a livello nazionale. Il percorso da qui alle elezioni politiche sarà complicato, perché gli italiani pretendono sempre più risposte pratiche ai loro problemi quotidiani, e con maggiore severità. Sono stanchi della polarizzazione politica su qualsiasi argomento, e di vedere i partiti azzuffarsi su qualunque tema».

Sta dicendo che l’opinione pubblica è più avanti di come la percepisce la stessa politica?

«In un certo senso sì. I cittadini desiderano di essere al centro del dibattito».

Si parla di riforma della legge elettorale. Peserà?

«Quale che sarà la proposta, per riprendere fiato la politica dovrà andare nel territorio cercando di non calare i candidati dall’alto. Sia il voto d’opinione sia quello radicato nel territorio necessitano di proposte e messaggi credibili. E’ una delle lezioni che abbiamo imparato da queste amministrative».


Il funerale dello Stato: la deriva neoliberista che trasforma i diritti in favori


(Giuseppe Libutti e Mariangela De Blasi – lafionda.org) – C’è un funerale che si celebra in silenzio, ma con costanza e meticolosità: è quello dello Stato, o meglio, della sua funzione pubblica e sociale. Un funerale che non avviene tra lacrime e lutti, ma tra tagli di bilancio, cessioni di sovranità, applausi alla filantropia e partenariati “virtuosi”. È l’esito di una lunga deriva neoliberista che ha trasformato il principio della giustizia sociale in una parola fuori moda, e l’interesse generale in una variabile dipendente dall’interesse privato.

Il modello dominante – oggi considerato inevitabile – è quello in cui lo Stato viene rappresentato come vecchio, inefficiente, improduttivo. Non è più “il garante dei diritti”, ma un burocrate stanco, da sostituire con attori dinamici, imprenditori “illuminati”, fondazioni private e capitali “socialmente responsabili”. Il passaggio da un sistema basato su diritti universali a un sistema di favori selettivi è stato tanto silenzioso quanto devastante: ha trasformato cittadini in beneficiari, doveri in opportunità di branding aziendale, politiche pubbliche in occasioni di investimento.

La nostra Costituzione parla chiaro: è compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli economici e sociali che limitano l’uguaglianza e la libertà dei cittadini. Eppure, nella pratica, queste responsabilità sono state progressivamente delegate a soggetti privati. Non si tratta più di rafforzare la cittadinanza attraverso investimenti pubblici, ma di affidarsi a chi ha capitale da “donare”. Il concetto stesso di “diritto” si dissolve, sostituito dalla “generosità” arbitraria di chi sceglie se, quando e dove intervenire.

Le imprese si ergono a protagoniste della coesione sociale: gestiscono programmi di welfare aziendale, finanziano restauri di monumenti, lanciano iniziative “inclusive” nei quartieri difficili. Ma questa non è redistribuzione. È una forma nuova di potere. È il capitale che detta l’agenda pubblica, che seleziona le emergenze, che orienta i bisogni. Lo fa con la propria logica, con i propri obiettivi reputazionali, fiscali o di mercato.

Non c’è nulla di neutro o disinteressato in questo processo. La filantropia, tanto osannata, è spesso una forma di “potere persuasivo”. Chi dona sceglie, controlla, condiziona. E nel farlo, sottrae spazio alla decisione democratica. La logica privatistica si impone anche su beni che dovrebbero restare collettivi: la salute, l’istruzione, la cultura, il paesaggio.

Una delle narrazioni più pericolose è quella che presenta lo Stato come “paternalista”, “immobile”, “inefficiente”, giustificando così la necessità di alleanze paritarie con il privato. Ma in questa visione non c’è nulla di paritario: c’è un arretramento della sfera pubblica e una avanzata della logica del profitto. Si celebra la “collaborazione virtuosa”, ma si dimentica che il pubblico entra in gioco con risorse scarse e potere contrattuale debole, mentre il privato porta capitali e impone condizioni.

Dietro la retorica della “sostenibilità” e dell’“innovazione” si nasconde una resa culturale: la rinuncia a pensare lo Stato come soggetto attivo, come protagonista della trasformazione sociale. Si dà per scontato che non ci siano alternative al modello attuale. Che il mercato debba essere il motore dello sviluppo, che il benessere possa essere solo “co-prodotto”, mai garantito. In questo contesto, anche il pensiero critico si adegua: non contesta più le disuguaglianze strutturali, ma si commuove davanti alla beneficenza.

La sinistra – un tempo voce delle rivendicazioni collettive – oggi spesso si limita a benedire le donazioni simboliche dei grandi capitalisti, abdicando alla propria funzione storica. Si è passati dall’analisi del sistema alla celebrazione di chi elargisce elemosine.

Particolarmente emblematica è l’evoluzione del cosiddetto “welfare aziendale”. Nato come strumento complementare, si è trasformato in un meccanismo parallelo di gestione della vita dei lavoratori. Non si aumentano i salari, non si rafforzano le tutele universali: si offrono buoni, sconti, convenzioni, piani sanitari integrativi.

Ma il prezzo è alto: il lavoratore diventa dipendente non solo economicamente, ma anche simbolicamente dall’impresa. Non è più solo un soggetto titolare di diritti, ma un destinatario di favori. Le aziende si presentano come “caregiver” sociali, ma nella realtà esercitano un controllo più profondo: modellano il tempo, le scelte, le relazioni dei propri dipendenti. Anche la solidarietà viene gestita, canalizzata, incapsulata in format aziendali. Il volontariato diventa parte del pacchetto di benefits, la cittadinanza si piega alle logiche dell’impresa.

Lo stesso schema si ripete nella gestione del patrimonio culturale. La manutenzione dei beni storici, l’apertura di musei, la valorizzazione del territorio: tutto dipende sempre più spesso dalla “buona volontà” di qualche grande investitore. Ma un Paese che affida la tutela della propria storia alla generosità privata ha perso il senso della propria dignità politica.

Si festeggiano assegni milionari, si esaltano gli interventi privati, si elogia la “valorizzazione” dei monumenti. Ma nessuno si chiede perché il bilancio pubblico non preveda investimenti strutturali per questi ambiti. Nessuno ricorda che, in una democrazia, il patrimonio culturale è bene comune, non vetrina per il capitale.

Tutto questo costruisce una nuova forma di cittadinanza: quella fondata sulla gratitudine, non sulla rivendicazione. I cittadini non reclamano ciò che è loro dovuto, ma ringraziano per ciò che ricevono. La filantropia prende il posto della redistribuzione, la benevolenza del potere sostituisce la partecipazione democratica.

La disuguaglianza non è più letta come prodotto di un sistema economico ingiusto, ma come sfortuna individuale mitigabile da un aiuto selettivo. Il discorso meritocratico – che assolve il sistema e colpevolizza gli ultimi – completa il quadro.

Ma la più grave sconfitta è quella culturale: la perdita della fiducia in un altro mondo possibile. L’idea che non ci sia alternativa è la più potente vittoria del neoliberismo. Si è spezzata la tensione utopica, si è dissolta l’ambizione di giustizia collettiva.

Eppure, la nostra Costituzione è ancora lì, a indicare un’altra strada: quella della giustizia sociale, della dignità universale, della responsabilità pubblica. Non è utopia, è progetto. Non è assistenzialismo, è politica.

Difendere lo Stato sociale non significa essere nostalgici, ma realisti. Significa riconoscere che nessuna donazione potrà mai sostituire un diritto garantito. Che nessuna azienda può decidere, al posto della collettività, quali priorità siano giuste.

La questione centrale non è la generosità. È il potere. E il potere privato, se non viene sottoposto a controllo democratico, non dona: occupa. Decide. Trasforma.

In una società giusta, i diritti non si comprano. Si garantiscono. E solo uno Stato forte, responsabile, autonomo può farlo.

Per questo serve oggi più che mai una riconquista culturale e politica dello spazio pubblico. Non si tratta di escludere il privato, ma di restituire centralità al pubblico. Non si tratta di demonizzare il mercato, ma di riconoscere che il mercato non può essere il motore della giustizia sociale.

È tempo di smettere di applaudire i benefattori e tornare a pretendere giustizia. È tempo di tornare a essere cittadini. Non clienti, non beneficiari. Cittadini.


Maggioranza a rischio in Senato: “Basta collegi uninominali”


Un campo largo unito alle politiche 2027 potrebbe strappare 18 seggi. Ipotesi nuova legge elettorale a inizio anno

Giovanni Donzelli, FdI

(di Gabriella Cerami – repubblica.it) – ROMA – Un campo largo compatto potrebbe mettere in difficoltà il centrodestra in diversi collegi uninominali, in particolare al Sud. Lo dicono le simulazioni svolte da Youtrend in questi mesi e quelle delle ultime ore, dopo i risultati delle elezioni regionali in Puglia e in Campania, che hanno visto la vittoria del centrosinistra di Antonio Decaro e Roberto Fico con un ampio divario rispetto agli avversari.

Dunque, con il centrosinistra unito la maggioranza in Senato sarebbe a rischio: nel Mezzogiorno Pd e M5S potrebbero strappare al centrodestra fino a diciotto collegi. Nel dettaglio, secondo l’istituto di ricerca guidato da Lorenzo Pregliasco, tra i 20 collegi uninominali non vinti dal campo largo nel 2022 ce ne sono sei in cui Pd, M5S, Avs e Iv uniti sono favoriti, di cui quattro in Campania e Puglia. A questi se ne aggiungono dodici contendibili, di cui quattro sempre in Campania e Puglia. Alla luce dei 120 senatori eletti dal centrodestra su 200, più i senatori a vita, questi diciotto collegi «potrebbero determinare la differenza tra un’altra vittoria netta nel 2027 della coalizione guidata da Giorgia Meloni e una situazione in cui nessuna coalizione otterrebbe la maggioranza a palazzo Madama, con conseguente rischio di ingovernabilità», come sottolinea il dossier di Youtrend.

Ed è sulla base di questo rischio «instabilità» che il centrodestra vorrebbe modificare l’attuale legge elettorale con un proporzionale con premio di maggioranza per la coalizione che vince e arriva al 40% e l’abolizione, appunto, dei collegi.

Lo ha annunciato Giovanni Donzelli, il responsabile organizzazione di Fratelli d’Italia, quando lo spoglio delle regionali era ancora in corso e la vittoria del centrosinistra schiacciante, e lo ribadisce chi nel centrodestra sta seguendo il dossier, come Stefano Benigni di Forza Italia: «Nelle elezioni del 2022 il centrosinistra era diviso. Se nel 2027 non si dovesse presentare quella fotografia, sarebbe difficile garantire la formazione del nuovo governo». Parole che fanno il paio con quelle del braccio destro di Giorgia Meloni e che non nascondono una possibile debolezza per il centrodestra nelle urne.

Al netto del fatto che tra i partiti di maggioranza ci sono stati per adesso incontri bilaterali, simili ad abboccamenti, adesso sarebbe arrivato il momento di accelerare. C’è anche chi vorrebbe presentare un testo già a inizio anno, una volta chiusa la legge di Bilancio e prima del referendum sulla separazione delle carriere. Per poi chiudere una volta incassato il sì alla riforma della giustizia. Oppure prendere più tempo e cercare consensi anche tra le file delle opposizioni, soprattutto in quelle del Movimento 5 Stelle, che vede di buon occhio un sistema proporzionale secondo i piani del governo. Il nodo rimane il nome del candidato premier da indicare o meno sulla scheda. Forza Italia, ribadisce il portavoce azzurro Raffaele Nevi, «è affezionata al metodo attuale e cioè chi prende più voti va a fare il presidente del Consiglio».

Insomma, per il segretario di +Europa Riccardo Magi Â«la destra vuole fare il “meloncellum”» e il presidente dei senatori del Pd, Francesco Boccia, spiega che si vuole cambiare la legge elettorale «per mantenere il potere». Perché, non ha dubbi il leader di Iv Matteo Renzi, «con quella attuale perde».


Una toga nel bosco


(di Massimo Gramellini – corriere.it) – I magistrati incontrano il favore popolare finché perseguono chi sta in alto: i potenti, i mafiosi, i politici (dello schieramento opposto al nostro), ma appena scendono a valle e si infilano nel bosco, finiscono per perdersi. Cecilia Angrisano, la magistrata dell’Aquila insultata sul web perché ha disposto l’allontanamento di tre bambini dal casolare in cui vivevano con i genitori, ha sfidato due miti seducenti e inscalfibili. Il primo è il richiamo della foresta, la suggestione di uno stile di vita più semplice. Chi non ha mai pensato: «Basta, mollo baracca e burattini, e mi rifugio nella natura»? Tutti, forse persino la dottoressa Angrisano. Poi non lo si fa per tante ragioni, ma si resta affascinati dagli estremamente coerenti, o dai coerentemente estremisti, che realizzano quello che noi lasciamo galleggiare nella vasca dei buoni propositi.

Il secondo mito è ancora più duro a morire. L’articolo zero della Costituzione, mai scritto ma assai praticato, recita: Â«L’Italia è una repubblica di individualisti fondata sulla famiglia». Che viene prima di tutto. Soprattutto, viene prima dello Stato, cioè della comunità allargata e delle leggi, che spesso la famiglia considera intrusive, limitanti e meno importanti della libertà personale. Così i miti «famiglia» e «natura» finiscono per saldarsi contro i miti più recenti, «cittadini» e «civiltà». 

Un consiglio non richiesto ai magistrati: se vogliono vincere il referendum che li riguarda, si tengano lontani dai boschi.


Con le Regionali cambia la retorica di Meloni asso pigliatutto


(di Alessandro Robecchi – ilfattoquotidiano.it) – Se avessi un dollaro per ogni volta che ho sentito la frase “il vento sta cambiando” sarei milionario, quindi lascerei da parte gli entusiasmi troppo facili e mi concentrerei sui dati reali: chi governava le regioni prima delle elezioni le governerà anche dopo, un buon pareggio è meglio di una sconfitta. Eppure dire che niente è cambiato è sbagliato tanto quanto, perché risulta innegabile che la situazione è in movimento, e il dato che colpisce più di tutti è questo: l’invincibile armata di Giorgia Meloni non è invincibile per niente, anzi risulta piuttosto fragile. Considerava contendibile la Campania, dove ha perso per decine di punti, e vagheggiava di un sorpasso veneto sulla Lega, dove è stata più che doppiata grazie al candidato leghista meno salviniano che c’è, Luca Zaia.

Il nervosismo dei gerarchi è palpabile, a cominciare dall’ineffabile Donzelli che a urne appena chiuse già prospetta di cambiare la legge elettorale che, sia detto en passant, è una cosa che porta un po’ sfiga, perché tradizione vuole che chi ha cambiato la legge elettorale per vincere le elezioni, quasi sempre poi le ha perse. Siccome l’analisi del voto è una faccenda complicata che richiederà tempo, calcoli e analisi raffinate, fermiamoci un passo prima, alla distanza tra il mondo come viene descritto dalla propaganda governativa e il mondo com’è, distanza piuttosto siderale. Uno dei refrain più gettonati dell’ultimo anno, per esempio, era la formuletta magica che “con un’opposizione così, Meloni governerà per altri x anni” (inserire cifra a piacere che va dai decenni ai secoli), ed ecco che all’improvviso la formuletta non funziona più. Questo dipende forse dal fatto che il Paese reale è un po’ diverso da quello che ogni sera ci viene raccontato a reti quasi unificate. Un paese garrulo e felice, dove tutto va a gonfie vele, l’economia tira, l’occupazione cresce, civiltà e progresso procedono a braccetto a passo di carica, le agenzie di rating ci promuovono e il/la premier viene osannato/a ogni volta che compare sulla scena: mi scuso per aver descritto così in fretta il Tg1. Ma insomma, certe cronache e certe analisi ricordano da vicino, in caricatura e in sedicesimo, alcuni regimi tragicomici dove si sbandierano successi (per pochi) per coprire il disastro (per tutti gli altri).

Nella narrazione corrente aveva dunque preso piede una specie di monito: “Uscite con le mani alzate”, che prevedeva un totale fallimento della linea Schlein nel Pd e un mesto tramonto di Giuseppe Conte su cui da anni si esercitano sarcasmi e ironie. E questo oltre alla speranza che si affidasse tutto il baraccone dell’opposizione a certi figuri sedicenti riformisti entusiasti del riarmo, avidi di guerra e desiderosi di indebitarci per secoli per fermare l’imminente invasione da Est (non da Sud, come dice Tajani per giustificare il ponte sullo Stretto). Insomma, a perdere malamente le Regionali – pur pareggiando – non è solo Meloni e la sua truppa di squinternati, ma anche i teorici del “troppa sinistra”, i centristi che vagheggiavano l’assalto alla segreteria.

La buona notizia, dunque, non è tanto il risultato, l’onorevole pareggio, ma la sensazione che la propaganda non risolva proprio tutti i problemi e che far sfilare in cerchio le truppe possa sì farle sembrare molto numerose, ma soltanto ai fessi che ci cascano. Gli altri, i pochi che vanno a votare, vedono un altro Paese, quello reale, dove Giorgia Meloni è battibile nonostante la capillare occupazione di ogni spazio di potere disponibile.


Black Friday di Meloni: Palazzo Chigi spende 135 mila euro per abbonarsi e fare acquisti su Amazon


(di Giacomo Salvini – ilfattoquotidiano.it) – Macchine fotografiche, apparecchi audio-video per conferenze stampa e riunioni, libri e brochure, articoli di cancelleria ma anche ferramenta, elettrodomestici e arredi per gli uffici. Se non è un’adesione al black friday (il giorno dei saldi), poco ci manca. A un mese dal Natale, Palazzo Chigi ha deciso di abbonarsi ad Amazon Business, il servizio che l’azienda di Jeff Bezos fornisce a imprese su milioni di prodotti, sconti su misura, spedizioni gratuite e il monitoraggio delle statistiche di acquisti. Obiettivo: comprare – nel modo più efficiente e “scontato” possibile – tutto ciò che serve ai dipartimenti della Presidenza del Consiglio. Per abbonarsi al servizio, Palazzo Chigi ha deciso di spendere 135 mila euro di cui 90 mila subito per due anni e altri 35 in caso di rinnovo per i dodici mesi successivi.

Lo prevede una delibera che risale all’8 ottobre scorso firmata dal Dipartimento dei Servizi Strumentali di Palazzo Chigi, l’area che si occupa degli acquisti della presidenza del Consiglio. La delibera di quattro pagine specifica quali saranno i settori su cui si potranno attuare i servizi di Amazon: fotografia e ottica, audio e video, libri e pubblicazioni, ferramenta, consumabili da copia/stampa, carta, piccoli e grandi elettrodomestici, prodotti informatici, periferiche e accessori. Ma anche mappe, dizionari e vocabolari sugli appalti. Tra i settori interessati ci sono anche gli arredi per ufficio (per la sala conferenza, biblioteca, interni per edifici e tende) per abbellire le stanza di Palazzo Chigi.

I settori su cui verranno fatte le maggiori spese sono quelli legati all’arredo e alle apparecchiature informatiche, di telecomunicazione e radio televisione, si legge nella delibera. Per la voce relativa al funzionamento degli uffici saranno spesi 54.900 mila euro, per quelli di arredo e rappresentanza 27.450, stessa cifra anche per le apparecchiature informatiche. 109 mila euro per l’abbonamento da qui al 2027 a cui si aggiungeranno altri 35 mila in caso di rinnovo per il terzo anno. Fondi che saranno trovati dal bilancio di previsione della Presidenza del Consiglio.


Banche, perché ci devono restituire dei soldi


Banche, perché ci devono restituire dei soldi

(di Milena Gabanelli e Andrea Priante – corriere.it) – Le banche, come è noto, si fanno pagare per ogni servizio che offrono. Non regalano nulla. E allora, cosa ci fanno con la nostra profilazione «sofisticata»? Andiamo con ordine. Per aprire un conto corrente, stipulare un mutuo e, in generale, diventare cliente di una banca, bisogna firmare l’informativa sulla privacy. Fino a dieci anni fa – prima che entrasse in vigore il regolamento europeo sulla protezione dei dati personali (qui il Gdpr) – erano un paio di paginette (qui un’informativa utilizzata fino al 2016) nelle quali veniva sintetizzato in che modo la banca avrebbe utilizzato i nostri dati. Nel 2025, in nome della trasparenza le informative, per esempio, di Bnp Paribas sono diventate di 8 pagine (qui), quelle di Intesa raggiungono le 17 pagine (qui). Alzi la mano chi le legge per esteso. Anche perché il linguaggio è tecnico e servirebbe un traduttore. Eppure, con l’impiego dell’intelligenza artificiale, oggi i nostri dati vengono spolpati e trasformati in nuove informazioni dal valore commerciale enorme, che finisce interamente nelle tasche delle banche. Insieme al concetto di «privacy». Vediamo come.

Cosa sanno le banche

Qualunque operazione tu faccia, la banca memorizza ogni dettaglio: indirizzo email, il telefono tuo e di tua moglieper chi lavori, quanto guadagni, che auto guidiche telefono usi, se sei divorziato, che lavoro fanno i tuoi figli, la tua geolocalizzazione (dove vai e a che ora) . E visto che raccoglie nomi, indirizzi e contatti dei beneficiari di ogni bonifico, pagamento elettronico, e acquisti online, la banca può sapere perfettamente come spendi i tuoi soldi, le tue abitudini, i tuoi vizi: se giochi ai cavalli o guardi Onlyfans, achi fai beneficenza, se paghi la tessera di un partito o le cure in una clinica, e quindi informazioni sul tuo stato di salute e quello della tua famiglia. Si tratta, in alcuni casi, di dati particolarmente sensibili che il regolamento europeo (qui, art 9) impone di maneggiare con cura e solo con il tuo consenso. A queste informazioni la banca ci aggiunge quelle che raccoglie dalle banche-dati pubbliche e private (camera di commercio, registro delle imprese…), quelle che compra dai data-broker (qui l’inchiesta di Dataroom) e quelle che rastrella da siti web e pagine social.

Uso dei dati e consenso

Ci si aspetterebbe che questi dati vengano usati solo per darti i servizi che chiedi; per controllare il tuo merito creditizio, cioè verificare se sei un bravo pagatore in caso volessi stipulare un mutuo; per gli obblighi di legge su entrate e uscite che possano far sospettare riciclaggio di denaro, corruzione o finanziamento di organizzazioni terroristiche. In realtà le informative si chiudono (qui un esempio) chiedendoti il consenso per tre finalità: 1) profilazione, 2) venderti prodotti della banca, 3) cedere i tuoi dati ad altre società che a loro volta cercheranno di venderti qualcosa.

1) La profilazione. Modelli algoritmici, di intelligenza artificiale, e programmi predittivi, pescano a strascico tutte le informazioni e le rielaborano, per incasellarti in gruppi di clienti sempre più ristretti e dettagliati, in base a come spendi i tuoi soldi e a chi li riceve: hobby, interessi, viaggi, stili di vita, se ti sposti in treno, cosa compri online, se hai appena cambiato casa o sei diventato genitore, qual è la tua compagnia telefonica o il tuo fornitore di energia. Alcuni istituti di credito, come Bnl (quianalizzano le parole che ritrovano in email e chat che il cliente scambia con la banca, e registrano le telefonate in modo da studiare tono della voce e frequenza audio per associarti delle emozioni e capire la tua reazione ai prodotti e servizi che ti vengono proposti. La chiamano «sentiment analysis». L’utilizzo viene riassunto nella definizione vaga di «studi statistici e indagini di mercato». Ma profilarti serve soprattutto a capire di cosa hai bisogno adesso, e prevedere ciò che farai in futuro.
2) Il marketing. Visto che ti ha appena profilato, conosce i tuoi bisogni e debolezze: se sei a corto di liquidi, ti proporrà un prestito; se ti è nato un figlio l’assicurazione. E con i modelli predittivi sa se stai per cambiare banca o se da un momento all’altro potresti disinvestire i tuoi risparmi, e allora andrà alla carica per tenerti stretto o venderti nuovi prodotti. Tutto questo si traduce in lettere, email e soprattutto telefonate da call center.
3) Cessione a terzi. Quasi tutte le banche condividono i dati con aziende diverse, e possono essere centinaia: assicurazioni interessate a sapere se stai per comprare casa, società di fornitura di energia e gas, compagnie telefoniche. Negli elenchi delle Â«terze parti» (qui un esempio) abbiamo trovato di tutto: autonoleggi, investigatori privati, siti web, perfino aziende agricole e società di catering.
Se alla fine dell’informativa barri su «acconsento», la banca cede i tuoi contatti, i prodotti bancari che usi, e la tua profilazione ad aziende con le quali ha stretto accordi commerciali, che sono autorizzate a usarli per mandarti sms, lettere, e bombardarti di telefonate per venderti qualcosa, o chiederti di cambiare operatore e diventare loro cliente. E se il cliente è anziano è più facile convincerlo a sottoscrivere un contratto.
Se invece barri «non acconsento», i tuoi dati sono al riparo. Ma solo in teoria. L’Ue (qui) dice infatti che la banca può comunque usare i tuoi dati senza chiederti il permesso, se ravvisa un suo «legittimo interesse».

Il legittimo interesse

E così, per il legittimo interesse può fare quello che tu preferiresti non faccia: mandarti email (soft spam) per proporti investimenti e altri servizi purché non siano troppo diversi da quelli che hai stipulato in passato; telefonarti e inviarti messaggi in app per valutare la tua soddisfazione. Sempre per legittimo interesse, la banca può usare i tuoi dati per addestrare i suoi modelli algoritmici di intelligenza artificiale a scovare nuovi modi per profilare te e gli altri clienti, e a capire quali prodotti è più probabile che acquisterete.
Nonostante l’articolo 12 del regolamento sulla privacy dica che le informative devono essere «semplici e chiare», spesso il legittimo interesse è incomprensibileBPer, ad esempio, scrive che userà i tuoi dati anche «ai fini di valutazione dei rischi ESG; analisi per definire strategie e politiche ESG, nonché ai fini del Report TCFD e Report PRB». Tradotto: li userà per misurare quanto è rispettosa dell’ambiente, inclusiva, trasparente. Ma chi lo capisce?

Possiamo opporci?

In qualunque momento si può negare il consenso alla profilazione sofisticata e alla cessione dei tuoi dati. Al legittimo interesse, invece, ti puoi opporre scrivendo alla banca, che dovrà interrompere il soft spam, ma per gli altri utilizzi possono dirti di no, se ritengono che il loro interesse prevalga sul tuo. Per non ricevere chiamate puoi iscriverti al registro delle opposizioni, che però è una inutile perdita di tempo perché sappiamo che non funziona. Senza contare che puoi trovare il funzionario che ti dica «devi acconsentire alla profilazione altrimenti l’ufficio mutui non riesce a lavorare la pratica». È successo a noi quando abbiamo provato a chiedere un mutuo in una filiale padovana. Ma può anche capitare che ti venga consegnata l’informativa con le caselle già tutte barrati su «acconsento». Sono comportamenti illegali, da denunciare al garante della privacy (sic!).

Il futuro dei nostri dati

L’Europa tutela i dati personali molto più di quanto accade in altre parti del mondo. Ma nell’era dell’intelligenza artificiale e degli algoritmi che si addestrano dando loro in pasto milioni di informazioni, le nostre big tech stanno rimanendo indietro rispetto ai concorrenti americani e cinesi. Il risultato si riflette sul Digital Omnibus, il pacchetto di riforme presentato dalla Commissione europea che punta proprio ad allargare le maglie del Gdpr e a estendere l’uso dei dati per l’addestramento dell’Ai. Resta il tema di fondo: mentre Google, Meta, Amazon e qualunque App ci offrono servizi gratis e in cambio ci profilano per vendere i nostri dati, la banca non ci regala niente: paghiamo la gestione del conto corrente, le commissioni sui bonifici, sugli investimenti, sulle carte di credito, gli interessi sul mutuo, ecc. Allora, visto che usa i nostri dati più personali (e parliamo, dati Fabi, di 48.110.106 conti correnti) per sviluppare i suoi programmi di intelligenza artificiale finalizzati a risparmiare i costi sul personale e a venderci più prodotti, sarebbe opportuno restituirci qualcosa. Spetta alla massima autorità di vigilanza, cioè Banca d’Italia, misurare il fenomeno, valutarne i benefici economici, e poi magari disporre l’obbligo di abbassarci per esempio la commissione sulla gestione del conto corrente.

dataroom@corriere.it


Ucraina verso l’accordo con Trump e Putin: il pensiero magico Ue non protegge Kiev


Nelle dispute internazionali la razionalità dovrebbe essere affidata alla diplomazia, arte inventata in Europa prima che negli Usa. Ma la guerra è diventata la ragion d’essere per gran parte dei governi europei

(di Barbara Spinelli – ilfattoquotidiano.it) – Ancora non è dato sapere se gli Stati europei che minacciano di svuotare l’accordo di pace con la Russia riusciranno nel loro intento: bloccare il piano che Trump discute con Mosca perché le radici del conflitto siano infine sanate, spingere Kiev a ignorare quel che accade sul fronte, restare appesi al pensiero magico di una guerra giusta (quando si dice pace giusta s’intende guerra giusta).

Fin d’ora tuttavia è abbastanza chiaro che gli Stati in questione non riconosceranno facilmente di essersi sbagliati su quasi tutto, di non essere comunque affidabili militarmente, e di aver distrutto quel pochissimo che esisteva delle tradizioni diplomatiche europee, ben più antiche di quelle statunitensi e qualificabili come occidentali e atlantiste solo nello spazio temporale della Guerra Fredda.

Chi grida contro la capitolazione farebbe bene ad ascoltare le parole di Iuliia Mendel, ex portavoce di Zelensky e convinta sostenitrice dell’Ucraina: “Il mio Paese sta sanguinando. Molti di coloro che si oppongono istintivamente a ogni proposta di pace credono di difendere l’Ucraina. Con tutto il rispetto, questa è la prova più evidente che non hanno idea di cosa stia realmente accadendo in prima linea e all’interno del Paese in questo momento”. Il post verrà forse smentito, ma l’editorialista Wolfgang Münchau lo fa proprio e chiosa: “I più accaniti sostenitori di Kiev in Europa sono coloro che non hanno la minima comprensione della realtà militare sul campo”. Zelensky forse l’ha capita prima dei propri accaniti sostenitori, se è vero che ha accettato buona parte del piano Trump.

Oggi è difficilissimo dire quale sia l’Europa in cui i cittadini possano riconoscersi. Non è l’Ue: i Ventisette sono divisi, e a guidare la Commissione c’è una persona – Ursula von der Leyen – che ha abbracciato l’antico disdegno della DC tedesca verso la politica di distensione. Disdegno condiviso in Germania da Verdi, Liberali e Socialdemocratici, che della Ostpolitik di Willy Brandt non hanno più cognizione. Né i cittadini possono riconoscersi in un’Unione che si fa rappresentare in politica estera da un’ex premier estone –Kaja Kallas – che in patria nega diritti sostanziali alla minoranza russa (20,9% della popolazione) e ha dimostrato di non sapere neanche lontanamente chi ha vinto la Seconda guerra mondiale e perché Russia e Cina siano tra i 5 membri permanenti nel Consiglio di sicurezza Onu.

Non godono di maggiore legittimità le più recenti e marziali configurazioni: i Volonterosi pronti a mandare soldati in Ucraina, o la Comunità politica europea inventata da Macron nel 2022 per aggirare i refrattari dell’Ue, reincorporare Londra in Europa e inglobare Stati ex sovietici affetti da russofobia acuta (Ucraina, Georgia, Moldavia). Altro cascame del pensiero magico europeo: l’asse Berlino-Londra-Parigi, detto anche E3 perché ogni distopia ha bisogno dei suoi acronimi. Alla sua testa, tre personaggi in cerca d’autore: Macron e Starmer sono sulla via del tramonto, Merz aspira alla metamorfosi regressiva della Germania e resuscita tradizioni militari che hanno devastato più volte il Paese. Nel loro contropiano si dice che la lingua delle minoranze russe e le libertà degli ortodossi russi saranno rispettate nel quadro dell’adesione di Kiev all’Ue. Promessa vana, visto come sono trattati i russi nei Baltici.

Da queste configurazioni è arduo uscire, perché la guerra è diventata non solo l’idea fissa, ma la ragion d’essere per gran parte degli Stati Ue. Al posto della storia europea, dei suoi disastri e delle sue prese di coscienza, ci ritroviamo con l’illusoria success story dell’atlantismo e una diffusa allergia alla sovranità. Trump è disposto ad assicurare la non adesione di Kiev alla Nato e il ritorno dell’Ucraina alla neutralità, ma i Volenterosi Ue recalcitrano, fingendo d’ignorare che la radice della guerra per Mosca è la Nato alle porte di casa. Buona parte d’Europa è in trasformazione, con Berlino all’avanguardia. A parlare in suo nome non sono i diplomatici ma le industrie militari, i generali, i politici improvvisati, i giornali aizzatori. Sono gli accaldati tifosi descritti da Karl Kraus ne â€œGli ultimi giorni dell’umanità”. Più verosimilmente vicina è la guerra, più sono consentite menzogne, pensieri magici, poteri accentrati. Militari e faccendieri non sono sotto i riflettori in tempi di pace, ma d’un tratto occupano il palcoscenico.

Il capo di Stato maggiore francese generale Fabien Mandon dichiara il 19 novembre, approvato da Macron: “Quel che ci manca (…) è la forza d’animo di accettare di farci del male per proteggere quello che siamo. Se il nostro Paese vacilla e cede, è perché non è pronto ad accettare di sacrificare i propri figli – osiamo dire le cose come stanno! – e di soffrire economicamente quando le priorità andranno alla produzione di difesa. Se non siamo pronti a questo siamo a rischio” (aveva detto cose simili Antonio Scurati il 5 marzo scorso). Prontezza Ã¨ il motto iscritto sul frontone del Riarmo Europa annunciato il 4 marzo 2025 da Von der Leyen. Credevano d’aver indorato la pillola evitando la parola riarmo. È molto peggio “prontezza”.

Nello stesso giorno, il 19 novembre, il presidente di Airbus, René Obermann, ha esortato gli europei a dotarsi di armi nucleari tattiche per contrastare l’espansionismo russo (oltre alle atomiche strategiche condivise con Washington). Un’atomica tattica oscilla tra 1 e 50 chilotoni: non son bruscolini. Hiroshima fu colpita da una bomba di 16 chilotoni, per Nagasaki si passò a 21. Poco dopo Einstein disse: “Ora è venuto il momento in cui l’essere umano deve rinunciare alle guerre. Non è più razionale risolvere i problemi internazionali ricorrendo alla guerra”. Poi c’è il quando. Quando ci attaccherà Mosca? Secondo il ministro tedesco della Difesa, Boris Pistorius, socialdemocratico, l’anno fatale è il 2029.

Nelle dispute internazionali la razionalità dovrebbe essere affidata alla diplomazia, arte inventata in Europa prima che negli Stati Uniti. Non spetta ai capi di Stato maggiore, ai faccendieri, neanche ai giornalisti. Al tempo stesso si può capire che Trump preferisca gli uomini d’affari, pur di tenere a bada i neoconservatori come il ministro degli Esteri Marco Rubio, che non solo ignorano la diplomazia ma la odiano. È comprensibile che mandi l’immobiliarista Steve Witkoff a parlare con Putin, e che Putin a questo punto mandi non Lavrov ma Kirill Dmitriev, capo del Fondo russo per gli investimenti diretti. Gira voce che la bozza del piano di pace l’abbia scritta Dmitriev, e Trump l’abbia ingoiata sotto tortura. In Europa i pensieri da ombrellone sono per tutto l’anno, Natale compreso.

Chi non riconosce le disfatte ucraine guarda senza vedere. Quanti ucraini devono morire perché l’Europa smetta i paramenti dell’Occidente atlantista e ricominci a parlare con Mosca? Se nel marzo 2022 Kiev s’accontentò di un esercito di 80.000 uomini, come non vedere che Mosca gliene concede ora 600 mila (la metà delle truppe attuali) e chiederne 800.000? Mosca è disposta a riparare l’Ucraina con 100 miliardi dei propri fondi congelati soprattutto in Belgio. Gli europei s’offendono e replicano: su quei soldi decidiamo noi e basta.

Come sostengono Anatol Lieven e il Quincy Institute, un accordo che restituisce indipendenza ai tre quarti dell’Ucraina, che prevede l’ingresso nell’Ue e le riparazioni russe non è precisamente una capitolazione. È la sconfitta di Zelensky e dell’idea di Kiev come baluardo, non dell’Ucraina. È la presa d’atto che Mosca non ha in mente di invadere l’Europa e neanche vuole “incamerare” l’Ucraina, ma non vuole la Nato e le atomiche schierate alle proprie porte.


Conte rilancia da solo: “Ora il programma”


Come per Nova. I 5S ripescano il modello Costituente, il leader cerca voti al centro

(di Luca De Carolis – ilfattoquotidiano.it) – Da solo, ancora. Per provare a dare le carte nel campo largo tornato competitivo. E guadagnare spazio, al centro. Il giorno dopo la festa del centrosinistra in Campania, grazie innanzitutto al “suo” Roberto Fico, Giuseppe Conte – l’ex premier che troppo ex non si è mai sentito – lancia il cantiere per il programma del Movimento per le Politiche del 2027. “Un programma che serva davvero ai cittadini, alle famiglie, alle imprese, costruito dal basso” sostiene l’avvocato, citando come modello Nova, la costituente dell’anno scorso imperniata sulla consultazione degli iscritti.

Quella che ha buttato fuori il fondatore Beppe Grillo e portato i Cinque Stelle nel centrosinistra con la qualifica di progressisti indipendenti, scelta dalla base per schierarsi, ma senza perdere (troppo?) l’anima. “Porterò queste istanze nel confronto con le altre forze politiche del campo progressista, per dare al Paese un nuovo programma di governo” assicura Conte. Tradotto, la mossa l’ha fatta per primo lui, l’avvocato, che rivendica: “Potevo accontentarmi di una schiacciante vittoria con un nostro candidato contro un esponente del governo Meloni”. E invece no, Conte ha fretta di mettersi un passo davanti agli alleati che non vuole chiamare tali. Sorvolando sui dati di lista che non autorizzano trionfalismi nel Movimento. Perché un conto è il 9,1 per cento in Campania, quasi identico al risultato di cinque anni fa, a cui andrebbe sicuramente sommata buona parte del 5 per cento e qualcosa della lista di Fico. Altra questione è il fiacco 7,2 in Puglia, la regione di Conte. E figurarsi il 2 e frattaglie rimediato in Veneto, nel Nord-Est dove il M5S a oggi non esiste. Ben altri numeri ha fatto il Pd di Elly Schlein, che in conferenza stampa fa buon viso a contiano gioco: “Le sue parole sono benvenute, ora è il momento di consolidare il progetto per l’Italia”. E anche Nicola Fratoianni, uscito con animo pesante da queste Regionali per non aver eletto consiglieri in Puglia – quindi neppure Nichi Vendola – giura che non ci sono problemi: “Il fatto che Conte voglia costruire un programma partecipato con i cittadini non è in contraddizione con la necessità di confrontarsi e discutere per definire insieme alcune priorità”. Meglio non dire ciò che tutti hanno notato. Ossia che domenica a Palermo il leader del Movimento ha di fatto aperto con i suoi la campagna per il No al referendum sulla separazione delle carriere che, lo ha ribadito al Fatto a Napoli lunedì lo stesso Conte, “si può vincere, e il successo in Campania è un ottimo scivolo per riuscirci”. Mentre ieri, prima di lanciare la costruzione del programma, l’avvocato aveva sfidato Giorgia Meloni: “Avevate promesso 100 euro di aumento sulle pensioni minime ai campani, se la premier ci sta alziamo assieme la pensione a tutti con la manovra”.

Di nuovo in solitudine, da capocordata. O da aspirante vincitore delle primarie di coalizione. Perché poi sempre lì si torna. Con un maggiorente del Movimento che lo fa notare: “Da settimane non parliamo più, o lo facciamo pochissimo, di reddito di cittadinanza. Giuseppe non fa altro che insistere su sicurezza, tasse e imprese”. L’insicurezza nelle città è uno dei punti che non a caso l’ex premier cita nel suo post, assieme alla necessità di dare risposta alle imprese, “nell’Italia a crescita zero”. Spiegato ancora meglio, “Conte cercherà dalla base punti per ampliare la nostra offerta politica” è la lettura diffusa nel M5S. Così da inseguire i voti anche al centro e toglierli pure ai dem, ormai radicati a sinistra. “Hanno anche riaperto la rivista Rinascita” ricordano i 5Stelle. Come a sottolineare quanto sia rosso il Pd dell’era Schlein. Ma ora come verrà costruito il programma di governo del Movimento? Stasera Conte entrerà nei dettagli con i parlamentari, in un’assemblea congiunta. Ma vuole fare in fretta, assicurano. Ergo, dicono, “non ci saranno i tavoli preliminari come era avvenuto per Nova”. Il capogruppo alla Camera Riccardo Ricciardi invece tocca il punto politico: “Questo è un modello aperto a tutti. Per far tornare le persone a votare, bisogna coinvolgerle”. Anche con l’ennesimo rilancio di Conte.


I diktat degli sconfitti


(di Marco Travaglio – il Fatto Quotidiano) – C’è un grosso equivoco nel dibattito pro o contro il piano Trump per chiudere dopo 12 anni (non quasi quattro, come si racconta) la guerra in Ucraina. L’equivoco dei vedovi inconsolabili e piagnucolanti perché la pace è ingiusta, anzi finta, anzi una resa per Kiev, perché Trump è putiniano e Putin non perde nulla e non viene punito, perché i confini sono sacri (salvo per Israele, Siria, Kosovo, ecc.), è sempre lo stesso da due anni. Cioè da quando Kiev fallì la controffensiva del 2023, conquistando […]


Allarme rosso per Giorgia Meloni


(Istituto Cattaneo – Analisi elezioni regionali 2022-25 – A cura di Salvatore Vassallo – cattaneo.org) – Sulla base della stabilità degli elettorati che avevamo già osservato nelle elezioni regionali precedenti, il risultato di quelle in programma in Veneto, Campania e Puglia appariva scontato. Ed in effetti è andato tutto più o meno come previsto.

Questa ultima tornata ha confermato un sostanziale equilibrio, sul piano elettorale complessivo, tra Centrodestra e Centrosinistra largo, cioè allargato al M5S (che d’ora in poi, per semplicità, chiamiamo CS+). Più o meno, lo stesso equilibrio registrato alle europee del 2024.

Le regionali, soprattutto in Campania e Puglia, costituivano tuttavia un test importante per il CS+. Per questo, la nostra analisi, oltre a considerare i risultati per l’elezione dei presidenti di regione, include l’elaborazione di una stima di ciò che potrebbe accadere in elezioni politiche nazionali se il sistema elettorale rimanesse invariato e la performance di CD e CS+ fosse simile a quella registrata nel ciclo delle elezioni regionali svolte dal 2022 ad oggi.

Tenendo conto della stabilità degli elettorati che avevamo già osservato nelle elezioni regionali precedenti, il risultato di quelle in programma in Veneto, Campania e Puglia appariva scontato. Ed in effetti è andato tutto più o meno come previsto.

Questa ultima tornata ha confermato un sostanziale equilibrio, sul piano elettorale complessivo, tra Centrodestra e Centrosinistra largo, cioè allargato al M5S (che d’ora in poi, per semplicità, chiamiamo CS+). Più o meno, lo stesso equilibrio registrato alle europee del 2024.

Le regionali, soprattutto in Campania e in Puglia, costituivano tuttavia un test importante della competitività del CS+ nelle prossime elezioni politiche.

Per questo, la nostra analisi, oltre a considerare i risultati per l’elezione dei presidenti di regione, include l’elaborazione di una stima di ciò che potrebbe accadere alle elezioni politiche nazionali se il sistema elettorale rimanesse invariato e le performance del CD e del CS+ fossero simili a quelle registrate nel ciclo delle elezioni regionali svolte dal 2022 ad oggi.

Sul risultato nelle tre regioni al voto il 23-24 novembre, c’è in effetti poco da dire. Come si può vedere dalle tabelle 1-3, è stato abbastanza in linea con i risultati delle politiche 2022 e delle europee 2024. È stato perfettamente in linea con quei risultati in Campania; ha registrato un miglioramento di circa 6 punti percentuali per il CD in Veneto e di circa 7 punti percentuali per il CS in Puglia. Con una lieve differenza segnalata dalla stima dei flussi (tabelle 4-6).

Abbiamo condotto analisi dei flussi su molte città ma abbiamo riportato qui solo quelle riferite alle tre città maggiori di ciascuna regione. In generale, risulta attenuata la tendenza dell’elettorato Cinque Stelle ad astenersi più degli altri elettorati in elezioni regionali. La si ritrova solo in Puglia.

È confermata la tendenza degli elettori dell’area lib-dem (Azione, Iv, +Europa) a dividersi tra CD, CS e astensione. Per il resto, è confermata la sostanziale impermeabilità delle due aree: i passaggi da un polo all’altro sono limitatissimi, con una parziale eccezione in Puglia.

Si può dire che circa la metà del vantaggio guadagnato dal CS in quella regione (quindi, intorno a 3 punti percentuali) derivi dalla capacità di De Caro di attrarre elettori che alle europee avevano votato per partiti di CD, i quali si aggiungono a quelli che aveva già spostato a vantaggio del PD grazie alla sua candidatura al parlamento europeo.

È forse di maggiore interesse un’analisi complessiva che provi a ricapitolare l’esito di tutte le elezioni regionali che si sono svolte dal 2022 ad oggi. Per comprendere le ragioni della stima da noi condotta a questo riguardo (tab. 7 e mappe sottostanti), conviene richiamare alcuni dati di base. Nelle elezioni politiche del 2022, i partiti del CS+ hanno ottenuto, nel complesso, una percentuale di voti leggermente superiore a quella dei partiti del CD.

Di conseguenza, hanno ottenuto un numero di seggi leggermente superiore rispetto al CD tra quelli ripartiti con metodo proporzionale. Alla Camera, nella quota proporzionale, il CD ha ottenuto 114 seggi; il CS+ (CS + M5S + Azione-Iv) ne ha ottenuti 130. Ma poiché ciascuna delle tre componenti del cosiddetto Campo Largo ha presentato candidati propri (in competizione gli uni con gli altri) nei collegi uninominali, il CD ha vinto quasi dappertutto: in 121 dei 147 collegi; CS+M5S solo in 23.

Se si considerano le intenzioni di voto attualmente stimate dai sondaggi, è assai plausibile che, in una competizione nazionale in cui il CS+ si presenti unito, CS+ e CD otterrebbero percentuali di voti e un numero di seggi di entità quasi equivalente nella quota proporzionale.

Dunque, se il sistema elettorale non verrà modificato, il risultato sarà determinato, questa volta quasi completamente, dal numero di seggi ottenuti nei collegi uninominali. Nel Nord e nel Centro, con l’eccezione dei grandi centri urbani, il vantaggio del CD rimane solido, anche di fronte a un CS+ unito.

Nell’ex Zona Rossa e al sud il CS+ ha invece un notevole margine di recupero. Naturalmente, non si possono sommare i risultati delle tre componenti del CS+ del 2022, perché non possiamo dire in che misura i tre elettorati siano rimasti stabili e disposti a confluire su candidati comuni.

Per questo, le elezioni regionali, soprattutto dove il CS+ ha presentato candidati comuni alla presidenza, forniscono una misura più affidabile. Per stimare quanto sia ampio il margine di recupero del CS+ e quanto le prossime elezioni politiche possa risultare contendibili, abbiamo considerato come indicatori dell’attuale equilibrio i voti ricevuti dai candidati a presidente di regione nelle tornate elettorali che si sono svolte dal 2023 ad oggi, quando cioè era già iniziata la ricomposizione del CS+, dopo lo choc (atteso) delle politiche 2022.

La stima è stata condotta solo sui seggi della Camera perché, a differenza di quanto talvolta sostenuto da commentatori e politici, i sistemi elettorali di Camera e Senato hanno effetti identici, nell’aggregato, in percentuale, anche se il numero dei collegi senatoriali è inferiore. In pratica, abbiamo calcolato la somma dei voti ottenuti dai candidati a presidente di regione in ciascuno dei collegi uninominali della Camera, ipotizzando che i futuri candidati comuni al Parlamento delle principali coalizioni possano contare sulla stessa base di consensi.

Non abbiamo apportato aggiustamenti discrezionali nei casi in cui il M5S o altre componenti del CS+ abbiano presentato candidati propri. La stima, quindi, non può tenere conto di eventuali spostamenti di quegli elettori che, ad esempio, in Toscana hanno votato per Antonella Moro Bundu (Sinistra Rossa, 72.322 voti) o in Sardegna per l’ex presidente regionale di CS, Renato Soru (63.000 voti) o in Sicilia per il 5S Nunzio Di Paola (335.000 voti).

Non tiene conto della tendenza, da noi stessi rilevata in una precedente analisi, per la quale, in Calabria, il CD ha ottenuto ripetutamente (come avvenuto anche nel 2025) risultati significativamente migliori alle regionali rispetto alle politiche. Non può infine tenere conto di ciò che sarebbe accaduto in Sicilia se, alle elezioni regionali del 2022, fosse già stato realizzato un accordo tra CS e M5S.

D’altro canto, questa stima non è stata elaborata con la pretesa di “prevedere” cosa accadrà alle prossime elezioni politiche, bensì di identificare e misurare la tendenza delineata dal ciclo delle elezioni regionali. La tendenza è abbastanza chiara. La dimostrata possibilità di far confluire i voti dei partiti del CS+ su candidati comuni (cosa non scontata), soprattutto nel Sud, riapre la competizione anche a livello nazionale.

D’altro canto, alle regionali, il governo Meloni “non è stato battuto” e il CD continua ad avere buone probabilità di rivincere le elezioni politiche. Ma, mentre alle elezioni del 2022 il CD ottenne 98 seggi in più delle varie componenti del CS, in base ai risultati delle regionali, questo vantaggio si ridurrebbe a circa 34, con la eventualità che si riduca ulteriormente o venga di poco ribaltato se, ad esempio, alcuni dei fattori citati in precedenza (soprattutto in Sardegna, Sicilia e Calabria) dovessero torcersi a suo danno.

In Sardegna, ad esempio, la candidata alla presidenza del CS+ ha prevalso nettamente nel (territorio del) collegio uninominale di Cagliari, ma è stata superata, di poco, dal candidato del CD negli altri collegi. Ci potrebbe trovare con una Italia di nuovo divisa in due, o meglio in 5: con il Nord e il Centro al CD; la Zona rossa e le grandi regioni del Sud al CS; con Sicilia, Calabria e Sardegna come “campo di battaglia”.

Con tutta evidenza, sta qui l’interrogativo che sottende ad una possibile ulteriore riforma del sistema elettorale. Se sia preferibile un esito potenzialmente indeterminato, con la formazione di governi sostenuti da una esile maggioranza, o addirittura la formazione di un governo sostenuto da partiti appartenenti ad entrambe le coalizioni, oppure un sistema elettorale simile a quello che ha consentito ad entrambe le coalizioni di celebrare vittorie e sconfitte nette nel ciclo delle elezioni regionali che si è appena concluso.


L’astensionismo è insostenibile, come riportare l’Italia alle urne


Anche le regionali in Campania, Puglia e Veneto confermano che non siamo davanti a un fenomeno fisiologico né a un semplice sintomo temporaneo. Si tratta di un segnale profondo e strutturale che richiede interventi immediati. È per questo che diventa urgente costruire, subito e con decisione, le condizioni per una nuova stagione di partecipazione consapevole. Serve agevolare il voto, più educazione civica, più attenzione alle donne e alle periferie

(Pierpaolo D’Urso* – editorialedomani.it) – Il Rapporto BES 2024 dell’Istat, che fotografa lo stato del benessere equo e sostenibile in Italia nel 2024, delinea, con riferimento al dominio Politica e istituzioni, un quadro segnato da un paradosso evidente: mentre nel lungo periodo si registrano avanzamenti significativi in specifici ambiti, soprattutto nella rappresentanza femminile e nella fiducia verso alcune istituzioni, la partecipazione elettorale continua a deteriorarsi in modo costante e profondo.

La metà degli indicatori del dominio peggiora nell’ultimo anno e, fra questi, quello più cruciale per la vitalità democratica del paese si colloca su livelli ormai insostenibili. Alle elezioni europee del 2024 la partecipazione si ferma al 49,8 per cento, scendendo per la prima volta sotto la soglia simbolica del 50 per cento.

È un dato che da solo racconta la trasformazione culturale e civica di una nazione che, nel 2004, registrava il 73,1 per cento di affluenza e superava la media Ue di oltre 27 punti percentuali. Oggi quella distanza si è completamente azzerata e ribaltata: mentre la media europea cresce di 5,3 punti in vent’anni e raggiunge il 50,7 per cento, l’Italia perde 23,3 punti e si colloca un passo indietro rispetto alla media Ue.

La caduta non è episodica ma strutturale, perché investe anche le elezioni nazionali, configurando una traiettoria discendente che attraversa territori, generazioni e condizioni sociali.

Fiducia nelle istituzioni

L’analisi territoriale rivela un’Italia che continua a muoversi in ordine sparso, con un Nord più partecipativo – 55,1 per cento nel Nord-ovest e 53,9 per cento nel Nord-est –, un Centro che regge al 52,5 per cento e un Mezzogiorno che fatica a superare il 43,7 per cento. Le Isole si fermano al 37,7 per cento e rappresentano da oltre un decennio l’area più distante dall’urna. Il divario territoriale si restringe da 26,7 punti del 2019 a 17,7 nel 2024, ma questa apparente convergenza si spiega soprattutto con la flessione più rapida delle regioni del Nord, come il Nord-est che perde dieci punti in un solo quinquennio. Anche le dinamiche di genere presentano elementi di interesse: gli uomini continuano a votare leggermente più delle donne, 50,6 per cento contro 49 per cento, ma il divario cala sensibilmente rispetto al 2019.

In controtendenza, nelle Isole la partecipazione femminile cresce di 2,1 punti pur restando su un livello drammaticamente basso, pari al 36,5 per cento. Accanto al declino della partecipazione, il BES 2024 registra un miglioramento della fiducia nei confronti delle istituzioni politiche, che pur restando lontane dalla sufficienza mostrano segnali di recupero nel medio-lungo periodo. I partiti politici ottengono un voto medio di 3,5 (su una scala 0-10) contro il 2,4 del 2014, il parlamento sale da 3,5 a 4,7 e il sistema giudiziario da 4,2 a 4,9. Aumenta anche la quota di cittadini che assegna un voto almeno sufficiente: nel caso del parlamento si passa dal 21,3 per cento al 40,8 per cento, mentre per i partiti la quota raddoppia dal 10,2 per cento al 22,4 per cento. Si riducono contestualmente gli sfiduciati totali, soprattutto verso i partiti, nei quali i giudizi pari a zero scendono dal 35,7 per cento al 22,1 per cento. Resta invece molto alta e stabile la fiducia verso le istituzioni della sicurezza, con le Forze dell’ordine che mantengono un voto medio di 7,4 e i vigili del fuoco che raggiungono 8,1 e sfiorano il 90 per cento di giudizi positivi.

Le differenze per titolo di studio e fascia d’età confermano che la fiducia non è distribuita in modo uniforme: i laureati esprimono i livelli più alti di fiducia verso quasi tutte le istituzioni, mentre la fascia 25–44 anni è la più diffidente. I meno istruiti, sorprendentemente, mostrano una fiducia leggermente maggiore nei partiti rispetto ai laureati, soprattutto tra i 25 e i 64 anni.

Parità di genere

Il fronte della parità di genere presenta dinamiche ambivalenti. Da un lato, la rappresentanza femminile nei consigli di amministrazione delle società quotate continua a migliorare e arriva al 43,2 per cento nel 2024, superando sia la soglia normativa sia la media europea. È un risultato di rilievo, reso possibile dalle misure introdotte nel decennio passato, ma che non trova corrispondenza nei ruoli esecutivi: soltanto il 2,2 per cento delle società ha una donna come amministratrice delegata e appena il 3,5 per cento ha una presidente. Anche nei ruoli manageriali l’Italia resta indietro rispetto alla media Ue27.

Nel parlamento italiano la quota di donne scende al 33,7 per cento dopo il picco del 35,4 per cento del 2018, mentre nel parlamento europeo si passa dal 46,1 per cento del 2023 al 32,9 per cento del 2024, con una perdita di oltre tredici punti che riporta il paese sotto la media europea e molto lontano dai paesi guida come Svezia e Finlandia.

Nei Consigli regionali la quota femminile raggiunge il 26,4 per cento – dieci punti in più del 2014 ma ancora molto distante dal target del 40 per cento previsto dalla Strategia nazionale – con un forte squilibrio territoriale: 37,8 per cento nel Centro, 31,7 per cento nel Nord-est, 27,7 per cento nel Nord-ovest, 16 per cento nel Sud e 19,2 per cento nelle Isole.

A livello locale le donne rappresentano il 34,9 per cento dei Consigli comunali e il 41,6 per cento delle giunte, ma solo il 15,3 per cento dei sindaci. In conclusione, con riferimento al dominio Politica e istituzioni, il Rapporto BES 2024 suggerisce implicitamente alcune traiettorie di policy.

Ricostruire la partecipazione

La prima riguarda la necessità di contrastare con decisione l’astensionismo, che non può più essere letto come semplice disaffezione contingente, ma come una forma strutturale di allontanamento dalla partecipazione democratica. In particolare, il contrasto all’astensionismo richiede una politica organica e continuativa che affronti non solo gli ostacoli pratici al voto, ma soprattutto la crescente distanza culturale tra cittadini e sistema politico.

Occorre intervenire su più piani: ampliare le modalità e i tempi di voto, includendo forme di voto anticipato o agevolato; investire in educazione civica fin dai primi cicli scolastici, non come materia accessoria ma come asse portante della formazione democratica; modernizzare la comunicazione istituzionale, rendendola trasparente e verificabile; restituire dignità e credibilità alla funzione rappresentativa, affinché il voto torni a essere percepito come un atto efficace e non come un gesto marginale. La ricostruzione della partecipazione non può essere delegata solo alla buona volontà individuale: è una responsabilità collettiva dello stato, della politica e delle comunità locali, che devono agire con continuità per ricomporre il legame fiduciario spezzato.

Altrettanto urgente è il rafforzamento della fiducia nelle istituzioni politiche, attraverso trasparenza, responsabilità e valutabilità delle decisioni pubbliche, senza dimenticare che la credibilità istituzionale si nutre anche di servizi pubblici efficienti e vicini ai cittadini. Nello stesso tempo diventa essenziale consolidare i progressi nella parità di genere, rafforzando gli strumenti che favoriscono l’accesso delle donne ai ruoli decisionali e intervenendo con misure più incisive laddove la presenza femminile resta marginale, in particolare nelle cariche esecutive, contribuendo così a infrangere in modo definitivo quel glass ceiling che ancora oggi limita talenti e leadership fondamentali per il paese.

Infine, la frattura territoriale che attraversa partecipazione, fiducia e rappresentanza impone una visione nazionale che porti al centro del dibattito politico le aree più fragili del paese, perché nessuna strategia di rafforzamento istituzionale può avere successo se intere porzioni del territorio continuano a sentirsi – e a comportarsi – come esterne alla vita civica.

Il dominio Politica e istituzioni del BES 2024 restituisce l’immagine di un’Italia che cambia più rapidamente di quanto il dibattito pubblico percepisca. La fiducia cresce, la rappresentanza femminile avanza, alcune istituzioni consolidano il proprio capitale reputazionale, ma tutto questo resta vulnerabile finché metà del paese sceglie di non partecipare. Non è un fenomeno fisiologico né un semplice sintomo temporaneo, come testimoniano anche le regionali in Campania, Veneto e Puglia. È un segnale profondo e strutturale che richiede interventi immediati. È per questo che diventa urgente costruire, subito e con decisione, le condizioni per una nuova stagione di partecipazione consapevole, perché l’astensionismo non è più sostenibile.


*Pierpaolo D’Urso Ã¨ docente di statistica e data science per le decisioni politiche, preside della facoltà di scienze politiche, sociologia, comunicazione, direttore del Master in data science per la Pa dell’Università di Roma La Sapienza


Mollicone: “Pasolini fu un convinto fascista. Avrebbe fatto addirittura il delatore…”


Mollicone: “Pasolini fu fascista. La sinistra ha svenduto la sua Torre di Chia a un attore, amichetto di Zingaretti”. “PPP fu fascista convinto, non per caso né per convenienza”, dice il presidente della commissione Cultura di Fratelli d’Italia. Che poi aggiunge: “Vi racconto della Torre di Chia, che Franceschini da ministro si rifiutò di acquistare per venderla a un amico” 

(Ginevra Leganza – ilfoglio.it) – Passione PPP. Federico Mollicone lo sa e, a differenza del maestro, ha persino le prove. “Io lo so e ho le prove”, dice l’homme de lettres meloniano al Foglio. “Io lo so. Ho ricostruito tutto”, ribadisce. Cosa sa, onorevole? “So che fu solo per amichettismo che la giunta di Nicola Zingaretti privò l’Italia della Torre di Chia”. L’ultima dimora di Pasolini. “L’allora segretario del Pd e presidente della Regione privò l’Italia di un bene simbolico della poetica pasoliniana”. Quali sono le prove? “Ho un documento dell’allora ministero, presieduto da Franceschini, che con la Regione doveva acquistare l’immobile. Ma non se ne fece niente. E sa perché?”. Perché? “Perché Zingaretti volle favorire un amico del fratello Luca! Un attore che aveva recitato con lui in Montalbano! Un amichetto, insomma. Che l’acquistò per uso personale”.

L’attore in questione è Gabriele Gallinari, leggiamo nel documento. Anche di questo parlerete oggi nell’ambito dell’affollatissimo convegno Pasolini conservatore? “Sì. La sinistra ora si straccia le vesti perché io dico che lui è nel nostro pantheon, o perché rivendico che fu fascista. Ma quando governava, e aveva i soldi per acquistare la Torre che costava solo 775 mila euro, dov’era? L’ha venduta a un amico. Che forse ci abita e ci fa i reading una volta al mese. Ma quello è un luogo essenziale del pasolinismo. E’ il luogo dell’ultimo Pasolini. Il simbolo della produzione cinematografica, dov’è ambientato il Vangelo secondo Matteo. Della poetica visiva, dove si fece fotografare nudo da Dino Pedriali. E poi della letteratura, perché lì Pasolini compose Petrolio, dopo l’incontro con Pound. E’ quello il vero luogo del poeta, eppure Franceschini non lo acquistò. E ora, carte alla mano, so perché. Ho ricostruito tutto”.

Già prima, comunque, la Torre di Chia, vicino a Soriano nel Cimino, apparteneva a un privato. Così risulta dalla risposta a una sua interrogazione parlamentare. “Sì. Ma sarebbe stato giusto trasformarla in casa-museo in suo onore. Purtroppo nel 2021 ha prevalso la logica del salottino cinematografico. Come sempre, del resto. Loro, che ci accusano di appropriazione, ne hanno svenduto le spoglie”. E oggi? “Oggi noi abbiamo rilevato la sua casa da ragazzo a Rebibbia. Ma potrà intuire che non è la stessa cosa”. No. Ma adesso veniamo al convegno. Vi si accusa di appropriazione, diceva. O se non altro d’aver forzato il pensiero del poeta. Di certo c’è che quella per Pasolini, da passione, rischia di diventare una fissazione…e la fissazione – si dice da noi – è persino peggio della malattia… “No. Per noi Pasolini è un riferimento. E lo rivendichiamo coi fatti”. Lei, settimane fa, ci ha detto che era fascista più che conservatore. Eppure “conservatore” è nel titolo del convegno. Ci aiuti. Perché con tutti questi aggettivi PPP sta diventando un rompicapo. “Quel titolo l’ha deciso Francesco Giubilei, non io”. Ah. Comunque la sua affermazione, così ardita, ha ispirato la beffa di Luca e Paolo. E poi una canzoncina di Geppi Cucciari. Li ha visti? “Certo. Ma io rivendico quello che ho detto: Pasolini fu fascista. E’ tutto raccontato nel libro Pasolini giornalista di Giovanni Giovannetti”.

Ma essere ventenni e fascisti – qualcuno obietterà – era fisiologico in quegli anni. “No! No e poi no. Pasolini fu fascista. Attivo e convinto. E non solo perché scriveva su Setaccio e Architrave, ma anche perché ne disegnava i menabò, era caporedattore. E poi faceva parte dei Guf. Pensi che avrebbe addirittura fatto il delatore, per conto di un capo, per svelare chi dell’entourage fosse meno entusiasta del fascio”. Ma onorevole, converrà con noi che la delazione non è una bella cosa. “No, certo. Su questo ha ragione. E’ solo per dire che fu fascista convinto. Attivo e consapevole. Proprio come Giorgio Bocca, Eugenio Scalfari, Dario Fo, Aldo Moro. In ogni caso, l’affaire Torre di Chia prova l’essenza della sinistra. Ci insultano perché ce ne appropriamo, eppure loro, quando avevano i soldi, hanno venduto la dimora medievale agli amichetti. Dopodiché, giusto per chiarire: Pasolini fu fascista, comunista, poi fu espulso dal partito, e infine fu filoradicale. Fu un irregolare”. E dunque un uomo che forse, per citare il suo Pound, avrebbe diritto che le sue idee fossero esaminate una per volta.


25 Novembre, Giornata internazionale contro la violenza sulle donne


(Dott. Paolo Caruso) – Oggi 25 Novembre si celebra la “Giornata internazionale per l’eliminazione della violenza sulle donne”. La data fu istituita dall’ONU nel 1999 per ricordare le tre sorelle dominicane, Patria, Maria Teresa e Minerva Mirabal soprannaminate “mariposas” (farfalle), che opponendosi alla dittatura del generale Rafael Trujilo il 25 novembre del 1960 vennero torturate e uccise dai sicari e i loro corpi gettati in un dirupo per simulare un incidente. La violenza contro le donne rappresenta una delle violazioni dei diritti umani più diffuse, persistenti e devastanti che, ancora oggi, non viene denunciata a causa dell’impunità, del silenzio, della stigmatizzazione e della vergogna che la caratterizzano. Violenza del partner in situazione di intimità, violenze e molestie sessuali con stupro, avance sessuali indesiderate, stalking, molestie informatiche, sono le più frequenti cause di questa orribile piaga che investe le donne. Un dato ingombrante che provoca sofferenza fisica, sessuale e psicologica. In Italia dall’inizio dell’anno ad oggi sono 85 le donne uccise e almeno 68 sono i tentati femminicidi. Una tragedia dei nostri tempi che va a spalmarsi su tutte le regioni con picchi in Lombardia, Campania e Emilia Romagna, a cui seguono Lazio, Toscana e Sicilia. Atti che tristemente tornano a ripetersi in tutta la loro gravità e che rappresentano la punta dell’ iceberg di un disagio giovanile nel rapporto tra sessi diversi. Questi non possono che scuotere le coscienze e farci chiedere il perché, in cosa si è sbagliato nella formazione educativa dei giovani. E la scuola fino a che punto è stata attenta e vigile nell’ abbattere barriere ancestrali di possesso e di maschilismo arido e brutale? Certo dopo le dichiarazioni della Ministra alla famiglia che boccia di fatto l’ insegnamento dell’educazione sessuale nelle scuole relegandolo a pura formalità o le castronerie scientifiche elaborate dal Ministro Nordio che ricollegano la violenza di genere a malattia genetica, dubito che il mondo scolastico possa davvero essere un faro per i giovani. I femminicidi di questi ultimi giorni che hanno sporcato di sangue il Paese ripropongono il problema in tutta la sua crudezza e rappresentano il frutto perverso di una società malata. Una società chiusa a riccio nella propria solitudine che si proietta all’esterno in tante monadi. Vite spezzate colpite da mani assassine che in preda ai fumi della gelosia e del possesso non si sono fermate davanti a quello che ritenevano loro. Come nelle tragedie greche antiche si rimane attoniti. Gelosia e possessività echeggiano come miti primordiali con la gelosia figlia della possessività. I figli di Giasone uccisi dalla madre Medea. Il male mai domato, e noi convinti, riteniamo di sapere da quale parte esso stia, per inconsciamente sanare ferite, condannando chi del male si è fatto esecutore. Ma la tragedia greca si chiude in catarsi corale. La nostra generazione ne è in grado? O tenta a rimuovere e obliare il dolore. “Abbiamo perduto tutti”, così rieccheggiano le parole straordinarie del signor Cecchettìn padre di Giulia anch’essa vittima di femminicidio. Monito sottile e accorato a chiedersi: “Dove va l’umanità”? È ancora in tempo per arrestarsi prima del baratro? Di altra visione, “altra” sottolineerei, hanno necessità le nuove generazioni per sopravvivere. Come diceva Benedetto Croce, ” La violenza non è forza ma debolezza, nè mai può essere creatrice di cosa alcuna, ma soltanto distruggerla “.