
(Estratto dell’articolo di Giacomo Salvini – il Fatto Quotidiano) – “Facce nuove e idee nuove”. Lo sfogo di Pier Silvio Berlusconi durante gli auguri di Natale ai dipendenti Mediaset cela non solo la volontà di cercare una nuova figura in grado di scalare il partito (in pole c’è il presidente della Regione Calabria, Roberto Occhiuto) e i capigruppo di Camera e Senato, ma anche l’irritazione da parte di Arcore per una norma della legge di Bilancio che non è passata come la famiglia Berlusconi aveva richiesto.
Se nelle trattative finali Forza Italia ha portato a casa l’eliminazione dell’aumento di due punti dell’Irap per le holding non finanziarie che avrebbe colpito Fininvest, lo stesso non si può dire per le detrazioni per i libri scolastici.
Mondadori, guidata da Marina Berlusconi, detiene una fetta del 32% del mercato totale e così la famiglia aveva chiesto una misura specifica come volano per l’industria dei libri didattici: un fondo da 100 milioni di euro per la detraibilità del 19% sui testi scolastici indistintamente per tutti.
Invece alla fine così non è andata perché il governo, che aveva poche risorse a disposizione, ha riformulato l’emendamento di Forza Italia e Noi Moderati abbassando di molto le pretese dei Berlusconi: la detrazione sarà solo per le famiglie con un Isee massimo di 30 mila euro e il fondo finale sarà di soli 20 milioni.
Risultato molto inferiore rispetto alle richieste dei Berlusconi che non hanno apprezzato la mancanza di “attenzione” e di volontà politica da parte degli azzurri a Palazzo Madama.
L’ultimo segnale di una manovra che non è piaciuta alla famiglia sia per le tasse sulle banche sia per i pochi fondi messi a disposizione del sistema produttivo, è l’accusa di Arcore.
[…] Dopo lo sfogo di Pier Silvio, il segretario Tajani aveva deciso di concedere un ramoscello di ulivo alla famiglia nominando il vicepresidente della Camera Giorgio Mulè come responsabile della campagna per il “Sì” di Forza Italia sul referendum sulla separazione delle carriere, ma durante l’ultimo faccia a faccia della scorsa settimana, Marina Berlusconi ha ribadito a Tajani che è il momento di cambiare.

(di Nicoletta Picchio – il Sole 24 Ore) – Un «quadro complicato»: il dollaro debole sull’euro, dovuto anche ai tagli dei tassi Fed, continua a frenare l’export italiano nel quarto trimestre, insieme ai dazi Usa. Scricchiola la fiducia delle famiglie e quindi le attese sui consumi. L’industria fa ancora fatica, con la produzione industriale che calata ad ottobre, -1,0%, portando la variazione acquisita nel quarto trimestre a -0,1 per cento.
L’analisi emerge dalla Congiuntura Flash del Centro studi Confindustria, che spiega poi come a favore giochino gli investimenti, grazie in larga parte al Pnrr, i servizi, tirati dal turismo straniero, settore a cui il documento dedica un focus, il calo del prezzo del petrolio. Nonostante petrolio e gas siano in discesa, il costo dell’elettricità per le imprese resta alto: i prezzi sono doppi rispetto al valore pre-2022, con 0,28 euro/KWh, contro 0,18 in Francia e 0,17 in Spagna.
Con i tassi fermi da parte della Bce al 2%, il costo del credito alle imprese non scende più (3,52 a ottobre, quasi come a luglio). La Fed ha tagliato i tassi per tre volte di fila, annunciandone altri. Ciò contribuisce a un dollaro svalutato sull’euro: 1,17 a dicembre, quasi al picco.
L’export è in calo: le prospettive restano negative, con un nuovo calo degli ordini manifatturieri esteri a dicembre. A ottobre sono stati deboli gli scambi italiani: quasi fermo l’import, +0,3% a prezzi correnti, -3,0% l’export, dopo il +2,9% a settembre. Le vendite sono in crescita in alcuni settori, soprattutto la farmaceutica. Sugli investimenti i segnali sono ancora buoni, con gli indicatori favorevoli per gli investimenti in impianti e macchinari a fine 2025. […]
Per i consumi, la variazione acquisita per il quarto trimestre è nulla. Il numero di occupati è tornato in espansione a settembre e ottobre, ma la fiducia delle famiglie ha avuto una brusca interruzione a novembre, con un parziale recupero a dicembre. Ad ottobre, secondo l’indice RTT, è proseguita l’espansione dei servizi, dopo il pieno recupero di settembre. Per il quarto trimestre si prevede un buon ritmo di crescita. Anche nell’Eurozona i servizi vanno meglio dell’industria. […]
Il Centro studi ha dedicato un focus al turismo: è un settore ancora in crescita, grazie agli stranieri: la spesa dei turisti esteri è stimata per il 2025 a circa 57 miliardi, con un +5,6% rispetto al 2024 (a settembre la spesa ha segnato +7,5% annuo). Il flusso in uscita, cioè gli italiani all’estero, cresce a ritmi minori, +4,5% nel 2025. Il saldo turistico dell’Italia è largamente in attivo e in crescita negli ultimi anni (+23 miliardi stimati nel 2025, da +21 nel 2024), dando un contributo importante nei nostri conti con l’estero. «Il turismo si conferma un pilastro dell’industria italiana. […]
Approfondendo l’analisi gli arrivi turistici nel 2024 avevano toccato un picco di 140 milioni (+4,5% sul 2023). Nel 2025 è stimato un lieve calo, a 138 milioni, -1,4 per cento, con i dati disponibili fino a settembre. Sono in aumento le presenze: +10 milioni, al picco storico, 476 milioni di notti, grazie all’aumento della permanenza media. L’espansione della spesa turistica, a prezzi correnti, mentre gli arrivi ristagnano, è spiegata in maniera significativa dall’aumento dei listini.
NATALE: SONDAGGIO IZI , FESTE PIÙ OCULATE. IN CALO SPESE PER PRANZI E CENE, PIÙ REGALI “UTILI”. 1 ITALIANO SU 4 IN VIAGGIO , SOLO IL 3% ALL’ESTERO

(izi.it) – Un Natale e Capodanno più oculato, con un occhio in più al portafogli e soprattutto agli sprechi alimentari , con qualche spesa utile in più. Gli italiani spenderanno in media per i regali di Natale 271 euro, in leggera crescita rispetto allo scorso anno (264 euro) mentre le spese per il cenone e i pranzi delle feste sono in calo: 145 euro in media contro i 180 del 2024.
Soltanto 1 italiano su 4 viaggerà sotto le feste e di questi, meno del 3% andrà all’estero . È quanto emerge da un sondaggio sulle Spese per le Feste realizzato da Izi, azienda di analisi e valutazioni economiche e politiche, presentato questa mattina nel corso della trasmissione l’Aria che Tira condotta da David Parenzo su La 7.
Alla domanda sulle spese effettive rispetto allo scorso anno il 10% degli italiani risponde che comprerà più regali di Natale, mentre per pranzi e cene solo il 7% degli intervistati rivela che spenderà una cifra maggiore.
Le spese sono tutto sommato per la maggioranza degli intervistati in linea con lo scorso anno tranne che per un calo considerevole dei costi per pranzi e cene. Il 20,5 % degli italiani sarà in viaggio durante le feste, e quasi l’80% resterà a casa, chi si muove per andare all’estero è soltanto il 3%. Sostanziale pareggio tra alberghi e Bed & Breakfast nelle scelte degli alloggi: i primi scelti dal 27% i secondi opzionati dal 24,5% , mentre 1 italiano su 4 si muove per andare a trovare i parenti (22%).

(Andrea Zhok) – Ieri la conferenza su “Russofilia Russofobia Verità”, già boicottata due volte, si è tenuta a Napoli, protagonisti Angelo D’Orsi e Alessandro DI Battista. Al termine della conferenza una folta claque presente tra il pubblico si è alzata con addosso magliette dell’Ucraina, urlando a squarciagola domande retoriche tipo “Chi vi paga?”, cioè domande che non sono tali, ma sono in effetti ingiurie. Alla resistenza di alcuni astanti a questa azione di disturbo, alcuni hanno cominciato a lamentarsi della scarsa democraticità per non aver risposto alle domande (tipo che se ti chiedono “A che ora tua madre smette il turno sulla tangenziale?” devi rispondere educatamente dandogli un orario – e non invece con una sacrosanta testata sul setto nasale.)
Ora, qui gli organizzatori politici del sabotaggio sono i soliti noti: Radicali, + Europa et similia, ma qui c’è stato anche il sostegno di elementi della comunità ucraina locale. Napoli, come molte altre città italiane ed europee, ospita una folta comunità di profughi ucraini e questo fatto credo sia stato finora sottovalutato nella sua portata.
L’Ucraina ha esportato in questi anni – grazie alle leggi europee che lo consentivano – milioni di propri cittadini in una moltitudine di città europee. Come è emerso da dati sul traffico social, tra gli ucraini, la maggior parte dei più acerrimi sostenitori della prosecuzione ad oltranza della guerra sono proprio ucraini fuggiti all’estero.
Il sostegno degli ucraini alla guerra alberga soprattutto tra gli imboscati all’estero, mentre in patria l’auspicio di una rapida conclusione, anche con sacrifici territoriali, appare maggioritario.
Alla luce della chiusura del conflitto, che potrebbe non essere distante (io scommetterei su una tempistica di 6 mesi), un problema con cui temo avremo a che fare in futuro sarà precisamente la presenza di folti gruppi di nazionalisti ucraini nel cuore di tutte le città europee.
Sono certo che molti cittadini ucraini vorranno soltanto vivere pacificamente, ma la rilevanza di una diaspora di ipernazionalisti – peraltro connessi con l’area con la massima circolazione di armi di contrabbando al mondo – rappresenterà un serio problema. Tutte le comunità all’estero, soprattutto se arrivate insieme in tempi brevi, tendono a costituirsi in associazioni di muto supporto, e la storia ricorda come tali associazioni abbiano un’elevata tendenza ad essere contigue ad organizzazioni a delinquere (questa è la storia della mafia italiana o irlandese negli USA).
Questa guerra, come tutte le guerre, lascerà strascichi di odio e risentimento. Ma avere folti gruppi di nazionalisti (o, diciamolo, senz’altro di simpatizzanti neonazisti), con accesso facilitato ad armi di contrabbando, nel cuore delle maggiori città d’Europa rappresenta un potenziale di rischio enorme.
Tale rischio può prendere sia la forma tradizionale dell’ordinario crimine organizzato, sia quello della fornitura di manodopera spendibile per operazioni alimentate da poteri occulti e servizi segreti. E questa seconda opzione – tutt’altro che inedita – è di gran lunga più pericolosa e probabile della prima.
SALVINI, DL UCRAINA? MI INTERESSA SIA DIVERSO DAGLI ANNI PASSATI

(ANSA) – ROMA, 23 DIC – “Una cosa per volta, a me interessa che sia diverso dagli anni passati e che si parli di difesa e non solo di offesa, e si parli di civili e non solo di militari”. Lo ha detto il vicepremier e ministro dei Trasporti Matteo Salvini interpellato sul decreto Ucraina a margine dei lavori sulla manovra in Senato.
DECRETO ARMI VERSO L’OK RESTANO GLI AIUTI MILITARI
(di Gabriella Cerami – la Repubblica) – La Lega riesce a piantare alcuni suoi paletti ma l’Italia nel 2026 continuerà, come fatto finora, a inviare armi in Ucraina.
Il decreto è da limare, motivo per cui, complici anche le assenze ieri dei ministri Guido Crosetto e Antonio Tajani, il testo sarà approvato durante il prossimo Consiglio dei ministri, quello del 29 dicembre. In extremis.
Il partito di Matteo Salvini, finito in minoranza, ha dovuto rivedere le sue pretese e la sua linea intransigente collocata sul “no” all’invio di nuovi aiuti. Vanta però di aver ottenuto «discontinuità» rispetto al passato.
«Cambierà la premessa del nuovo decreto, sarà specificato che adesso sono in corso negoziati di pace», spiega il senatore Claudio Borghi, che fa anche parte del Copasir, il Comitato parlamentare per la sicurezza della Repubblica che conosce nei dettagli quali armi l’Italia manda in Ucraina e i costi. Dati coperti da segreto di Stato.
Inoltre sarà potenziata la parte che riguarda l’invio di mezzi logistici ad uso civile, sanitario e in difesa di donne e bambini. Altra richiesta di Salvini.
La Lega sostiene che, secondo l’accordo raggiunto, non ci saranno armi a lungo raggio, ma non è comunque il decreto lo strumento preposto a stabilirlo. Che la strada sarebbe stata questa lo si era capito anche dalle parole di Giorgia Meloni, in visita ieri al Comando operativo di vertice interforze, che sono da leggere alla luce dello scontro che si è consumato all’interno della maggioranza.
La premier è tornata sul concetto di deterrenza come strumento indispensabile per la pace: «Non ho mai accettato l’idea di chi contrappone il pacifismo alle forze armate», insiste, citando ancora, come già ha fatto più volte il si vis pacem para bellum, “chi vuole la pace prepari la guerra” di Publio Vegezio Renato: «Il suo non è, come molti pensano, un messaggio bellicista, tutt’altro, è un messaggio pragmatico».
Incontrando i militari italiani in Libano il ministro della Difesa ha rassicurato sui tempi. In un primo momento si riteneva che il decreto potesse essere approvato ieri, ma i tempi non sono ancora maturi, anche se «fare il decreto per il 2026 l’1 dicembre o il 29 non cambia nulla, perché un decreto legge entra immediatamente in vigore e ci basta che lo sia l’1 gennaio», chiarisce Crosetto.
VIA LIBERA DEL SENATO ALLA MANOVRA, PASSA ALLA CAMERA

(ANSA) – ROMA, 23 DIC – Via libera del Senato alla manovra, che ora passa all’esame della Camera. I sì sono stati 110, 66 i no e 2 astenuti. Approvata anche la Nota di variazione sulla legge di Bilancio.
Il voto sulla Nota di variazione alla legge di Bilancio, che ha preceduto di poco la votazione finale sulla manovra, ha incassato 110 voti favorevoli, 62 voti contrari e un solo astenuto.
GIORGETTI, MANOVRA VALE COMPLESSIVAMENTE CIRCA 22 MILIARDI
(ANSA) – ROMA, 23 DIC – La manovra vale complessivamente “circa 22 miliardi”. Lo ha detto il ministro dell’Economia Giancarlo Giorgetti parlando con i giornalisti in Senato. L’ammontare complessivo, inizialmente pari a 18,7 miliardi, “è salito – ha spiegato il ministro – perché con l’ultimo maxi-emendamento abbiamo integrato gli stanziamenti per Transizione 5.0, la Zes e sull’adeguamento prezzi”.
MANOVRA: GIORGETTI, FATTO COSE CHE SEMBRAVANO IMPOSSIBILI
(ANSA) – ROMA, 23 DIC – “Quello che vorrei sottolineare è che siamo intervenuti su questioni che sembravano quasi impossibili. La tassazione solo al 5% degli aumenti contrattuali era qualcosa che veniva chiesto da sempre dai sindacati e l’abbiamo fatto per i lavoratori dipendenti con redditi più bassi.
La tassazione all’1% dei salari di produttività credo anche che sia sintomatica della direzione verso cui si deve andare. Quindi davvero un bilancio positivo che dimostra ancora una volta come tutto il governo sostiene questa linea che abbiamo impostato 3 anni fa”. Lo ha detto il ministro dell’Economia Giancarlo Giorgetti parlando con i giornalisti in Senato.
GIORGETTI SCHERZA SU SALVINI, GLI PORTERÒ UN PO’ DI CARBONE
(ANSA) – ROMA, 23 DIC – Breve siparietto tra il ministro dell’Economia Giancarlo Giorgetti e il leader della Lega Matteo Salvini in Senato al termine del consiglio dei ministri che ha approvato la nota di variazione sulla manovra. I due percorrono insieme il corridoio per raggiungere i giornalisti e Salvini lo introduce come se fosse un presentatore: “Il ministro dell’economia Giancarlo Giorgetti”.
Il titolare del Mef, che resta poi da solo a parlare con i cronisti, a chi gli chiede dei rapporti con Salvini risponde ironico: “Sì con Salvini, magari gli porto un po’ di carbone sotto l’albero però siamo nella transizione green e quindi non si usa più”.

(Giuseppe Gagliano – lafionda.org) – C’è un’Europa che predica bene quando deve punire i deboli e razzola malissimo quando deve obbedire ai forti. È la stessa Europa che ieri spiegava ai greci, agli italiani, agli spagnoli e ai portoghesi che “non ci sono pasti gratis”, che il debito è peccato mortale e che la spesa pubblica è un vizio da estirpare con lacrime, sangue e tagli lineari. Poi, d’improvviso, scopre il debito comune. Ma guarda un po’. Non per salvare pensioni, sanità o scuola. No. Per la guerra.
Novanta miliardi all’Ucraina, chiamati prestito per educazione semantica, ma concepiti come denaro a fondo perduto. Un’operazione presentata come prudente solo perché, per ora, si rinuncia a mettere le mani sugli asset russi congelati, cioè a compiere apertamente un’espropriazione che farebbe impallidire qualsiasi manuale di diritto internazionale. Il punto però non è la prudenza: è l’ipocrisia.
Perché questa stessa Unione, a trazione tedesca, ha costruito la propria identità politica sull’austerità come virtù morale. I Paesi del Sud erano spreconi, pigri, inaffidabili. I famosi PIIGS, l’insulto trasformato in categoria economica ufficiale. A loro niente eurobond, niente solidarietà, niente flessibilità. Dovevano espiare. Oggi, invece, gli eurobond diventano improvvisamente accettabili, persino urgenti, purché servano a finanziare una guerra senza sbocco politico, con livelli di corruzione mai realmente affrontati e rischi sistemici che nessuno osa più nominare.
Nel frattempo ai cittadini europei si dice che bisogna stringere la cinghia. Pensioni troppo costose, sanità insostenibile, welfare da ridimensionare. Però il debito, quando serve a comprare armi o a sostenere Kiev, non è più un problema: diventa un dovere morale. Un miracolo contabile che trasforma l’austerità in carta straccia e la coerenza in un optional.
Il risultato è sotto gli occhi di tutti: un’Unione europea più divisa, politicamente esausta, prigioniera delle proprie contraddizioni. Un’Europa che ha rinunciato a qualsiasi ruolo diplomatico e si limita a fare il bancomat e il megafono. La pace non è nemmeno più un obiettivo: è un fastidio, una parola sconveniente, quasi sospetta.
Il vero vincitore, manco a dirlo, è Washington. Che osserva compiaciuta un continente che si indebolisce da solo, socializza i costi, privatizza le conseguenze e si convince pure di stare difendendo la democrazia mentre smonta la propria. A rappresentarlo, una classe dirigente che scambia la fedeltà atlantica per statura politica e l’obbedienza per coraggio.
Così l’Europa continua a consumare i pochi beni residui che le restano: credibilità, consenso sociale, capacità di visione. E lo fa nel nome di una guerra che non sa come finire, ma che sa benissimo come pagare. Con il conto, come sempre, presentato agli stessi.

(Michele Agagliate – lafionda.org) – Non serviva andare lontano per accorgersene. Bastava uscire la sera, camminare, guardarsi intorno. Ma a volte serve cambiare aria per capire quanto l’aria che respiriamo sia diventata irrespirabile.
Sofia, per esempio. Una capitale europea che non dovrebbe insegnare nulla a nessuno. E invece insegna. Insegna senza parlare; insegna col silenzio, con la normalità; con il fatto che puoi camminare senza stringere le chiavi in tasca, senza guardarti alle spalle ogni trenta metri, senza chiederti se stai per finire nel posto sbagliato al momento sbagliato. Tutto qui. Niente di eroico. Solo questo.
E allora torni a casa e ti chiedi: com’è possibile?
Com’è possibile che l’Europa occidentale, quella ricca, sviluppata, civile, si sia trasformata nel luogo dove la paura è diventata una compagna abituale? Com’è possibile che proprio dove c’è più PIL, più istituzioni, più retorica dei diritti, ci sia anche più degrado, più insicurezza, più nervosismo sociale? Com’è possibile che le capitali storiche dell’Unione europea somiglino sempre più a spazi logorati, sporchi, aggressivi, mentre altrove — senza miracoli, senza modelli — si respira semplicemente una vita più normale?
Ci dicono che è solo una percezione. Che i dati vanno letti bene. Che non bisogna generalizzare. Che attenzione, perché la paura è una brutta bestia. Vero. Ma anche la rimozione lo è. Perché la politica vive di percezioni. E chi le ignora poi perde le elezioni, si rifugia nei comunicati stampa e dà la colpa agli elettori. Sempre colpa degli elettori.
Le città occidentali sono diventate così: luoghi dove il degrado amministrativo e quello sociale si confondono. Roma è sporca, lo sappiamo. Roma è trascurata, lo vediamo. Ma la sporcizia, da sola, non genera paura. La paura nasce quando al degrado si sommano l’assenza dello Stato, la sensazione di impunità, l’idea che certe zone non appartengano più a nessuno. O peggio: che appartengano ad altri.
Marsiglia, Birmingham, Liegi, Montpellier, Milano. Nomi che non stanno ai margini dell’Europa, ma nel suo cuore. Città che raccontano la stessa storia: microcriminalità diffusa, gang giovanili spesso composte da ragazzi ai margini di origine straniera, violenza di strada, tensione costante. Un’emergenza che non è più un’eccezione, ma una condizione strutturale, cronicizzata, quasi normalizzata.
Poi ci sono i dati, quelli ufficiali, quelli che nessuno può liquidare come ossessione securitaria o come semplice percezione distorta. In Italia, quasi metà dei reati si concentra nelle grandi città. Milano, Firenze, Roma in cima alle classifiche. Denunce che crescono. Rapine. Furti. Violenze. E sempre più spesso minori. Minori che non fanno più discutere, perché sono diventati parte del paesaggio. Un arrestato su quattro per rapina in strada ha meno di diciott’anni. Non è una deviazione: è un sistema che si è abituato a consumare anche l’adolescenza.
In Europa settentrionale va uguale. Svezia compresa. Il Paese modello. Quello che fino a ieri veniva citato come esempio di integrazione, welfare, civiltà. Oggi intercetta le conversazioni dei minori perché non sa più come arginare incendi dolosi, esplosioni, regolamenti di conti, omicidi. Succede quando per anni ti racconti che tutto si aggiusta da solo. Non si aggiusta.
E allora emerge la questione che nessuno vuole nominare per paura di sembrare impresentabile: la sicurezza è un diritto sociale. Non è un’ossessione reazionaria. Non è una fissazione borghese. È un diritto di classe. Perché chi può permettersi quartieri protetti, taxi, scuole private, vigilanza, non vive la paura come la vive chi prende l’ultimo autobus la sera, chi lavora fino a tardi, chi abita dove lo Stato arriva solo per fare conferenze stampa.
Qui entra in scena l’immigrazione. Tema tossico. Tema da maneggiare con i guanti, dicono. Ma il problema non è parlarne: è come se n’è parlato per anni. Accoglienza senza integrazione. Numeri senza politiche. Persone ammassate, lasciate lì, usate come manodopera a basso costo e poi dimenticate. Nessun progetto, nessuna distribuzione, nessuna responsabilità. Lo Stato accoglie, sfrutta, scompare. E quando esplode il conflitto sociale, se ne fotte.
La nuova destra su questo ci sguazza. Parla di sicurezza, starnazza, indica il nemico. Ma poi governa per il mercato. Difende gli stessi interessi economici che hanno prodotto il caos. Non può risolvere nulla perché non vuole risolvere nulla. Le serve la paura; le serve il disagio. È il suo carburante.
La sinistra progressista, invece, ha fatto peggio. Ha smesso di parlare di diritti sociali e ha iniziato a parlare solo di diritti individuali. Ha trasformato l’emancipazione in una questione privata. Ha lasciato i quartieri popolari soli, spiegando loro che la sicurezza è una parola di destra. Ha delegato tutto: al mercato, alla burocrazia, al tempo. E intanto farfuglia. Farfuglia quando si parla di salari, di case, di servizi. Farfuglia soprattutto quando si parla di ordine, di limiti, di responsabilità.
E poi c’è il grande spauracchio: il populismo.
Populista? Sei un populista? Come se fosse un insulto. Come se ascoltare il popolo fosse una colpa. Ma chi dovrebbe ascoltarlo, se non la politica? I tecnici? I mercati? I commissari? Certo che serve populismo. Populismo vero. Non quello urlato, televisivo, da becera campagna elettorale. Ma quello che parte dai bisogni materiali, dalla vita concreta, dal conflitto sociale.
Fa paura perché rimette in discussione i rapporti di forza. Fa paura perché parla di salari, di welfare, di sovranità democratica. Fa paura perché non accetta che tutto sia deciso altrove.
Non è un caso che esperienze come il Bündnis Sahra Wagenknecht in Germania, La France Insoumise in Francia, o alcune parti del Movimento 5 Stelle in Italia vengano isolate e ridicolizzate. Meglio un populismo finto che un popolo vero.
Arriviamo alla sovranità. Altra parola sporca. Sovranismo, dicono, come se fosse automaticamente nazionalismo etnico, chiusura, barbarie. Ma la sovranità, in fondo, è una cosa semplice: decidere. Decidere sul lavoro, sui confini, sulla sicurezza, sull’economia. Quando rinunci a decidere, non diventi più civile ma più debole.
L’Unione europea, incapace di garantire sicurezza sociale, prova a ricostruirsi una legittimità altrove. Spostando lo sguardo fuori. Costruendo il nemico. La Russia oggi, domani chissà. La guerra come collante. Il riarmo come grande progetto industriale. La paura esterna come antidoto al fallimento interno.
Nelle città la vita è sempre più dura, più incerta, più violenta; ci chiedono sacrifici per una guerra che non risolve nulla. Mentre i quartieri si svuotano di servizi, si riempiono di retorica woke. Mentre la politica arretra, avanza la tecnocrazia. E quando la tecnocrazia non basta più, resta solo il conflitto armato come orizzonte.
Alla fine rimane questo: un deserto politico. La destra che non può cambiare il modello e la sinistra che non vuole più rappresentare il popolo. Hanno ridotto la democrazia a procedura.
Non siamo in una crisi passeggera: siamo già nella fase successiva. Quella che arriva dopo la rappresentanza, dopo il conflitto sociale, dopo la politica intesa come mediazione e scelta collettiva.

(repubblica.it) – La polizia britannica ha arrestato l’attivista svedese Greta Thunberg a Londra durante una manifestazione a favore della Palestina, secondo quanto riferito dal gruppo di attivisti britannico Defend Our Juries.
La polizia non ha risposto immediatamente alla richiesta di conferma da parte di Reuters. Il gruppo ha affermato che è stata arrestata in base al Terrorism Act durante la manifestazione a sostegno dell’organizzazione Palestine Action.L’associazione è stata bandita alcuni mesi fa dal governo britannico.

(Mario Giordano – la Verità) – A volte senti parlare il ministro Giuli e ti chiedi che diavolo voglia dire.
A volte, invece, purtroppo lo capisci benissimo. Ieri per esempio ha pensato bene di rispondere a un educatamente critico articolo di Marcello Veneziani sulla destra al governo prendendosela con la «pelle esausta» del medesimo Veneziani, con la sua «bile nera», il suo «animo ricolmo di cieco rimpianto», proponendo per l’intellettuale di destra, colpevole di aver disertato dalla leva dei leccaculisti, addirittura una terapia obbligatoria a base di «vaccino anti-nemichettista» che egli stesso, il ministro, si propone di «inoculare volentieri».
Credere, obbedire e purgare, si capisce: la destra meloniana avanza spedita verso la deriva dei folli, anzi dei folletti. Giuli e giulivi.
Il dio Pan, evidentemente, acceca la mente di chi vuol perdere. L’articolo pubblicato domenica sulla Verità da Veneziani era una riflessione pacata e onesta: «Da quando è al governo la destra», ha scritto, «non è cambiato nulla nella nostra vita di italiani, di cittadini, di contribuenti e anche in qualità di intellettuali, di patrioti e di uomini di destra.
Tutto è rimasto come prima, nel bene, nel male, nella mediocrità generale e particolare». Seguiva un esame della realtà, forse spietato, ma certo lucidissimo, in cui accanto agli inevitabili riconoscimenti al lavoro svolto dalla premier Giorgia Meloni («ha governato con abilità, astuzia, prudenza e con una verve passionale che suscitano simpatia. Si è affermata a livello interno e internazionale»), Veneziani avanzava dubbi sul resto: «Solo vaghi annunci, tanta fuffa, piccole affermazioni simboliche», mentre «nulla di significativo e sostanziale è cambiato nella vita di ogni giorno». Persino in Rai «ancora Vespa, Benigni e Sanremo». Niente di nuovo, insomma. «Da nessuna parte».
alessandro giuli prima della scala 2025
Di fronte a un’analisi di questo tipo si può essere d’accordo o no, chiaro. Ma se si è ministri della Repubblica, saliti al potere per altro in nome della lotta al conformismo e al pensiero unico, se si è ministri di un governo che ogni giorno si dichiara a favore del libero confronto e del rispetto dell’opinione altrui, una sola cosa si deve fare: ringraziare per il contributo critico e impegnarsi a fare meglio. Invece, no.
Giuli no. Lui, ministro, decide di attaccare un opinionista di un giornale colpevole soltanto di non avergli leccato gli stivali con cui marciava al passo dell’oca. E non solo lo attacca (cosa già di per sé sbagliata), ma lo attacca pure nel modo più volgare possibile, parlando di «pelle esausta» e di «bile nera», e accusandolo di un «cieco rimpianto» perché – sostiene Giuli – Marcello Veneziani avrebbe a suo tempo rifiutato l’incarico di ministro della Cultura. Cosa che, se fosse vera, potrebbe suscitare rimpianto solo nel Paese, visto chi ricopre adesso quella poltrona. E come si è ridotto.
Non basta evidentemente tatuarsi un’aquila sul petto per dimostrare di saper volare alto. E non basta parlare di «apocalittismo difensivo» e «infosfera globale» per sembrare intelligenti. Tanto meno per esserlo. Adesso Giuli va tutto fiero del nuovo ritornello governativo, la nuova parola d’ordine dei gerarchi ottusi, e se la prende con il «nemichettismo»: per Veneziani ci vuole addirittura un premio «honoris causa» – dice il ministro – ma in fondo del «nemichettismo» è vittima tutta la «presunta destra», colpevole di non inchinarsi a baciare la pantofola e di pretendere ancora (ma come si permettono?) di pensare con la propria testa, anziché «incoraggiare» senza se e senza ma lo straordinario lavoro del medesimo ministro Giuli e di tutti i suoi eccellentissimi colleghi. A chi i leccaculo? A noi. Anche questo, in fondo, è un segnale del decadimento della destra al potere: in attesa dell’oro alla patria, si accontentano della saliva.
Una volta avrebbero detto: tanto nemichettismo, tanto onore. Adesso invece si spaventano anche delle più pacate critiche, dimostrando così che il vero nemichettismo è quello che regna tra loro e la realtà. Ci devono aver bisticciato quando sono entrati nei palazzi, perché da allora hanno perso il senso della misura.
L’adoratore del dio Pan e della dea Dia, già suonatore di flauti pagani, seguace dei fauni e sospettoso nei confronti del cristianesimo (prima di diventare direttore del cristianissimo Tempi, si capisce), gran cultore dei lupi, dandy di destra amato dai salotti di sinistra, capace di definire «mammolette» i militanti del Fronte della Gioventù e allo stesso tempo di conquistare Lilli Gruber, lui, Alessandro Giuli, forse dimentica di essere diventato ministro solo in virtù di una Boccia, nel senso di Maria Rosaria, che ha tolto di mezzo Gennaro Sangiuliano.
E di esserlo diventato dopo aver seminato disastri al museo Maxxi (meno 30 per cento nei biglietti venduti, meno 44 per cento nelle sponsorizzazioni, un convegno con Morgan e Sgarbi finito in caciara e inevitabili scuse…). Se il potere non gli avesse dato alla testa più del dio Pan, verso un intellettuale vero come Veneziani, Giuli mostrerebbe solo rispetto. Lo ringrazierebbe e lo inviterebbe a prendere un caffè per cercare di capire come migliorare. Altro che «pelle esausta».
Anche perché da migliorare al ministero della Cultura c’è molto.
Da quando è arrivato lui, il nemichettista di sé stesso, s’è distinto per:
a) una laurea in filosofia presa in tutta fretta per cercare di mascherare le lacune del curriculum più ricco di druidi e tori in calore che di tutto il resto;
b) una clamorosa gaffe in Parlamento con la trasformazione di Spoleto in provincia (a proposito di cultura);
c) l’approvazione alla censura del baritono russo Ildar Abdrazakov che doveva esibirsi a Verona e che è stato silenziato tra gli applausi dei veri democratici come Pina Picierno e Alessandro Giuli, per l’appunto;
d) l’invito tafazziano al ministero dell’Economia ad aumentare i tagli alla cultura, salvo poi cercare di mascherare il tutto facendo passare come nuovi finanziamenti soldi già stanziati, roba che al confronto il gioco delle tre carte è un’operazione di rara limpidezza. In tutto il resto, per dirla con Veneziani, al ministero della Cultura «non è cambiato nulla».

(Gioacchino Musumeci) – Il Ministro della cultura Giuli se la prende con Marcello Veneziani, noto intellettuale di destra, reo di aver criticato le politiche sciagurate del governo.
Il patetico Giuli, di cui effettivamente sono tuttora sconosciute capacità tali da giustificarne la presenza in un ministero, tenta disperatamente di rovesciare il tavolo e accusa Veneziani, critico nei confronti del governo, di essere stato arruolato dai nemici e quindi riversare bile sugli ex amici: “ Dopo aver confidato a suo tempo che aveva rifiutato l’onore di diventare il ministro della Cultura del governo Meloni- afferma Giuli- oggi sversa su di noi la bile nera di cui trabocca evidentemente il suo animo ricolmo di cieco rimpianto.”
Lo stralcio di commento raccapricciante che ho voluto riportare è scolastico; oltre fallacie argomentative evidentissime, racchiude in sé mediocrità e ignoranza crasse tipiche dei vertici del nostro misero governo.
Intanto la prima fallacia di Giuli è da meschino: refrattario alle critiche così com’è storicamente refrattaria la cultura mefitica da cui emerge la Dx meloniana, al Giuli isterico non resta che millantare ipotesi offensive, cioè che un uomo storicamente di Dx possa essere stato “arruolato dai nemici”. Il ministro cade vittima del tipico “con noi o contro di noi” di Mussoliniana memoria. Incastrato in bieche elucubrazioni littorie, al pilone Giuli non passa per la testa che Veneziani, persona degnissima indipendentemente da idee che il più delle volte non condivido, per non rovinarsi la buona reputazione che il ministro stenta ad avere oltre il perimetro deludente del trapezio in cui esibisce le proprie acrobazie verbali, abbia caldamente evitato incarichi in un governo di irricevibili.
Veneziani è un uomo autorevole, in quanto tale non ha mai necessitato esibirsi o esprimersi in modo ridicolo e noioso per confermare il proprio spessore. Essendo colto e intelligente Veneziani fa bene a sottolineare i falli di un governo che nonostante decine di miliardi ( contro cui la Giorgia Meloni dell’opposizione sbraitava per poi servirsene poco e male oggi) guadagnati per gli sforzi di odiosi predecessori, in tre anni ha compiuto una tale quantità di danni aggravati con l’arroganza del marchese del Grillo.
Giuli non lo sa ma qualsiasi uomo di destra intelligente, e ce ne sono per sfortuna sua, non può fare a meno di notare gli strafalcioni contenuti negli sgorbi che finiscono addirittura in gazzetta firmati dal Presidente della Repubblica più politicamente anemico e accondiscendente che potessimo vedere.
Il problema dell’ impettito e irascibile direttore del dicastero della cultura è quello di chiunque graviti nella compagine Meloniana: mai nulla nel merito, solo pisciatine qua e là, scemenze avvilenti tese a oscurare il fallimento inevitabile del governo poiché composto da due tipologie di individui che non si possono nascondere dietro infosfere o pirotecnicismi da sciroccati : a) Incapaci totali miracolati da sfortunate congiunture politiche. b) Rari capaci obbligati dal ruolo, pena la defenestrazione, a difendere i pochi fortunati sostenitori ai danni di milioni di sfortunati che comunque domani andranno a votare.
“Caro Giuli se basta Matteo Renzi per farvi a pezzi è abbastanza comprensibile che la sua pavida premier eviti caldamente confronti con Giuseppe Conte perfino ad Atreju. A parte questa nota comica c’è che il popolo è stanco, è stanco del vostro nulla perfino l’élite culturale della Dx che ormai vi guarda come una madre rassegnata alle insufficienze dei figli. Non è Veneziani a doversi rasserenare, sarà Giuli a dover fare i conti col proprio vuoto siderale il giorno fortunato in cui gli italiani si sveglieranno.”
Dal momento che domenica la trasmissione ha sforato di qualche minuto, la mail ricorda di attenersi alle durate previste. Peccato che mentre il cronometro correva “Report” facesse circa il 10 per cento di share con 1,8 milioni di spettatori, toccasse punte del 12 per cento e superasse i due milioni

(Salvatore Merlo – ilfoglio.it) – C’è una domanda che torna, puntuale come una mail protocollata, nel rapporto tra “Report” e la Rai. Non è polemica, non è rivendicazione. E’ piuttosto una curiosità quasi amministrativa di Sigfrido Ranucci: com’è che la burocrazia della Rai si manifesta sempre con grande efficienza quando c’è da segnalare un problema, e mai quando ci sarebbe un risultato positivo da registrare? In altri termini: com’è che mi rimproverano sempre e non mi dicono mai bravo? Ieri mattina la risposta è arrivata a Ranucci sotto forma di un richiamo garbato ma formale della direzione Palinsesto per poco meno di dieci minuti di sforamento. Una mail. Tono istituzionale, lessico amministrativo e un avvertimento finale sulla necessità di attenersi alle durate previste. Domenica sera Tg3 Mondo è partito alle 00.16, dunque qualcosa non ha funzionato. “Report” si è allungata. E la macchina ha scritto: “Vi preghiamo di attenervi alle indicazioni di durata date dal Palinsesto contenendo la durata delle trasmissioni. In caso contrario saremo costretti ad adottare una politica differente di programmazione”.
Peccato che, mentre il cronometro scorreva, domenica “Report” facesse circa il 10 per cento di share con 1,8 milioni di spettatori, toccasse punte del 12 per cento e superasse i due milioni. Battendo anche Fabio Fazio, che aveva Roberto Benigni per circa un’ora ospite a parlare di Papa Francesco. L’anteprima al 7,3, il Plus all’8,1. “La migliore trasmissione di informazione del prime time”, sostiene il Qualitel, cioè il sondaggio che la Rai deve fare per contratto di servizio pubblico.
E qui sta forse l’ironia tutta interna alla vicenda. La burocrazia Rai è presente, vigile, puntuale. Ma a “Report” pensano che abbia un solo verso: quello del rimprovero. Mai una comunicazione per dire “bene”, mai una nota per prendere atto che un programma regge la serata di Rai3, fa da traino ai programmi che seguono.
Ranucci, in fondo, non chiede indulgenze. Si chiede solo perché l’amministrazione compaia sempre quando c’è qualcosa da limare e non quando ci sarebbe qualcosa da riconoscere. Il fatto è che il rapporto tra la Rai e “Report”, come tutti sanno, è da tempo una relazione stabile ma un po’ guasta, attraversata dal sospetto politico che accompagna la trasmissione e dalla sensazione che le inchieste procedano spesso in una sola direzione: contro la destra. Così la storia Rai-“Report” va avanti da anni: regolata, formale, vigilata. Tesa. E i complimenti, se esistono, devono ancora trovare il modulo giusto. Magari con timbro, data e numero di protocollo.
Caos governo, scudo per le imprese e altre quattro norme saltano dopo lo stop del Colle. Il ministro: benefici sul futuro, Parlamenti non più centrali, io sfortunato con Bankitalia

(di Giuseppe Colombo – repubblica.it) – ROMA – «Dobbiamo capire come risolverla, senti Mantovano». Alle otto e mezza di sera, Giancarlo Giorgetti esce dall’aula del Senato e consegna la sollecitazione al collega per i Rapporti con il Parlamento, Luca Ciriani. La telefonata al sottosegretario alla presidenza del Consiglio ha il tono della richiesta di aiuto: «Che facciamo?». Ecco l’ultimo pasticcio del governo sulla manovra: la forzatura sullo scudo a tutela degli imprenditori condannati per aver sottopagato i lavoratori. Infilata in commissione Bilancio attraverso un subemendamento di Fratelli d’Italia. Ma – sostengono fonti dell’esecutivo – fermata dal Quirinale. Non è l’unico altolà. Ciriani ha in mano un foglio con altre quattro norme cerchiate in rosso. Due sono della Lega: meno paletti per chi passa da un incarico pubblico a uno privato e viceversa, insieme a regole più lasche per le porte girevoli. Le altre due sono a firma del senatore di FI, Claudio Lotito. Riguardano il taglio dell’anzianità per collocare i magistrati fuori ruolo e la revisione della disciplina per il personale della Covip, l’Autorità che vigila sui fondi pensione.
Preso atto del problema, nella sala della conferenza dei capigruppo si consuma lo psicodramma sulla soluzione. Il maxi-emendamento che accorpa la legge di bilancio, bollinato dalla Ragioniera Daria Perrotta mezz’ora prima, è stato già depositato in commissione. La prima idea è un decreto correttivo: le cinque norme resterebbero dentro la manovra per poi essere cancellate successivamente con un altro provvedimento. Ma l’ipotesi non convince tutti i partecipanti alla riunione. Il prezzo da pagare – è il ragionamento – sarebbe elevato: un’autocorrezione che lascerebbe strascichi. L’urgenza di incassare, all’indomani, il via libera dell’aula dà forma allo schema finale. Sarà formalizzato stamattina in commissione: i commi in questione saranno espunti dal “maxi”. Con un parere della stessa commissione. Sarà positivo, ma in coda avrà una serie di osservazioni legate proprio alle norme da cestinare. A quel punto il testo, ripulito, potrà essere votato dall’emiciclo con il bollino della fiducia, che è stata posta ieri sera quando ancora non era stata trovata una soluzione. Un altro cortocircuito perché il governo ha appunto chiesto la fiducia su un maxi-emendamento che da lì a poco avrebbe modificato.
L’ennesimo incidente sulla legge di Bilancio solleva le opposizioni. Per tutto il giorno protestano contro la norma sui lavoratori sottopagati, che il governo aveva già provato a inserire dentro un decreto sull’ex Ilva. Eppure per la maggioranza sembrava tutto filare liscio. Al netto dell’assenza di due dei quattro relatori a inizio seduta, la discussione generale era proseguita senza scossoni. Fino ad arrivare alle repliche del titolare del Tesoro. Tutte focalizzate su un concetto: prudenza. Giorgetti l’ha evocata più volte. Per rispondere agli attacchi delle minoranze sulla manovra «austera». Così: «Questa politica di austerità io la traduco con il termine prudenza». Una considerazione agganciata al fardello del debito pubblico. Netto il passaggio sulla necessità di cambiare passo sulla spesa: «Non posso continuare a ragionare come si ragionava cinque anni fa, quando i tassi di interesse – ha spiegato – erano zero o negativi e quindi quel debito in qualche modo costava molto poco». Prudenza, ancora, di cui – è la convinzione – «beneficeranno i governi a venire e i giovani». Ma il ministro non si sottrae nemmeno alla norma più politica della manovra: l’oro di Bankitalia. «È chiaramente del popolo italiano», taglia corto. Poi ricorda che via Nazionale paga un dividendo allo Stato. «Il nostro governo – dice con un filo di ironia – è sfortunato perché quest’anno», la Banca d’Italia «ha pagato 600 milioni», mentre nel 2021 cinque miliardi. L’ultimo affondo è un monito al Parlamento. «È andato via via perdendo la centralità, la dimensione che dovrebbe essere propria, con di fatto un monocameralismo che constatiamo da diversi anni: questo dovrebbe interrogare tutti noi». Una considerazione amara come è amaro il retrogusto dell’ultimo pasticcio da correggere.
Zelensky adesso sembra capire che non potrà riconquistare le terre perdute. Ma se ne accorge ora? Non era prevedibile? Aldo Gorini

(di Paolo Di Mizio – lanotiziagiornale.it) – Gentile lettore, “era prevedibile fin dal 24 febbraio ’22, giorno dell’invasione. Ma i pochi di noi che lo dissero furono sommersi dal disprezzo dell’intero sistema informativo occidentale”: così scrissi in questa pagina il 21 dicembre 2024 e lo ripeto citandomi ancora: “Zelensky sapeva di non poter vincere. A marzo ‘22 concordò coi russi un patto intitolato ‘Trattato per la neutralità dell’Ucraina e sua sicurezza’. Johnson, mosso da Biden, si precipitò a Kiev e lo convinse a non firmarlo. Fu lì che Zelensky vendette il suo popolo agli Usa come carne da macello. È il suo crimine maggiore e la Storia lo giudicherà. Intanto i massmedia pompavano un delirio da stadio: ‘I russi hanno finito le munizioni e combattono con le pale… hanno finito i chip per i missili e smontano le lavatrici’. A quel punto Zelensky glorioso annunciava la fulgida controffensiva primavera-estate ‘23: ‘A ottobre brinderemo in Crimea’. Applausi, cori da stadio, svenimenti in curva sud. ‘Ci servono i Leopard e gli Abrams’. Arrivano i carrarmati, ma la controffensiva è il disastro previsto: i Leopard scoppiano come palloncini, gli Abrams si bloccano in due cm di fango e non son buoni neanche per arare i campi. Allora Zel fa: ‘Ci servono gli F-16!’ e vai con gli F-16. ‘Vogliamo i Patriot’ e vai coi Patriot. ‘Missili a lungo raggio’ e vai coi missili a lungo raggio. Ma i russi continuano ad avanzare e ora Zelensky dice che non può riprendersi le terre. Ma lo sapeva tre anni e un milione di morti fa”.
Il 2025 chiude senza recessione: oro e Borse ai massimi, spread in calo e Pil italiano atteso allo 0,7% secondo Prometeia. Ma con il Pnrr al termine, debito globale record, tensioni commerciali e il rischio di una bolla tech, l’economia resta sospesa tra fiducia e fragilità

(di Ferruccio de Bortoli – corriere.it) – L’investimento migliore del 2025 è stato l’oro. E questo dice molto del mondo in cui viviamo e delle sue infinite contraddizioni. Il “relitto barbarico” ha vinto il campionato delle asset class nell’anno in cui le più sofisticate criptovalute e le stablecoin hanno raggiunto, grazie anche a Trump, la loro sacralità ufficiale. Il metallo giallo è stato il re indiscusso dell’anno più tecnologico di sempre!
I dazi non sono stati il flagello che temevamo. Non hanno, almeno finora, causato i danni che molti avevano previsto. Anzi, è cambiata in fretta la mappa del commercio mondiale. I Paesi esportatori (la Cina soprattutto ma anche l’Italia) sono stati spinti a scoprire nuovi mercati. Le paure primaverili di una recessione si sono rivelate un filo esagerate. Secondo l’ultima, in ordine di tempo, delle previsioni dei centri studi, ovvero quella della bolognese Prometeia, la crescita mondiale del 2025 si collocherà intorno al 3,1%, mentre è atteso un rallentamento al 2,6% nel 2026.
Le Borse festeggiano intorno ai massimi. Nel suo piccolo Piazza Affari è salita di oltre il 30% confermandosi tra le migliori in Europa (ma Madrid ha superato il 40).
Il debito mondiale è anch’esso ai più alti livelli di sempre (dieci punti percentuali sopra il 2019, il periodo pre Covid) ma non produce, almeno per ora, particolari turbamenti. La Federal Reserve ha ridotto i tassi americani al 3,5% e il successore di Jerome Powell li taglierà di più. La Banca centrale europea, che si appresta a lanciare l’euro digitale, è ferma al 2%. Non sembra però intenzionata a ridurli ancora. Christine Lagarde vede una crescita dell’area euro a fine anno più alta: all’1,4% anziché l’1,2. Anche questo dato era del tutto inatteso.
Dunque, che cosa potremmo augurarci per il 2026 se non una ripetizione di quello che è accaduto nell’anno che sta finendo? Ovvero: non rompete l’incantesimo finanziario che ha aspetti persino miracolosi! Ma è proprio questo il problema, l’incubo che turba i sonni — comunque dorati — degli gnomi di tutto il mondo. Tutto sembra un po’ esagerato, se non gonfiato. Ed essendo, almeno nelle quotazioni azionarie, la conseguenza degli enormi investimenti nell’Intelligenza artificiale (Ai), ci si chiede quanto ci sia, in tutto quello che sta accadendo, di intelligente e quanto, al contrario, di artificiale.
Questo è il grande interrogativo di fine anno. Ovviamente — non siamo cinici — limitiamo lo sguardo alla sola economia. Per il resto ci sforziamo di credere che il prossimo anno sia di pace e coincida con la fine della guerra in Ucraina e in Medio Oriente. E non la tragica ripetizione del 2025. E, per quanto attiene al nostro Paese, riveli una crescita meno asfittica e rinunciataria. La previsione di Prometeia, per l’anno che si conclude, è di un aumento del Prodotto interno lordo (Pil) dello 0,6%. Con una previsione dello 0,7% per il prossimo anno.
Nel 2026 terminerà il Piano nazionale di ripresa e resilienza (Pnrr), senza il quale probabilmente saremmo in recessione. Scopriremo quanto avrà (poco purtroppo) aumentato il nostro prodotto potenziale, la nostra capacità di crescere. Non siamo preparati a discutere su come sostituire quella massa di investimenti che ha coperto, per un po’, le fragilità storiche del nostro Paese. Ci siamo lasciati inebriare — ed era del tutto comprensibile — dagli effetti della stabilità politica che ha ridotto lo spread ai minimi ottenendo la promozione delle agenzie di rating. Nell’ultima parte dell’anno, l’ottimismo sull’andamento dell’economia mondiale è cresciuto. I dati di congiuntura internazionale del terzo trimestre — nonostante i ritardi statistici causati dallo shutdown americano — sono stati migliori del previsto.
Non vi sono particolari tensioni sulle materie prime, a parte il rame, al netto della disputa su quelle rare. Il prezzo del petrolio è addirittura in calo. E ciò vale anche per quelle agricole, con l’eccezione di cacao e caffé. Prometeia però è cauta e non sottovaluta alcuni rischi sistemici. Non ritiene — ed è questa, in sintesi, l’analisi di Lorenzo Forni — che l’effetto delle tariffe si sia ormai esaurito, ricadrà su molti prezzi al consumo americani. Teme che le tensioni commerciali possano trasferirsi ai servizi finanziari. Non crede però alla narrativa sul declino della centralità del dollaro nel sistema internazionale dei pagamenti.
Intravvede un’ulteriore criticità nei rapporti tra Stati Uniti ed Europa sul trattamento delle stablecoin che aiutano peraltro, con il collaterale di titoli di Stato americani, la sostenibilità del debito federale e aumentano la domanda di dollari. Il mercato unico europeo sarà sempre di più, come conseguenza diretta della contrapposizione tra Washington e Pechino, il bacino di sfogo della sovrapproduzione cinese. E questo porrà Bruxelles davanti a scelte, anche politicamente impegnative, nel tentativo di frenare alcune vendite cinesi in dumping.
Prometeia mette in rilievo un particolare significativo. I prezzi alla produzione di Pechino sono stati tenuti bassi anche dal supersconto che ha ottenuto da Mosca sugli acquisti di petrolio e gas sotto embargo dell’Occidente. L’invasione del made in China è un danno collaterale che gli europei sopportano per il loro sostegno a Kiev. E anche la dimostrazione tangibile che le sanzioni sono state in larga parte aggirate. Rimane aperto l’interrogativo più suggestivo e angoscioso del 2026 ed è quello che riguarda il rischio di una bolla dell’Intelligenza artificiale. Il boom della Borsa ha accresciuto l’effetto ricchezza e sostenuto i consumi delle famiglie americane. La loro preferenza per gli investimenti azionari è fortemente aumentata in questi anni. La dipendenza dei patrimoni familiari dagli indici azionari è oggi complessivamente del 60%. Era del 47% nel 1995. Ma con enormi sperequazioni. Il 10% delle famiglie americane più ricche — si legge nel rapporto Prometeia — detiene 118 trilioni di attività finanziarie lorde. «Un eventuale scoppio della bolla finanziaria dovrebbe interessare soprattutto le classi più ricche con effetti limitati per le classi meno abbienti, a parità di altre condizioni, ma poichè le classi più ricche contribuiscono per più del cinquanta per cento alla spesa complessiva delle famiglie, gli effetti negativi potrebbero essere rilevanti per l’intera economia». La morale è una sola, beffarda: la concentrazione della ricchezza è così forte e diseguale da pesare alla fine su tutti, anche sui più deboli. Meglio non pensarci.