
(di Gianvito Pipitone – gianvitopipitone.substack.com) – Diciamoci la verità: un po’ ce lo aspettavamo, un po’ siamo rimasti a bocca aperta. L’ennesima sparata del ragazzone olandese, quello che ha passato quattordici anni a fare il premier di un Paese pieno di acqua e di piste ciclabili e che nel tempo libero si diletta con Chopin, ci ha colti – con una media paresi facciale – tra l’inquieto e l’incredulo. “Siamo il prossimo obiettivo della Russia e siamo già in pericolo”, ha scandito con l’aria di un professore un po’ alticcio, per quanto ancora prestante, anche se frustrato dall’ansia degli ultimi eventi e – per questo – costantemente sopra le righe. Probabilmente voleva richiamare la classe – gli alleati litigiosi e distratti – a concentrarsi di più sul problema principale, la Russia. Forse intendeva ricordare agli studenti svogliati e impreparati che bisognerebbe studiare più filosofia, con particolare attenzione alla “logica”; e, invece, mi sa che ha finito per impappinarsi sulle citazioni, consegnandosi senza pietà alla incredula platea: “bisogna trovare una mentalità da tempo di guerra come quella dei nostri nonni e bisnonni”. O forse, semplicemente, questa volta ha esagerato.
Alla faccia! In realtà sembrava reduce da una cena natalizia con qualche champagne di troppo. E non sarebbe la prima volta: online, fra le sue celebri frasi, si ricorda che – già da premier – amava concedersi battute improvvise, come quando definì il suo governo “il più noioso della storia”, salvo poi trovarsi a gestire crisi su crisi. E invece stavolta non era una battuta: l’ha detto davvero, con la stessa serietà con cui Trump avrebbe annunciato di voler prendersi la Groenlandia o di aspettarsi l’Istmo di Panama come regalo di Natale.
Ecco la riflessione che si impone: no, non c’è più la vecchia diplomazia. Quella diplomazia fatta di strappi e ricuciture, pazienza e piccoli passi, sembra ormai un ricordo lontano. Oggi, per farsi sentire, non basta più il sussurro o la trattativa, impostate sul buon senso: bisogna solamente abbaiare, e farlo più forte del cane che ci sta già ringhiando contro. Puoi inorridire, puoi rifugiarti dietro i moralismi, ma la logica è questa: o ci stai, oppure sei fuori dal gioco. Tempi alquanto strani e pericolosi. E Rutte – da perfetto medioman, verrebbe da dire – non delude mai: ci è cascato con tutte le scarpe. Lui la percepisce così, e forse – dal suo punto di vista – ci crede pure.
Tuttavia, bisogna ricordargli che è pagato anche per mantenere la calma e per difendere senza sparare ca**ate alla prima occasione utile. Come contraenti di questo simbolico “contratto NATO”, gli abbiamo consegnato le chiavi del nostro giardino, lo abbiamo profumatamente retribuito, e ci aspettiamo – come minimo – che non cada alle provocazioni, che non ceda all’istinto barbaro del sangue nemico, che non sbavi per misurare le sue prestazioni militari sul letto di “noi committenti”. Come massimo, che non appicch0i il fuoco alle sterpaglie del giardino dietro casa nostra, per poi magari vederlo scappare quando la casa è invasa dalle fiamme. E invece? alla prima occasione importante, eccolo che sbrocca, mandando in crash tutto il cucuzzaro e provocando una diarrea collettiva difficile da smaltire.
La verità è che dalla NATO ci si aspetterebbe un minimo di filtro, di equilibrio, di serietà istituzionale. Un po’ di aplomb, insomma. E invece no: come paparino Trump ci ha insegnato, ci ritroviamo a spiattellarci contro tutto e il contrario di tutto. Tali e quali ai bambini che si giurano odio eterno per un litigio a bordo campo, salvo poi tornare ad abbracciarsi a fine partita.
Bisognerebbe invece spiegare al signor Rutte, al dottor Rutte, che il primo dovere nella sua posizione non è quello di abbaiare. La prima regola per lui deve sempre essere la diplomazia. Quella che sembra smarrita da quelle parti. Peccato! Perché a forza di comprare soldatini e disporli sulla tavolozza da gioco, prima o poi si finisce per dichiarare guerra al primo che capita, o per attaccare il Kamchatka con le poche pedine rimaste, pensando che da lì a Mosca sia un tiro di schioppo.
Un consiglio. Fossi in lui, in questo Natale, farei tante saune. Si faccia invitare a Helsinki, dove la NATO è ormai di casa. Provi una di quelle splendide saune finlandesi: chissà che, a forza di scambiare temperatura, non gli torni un po’ di sensibilità in quel corpo aggranchito, segnato da una costante paresi facciale. Anche solo per rimettere in moto il cervello intorpidito. Ogni tanto un po’ d’aria, male non fa. Uno smartbox in tempi di Black Friday, che volete che costi …
Fdi è riuscita a ottenere dal Comune di Roma uno spazio di oltre 12.000 mq per 38 giorni (9 di eventi) per soli 110.365 euro grazie a una tariffa speciale e nonostante i 25 esercizi commerciali e una pista sul ghiaccio. Mentre per l’utilizzo del simbolo del Castello e per la proiezione sulle mura neanche ha avvisato la Direzione Musei

(Carlo Tecce – lespresso.it) – Stavolta il titolo è davvero il programma. «Sei diventata forte, Atreju», scrive il popolo di Giorgia Meloni che dal ’98, fra delusioni e spintoni, s’è fatto largo nella destra, e ne ha abbattuto i miti, ha risucchiato il centro, e ne ha assorbito lo spirito. Allora eccoli qui, potenti al potere, nei giardini e nei fossati di Castel Sant’Angelo a Roma, tronfi, gonfi e parecchio baldanzosi per Atreju la festa della destra italiana – e per destra italiana, si intende Fratelli d’Italia – mai così lunga, grossa, ricca. Mai così forte. Cinque settimane e mezzo di cantieri nei giardini e nei fossati di Castel Sant’Angelo luccicanti dopo gli interventi del Giubileo, lo sfruttamento politico (e commerciale) di un simbolo universale della Roma imperiale e papale.
Al popolo di Atreju, cioè al partito FdI, sarà costato una fortuna? No, certo che no. Ingenui. Quando finalmente si diventa forti è tutto più semplice. E anche tutto più conveniente. Un inventario di Atreju: 38 giorni di occupazione del suolo pubblico per montare e smontare 6.728 metri quadrati (mq) di pedane (14 novembre/22 dicembre); 9 giorni di eventi culturali e politici (6 dicembre/14 dicembre); 82 dibattiti in due tensostrutture di 1.850 mq; oltre 400 ospiti con la chicca Abu Mazen presidente dell’Autorità nazionale palestinese; 24 direttori di giornali di estrazione mista; il governo compatto e in livrea; le opposizioni e i sindacati in ordine sparso; un padiglione di 450 mq per il ristoro; due aree per rifocillarsi con 25 casette di legno con arrosticini fumanti, provolone impiccato, birre artigianali, porchetta, mortadella, cioccolata; 15 casette per volontariato e militanza con un manifesto in memoria di Charlie Kirk; un gabbiotto di 150 mq per la diretta radio; una bottega di presepi napoletani re Carlo III con genitore uno, genitore due e bambinello; due orsacchiotti natalizi illuminati di bianco latte con sciarpa rossa; una stella cometa conficcata a ridosso dell’anfiteatro appena restaurato; un villaggio di Babbo Natale con il signor Santa Claus e scorta di elfi; un albero di Natale enorme rigorosamente tricolore; un proiettore che imprime il logo di Atreju sul bastione San Marco, angolo interno di Castel Sant’Angelo; una pista per il pattinaggio sul ghiaccio che a 16 gradi alla controra diventa sorbetto, serpentone adagiato fra i pini marittimi su 2.400 mq di sterrato per un percorso di 1.250 mq stile gran premio di Monte Carlo con prezzi modici di 10 euro per 60 minuti e 5 per scivolare col pinguino. Riprendiamo il fiato.
Quest’anno la festa di Atreju è tornata a Castel Sant’Angelo – lo scorso anno c’erano i lavori, e fu scelto il Circo Massimo – e ci è tornata moltiplicando il tempo e lo spazio. Per esempio due anni fa è durata soltanto quattro giorni. Il Municipio I, con l’assenso del Comune di Roma e del gabinetto del sindaco Roberto Gualtieri che ne ha la titolarità, ha concesso a Fratelli d’Italia 12.426 mq di superficie pubblica applicando le tariffe previste. Siccome Atreju è una festa ricorrente, secondo il calcolo stabilito da una delibera di Giunta (n.522/2024), ha beneficiato di uno sconto “cliente”.
L’importo è stato ricavato dai prezzi in vigore nel 2024 e da un rincaro limitato al trenta per cento rispetto ai valori 2025 dell’Osservatorio del mercato immobiliare (Agenzia delle Entrate). Dunque Fratelli d’Italia ha pagato 110.365 euro per 12.426 mq, 38 giorni di occupazione di suolo pubblico inclusi i 9 giorni di eventi, circa 20 centesimi di euro al dì per metro quadrato. Nel dettaglio: 87.930 euro per la manifestazione politica; 19.950 euro per la vendita di prodotti; 2.484 euro per la pista di pattinaggio. La Direzione musei statali della città di Roma non ha ricevuto neanche un euro. La risposta automatica, e un po’ nozionistica: i giardini e i fossati di Castel Sant’Angelo sono di competenza del Comune, vero, ma questa struttura del ministero della Cultura gestisce il Castello e ne tutela l’immagine.
Le norme in materia sono assai severe, rigide, e il governo Meloni le ha corrette con due decreti ministeriali durante la stagione di Gennaro Sangiuliano (aprile 2023 e marzo 2024), testi intervenuti proprio sulle «linee guida per la determinazione degli importi minimi dei canoni e dei corrispettivi per la concessione d’uso dei beni in consegna agli istituti e luoghi della cultura del ministero».
Il logo di Atreju per l’edizione 2025 è ispirato alla facciata di Castel Sant’Angelo – c’è addirittura la sagoma dell’Arcangelo Michele – e lo stesso logo è utilizzato sui canali ufficiali di Fratelli d’Italia per reclamizzare la manifestazione politica e anche le attività commerciali (la pista di pattinaggio). Questo caso è calzante con quanto prescritto dalle linee guida, per l’esattezza dal capitolo «riproduzione di beni culturali», pagina 7, tabella 3, punto 8: «Uso promozionale e pubblicitario» di Castel Sant’Angelo. Per la Direzione musei statali città di Roma, invece, è una indicazione stradale: «Il logo di Atreju presenta un segno grafico che richiama in forma stilizzata il profilo del Castello, ma è una rielaborazione creativa graficizzata, non integra gli elementi di una riproduzione del bene culturale. (…) Per come appare pubblicamente, l’immagine sembra essere utilizzata per indicare il contesto urbano in cui si svolge la manifestazione, che quest’anno ha luogo nei giardini adiacenti al monumento. Trattandosi di una manifestazione pubblica gratuita che include nel programma dibattiti, presentazioni e iniziative culturali, aperta da autorità istituzionali, tra cui il sindaco di Roma, l’utilizzo della fotografia può essere ricondotto alle ipotesi di riproduzione non onerosa previste dalla normativa vigente».
Si sono dimenticati le iniziative commerciali, punti di vista (o di svista). Più complicato giustificare la proiezione del logo di Atreju sul monumento: «Abbiamo contattato gli organizzatori e ci è stato riferito che già da ieri (8 dicembre, ndr) la proiezione avviene a terra, non sulla parete; pertanto, non sono necessarie autorizzazioni». Sublime: il vigile che telefona a casa prima di scoccare la multa all’auto in divieto di sosta. Aggiunge la Direzione: «Nel contenuto, già proiettato, non comparivano loghi di partito né marchi commerciali. Qualora fosse pervenuta una richiesta preventiva, l’avremmo valutata sulla base della documentazione e in relazione alle circostanze: uso temporaneo, assenza di scopo commerciale, nessuna occupazione di spazi in consegna all’Istituto, tipologia di evento come descritta». Per la Direzione musei statali città di Roma, quindi, Atreju non è equivalente a un partito, non rimanda a un partito, ovviamente è il protagonista del romanzo “La storia infinita” di Michael Ende (speriamo che gli eredi non chiedano i diritti). E la presenza di 25 negozi di esercenti privati e di una pista di pattinaggio di 1.250 mq, che contribuiscono agli incassi di Fratelli d’Italia necessari a coprire le spese di centinaia di migliaia di euro, per la Direzione non configurano uno «scopo commerciale».
Che siano amici o nemici, per quelli diventati forti, si preferisce interpretare. Stupore non pervenuto. Quello che colpisce è che per un’occupazione di suolo pubblico di 38 giorni, che di fatto ha requisito a turisti e abitanti un luogo che appartiene alla collettività, l’organizzazione di Fratelli d’Italia non abbia ritenuto di interloquire con i vicini della Direzione musei statali città di Roma né la Direzione musei statali città di Roma abbia ritenuto di verificare quello che stava per accadere a una manciata di centimetri dal suo «bene in consegna». Sei proprio diventata forte, Atreju. Complimenti.

(Giuseppe Gagliano – lafionda.org) – A Bruxelles la chiamano “pace giusta”, e già questo dovrebbe insospettire. Ogni volta che i politici europei tirano fuori un aggettivo nobile, il risultato finale è esattamente il contrario. È accaduto con la stabilità, con la solidarietà, con la crescita. Adesso tocca alla pace, che in realtà assomiglia sempre di più a un piano di guerra confezionato con la solita carta da regalo istituzionale: tanta retorica, molte promesse, zero autocritica.
Prendiamo la genialata del momento: congelare per sempre i beni russi in Europa per usarli nella ricostruzione dell’Ucraina. Un’idea rivoluzionaria, se non fosse per un piccolo dettaglio: non si è mai visto un processo di pace che comincia sequestrando i soldi di una delle parti. È come invitare qualcuno a cena e iniziare staccandogli la ruota dell’auto. Poi ci si sorprende se non arriva. Naturalmente, i leader europei assicurano che è tutto legale, tutto etico, tutto necessario. Ma se fosse così semplice, non ci sarebbero governi — Belgio, Ungheria e altri prudenti — che tremano all’idea del precedente giuridico. O magari tremano all’idea che un giorno qualcuno possa ricordarsi dei loro conti.
Poi c’è il capitolo militare, quello che dovrebbe restituire dignità geopolitica all’Europa. Peccato che, quando si parla di capacità belliche europee, si scivoli invariabilmente nel genere comico. Mentre gli ucraini chiedono garanzie simil-Alleanza Atlantica, gli europei rispondono con promesse solenni e magazzini vuoti. Da anni discutiamo se abbiamo abbastanza munizioni per una guerra di un mese, e l’unica cosa certa è che non le abbiamo. Ma questo non impedisce alla Commissione di immaginare un’Ucraina armata fino ai denti e protetta da un sistema di sicurezza comune che, nella realtà, nessuno sa come finanziare né come far funzionare.
Nel frattempo, gli Stati Uniti si sono stufati di aspettare. Trump ha definito l’Europa un “club di deboli”, il che può anche suonare offensivo, ma l’uomo è un maestro nel dire ad alta voce ciò che molti pensano in silenzio. La sua amministrazione vuole una pace rapida, magari sporca, ma che chiuda la faccenda. L’Europa invece vuole una pace pura, santa, immacolata. Peccato che per arrivarci abbia scelto la via più lunga, più costosa e più conflittuale. E così le due sponde dell’Atlantico, teoricamente unite dalla stessa causa, seguono in pratica due strade divergenti: una pragmatica, l’altra catechistica.
Mosca assiste a questo spettacolo con la serenità di chi non ha alcuna intenzione di accettare i venti punti europei. Lavrov dice che reagirà se verranno schierate truppe del continente. Putin chiede concessioni territoriali enormi e osserva che Trump potrebbe offrirgliene qualcuna pur di archiviare la crisi. E l’Europa? Invece di fare i conti con questa realtà, si rifugia nella formula “nessun confine si cambia con la forza”. Bellissimo. Peccato che in Europa i confini si siano sempre cambiati con la forza, e che la Russia lo abbia già fatto mentre noi discutevamo sui fondi di coesione.
L’Ucraina, nel mezzo, recita la parte del Paese sovrano ma ostaggio delle agende altrui. Ha bisogno di aiuti, di garanzie, di ricostruzione. Ma rischia di ritrovarsi con due piani di pace, entrambi inadatti: quello americano troppo rapido, quello europeo troppo rigido. E il risultato potrebbe essere il peggiore di tutti: una guerra prolungata mascherata da processo negoziale.
Alla fine, il piano europeo somiglia a quelle opere pubbliche annunciate con le fanfare: progetto ambizioso, titoli altisonanti, inaugurazione in grande stile, poi cantieri infiniti e costi fuori controllo. Qui però il cantiere è una guerra, non una stazione ferroviaria. E se si sbagliano i calcoli, non si ritardano i treni: si bruciano vite umane.
La pace giusta è un obiettivo nobile. Ma se per inseguirla si costruisce un meccanismo che rende la guerra più probabile, allora siamo di fronte a un classico capolavoro europeo: l’arte di fare la cosa sbagliata nel modo giusto.

di Carlo Tarallo per “La Verità) – La vendita da parte degli Elkann all’armatore ed editore greco Theodore Kyriakou di tutte le attività del gruppo Gedi, ovvero i quotidiani La Repubblica e La Stampa, il sito HuffPost.it e le radio, Deejay e Capital, sta provocando la legittima e più che comprensibile preoccupazione di giornalisti e dipendenti.
Non è di maniera la piena solidarietà verso i nostri colleghi, giustamente preoccupati per il loro futuro, e ci auguriamo che il passaggio di proprietà non comporti la perdita di un solo posto di lavoro.
Fatta la doverosa e sincera premessa, non riusciamo a comprendere perché da ieri le opposizioni italiane stiano inondando i media di comunicati stampa che chiamano in causa il governo Meloni […]: ciò che non si comprende sono gli appelli al governo a intervenire per salvaguardare la linea editoriale delle testate in vendita.
[…] Riportiamo una significativa dichiarazione del co-leader di Avs, Angelo Bonelli: «La vendita de La Repubblica, La Stampa, Huffington, delle radio e dei siti connessi all’armatore greco Kyriakou», argomenta Bonelli, «è un fatto che desta profonda preoccupazione anche per la qualità della nostra democrazia. L’operazione riguarda una trattativa tra l’erede del gruppo Gedi, John Elkann, e la società ellenica Antenna Group, controllata da Theodore Kyriakou, azionista principale e presidente del gruppo.
Kyriakou può contare inoltre su un solido partner in affari: il principe saudita Mohammed Bin Salman Al Saud, che tre anni fa ha investito 225 milioni di euro per acquistare il 30% di Antenna Group».
E quindi? «Il premier», deduce con una buona dose di sprezzo del ridicolo Sherlock Holmes Bonelli, «all’inizio di quest’anno, ha guidato una visita di Stato in Arabia Saudita, conclusa con una dichiarazione che auspicava una nuova fase di cooperazione e sviluppo dei rapporti tra Italia e il regno del principe ereditario.
Se la vendita dovesse avere questo esito, si aprirebbe un problema serio che riguarda i livelli occupazionali e, allo stesso tempo, la qualità della nostra democrazia. La concentrazione dell’informazione radiotelevisiva, della stampa e del Web sarebbe infatti praticamente schierata sulle posizioni del governo e della sua presidente».
Avete letto bene: secondo il teorema Bonelli, Bin Salman è socio di Kyriakou, Bin Salman ha ricevuto Meloni in visita (come altre centinaia di leader di tutto il mondo), quindi Meloni sta mettendo le mani su Repubblica, Stampa e tutto il resto.
Quello che sfugge a Bonelli è che Bin Salman è, come è arcinoto, in eccellenti rapporti con Matteo Renzi, e guarda caso La Verità è in grado di rivelare che il leader di Italia viva starebbe giocando, lui sì, un ruolo di mediazione in questa operazione. Renzi avrebbe pure già in mente il nuovo direttore di Repubblica: il prescelto sarebbe Emiliano Fittipaldi, attuale direttore del quotidiano Domani, giornale di durissima opposizione al governo.
In ogni caso, per rasserenare gli animi, il sottosegretario alla presidenza del Consiglio con delega all’informazione, Alberto Barachini, ha convocato i vertici di Gedi e i Cdr di Stampa e Repubblica, «in relazione», si legge in una nota, «alla vicenda della ventilata cessione delle due testate del gruppo».

(Davide Sabatino – lafionda.org) – Oggi chiunque parli della necessità di introdurre la “leva facoltativa” è un bugiardo, corrotto e in malafede. La reintroduzione della leva su base volontaria non è nient’altro che un cavallo di Troia per arrivare a inserirla, subito dopo, obbligatoria. Questo genere di escalation della propaganda emergenzialista l’abbiamo vista in opera di recente con i cosiddetti “vaccini” nel periodo della pandemia da Covid-19. Ricorderemo tutti come per prima cosa ci dissero che la vaccinazione era fortemente consigliabile. Successivamente dissero che era obbligatoria solo per gli anziani. Poi divenne obbligatoria per gli anziani e per le persone a rischio e nel giro di poche settimane ci siamo ritrovati tutti costretti alla somministrazione del siero sperimentale (senza alcuna distinzione di età), pena la soppressione di ogni nostra libertà giuridica fondamentale. Chi in quel periodo ha resistito, come il sottoscritto, alla violenza psicologica del potere tecnopolitico dei vari CTS, di Conte, di Mattarella, di Speranza e in ultimo di Mario Draghi, oltre all’aver vissuto ai margini della società, venne subito giudicato “traditore della patria”, appellativo che, guarda caso, verrebbe certamente addossato a chiunque si rifiutasse di presentarsi in caserma per il servizio militare.
Questa strategia comunicativa è nota agli esperti con il nome di “finestra di Overton”. Si tratta di un modello sociologico che descrive come un’idea, inizialmente considerata impensabile o inaccettabile, possa gradualmente evolversi attraverso varie fasi fino a diventare parte del discorso pubblico, socialmente accettabile e persino legalizzata, attraverso la manipolazione dell’opinione pubblica e l’esposizione ripetuta.
In questo momento noi europei stiamo preparandoci alla guerra militare contro la Russia perché siamo convinti che solo attraverso la guerra si ottenga la pace (si vis pacem, para bellum). In tal senso, l’elemento culturale e ideologico, che sta a fondamento della reintroduzione della leva militare e, più in generale, della folle volontà di ritornare nuovamente a farci la guerra fra nazioni, sovrasta di gran lunga quello tecnico ed economico. Infatti, di sicuro esistono ragioni economiche e finanziarie per spiegare tanto la pressione delle industrie farmaceutiche sulla politica europea al tempo del Covid quanto l’insistenza delle multinazionali belliche in questo periodo di riarmo occidentale. Ciononostante, quello che sta a monte di queste decisioni pratico-politiche è sempre una stramaledetta visione culturale e antropologica dell’essere-per-la-guerra. Se non comprendiamo quest’ordine delle cose facciamo l’errore di ogni materialismo storico, ovvero quello di non tenere conto dell’importanza fondamentale della struttura antropologica (egoico-bellica) che influenza negativamente l’agire umano.
Detto in parole più semplici, il piano inclinato della storia contemporanea, che ci porta inevitabilmente a pensare che solo con la preparazione della guerra sarà possibile raggiungere uno stato di pace consolidata, torna ad affermarsi oggi come una sorta di determinismo bellico inevitabile proprio perché nessuno sente l’urgenza di contraddire culturalmente e spiritualmente l’assunto antropologico-ideologico di partenza. Quando si ripete come un disco rotto che bisogna “prevenire” la guerra, in realtà quello che si sta facendo è esattamente l’opposto, cioè darla per scontata, evocarla, alimentarla innanzitutto psicologicamente. Se ci fate caso, infatti, nella mente dei nostri governanti europei sembra scomparsa quasi del tutto ogni forma logica di mediazione pacifica e di stemperamento dei toni. È un continuo rilanciare minacce, provocazioni e rivendicazioni. Non si capisce che: chi si arma per difendersi (ogni guerra nasce come guerra difensiva) vivrà quel suo essersi armato non come una semplice e innocua tutela verso la violenza del nemico, bensì come hybris, come volontà di potenza nei confronti di tutti gli ipotetici nemici. “La violenza genera violenza; l’odio genera odio e l’intransigenza genera altra intransigenza”; e questo meccanismo, diceva M.L. King: “È una spirale discendente dove, alla fine, non vi è che distruzione per tutti”. Allora lo sforzo politico più importante che dovremmo fare oggi non è di carattere tecnico, ma è, per certi versi, pre-politico. Occorre una denuncia culturale dell’assetto mentale di un “io” votato all’odio e alla guerra. Urge una contestazione del sistema della guerra inteso come forma mentis di un’intera civiltà omicida-suicida.
Stiamo vivendo di fatto dentro una società schizzofrenica dove, da una parte, sentiamo parlare ancora di guerre armate come fossimo nell’Ottocento, e come purtroppo stiamo vedendo accadere da anni in Ucraina e in Palestina, mentre, dall’altra, al contrario, sentiamo discutere dalla mattina alla sera di Intelligenza Artificiale, di Multiverso, di mondi virtuali che rivoluzioneranno la nostra conoscenza della realtà tangibile e intangibile, amplificando gli orizzonti della coscienza umana come mai prima d’ora.
È un tempo vertiginoso quello che stiamo attraversando. Un tempo di passaggio antropologico. Viviamo schiacciati fra due poli estremi, quello retrogrado-nazionalistico-bellicistico, che vede patrie, guerre e fiumi di sangue scorrere ovunque, e quello futuristico-globalistico-scientistico, che ha messo sul proprio altare il dio dei Big Data, dei frammenti di vita digitale da idolatrare e venerare fino alla fine dei tempi. Una terza via, quella della Pace integrale, sarebbe opportuna, ma ancora non si vede spuntare all’orizzonte nessuna forza aggregativa in grado di raccogliere questa sfida dirimente. La partita è dunque aperta. Il bivio politico-spirituale resta lì difronte a noi. La retorica della guerra giusta, dell’attacco preventivo-difensivo, del riarmo consapevole continuerà a diffondersi sui giornali, in tv, sul web e nei vari parlamenti d’Europa. Vogliono puntare a nuove forme di contagio bellico, è evidente. L’unico modo per arrestare sul nascere questo loro intento diabolico è quello di privarli della materia prima fondamentale al ripristino di un assetto di guerra permanente, che non sono solo i nostri corpi fisici e le nostre monete, ma sono soprattutto i nostri pensieri, le nostre menti, il nostro spirito, le nostre anime incorruttibili.

(Tommaso Merlo) – I politicanti vogliono mandare a morire in guerra i nostri figli ed i nostri nipoti. Ma da oggi al giorno in cui moriranno, non ne parleranno mai. Eppure la guerra non è altro che morte e distruzione oltre che una onda di dolore che devasta le famiglie per generazioni. I politicanti parlano dei giovani morti al fronte solo dopo, quando sottoterra diventano eroi che si sono sacrificati per tutti noi. A quel punto erigono monumenti e una volta all’anno le autorità si presentano tutte eleganti e col volto triste. Poi però i politicanti cambiano e il tempo passa. Come per i monumenti sparsi per l’Italia che ricordano le giovani generazioni morte nel corso della prima Guerra Mondiale. È passato poco più di un secolo e quei monumenti si sono ingrigiti per le intemperie e sono sovente ricoperti di erbacce. A fatica si leggono ancora i loro nomi antichi e le date di nascita e di morte di quelle vite spezzate nel pieno della loro giovinezza. Furono intorno ai 650.000 i morti italiani, erano i figli e nipoti dei nostri avi che un giorno hanno ricevuto a casa una cartolina e sono stati obbligati a mollare tutto di colpo e partire per il fronte. Prima l’addestramento per imparare ad ammazzare, poi la trincea a bere grappa per trovare il coraggio di lanciarsi verso la morte, verso altri giovani nascosti sull’altura di fronte. Figli e nipoti di famiglie straniere ma vittime della stessa identica angoscia e disperazione. Alcuni storici faticano perfino ed identificare il vero casus belli di quella guerra sanguinaria definendola una follia collettiva. Ma tutte le guerre lo sono. È passato poco più di un secolo ed i confini per cui sono morti tutti quei giovani italiani, si passano in auto senza nemmeno bisogno di mostrare la carta d’identità. E questo perché dopo essersi sterminati per secoli a vicenda, i popoli europei hanno deciso nel frattempo di unirsi. Hanno scoperto che cooperando e condividendo invece di spararsi addosso, sono tutti più sicuri e più ricchi. Ci è voluta un’altra guerra mondiale per capirlo, ma comunque ci siamo arrivati dando vita al più lungo periodo di pace e di progresso della storia continentale. Ma si sa, se gli uomini non imparano dai loro errori, prima o poi li ripetono. Ed eccoci qui. E’ iniziata la terza guerra mondiale coi paesi europei che hanno rimesso in moto la macchina della morte. Trovato il pretesto, hanno iniziato a spargere odio e paura tra la cittadinanza in modo da sottrargli immense risorse per produrre marchingegni omicidi e raccattare reclute. Gli servono giovani, quelli che fino a ieri trascuravano ed ignoravano e di colpo diventano indispensabili. I figli dei potenti finiranno al massimo in qualche ufficio nelle retrovie, mentre i figli della gente comune in prima linea. A sparare all’impazzata fino alla bomba che li dilanierà, fino al ritorno avvolti nella bandiera mentre i politicanti si godono il macabro spettacolo dalle loro poltrone vellutate e l’industria della morte incassa immensi profitti nell’ombra. E tutto questo senza uno straccio di motivo, con la Russia che ha ripetuto fino alla noia di non aver nessun interesse ed intenzione di invaderci e nemmeno la capacità, ma vuole solo essere lasciata in pace. E tutto questo per mano di classi dirigenti talmente detestate dai cittadini che la maggioranza non vota nemmeno più rendendo di fatto la democrazia monca e lorsignori politicamente zoppi. E tutto questo quando i popoli europei vogliono e chiedono la pace da anni ed una politica che si occupi di loro invece che di deliri bellici suicidi da secolo scorso. E tutto questo tradendo il vero grande traguardo dell’Europa che è la pace e quindi mettendo a rischio la sua sopravvivenza. E tutto questo con ordigni che oggi attraversano i cieli per migliaia di chilometri a velocità ipersonica rendendo di fatto la casa di ognuno di noi, una trincea. E tutto questo col rischio di una escalation nucleare dalle conseguenze inaudite. Davvero folle, davvero vergognoso. L’unica speranza è che rispetto ad un secolo fa, la cittadinanza è più istruita e libera ed emancipata. Al punto che certe manipolazioni propagandistiche di massa potrebbero fare cilecca e addirittura scatenare rivolte popolari in grado di bloccare per tempo la macchina della morte. Già, la terza guerra mondiale è già iniziata, ma gli servono i nostri figli e i nostri nipoti per combatterla e siamo ancora in tempo. Sia per fermarli sia per dar vita ad una politica decente in modo da girare questa penosa pagina storica e riprendare la via della pace.

(Giancarlo Selmi) – Credo che Formigli e la sua squadra abbiano fatto un ottimo lavoro. E, almeno per un paio d’ore, abbiamo dimenticato l’ideologia guerrafondaia. Non se n’è parlato. Si è parlato di ciò che sta accadendo in Italia. Abbiamo visto e constatato lo sprofondamento costante, di questo Paese, verso un nuovo Far West. Una nuova frontiera raggiunta con una colossale corsa, di questo potere cafone capeggiato dalla Meloni, verso l’occupazione di tutto, verso l’appropriazione di tutto.
Imprese pubbliche gestite come se fossero “cosa loro”. Consulenze e incarichi strapagati, con denaro pubblico, affidati senza licitazione, direttamente, senza controlli, senza giustificazioni, senza consuntivi. “Cocche” di qualcuno molto in alto che ricevono centinaia di migliaia di euro da amministrazioni regionali. Dalla Sicilia al nord Italia, ovunque. In tutti i settori ma, soprattutto, in quello della cultura che diventa mangiatoia dove tutto è permesso.
Abbiamo visto un potere arrogante che invece di rispondere alle domande di un giornalista, sulla destinazione di pubblici denari, lo insulta in maniera odiosa. Abbiamo constatato la sicurezza ostentata da chi si sente di poter fare qualunque cosa senza dover dare spiegazioni e, soprattutto, con la certezza dell’impunità. Questo non è un governo di fascisti o, almeno, non è solo quello, è un governo, quello centrale insieme a quelli periferici, di “affaristi”. È un vero e proprio “comitato di affari”.
Il vero oggetto sociale che li tiene uniti non ha a che fare con il bene comune, è quello dei soldi. Altro che identità, meritocrazia e baggianate simili, questi badano al sodo. Dal tanto denunciato amichettismo siamo passati a un ben più forte amichettismo. Dal vecchio concetto e dalla vecchia attuazione di corruttele, siamo passati a una nuova forma di corruzione. Peggiore della vecchia e sbattuta in faccia della gente senza alcun ritegno e vergogna, quasi come se fosse cosa buona e giusta. E sbattuta nei denti di chi finanzia tutto: i soliti che pagano le tasse.
Mai vista tanta arroganza, neppure ai tempi di Sbardella e delle feste di compleanno celebrate ai Musei Capitolini con i porcellini arrosto.
È la “via italiana”. Hanno ragione: con Meloni si vola.
In vista delle elezioni i Berlusconi vorrebbero affiancare due uomini di fiducia al segretario. Tra gli azzurri l’insofferenza è forte: «Il partito è pesante, non cresciamo». Occhiuto aspetta

(Lisa Di Giuseppe – editorialedomani.it) – I dirigenti azzurri millantano sicurezza. Ma dopo l’ennesima richiesta di volti nuovi da parte di Pier Silvio Berlusconi l’aria in Forza Italia è tutt’altro che serena. E qualcuno si spinge a parlare di «apprensione» negli ambienti considerati meno in linea con le aspettative della famiglia.
Il più preoccupato è ovviamente il segretario Antonio Tajani. Il figlio dell’ex presidente del Consiglio, parlando con i giornalisti durante i tradizionali auguri di fine anno di Mediaset, ha ringraziato la squadra dei dirigenti, a cominciare dal vicepremier che ha «tenuto in piedi il partito dopo la scomparsa di mio padre, cosa tutt’altro che facile». Immensa gratitudine, quindi, ma per il futuro servono «facce, idee nuove e un programma rinnovato». Partendo dall’assunto che i valori incarnati da Forza Italia «devono essere portati a ciò che è oggi la realtà, cioè all’anno 2025».
La prospettiva per gli uomini di fiducia di Tajani è quindi cupa: all’orizzonte si staglia una manovra avvolgente della famiglia che andrebbe a limitare l’autonomia del gruppo dirigente attualmente in carica. E non sono solo i messaggi lanciati in occasioni pubbliche e private.
A largo del Nazareno, negli uffici dove si muove stabilmente Gianni Letta, i due figli dell’ex presidente del Consiglio, Marina e Pier Silvio, hanno avviato lavori di ristrutturazione per poter contare su un pied-à-terre romano. Insomma, quella di occuparsi più direttamente di ciò che accade a Roma e dentro Forza Italia sembra essere molto di più di un desiderio.
Anzi, il progetto di rinnovamento sarebbe già ben avviato e prevederebbe il consolidamento dei rapporti tra la famiglia Berlusconi e un paio di figure che possano affiancare Tajani e, contemporaneamente, lo depotenzino. I nomi che circolano sono quelli del presidente della Calabria, Roberto Occhiuto, e di quello del Piemonte, Alberto Cirio, considerato comunque vicino al segretario.
Inoltre verrebbe individuato un responsabile della comunicazione più vicini alla famiglia. I soliti bene informati lo identificano in Mauro Crippa, direttore generale dell’informazione in Mediaset, un profilo sufficientemente “milanese” da riequilibrare un esponente dell’ala romano-tajanea come Simone Baldelli, ex parlamentare rientrato qualche mese fa nella squadra della comunicazione degli azzurri.
«È la terza volta che la famiglia chiede volti nuovi. Iniziano a irritarsi per il fatto che, alla fine, non c’è mai alcuna conseguenza tangibile», confida a Domani un “volto nuovo”. «Non bastano più gli incarichi “fuffa” che stanno distribuendo. Non basta mandare in tv qualche volta Simone Leoni (segretario di Forza Italia giovani, ndr) o Livia Bonacini (vicesegretaria junior di Forza Italia Roma, ndr) o incaricare Giorgio Mulè di occuparsi del referendum sulla separazione delle carriere».
Non bastano neanche i tanti eventi che Tajani mette in calendario: «Ci spostiamo di qua e di là, ma è una bulimia in cui siamo sempre noi, sempre uguali». Il prossimo in programma è l’anniversario della discesa in campo a fine gennaio, una tre giorni tra Milano, Roma e Napoli.
Il segretario, nel frattempo, prova a spostare l’inerzia della partita dalla sua parte: «Stiamo lavorando anche per rinnovarci sempre nelle argomentazioni, nell’azione politica, nell’attualizzazione del pensiero liberale. Faremo sempre più emergere nuovi volti, un partito aperto, allargato e con una classe dirigente eletta».
Ma non tutti sono soddisfatti. «Il partito si è fatto pesantissimo, tutto il contrario di quello che cercava Berlusconi, una rete di portatori di voti che alimentano il potere di Tajani. E, alla fine, ci diciamo sempre che cresciamo, ma se apriamo i giornali di un anno fa siamo sempre lì», continua il parlamentare critico con la segreteria. Il minimo che ora può accadere, spiegano deputati e senatori, è che cambino i capigruppo: alla Camera per sostituire Paolo Barelli è già pronta Deborah Bergamini, al Senato costringere al trasloco Maurizio Gasparri sembra più difficile, ma Stefania Craxi si sta muovendo. «Alla fine il potere passa da lì. Anche sulle nomine, però, Letta e la famiglia sono stati totalmente bypassati: i nomi fatti dal partito vengono tutti dal versante romano».
Che Pier Silvio, di qui a breve, decida di seguire le orme del padre in politica ormai appare pressoché una certezza. Resta il dubbio su quale possa essere la forma del suo impegno: l’ipotesi più accreditata in questo momento è quella del ruolo di “padre nobile”. Ma all’orizzonte c’è un appuntamento importante su cui la famiglia vuole dire la sua, la stesura delle liste per le elezioni politiche del 2027.
«L’anno che sta per iniziare sarà decisivo per gettare le fondamenta della Forza Italia della prossima legislatura», spiega chi conosce bene il partito. Ma c’è anche chi raccomanda di non mettere in fila in maniera troppo semplicistica le dichiarazioni del numero uno di Mediaset con le ambizioni del presidente della Calabria, a pranzo con Marina poche settimane fa.
«Non è una benedizione di Occhiuto tout court, ma i dirigenti non possono vivere ogni sua mossa come un atto di lesa maestà» racconta ancora il parlamentare insoddisfatto. Insomma, la pazienza della famiglia si sarebbe esaurita, e dopo un Natale che sarà dedicato ai territori e alla preparazione della campagna referendaria, qualcuno guarda già a gennaio come data di inizio di un avvicendamento che ha tardato fin troppo ad arrivare.

(Di Marco Travaglio) – Vogliono portarci via pure Tajani, il ministro degli Esteri “fino a un certo punto”. Lo fa intendere Pier Silvio B., azionista di maggioranza di Forza Italia per via fidejussoria, che insieme alla sorella continua a dare ordini al partito e pure al governo senza che nessuno faccia notare l’oscena anomalia. Nemmeno nel cosiddetto Terzo mondo (cosiddetto, sennò ci fa causa il Terzo mondo) le aziende posseggono quote del Parlamento: in Italia sì. Dopo aver promosso la Meloni a “miglior premier d’Europa” perché ha appena fatto risparmiare alla holding di famiglia un bel po’ di tasse e accantonato la seccante idea di tosare gli extraprofitti delle banche, il noto figlio di suo padre si dedica al povero Tajani: “Provo vera gratitudine per lui, i vertici hanno tenuto in piedi il partito dopo la scomparsa di mio padre. Ma oggi servono facce nuove e idee nuove”. E tutti sanno quanto tenesse suo padre ai giovani, ma soprattutto alle giovani, specie se minorenni. Come “faccia nuova”, la Famiglia arcoriana ha in mente il ras calabro Roberto Occhiuto, passato dalla Dc al Ppi al Cdu a FI al Ccd all’Udc a FI, consigliere comunale dal ’93, deputato dal 2008, due volte presidente della Calabria: praticamente un neonato. Ma Tajani, all’ennesima ingiunzione di sfratto del padroncino, ha reagito bene: “Sul rinnovamento siamo in perfetta sintonia. Stiamo già facendo emergere molti giovani, penso al segretario nazionale dei giovani”. Che, voi non ci crederete, ma è giovane.
Noi non abbiamo titolo per metterci il dito, ma non comprendiamo che cosa si rimproveri a Tajani. Tutti, alla dipartita del Santo, davano per morta anche FI. E invece esiste ancora. È vero che B. da morto prende molti più voti di Tajani da vivo (o quel che è): sia da chi non ha ancora saputo che B. è morto, sia da chi non ha ancora capito chi fosse B. da vivo. Ma un minimo di gratitudine per Antonio l’Imbalsamatore non guasterebbe: quel 7% di consensi a un partito senza senso, senza idee, senz’anima e senza futuro, buttalo via. Chi altri, nuovo o usato, ci riuscirebbe? Pensa e ripensa, alla fine l’unica spiegazione di tanto astio è che Tajani, nel suo piccolo, forse senza volerlo, è ancora incensurato: manco un avviso di garanzia. E che delfino sei, senza almeno un processo? Ti manca il quid che invece Occhiuto può vantare: una bella indagine per corruzione, che l’estate scorsa lo indusse a bruciare i magistrati sul tempo, ove mai nutrissero cattive intenzioni, dimettendosi da sgovernatore per ricandidarsi subito, senza dare il tempo agli alleati di trovare uno un po’ meno pericolante. E poi quelle tre auto blu (due per sé e una per la famiglia), che a destra fanno sempre curriculum. Tra uno digiuno e uno che viene già mangiato, non c’è partita.
L’escalation polemica del leader della Lega sta diventando un problema per il governo

(Flavia Perina – lastampa.it) – E dunque questo decreto Kiev arriva, non arriva, quando arriva? Arriva, arriva, dice il ministro dei Rapporti con il Parlamento Luca Ciriani, costretto a correre ai ripari dopo l’intemerata di Matteo Salvini sulla «guerra persa» che è inutile continuare a finanziare. Il 22 o il 29 sono le date utili per chiudere la partita, e già si trema perché: cosa succede se nel frattempo Donald Trump respinge la controproposta ucraina sul piano di pace Usa, come la mettiamo se si verifica la definitiva rottura dei rapporti tra Washington e Kiev? Scenario da incubo. La Casa Bianca si alza dal tavolo, tuona contro «il dittatore senza elezioni» (ovviamente Zelensky), lancia nuovi fulmini contro l’Europa imbelle capace solo di intralciare la prospettiva di un Natale di tregua concordato con Mosca. E noi, noi italiani, che facciamo?
Salvini il guastatore guarda a quella prospettiva gongolando. Può trasformarsi nel suo momento di gloria. Se l’accordo c’è, potrà dire che le armi non servono. Se l’accordo salta, potrà esibire la controprova che Trump aveva ragione, l’Ucraina è l’ostacolo guerrafondaio, continuare a sostenerla è follia militarista. L’escalation polemica del Capitano, giurano tutti, non arriverà mai all’astensione sul decreto. «Anche quando le dichiarazioni pubbliche sono differenti – dice Ignazio La Russa – il rapporto personale con Meloni consente di trovare soluzioni». Ma il solo fatto che ci sia bisogno di tutta questa acqua sul fuoco dimostra che il fuoco esiste e preoccupa e mette a rischio un percorso che forse si è dato troppo per scontato guardando ai precedenti, che hanno sempre visto Salvini allinearsi all’ultimo momento alla linea di Palazzo Chigi.
Sì, il controcanto del leader leghista è diventato un problema, soprattutto perché mentre lui abbraccia la linea Maga in purezza – compresa la tesi sulla Russia vittoriosa, gli elogi a Vladimir Putin, le invettive contro i leader europei deboli – in questa direzione FdI non può inseguirlo come ha fatto per anni sui temi minori dell’immigrazione, della legittima difesa, del prima gli italiani, quisquilie a paragone del colossale rivolgimento di relazioni in corso nel vecchio Occidente. Qui è in gioco il sistema di amicizie che Meloni ha messo insieme in Europa, il ruolo da pontiere che si è autoassegnata, la credibilità complessiva dei suoi ministri ai tavoli della crisi, perché Salvini mica è un passante: è il vicepremier, e all’estero questi ruoli hanno un senso, hai voglia a dire «sono le solite bizze di un incontrollabile».
Il sabotaggio del Capitano, alla fine, non ha bisogno nemmeno di atti politici conseguenti. Bastano le parole per ampliare i sospetti delle cancellerie europee, già sotto choc per l’appendice alla nuova Strategia di difesa americana, quella che piazza l’Italia tra i Paesi su cui puntare per rompere la solidarietà continentale e paralizzare l’Unione. In altri tempi, altri governi, altri schemi senza il mito della longevità che oggi si coltiva, sarebbero già in corso operazioni per dividere la Lega, far fuori i salviniani doc dal governo, sostituirli con gruppi parlamentari di nuovo conio in nome dell’interesse nazionale. Ai nostri giorni pure quella è strada chiusa, Salvini lo sa e se ne approfitta. Dopo le batoste prese alle regionali, il fallimento dell’operazione Vannacci, dopo la fine del sogno di inaugurare il suo amato Ponte entro l’anno, il risveglio Maga è la sua riscossa.
Per paradosso l’assicurazione sulla vita di Giorgia Meloni arriva dall’altro guastatore, Giuseppe Conte: senza di lui l’opposizione l’avrebbe già inchiodata su qualche mozione europeista cercando pure l’appoggio di Forza Italia, e per la prima volta si sarebbe ballato in Parlamento. E invece Great Giuseppi tiene intrappolato il campo progressista nell’impossibilità di dire e fare e pure contestare: per ogni Romano Prodi che accusa il centrodestra di essere uno e trino – Meloni con Trump, Salvini con Putin, Tajani con von der Leyen – c’è uno di destra che può ribaltare e contrattaccare: la sinistra cos’ha di diverso? Anche lì è lo stesso, con la differenza che loro sono secoli che cercano un accordo e non lo trovano mentre noi finora ce l’abbiamo fatta.
E dunque il decreto Kiev arriverà. Qualche clausola pacifista convincerà il Carroccio. La maggioranza dovrà scontare il notevole peso di un dissidio permanente sulla politica estera, emerso dopo tre anni di unità di facciata. Però si potrà ancora dire agli elettori, agli amici europei, alle diplomazie: ringraziate che ci siamo noi, con quegli altri sarebbe pure peggio.

(CHIARA SARACENO – lastampa.it) – Negli ultimi dieci anni in Italia sono diminuiti sia gli omicidi (anche se nel 2024 c’è stata una inversione di tendenza), sia i furti (soprattutto in casa) e le rapine. In parallelo è fortemente diminuita la percentuale di famiglie che considera poco sicuro il quartiere in cui vive (il 26,6% nel 2024 rispetto al 41% del 2015), anche se in aumento di tre punti percentuali rispetto al 2023. La percentuale di persone con almeno il diploma di scuola secondaria superiore continua a crescere, toccando nel 2024, il 66,7% delle persone di 25-64 anni. È cresciuta anche la percentuale di laureati, arrivando al 31,6% di coloro che hanno 25-34 anni, un aumento trascinato soprattutto dalle donne e che comunque colma solo in parte il gap con la media europea. È rimasta, inoltre invariata dal 2021 la percentuale di ragazzi/e del terzo anno della scuola secondaria di primo grado che non raggiunge competenze sufficienti in italiano (41,4%) e in matematica (44,3%), mostrando la difficoltà del sistema scolastico italiano a recuperare l’impatto negativo della pandemia su una situazione già problematica che evidenzia l’esistenza di una povertà educativa diffusa, con effetti prevedibili sulle chances di vita di questi ragazzi/e. Va segnalato che se le difficoltà maggiori si riscontrano tra i ragazzi/e nati all’estero o da genitori stranieri, vi è anche un buon 30% di ragazzi/e italiani che presentano le stesse difficoltà.
Sono aumentate le persone complessivamente soddisfatte della propria vita: 46,3% rispetto al 35,4% del 2014, anche se rimangono forti differenze a seconda del livello di istruzione: sono le persone con livelli di istruzione più alte a manifestare maggiormente soddisfazione e ad essere più ottimiste per il proprio futuro. Un ottimismo certo non basato sulla capacità della politica di creare condizioni di contesto favorevoli. Nel 2024 la fiducia verso il Parlamento italiano, i partiti politici e il sistema giudiziario, infatti, continua a essere molto bassa, in particolare verso i partiti politici (3,5 su una scala da 0 a 10), con appena due persone di 14 anni e più su 10 che attribuiscono un voto almeno sufficiente; quella verso il Parlamento italiano e il sistema giudiziario è solo leggermente superiore (4,7 e 4,9 rispettivamente).
Sono alcuni dei dati che emergono dal Rapporto annuale sul Benessere equo e sostenibile (Bes), che, sulla base di 152 indicatori, offre una lettura approfondita dei livelli, delle tendenze e delle disuguaglianze – nella popolazione e tra i territori – di benessere che si possono osservare nei 12 domini individuati come rilevanti: Salute; Istruzione e formazione; Lavoro e conciliazione dei tempi di vita; Benessere economico; Relazioni sociali; Politica e istituzioni; Sicurezza; Benessere soggettivo; Paesaggio e patrimonio culturale; Ambiente; Innovazione, ricerca e creatività; Qualità dei servizi.
Se complessivamente nell’arco di dieci anni sono più gli indicatori che sono migliorati di quelli che sono peggiorati (mentre un terzo non mostra tendenze univoche), alcuni di quelli che sono peggiorati o non migliorati sono particolarmente problematici. Tra questi, oltre alla bassissima fiducia nei politici e nel Parlamento, peraltro confermata dalla disaffezione per le elezioni, e alla scarsa capacità della scuola, da sola, a contrastare le difficoltà di apprendimento, c’è anche ciò che succede nel mercato del lavoro e il rischio di povertà. È vero che l’occupazione continua ad aumentare e che quella a termine diminuisce. Ma la situazione di chi si trova con un contratto a termine tende a cronicizzarsi: la quota di chi svolge un lavoro a termine da almeno cinque anni con lo stesso datore, sul totale dei lavoratori a termine, sale da 18,1% nel 2023 a 19,4% nel 2024. L’aumento è più accentuato nel Mezzogiorno dove il fenomeno è più diffuso (25,7%). Inoltre, tra il 2023 e il 2024 è diminuita la quota di lavoratori a termine transitati verso un lavoro a tempo indeterminato, una transizione, per altro, più frequente nel Nord e nel Centro che nel Mezzogiorno. È alta anche la percentuale di chi non riesce ad avere una occupazione adeguata alla propria qualifica, con un grande spreco di capitale umano. Il 20,7% degli occupati tra i 25 e i 64 anni con titolo di studio terziario svolge una professione poco o mediamente qualificata. I valori sono più elevati tra gli stranieri (54,8%, 18,9% per gli italiani) e tra le donne (24,0%, 16,5% per gli uomini).
L’aumento dell’occupazione, inoltre, non si è accompagnato ad una riduzione della povertà, sia perché troppo spesso si tratta di lavori a basso salario, sia perché è ancora troppo basso il tasso di occupazione femminile, specie nel Mezzogiorno e nelle famiglie con più figli, che anche per questo hanno una maggiore incidenza della povertà. Nonostante, infatti, sia migliorato nel decennio l’indice di disuguaglianza nella distribuzione del reddito, il rischio di povertà, la grave deprivazione materiale e sociale, la deprivazione abitativa e il vivere in famiglie a bassa intensità di lavoro non mostrano variazioni significative, né rispetto all’anno precedente, né negli ultimi 10 anni. Dal 2014 e fino al 2022 è invece aumentata costantemente l’incidenza della povertà assoluta, per poi rimanere sostanzialmente stabile attorno al 9,7-9,8% negli anni successivi, nonostante, appunto, l’aumento dell’occupazione e la diminuzione dell’inflazione. Con buona pace dei discorsi trionfalistici sull’aumento dell’occupazione, la povertà nonostante il lavoro sta diventando un fenomeno strutturale, come ha da ultimo denunciato anche il Presidente Mattarella.

(di MICHELE SERRA – repubblica.it) – In quanto cuoco e sguattero non occasionale, anzi quasi quotidiano, mi sento anche io, per la mia milionesima parte, patrimonio mondiale dell’umanità, angelo del focolare così come i manuali di economia domestica definivano “mogli, madri e fanciulle”. Ne sono orgoglioso, e in particolare rivendico il largo primato che, in casa mia, il cibo preparato in casa ha nei confronti di quello ordinato con una app.
Incassato il successo, e detto che ogni successo implica la responsabilità di esserne degni, abbiamo due compiti da svolgere. Il primo è battersi perché cucinare rimanga, appunto, un’attività di massa, parte della cultura quotidiana. Almeno nelle grandi città si ricorre all’asporto in misura crescente, soprattutto i giovani: l’organizzazione del lavoro e del tempo libero prevede sempre meno tempo per cucinare in casa.
Il secondo compito è tenere bene a mente che la cucina italiana ha potuto giovarsi, lungo i secoli, di una fantastica ibridazione di ingredienti e di culture, mettendo a profitto il nostro essere al centro di migrazioni (e occupazioni militari) che abbiamo saputo trasformare in ricchezza culturale. Cucina araba, spagnola, francese, mitteleuropea, spezie orientali, ingredienti d’oltreoceano come la patata, il mais e il pomodoro: l’identità della cucina italiana, e non solo della cucina, è forte perché è ibrida. Ogni popolo chiuso langue, e ha identità debole, e ogni popolo aperto prospera, e ha un’identità forte. Dal cuscus della Sicilia occidentale al canederlo delle valli di Nordest, possiamo permetterci una biodiversità gastronomica (credo si possa definirla così) inimitabile nel mondo. Valorizzarla vuol dire capire che non esiste un concetto cristallizzato di “identità”, cucina compresa. I sapori viaggiano, oggi mangiamo ciò che non mangiavamo ieri, domani ciò che non mangiamo oggi.
L’ex leader pentastellato, ora inviato Ue nel Golfo, sarà alla festa di Fdi Atreju

(di Simone Canettieri – corriere.it) – Luigi Di Maio, inviato Ue nel Golfo, oggi sarà ospite di Atreju: è un ritorno a casa anche per lei viste le sue giovanili simpatie a destra nonché quelle di suo padre, ex dirigente del Msi?
«Le simpatie a destra erano di mio padre, per quanto mi riguarda invece è un ritorno ad Atreju dopo la mia prima volta nel 2021. A ogni modo ho apprezzato molto l’invito di Giovanni Donzelli e Arianna Meloni che voglio ringraziare».
Nessuna sintonia con FdI?
«Sicuramente mi sento in sintonia totale con gli altri relatori che parteciperanno al mio dibattito: Marco Minniti, Lorenzo Guerini, Giulio Terzi, Salvatore Caiata».
Lo slogan di questa edizione di Atreju è «Sei diventata forte». Si riferisce all’Italia: concorda?
«Essere italiani, da rappresentanti delle istituzioni in Medio Oriente, è un valore aggiunto grazie alla postura assunta dal nostro Paese nelle principali crisi regionali. La stabilità politica e di governo degli ultimi anni ha permesso all’Italia di essere percepita come un attore affidabile».
Da inviato Ue nel Golfo qual è la percezione dell’Italia in Medio Oriente?
«Si è riusciti a mantenere un equilibrio credibile tra il diritto di Israele alla sicurezza e l’aiuto al popolo palestinese. Questo approccio è riconosciuto e apprezzato da entrambe le parti. La partecipazione dell’Italia alla missione Aspides nel Mar Rosso dimostra che è pronta ad assumersi responsabilità concrete per la sicurezza delle rotte commerciali globali».
Il presidente dell’Autorità palestinese Abu Mazen sarà ospite di Atreju.
«Il fatto che partecipi a un evento politico collegato al primo ministro italiano conferma la profondità del rapporto costruito da entrambe le parti. L’invito rivolto a Giorgia Meloni, come unico leader straniero, al summit del Consiglio di cooperazione del Golfo in Bahrain, è un segnale della considerazione che il nostro Paese ha conquistato nell’area. Un evento ampiamente sottovalutato in patria».
Lei è stato leader di una forza, il M5S, che arrivò al 33 per cento, salvo poi perdere consensi, al contrario di Fratelli d’Italia stabilmente al 30: qual è la differenza fra il suo ex partito e quello di Meloni?
«La differenza la fa sempre il leader».
È una stoccata a Conte?
«È un dato di realtà. Oggi sono partiti agli antipodi, ma c’è da dire che Fratelli d’Italia è l’unico partito italiano con cui il M5S non ha mai condiviso un’esperienza di governo nella sua storia. So che entrambi si sentiranno lusingati da queste parole».
Esclude un ritorno in politica? Periodicamente la danno in procinto di passare a Forza Italia.
«E io periodicamente smentisco. Anche se Antonio Tajani sta facendo un lavoro importante».
Dal suo osservatorio, il Campo largo di Schlein e Conte ha possibilità di arrivare a Palazzo Chigi? E con chi?
«Sono troppo lontano dalle dinamiche elettorali per dare una risposta su questo. Ma guardando alle dinamiche interne, non vedo niente di male in una competizione per la leadership del centrosinistra».
Ora può dirlo: ha votato Roberto Fico in Campania?
«Mi spiace, il voto è segreto. Ma voglio approfittarne per fare al presidente Fico i miei migliori auguri. Se riuscirà nei suoi propositi, cambierà in meglio la mia regione».
Fra un anno scadrà il suo mandato in Europa: sicuro che con la politica ha chiuso?
«Non siamo noi a decidere se chiudiamo con la politica, sono i cittadini a deciderlo. L’ultima volta che mi sono presentato, il loro messaggio è stato inequivocabile. Non vedo perché accanirsi».

(di Massimo Gramellini – corriere.it) – La disputa fascisti-comunisti ha la stessa vivacità di un rubinetto che perde, eppure continua imperterrita a deliziare il dibattito pubblico. A rilanciarla per l’ennesima e sempre penultima volta è stata la ministra dell’Università Anna Maria Bernini, solitamente mite, che rivolgendosi dal palco di Atreju a un gruppo di contestatori li ha chiamati «poveri comunisti». Si è premurata di ricordare che la paternità dell’epiteto appartiene a Silvio Berlusconi.
Ma intanto lui diceva «cumunisti» con la u, accompagnando la parola con un saltello che ne depotenziava la carica minacciosa. E poi era cresciuto nel Novecento, quando il comunismo esisteva davvero. Abbinare quel nome grande e terribile, che evoca un’utopia finita in tragedia, a una tiepida contestazione studentesca è come scomodare Mike Tyson per descrivere un bambino che ti fa il solletico sotto l’ascella. Invece pare che funzioni. Una volta ho sentito dare del comunista persino a Enrico Letta.
Evidentemente ci rassicura rappresentare la realtà con i canoni del grottesco. Al governo non c’è la destra sociale ma i fascisti, che in pubblico si sforzano ancora di darsi un tono, come un raffreddato che cerca di trattenere gli starnuti, ma appena tornano a casa si mettono a fare il saluto romano davanti allo specchio. E l’opposizione? Che domande: tutti quelli che criticano il governo sono comunisti. Soltanto Calenda riesce contemporaneamente a criticare il governo e a dare del comunista a chi ce l’ha con lui.
Il segretario generale della Nato parla da Berlino e mette all’erta gli alleati: “Dobbiamo essere pronti a fare quello che hanno fatto allora i nostri padri e i nostri nonni”

(lespresso.it) – Non sono più solo i leader degli Stati baltici a lanciare l’allarme, ora anche Mark Rutte lo dice senza mezzi termini: “Siamo il prossimo obiettivo della Russia e siamo già in pericolo”. Parlando all’evento “Msc a Berlino”, organizzato dalla Conferenza sulla sicurezza di Monaco, ha raccontato di aver avvertito, quando lo scorso anno è “diventato segretario generale della Nato, che ciò che sta accadendo in Ucraina potrebbe accadere anche ai Paesi alleati, e che dobbiamo passare a una mentalità da tempo di guerra. Temo – ha aggiunto – che troppi siano silenziosamente compiacenti. Troppi non avvertono l’urgenza e troppi credono che il tempo sia dalla nostra parte. Non lo è, il momento di agire è adesso. La spesa e la produzione per la difesa degli alleati devono aumentare rapidamente”.
“I conflitti sono esattamente davanti alla nostra porta di casa – ha continuato Rutte -. La Russia ha riportato in Europa la guerra. Dobbiamo essere pronti a fare quello che hanno fatto allora i nostri padri e i nostri nonni. Immaginate che i missili russi possano raggiungere qualsiasi casa o edificio in qualsiasi Paese d’Europa. Ovunque milioni di morti, feriti e di profughi. È un pensiero terribile”, ha continuato. “Ma se noi adempiamo ai nostri doveri come partner Nato, possiamo evitare uno scenario del genere”, ha concluso.
Poi, un passaggio sulla Cina che, per Rutte, “è il maggior partner della Russia e la aiuta a poter portare avanti questa guerra. Senza il sostegno cinese la Russia non potrebbe continuare questa guerra”. Per il segretario generale Nato, Trump è “l’unico che può portare Puti al tavolo dei negoziati. Mettiamo Putin alla prova. Vediamo se vuole davvero la pace o se preferisce che il massacro continui. E’ essenziale che tutti noi continuiamo a fare pressione sulla Russia e sosteniamo un impegno concreto per porre fine a questa guerra”.
Il segretario generale della Nato non si sbilancia sui tempi per porre fine alla guerra in Ucraina – “È difficile dirlo” – e ha posto sul tavolo una serie di elementi. “Uno e’ come ricostruire l’Ucraina? Ieri c’erano notizie che si stanno facendo progressi. Sappiamo che sarà cruciale, dopo un cessate il fuoco a lungo termine, o un accordo di pace, che i russi non proveranno mai più ad attaccare l’Ucraina. Quindi devono esserci garanzie di sicurezza di tale qualità e livello che Putin sappia che se ci prova di nuovo, la reazione sarà devastante. E sappiamo tutti che ci sarà una discussione delicata e difficile sui territori, su cui, alla fine, solo gli ucraini possono decidere”, ha concluso.

(Andrea Zhok) – Nel documento sulla Strategia di Sicurezza Nazionale (National Security Strategy) appena pubblicato dall’amministrazione statunitense troviamo una dolorosa descrizione dell’attuale realtà europea.
Vi troviamo scritto:
“L’Europa continentale ha perso quota nel PIL mondiale, passando dal 25% del 1990 al 14% di oggi, in parte a causa di normative nazionali e transnazionali che minano la creatività e l’operosità.
Ma questo declino economico è eclissato dalla prospettiva reale e più concreta della cancellazione della civiltà. I problemi più ampi che l’Europa si trova ad affrontare includono le attività dell’Unione Europea e di altri organismi transnazionali che minano la libertà e la sovranità politica, le politiche migratorie che stanno trasformando il continente e creando conflitti, la censura della libertà di parola e la repressione dell’opposizione politica, il crollo dei tassi di natalità e la perdita di identità nazionali e di fiducia in se stessi.
Se le tendenze attuali dovessero continuare, il continente sarà irriconoscibile tra 20 anni o meno. Pertanto, non è affatto scontato se alcuni paesi europei avranno economie e forze militari sufficientemente forti da rimanere alleati affidabili. Molte di queste nazioni stanno attualmente raddoppiando il loro impegno in quella direzione.
L’amministrazione Trump si trova in contrasto con i funzionari europei che nutrono aspettative irrealistiche rispetto alla guerra, radicati in governi di minoranza instabili, molti dei quali calpestano i principi fondamentali della democrazia per reprimere l’opposizione. Un’ampia maggioranza europea desidera la pace, ma questo desiderio non si traduce in politica, in larga misura a causa del sovvertimento dei processi democratici da parte di quei governi.”
Ora, dare ragione all’amministrazione americana è spiacevole, spiacevole sia perché questa traiettoria europea è stata fino a tempi recentissimi supportata e alimentata dagli USA, sia perché sappiamo tutti che queste verità vengono dette non certo in buona coscienza e per amore della verità, ma solo perché al momento tornano utili alla prospettiva strategica americana.
Ciò non toglie che siano verità, e vengono dette perché, in quanto verità, appaiono riconoscibili ai popoli europei.
La traiettoria europea che viene delineata nel documento parte, correttamente, dal 1990, cioè dalla svolta neoliberale che ha luogo con il Trattato di Maastricht e la trasformazione della Comunità Europea in Unione Europea. Al tempo quella svolta significava seguire gli USA nel loro percorso storico, come unica potenza mondiale rimasta dopo il crollo dell’URSS. Allora – come ora – ciò che caratterizza le classi dirigenti europee è la loro astrattezza. Se agli USA si può imputare frequentemente un brutale pragmatismo, l’Europa soffre invece di una congenita astrattezza (che, peraltro, può essere precisamente altrettanto brutale, ma senza essere pragmatica, senza esercitarsi ad analizzare e reagire alla realtà circostante).
Negli anni ’90 quell’astrattezza si espresse nella forma di un’adesione incondizionata all’idea del trionfo liberale sul modello comunista, trionfo che si traduceva in una metamorfosi del senso dello stato.
Lo stato neoliberale non si voleva più né “stato sociale” come nella stagione ad economia mista del secondo dopoguerra, né “stato minimo” come nel liberalismo classico. Lo stato neoliberale si voleva interventista, ma non per interventi mossi da un’agenda sociale bensì con un’agenda dettata dall’ideale della “concorrenza perfetta”. Questo ideale microeconomico andava imposto a tutti i livelli, inclusi i monopoli naturali (ferrovie, forniture elettriche, ecc.) e inclusi i sistemi difficilmente privatizzabili (scuola, sanità, università). Là dove non si poteva senz’altro privatizzare, lì si inventavano sistemi di valutazione, di misurazione del prodotto, di competizione interna, di creazione di incentivi e disincentivi che mimavano i meccanismi di mercato.
Questo processo di snaturamento del settore pubblico, nel tentativo di assimilarne i meccanismi alla concorrenza privata è alla radice non solo della decadenza progressiva dell’istruzione pubblica e della sanità, dove le migliori risorse vengono spese in pseudocompetizioni e burocrazia, ma anche della frenesia normativa degli apparati europei. Qui il grande perdurante equivoco, sia per i detrattori che per i sostenitori, è che questo interventismo del centro amministrativo rappresenti un residuo socialista, mentre è neoliberalismo allo stato puro: infatti non è l’intervento centrale (stato, commissione europea) a fare la differenza, ma la sua agenda, i suoi intenti.
Con un esempio, avere una Banca Centrale Europa avrebbe potuto di principio essere un fattore compatibile col socialismo-comunismo, nel momento in cui la Banca Centrale avesse orientato la produzione di moneta e il suo indirizzamento a sostegno della piena occupazione, delle politiche di ricerca e sviluppo, di un consolidamento dell’industria pubblica; ma nel momento in cui l’agenda della BCE è dettata prioritariamente dal fine della stabilità della moneta, essa pone al centro dei propri interessi i detentori di capitale (oligarchie finanziarie in primis) e non i cittadini lavoratori.
La combinazione tra interventismo centrale e priorità degli interessi delle oligarchie finanziarie è catastrofica, è la peggiore delle combinazioni economico-politiche immaginabili. Essa unisce tendenze centrali al normativismo, alla sorveglianza, all’autoritarismo con la mancanza anarchica di un indirizzo politico, sostituito dall’interesse economico delle oligarchie. Questa combinazione è incomparabilmente peggiore dei sistemi dove l’autoritarismo si radica nel perseguimento di un interesse nazionale (es., Cina) ma anche di quelli dove la priorità dell’interesse economico individuale si abbina ad una cornice libertaria, anarcocapitalista (come gli USA).
Tutte le tendenze più catastrofiche degli ultimi trent’anni sono da ricondurre a questa devastante combinazione.
La distruzione delle identità collettive (nazionali, etniche, religiose, comunitarie, famigliari) è stata funzionale alla sostituzione della società tradizionale con un sistema di transazioni individuali, idealmente con un mercato universale.
La cosiddetta “sostituzione etnica” non è mai stata pianificata, e tuttavia essa di fatto avviene come esternalità di un simultaneo processo di indebolimento delle identità interne e di un ricorso massivo a risorse lavorative a basso costo (migranti). L’opzione opposta, quella di aumentare salari, compattezza politica e potere contrattuale dei lavoratori autoctoni avrebbe rappresentato una riduzione percentuale della fetta di profitti per le oligarchie finanziarie, dunque non è stata presa in considerazione.
L’indebolimento del potere contrattuale dei lavoratori è andato di pari passo con una riduzione della loro capacità di consumo, e questo si è abbinato alla tendenza europea al mercantilismo, cioè a puntare tutte le proprie carte sulle esportazioni, su una bilancia commerciale favorevole. Ma questo naturalmente significa che, a fronte di qualunque sconvolgimento esterno, a qualunque turbativa dei meccanismi del commercio estero (crisi subprime, covid, guerre) l’Europa non è più in grado di compensare le carenze del mercato esterno ricorrendo al mercato interno.
In un contesto dove solo l’interesse economico individuale viene santificato, il ceto politico ha iniziato ad essere rappresentato sempre più da mediocri arrivisti, da quaquaraquà, da gente priva di qualunque spina dorsale ideale e disposta ad ogni compromesso pur di arrivare. Ovviamente questo si è ripercosso in forma di un degrado complessivo della politica, in un collasso delle capacità autenticamente politiche, in un crollo della lungimiranza strategica, in un disfacimento di ogni qualità personale sostituita dalla fedeltà alla lobby di riferimento (e ogni riferimento a von der Leyen, Kallas, Merz, Starmer, Macron, ecc. è puramente casuale).
Alla fine ci ritroviamo nella situazione paradossale di aver preso un modello pragmatico di matrice americana come un’ideologia eterna, di averla coltivata e implementata con tipica astrattezza europea, di esserne caduti vittima, e di rimanere alla fine con il cerino in mano mentre gli stessi americani – come hanno fatto più volte nella storia – girano la nave di 180° perché ora è nel loro interesse fare così.
Impoveriti, invecchiati, senza futuro, senza identità, senza visione, marginali ma con la presunzione di essere ancora chi dà le carte.
Materialmente i margini per cambiare rotta ci sarebbero ancora, ma il muro di ottusità creato ad arte negli ultimi decenni – e consolidato nei luoghi strategici di formazione della pubblica opinione – non sembra essere prossimo a cedere, e senza una rivoluzione culturale nessuno spiraglio si può aprire.