Il tormentone di fine d’anno, vedrete, sarà questo: Trump vuole la pace tra Russia e Ucraina perché agisce da cinico mercante e gli importa solo dei soldi, come da scoop […]

(di Daniela Ranieri – ilfattoquotidiano.it) – Il tormentone di fine d’anno, vedrete, sarà questo: Trump vuole la pace tra Russia e Ucraina perché agisce da cinico mercante e gli importa solo dei soldi, come da scoop del Wall Street Journal (e chi lo avrebbe mai detto?), mentre i governanti europei, insufflati degli ideali sull’autodeterminazione dei popoli (tranne che del Donbass, ovvio) e drogati dal Fentanyl Nato che induce allucinazioni sulla superiorità dei “nostri valori” e i “70 anni di pace” nel nostro Continente (a parte Belgrado, certo), tengono agli ucraini, al punto da voler continuare la guerra contro Putin (il quale è talmente messo male a livello militare che tra 3 anni potrebbe attaccarci da Marina di Ragusa, presumibilmente muovendo le sue milizie di stanza in Africa: l’ha detto Tajani; da qui l’urgenza del ponte sullo Stretto).
I tamburi battono guerra: Giuseppe Cavo Dragone, responsabile del Comitato Militare Nato, ha detto al Financial Times che la Nato sta valutando di intensificare la guerra ibrida alla Russia, proprio ora che c’è un piano di pace da cui partire. Ieri Repubblica ha intervistato Carl Bildt, ex premier svedese, oggi a capo di uno di quei think tank dove in comodi uffici climatizzati si decide per quanto ancora un popolo deve agonizzare per difendere i nostri valori: “Trump pensa innanzitutto agli affari che può fare, persino con la Russia, mentre sminuisce la questione della sicurezza in Europa”, denuncia, nel solco di quella narrazione che vuole il “piano Trump” interamente dettato dai russi, i quali in fondo hanno solo vinto la guerra. “La bozza di pace dei cosiddetti 28 punti era assolutamente scandalosa, con l’Europa che avrebbe dovuto finanziare la ricostruzione dell’Ucraina e l’America che si sarebbe presa il 50% dei profitti. Non avevo mai visto niente del genere dagli Stati Uniti. Questo è un nuovo colonialismo”. Veramente si era già visto: a Gaza, dove – con la connivenza di un’Europa inetta e vigliacca – Trump costituirà un protettorato sotto la guida del bugiardo guerrafondaio Tony Blair, pieno di resort di lusso costruiti col concorso dei petrodollari del Golfo sugli scheletri degli innocenti uccisi dalle forze militari israeliane anche con le nostre armi. Ma che importa dei palestinesi? Mica sono pedine da far entrare nella Nato al fine di occupare i confini con la Russia.
Quel che gli oltranzisti della guerra nascondono è che per Trump il gioco è comunque vantaggioso: il complesso militare-industriale Usa gode tanto della guerra che della pace; continuando a foraggiare la guerra Nato in Ucraina, rinnovando le bizzarre sanzioni che hanno fatto fare un balzo al Pil della Russia e hanno scavato un fossato nelle nostre casse e nei nostri arsenali, comprando gas da fonti alternative a un prezzo maggiore di quello russo, con un costo ulteriore per la rigassificazione, non solo dagli Stati Uniti, che quindi ci guadagnano eccome, ma anche da Paesi che non godono della fama di perfette democrazie (Algeria e Qatar su tutti), noi ci diamo la zappa sui piedi mentre permettiamo la decimazione della popolazione ucraina. Naturalmente la materia prima, cioè le armi, le compriamo principalmente dagli Stati Uniti, oppure le produce la nostra Leonardo in joint-venture con la tedesca Rheinmetall, che sta ingrassando il proprio fatturato in vista del grande riarmo della Germania (il Ceo di Leonardo Cingolani si è lavato la coscienza sul Corriere affermando di non avere responsabilità nel genocidio dei palestinesi, pure se una compagnia americana di cui Leonardo è socia di maggioranza possiede Rada, azienda israeliana che fa radar, utilissimi per la guerra ibrida che ci accingiamo a fare alla Russia).
In breve: mentre Trump, facendo un semplice calcolo costi-benefici, si sfila dagli aiuti a Zelensky e alla sua classe dirigente corrotta, noi compriamo armi da lui per mandarle all’Ucraina distrutta, in nome di ideali più alti di quelli che guidano Trump. Ma a ben vedere, sono esattamente gli stessi: non obbediamo da 4 anni agli ordini dei neocon americani perché altrimenti i mercati si agitano? Non badiamo ai nostri guadagni, ignorando la legge che vieta di esportare armi verso Paesi in guerra, quando vendiamo gli F-35 a Israele che li ha usati fino a ieri contro i civili palestinesi? Se non si fosse messo in mezzo Trump coi suoi mediatori immobiliaristi, glieli staremmo ancora mandando. L’ex premier svedese, in coro con le varie Kallas e Von der Leyen, l’ha detto chiaro e tondo: l’Europa “non ha altra scelta: continuare a dare il massimo sostegno all’Ucraina”. Si può essere più stupidi? Secondo le leggi fondamentali della stupidità umana di Carlo M. Cipolla, ricordiamo, lo stupido è colui che fa il male proprio e quello altrui simultaneamente, laddove il bandito fa il proprio bene a scapito degli altri. Trump è un bandito. I nostri governanti sono irrimediabilmente stupidi, ma a volte anche banditi.
Il capo del Comitato militare, pur usando nell’intervista termini tenui, intende dire: “Attaccare per primi”

(di Fabio Mini – ilfattoquotidiano.it) – Attenendomi alle dichiarazioni pubbliche del Comandante supremo della Nato, generale Cristopher Cavoli e sulla base della conoscenza della sintassi operativa, ho desunto che la Nato non solo in campo cyber, ma in tutti i sensi e domini, è già in guerra contro la Russia e attaccherà per prima. Sta già mobilitando le forze di tutti i Paesi per quella “difesa” che si dovrebbe realizzare con un attacco preventivo sulla Russia talmente devastante da impedirle perfino di rispondere. “Perché – dice Cavoli – se non ci riusciamo al primo colpo, ci aspetteranno 15 anni di guerra di logoramento”.
In quest’ottica è inutile farsi delle illusioni. Qualcuno per conto nostro ha deciso che siamo in guerra e anche contro chi. Perdono così di valore tutti i distinguo di casa nostra e tutte le dichiarazioni ufficiali dei russi che non si sognano nemmeno di attaccare la Nato. A meno che… una decisione già presa nel 2022 e da allora in piena fase di strutturazione delle forze, anche nucleari, perseguita in barba alla fondamentale correzione di rotta imposta dal presidente Trump all’Aja. Al termine del vertice Nato è stato ufficialmente dichiarato che non si considera la Russia una minaccia a breve termine (da ora a 3 anni), nemmeno a medio termine (da 3 a 10 anni) ma, proprio a volercela tirare, a lungo termine (oltre 10 anni). Tale dichiarazione è stata ignorata dai principali alleati e dalla Nato stessa che invece considerano la Russia come nemico permanente. A prescindere da cosa potrà succedere da qui a 3 o 10 anni e anche da ciò che accadrà all’Ucraina. Il Comitato militare è dominato dalle spinte antirusse e il nuovo chairman ha ricevuto dal predecessore il testimone nella staffetta pro armamenti e pro-guerra. Le osservazioni dell’ammiraglio Cavo Dragone, nuovo chairman del Comitato Militare sulla possibilità d’attacco preventivo alla Russia si devono inquadrare in tale contesto. Ovviamente l’ammiraglio non s’è messo la feluca e dichiarato guerra. Anzi s’è mosso molto cautamente su un terreno scivoloso sapendo benissimo che in ambito Comitato Militare, come nel Consiglio Atlantico, non c’è affatto quel consenso necessario a passare da una difesa e una deterrenza a una difesa “proattiva”, che nel linguaggio degli ignari suona bene ma che in quello militare e soprattutto popolare significa solo attaccare per primi, in ogni campo. Sa bene che la guerra ibrida è tale anche perché connette tutte le forme disponibili. L’ambito cyber, al quale si riferisce, non è isolato dagli altri e non è detto che la risposta dell’avversario debba essere dello stesso tipo. I pretesti di guerra sembrano essere scollegati dalla guerra ma finiscono sempre per scatenarla. Il comandante del Maddox (l’unità militare Usa protagonista dell’episodio del Golfo del Tonchino, ndr) che entra nel panico per qualcosa che non è successo non sembra avere l’intenzione di scatenare l’escalation della guerra in Vietnam, ma qualcun altro ci ha pensato da solo. Non aspettava altro. L’esplicitazione dell’Ammiraglio ancorché moderata diventa tuttavia funzionale alla guerra già in corso e alla postura militare che la Nato ha già assunto. “Dovremmo agire in modo più aggressivo del nostro avversario”. Anche se sul piatto ci sono “questioni di quadro giuridico, di giurisdizione: chi lo farà?”. Già, quale organizzazione o nazione s’incaricherà d’attaccare per prima? E in ragione di quale minaccia concreta? E se il nemico ce l’avessimo in casa? La Nato sta facendo un gran baccano per presunti attacchi russi cyber, droni e sabotaggi. Tutte cose uscite dal manuale delle giovani marmotte anglo-ucraine. Cavo Dragone cita il successo dell’operazione Baltic Sentry nel Mar Baltico, dall’inizio della quale “non è successo nulla. Quindi significa che tale deterrenza sta funzionando”. Oppure che non erano russi i responsabili come non lo erano stati negli anni precedenti? Rispetto alla Russia, dice l’ammiraglio, la Nato “ha molti più vincoli a causa di etica, leggi e giurisdizioni”. Sarebbe vero se li rispettassimo. Che dire delle operazioni nei Balcani e altrove, illegali, illegittime, non provocate condotte dal 1990 in poi? “Dobbiamo analizzare come si ottiene la deterrenza: attraverso azioni di ritorsione o attraverso un attacco preventivo?”, si chiede l’Ammiraglio. Ce lo chiediamo tutti, ma è proprio vero che non ci siano alternative al contrattacco e all’attacco? Rendiamo seria la difesa Nato a partire dalla politica e dall’individuazione del nemico. Quello vero.

(di Marco Travaglio – il Fatto Quotidiano) – Bene ha fatto Mattarella a esprimere “vicinanza e solidarietà” al capo della comunità ebraica romana, Victor Fadlun, per i muri della sinagoga di Monteverde imbrattati con insulti antisemiti. Meglio avrebbe fatto due mesi fa a chiamare anche gli studenti e i docenti del liceo artistico Caravillani lì vicino, menati e insultati il 2 ottobre da una ventina di picchiatori usciti dallo stesso tempio ebraico mentre erano riuniti in cortile per discutere dello sterminio a Gaza e intonare […]
Il rifiuto del Dipartimento di Filosofia diventa un caso nazionale: autonomia accademica contro la pressione politica

(di Giulio Cavalli – lanotiziagiornale.it) – 29 novembre 2025, Bologna. La scintilla arriva da un palco istituzionale, quando il generale Carmine Masiello racconta che il Dipartimento di Filosofia dell’Alma Mater ha detto no a un corso su misura per 15 ufficiali. Bastano poche frasi perché tutto cambi tono. Il ministro Guido Crosetto: «Hanno chiuso la porta a chi li difende». La ministra Bernini rincara. Il caso diventa un processo pubblico, diretto non a un dipartimento, ma all’idea stessa di autonomia accademica.
Per capire l’impatto di quelle ore bisogna tornare al 23 ottobre 2025, nella sala dove il Consiglio di Dipartimento vota. Il progetto dell’Esercito prevedeva un percorso riservato, parallelo ai corsi ordinari. Non un’iscrizione libera, ma una convenzione chiusa. I docenti la respingono: «non sussistono le condizioni materiali e formali».
La politica trasforma la frase in un’accusa. Parla di paura, di pregiudizio, di campus assediato dai collettivi. Ma negli atti non ci sono né assedi né proclami. C’è una valutazione tecnica, il principio che la filosofia vive nel confronto aperto, non nella separazione di gruppi scelti.
E soprattutto c’è un dato che a Roma ignorano: Bologna forma già ufficiali. La collaborazione con l’Esercito è consolidata, strutturale, ampia. L’Ateneo ospita una laurea magistrale in Scienze strategiche e militari, costruita insieme alla Difesa. È un flusso costante di studenti in divisa, integrati nei percorsi universitari. Il rifiuto di Filosofia è un’eccezione, non una frattura.
La narrazione politica ribalta tutto: non un no a un privilegio, ma un no ai militari. Un atto amministrativo diventa un dispetto ideologico. È qui che il caso smette di essere locale e diventa un test per misurare la pressione del governo sulle istituzioni culturali.
Crosetto sceglie un registro preciso quando non discute di norme ma di lealtà. Non risponde alla domanda giuridica — chi decide cosa si insegna? — ma a un’altra, implicita: chi sostiene chi? È un linguaggio che sposta il terreno. Se gli ufficiali «difendono» i professori, allora ogni rifiuto può essere presentato come un torto morale. La ministra Bernini segue lo stesso schema: il dipartimento avrebbe «tradito» la missione formativa.
La realtà è più banale e più robusta: l’università non è vincolata a erogare formazione su richiesta di un altro potere dello Stato. L’autonomia non è un privilegio, è una funzione costituzionale, nata proprio per impedire che il governo indirizzi la produzione del sapere.
Ma la polemica si accende perché è utile. Permette di presentare l’Alma Mater come un baluardo ideologico, mentre in parallelo i dipartimenti scientifici lavorano con Leonardo, partecipano al Tecnopolo e utilizzano il supercalcolatore Leonardo per applicazioni civili e militari.
È questo paradosso a rendere la vicenda così rivelatrice: l’università che viene accusata di chiudere la porta alla divisa è la stessa che contribuisce alla sua infrastruttura tecnologica.
C’è un altro livello, quello meno dichiarato. La Difesa ha già rapporti forti con l’Ateneo sulla ricerca, sull’ingegneria, sulla tecnologia. Ciò che manca è la legittimazione culturale. Un corso di filosofia riservato agli ufficiali avrebbe segnato un passaggio simbolico decisivo: portare la “cultura della difesa” dentro il luogo che produce pensiero critico sul potere.
Un dipartimento umanistico che apre la propria didattica a un corpo armato non offre soltanto formazione: offre un riconoscimento. Il rifiuto dei filosofi ha bloccato questa operazione. E la reazione politica mostra quanto quel sigillo fosse considerato strategico.
Intanto, fuori dall’università, cresce la tensione: protocolli scuola-Difesa, studenti portati in caserme e fiere militari, moduli paramilitari mascherati da educazione civica. I docenti e le associazioni che monitorano la militarizzazione del sistema educativo parlano di una normalizzazione che avanza per accumulo. In questo quadro, il voto del Dipartimento non è solo una scelta disciplinare: è una linea tracciata.
Il punto, alla fine, non sono i 15 ufficiali e non è un corso mancato. Il punto è se un’università pubblica possa ancora decidere che cosa insegnare, come e a chi, senza dover adeguare la propria identità culturale alle aspettative del ministro della Difesa. È questo che rende la vicenda di Bologna un caso politico, prima ancora che accademico.
Napoli, 1° dicembre 2025 – La prima decade di dicembre offre ai visitatori di Palazzo Reale e di Villa Pignatelli occasioni di visite e aperture speciali.
VISITE TATTILI
In occasione della Giornata internazionale delle persone con disabilità che si celebra il 3 dicembre, al Palazzo Reale di Napoli e il Museo Pignatelli si organizzano due visite tattili che si svolgeranno il 5 e 11 dicembre, vista la chiusura settimanale del mercoledì dei due siti.
Ogni anno il Ministero della Cultura aderisce all’iniziativa proclamata nel 1992 dall’ONU, con lo slogan “Un giorno all’anno tutto l’anno”, ne promuove i valori sottesi, impegnandosi ad assicurare le migliori condizioni di accesso al patrimonio culturale.
Venerdì 5 dicembre alle ore 10.30 e 12.30 è in programma a Villa Pignatelli un percorso tattile con una storica dell’arte che condurrà i visitatori negli ambienti del Museo che permetterà di conoscere il sito attraverso un apprendimento sensoriale dedicato.
Giovedì 11 dicembre, sempre alle ore 10.30 e alle ore 12.30, è invece previsto l’appuntamento al Palazzo Reale di Napoli per una visita tattile all’insegna dell’accessibilità, a cura del personale ministeriale del Museo.
Il costo della visita è incluso nel biglietto d’ingresso del Museo (agevolazioni e gratuità secondo legge) , ma è obbligatoria la prenotazione sul sito www.palazzorealedinapoli.org.
UN SABATO DA RE
Sabato 6 dicembre, nell’ambito dell’iniziativa “Un Sabato da Re” il Palazzo Reale di Napoli e il Museo Pignatelli propongono l’ultima apertura serale dell’anno per visitare gli spazi museali in orario serale a una tariffa ridotta.
Il Palazzo Reale di Napoli sarà straordinariamente aperto al pubblico dalle ore 20.00 alle ore 24.00 al costo di 5,00 euro, mentre l’orario del Museo Pignatelli è dalle 19.30 alle 23.30 al costo di 3,00 euro.
Ma per chi volesse visitare entrambi i siti, c’è la possibilità di acquistare il biglietto cumulativo serale “Un Sabato da Re – Palazzo Reale + Museo Diego Aragona Pignatelli Cortes”che consente l’accesso ad entrambi i Musei durante gli orari di apertura serale al costo di 6,00 euro.
Inoltre, dalle ore 21.00 alle ore 22.30, sarà organizza alla reggia napoletana una visita guidata a tema durante la quale una storica dell’arte e un restauratore di orologi antichi illustreranno al pubblico gli elementi più significativi preziosa collezione di orologi del XVIII e XIX secolo di manifattura francese e inglese, tra cui una rarissima macchina musicale realizzata da Charles Clay nel 1730.
Il costo della visita è di 3,00 euro oltre all’acquisto del biglietto d’ingresso al Palazzo mentre la prenotazione è obbligatoria fino al raggiungimento della capienza massima del gruppo sul sito di Palazzo Reale
DOMENICA AL MUSEO
Domenica 7 dicembre, il Palazzo Reale di Napoli e il Museo Pignatelli garantiranno l’accesso gratuito ai propri visitatori ai consueti orari di apertura, aderendo all’iniziativa ministeriale che prevede la gratuità di tutti i luoghi della cultura statali la prima domenica del mese.
Lunedì 8 dicembre, in occasione della festa dell’Immacolata Concezione, i due siti saranno regolarmente aperti al pubblico ai consueti costi e orari di apertura.–
DIANA KÜHNE
ufficio stampa

Su e giù per la Penisola. E non solo. Incrociando ovunque plauso e piena condivisione critica. Anche il 2025 è stato anno ricco di soddisfazioni e di riscontri per la pianista di Airola Giulia Falzarano, uno dei tanti talenti sbocciati in seno all’Accademia musicale “Mille e una Nota”, riferimento guidato dal Direttore artistico, Maestro Anna Izzo. Il recente concerto sviluppatosi presso l’Auditorium Nino Rota di Bari con l’Orchestra Sinfonica della locale Città Metropolitana, diretta dal Maestro Vahan Mardirossian, ha rappresentato il punto esclamativo posto su un anno scandito da tappe che hanno portato la pianista ad esibirsi in prestigiosi contesti su tutto il territorio nazionale. In ordine sparso, la rassegna “Dal Barocco all’Impressionismo” a Forte dei Marmi, “Un pianoforte virtuoso” a Potenza, i concerti di Acerra, Ascoli Piceno, l’apprezzatissima performance a Napoli presso la Sala Chopin a Palazzo Mastelloni. Ed ancora Castel di Sangro – presso il Teatro comunale Francesco Paolo Tosti – e San Leo, nella Sala Concerti del Palazzo Mediceo, dove la Falzarano si è esibita quale vincitrice della Categoria III e del Premio Classico al Concorso pianistico della Città di Minerbio.
Non poteva mancare la sua Benevento ed il concerto, nella cornice dell’Hortus conclusus, con la locale Orchestra Filarmonica.
Non solo Italia, come detto. Il 2025 di Giulia Falzarano ha fatto tappa anche all’Estero con la doppia sortita polacca. Dapprima a Wroclaw, il 30 Agosto, nell’aula leopoldina dell’Oratorium Marianum insieme all’Orchestra dell’Università di Breslavia ed al Maestro Bartosz Żurakowski; il 1 Settembre, poi, a Luban.
Tra tanti impegni, altresì, anche il tempo per cogliere un importante obiettivo accademico: qualche settimana addietro, infatti, la pianista caudina ha conseguito il Diploma accademico di I livello presso il Conservatorio Niccolò Piccinini di Bari riportando la votazione di 110 e lode con menzione d’onore, sempre accompagnata nel suo percorso il Maestro Pasquale Iannone.
All’età di cinque anni già capace di cogliere un primo successo in un Concorso internazionale, ora, quando gli anni sono appena venti, le prospettive si confermano e aprono sempre più importanti.
La premier attacca l’ateneo emiliano, che non aveva voluto creare un corso in filosofia per giovani ufficiali: “Atto incomprensibile e gravemente sbagliato”

(ilfattoquotidiano.it) – “Un atto incomprensibile e gravemente sbagliato“. Giorgia Meloni attacca così l’Università di Bologna, per la decisione del Dipartimento di Filosofia di negare la richiesta di avviare un corso di laurea in filosofia per i giovani ufficiali dell’esercito. La premier definisce quella dell’ateneo emiliano “non solo” come “una scelta inaccettabile”, ma anche “un gesto lesivo dei doveri costituzionali che fondano l’autonomia dell’Università. L’Ateneo in quanto centro di pluralismo e confronto, ha il dovere di accogliere e valorizzare ogni percorso di elevazione culturale, restando totalmente estraneo a pregiudizi ideologici. Questo rifiuto implica una messa in discussione del ruolo stesso delle Forze Armate, presidio fondamentale della difesa e della sicurezza della Repubblica, come previsto dalla Costituzione”.
Per la premier, “arricchire la formazione degli ufficiali con competenze umanistiche è un fattore strategico che qualifica ulteriormente il servizio che essi rendono allo Stato. È proprio in questa prospettiva di difesa e di impegno strategico, spesso in contesti internazionali complessi, che la preparazione non può essere solo tecnica”. “Avere personale formato anche in discipline umanistiche – continua la presidente del Consiglio – garantisce quella profondità di analisi, di visione e di pensiero laterale essenziale per affrontare le sfide che alle Forze Armate sono affidate. Una preparazione completa è garanzia di professionalità per l’intera Nazione. Ribadisco personalmente e a nome del Governo – conclude Meloni – il pieno e incondizionato sostegno all’Esercito e alle Forze Armate e condanno fermamente ogni tentativo di isolare, delegittimare o frapporre barriere ideologiche a un dialogo istituzionale così fondamentale per l’interesse nazionale”.
Il caso nasco dalla segnalazione del Capo di Stato Maggiore dell’Esercito Carmine Masiello di avviare un corso di laurea in filosofia per i giovani ufficiali (una quindicina) che nel suo intervento agli Stati Generali della Ripartenza tenutisi nei giorni scorsi a Bologna, ha raccontato di aver chiesto senza successo all’Alma Mater l’avvio di un CdL in filosofia apposito per i suoi pochi ufficiali. Il Capo dell’Esercito, pur non volendo “giudicare scelte che competono ad altre istituzioni” ha letto il rifiuto dell’Ateneo come una specie di discriminazione. “Rappresento che un’istituzione come l’esercito non è stata ammessa all’Università. Non è una polemica ma una cosa che mi ha sorpreso e deluso. Questo è sintomatico dei tempi che viviamo e di quanta strada ancora c’è da percorrere, perché la nostra opinione pubblica, in generale, e i giovani, in particolare, capiscano qual è la funzione delle forze armate nel mondo che stiamo vivendo”.
L’Università di Bologna, con una nota, replica di non avere “mai ‘negato’ né ‘rifiutato’ l’iscrizione a nessuna persona. Come per tutti gli Atenei italiani, chiunque sia in possesso dei necessari requisiti può iscriversi liberamente ai corsi di studio dell’Ateneo, comprese le donne e gli uomini delle Forze Armate”. L’Ateneo sottolinea che “il tema oggetto di discussione riguarda non l’accesso ai corsi, bensì una richiesta di attivazione proveniente dall’Accademia, anche in virtù delle collaborazioni pregresse, per un percorso triennale di studi in Filosofia strutturato in via esclusiva per i soli allievi ufficiali”: un percorso, spiega Unibo, che prevedeva 180 crediti formativi complessivi, “lo svolgimento delle attività interamente presso la sede dell’Accademia, secondo il relativo regolamento interno, e un significativo fabbisogno didattico”. In questo quadro, “l’Accademia si rendeva disponibile a sostenere i costi dei contratti di docenza”. “La proposta è pervenuta al Dipartimento di Filosofia, competente a valutare preliminarmente la sostenibilità didattica, la disponibilità di docenti, la coerenza con l’offerta formativa e l’insieme delle risorse necessarie, che vanno ben oltre il costo di eventuali contratti di docenza. Dopo un articolato confronto interno – si legge ancora nella nota – il Dipartimento ha ritenuto di non procedere, allo stato dei fatti, alla deliberazione sull’attivazione del nuovo percorso. L’Università di Bologna, nel pieno rispetto dell’autonomia dei Dipartimenti, ha comunicato tale decisione ai vertici dell’Accademia Militare già lo scorso ottobre, manifestando al tempo stesso la piena disponibilità a ogni futura interlocuzione“, conclude la nota.
“Grave attacco all’autonomia accademica. L’università resta un luogo libero, pubblico e aperto a tutte e tutti” commenta Alleanza Verdi-Sinistra Emilia-Romagna. “Le dichiarazioni dei ministri Crosetto, Bernini e Piantedosi destano sconcerto e preoccupazione – afferma Avs -. Siamo di fronte all’ennesimo tentativo di delegittimare l’autonomia degli atenei, principio fondamentale garantito dalla Costituzione”. Il nodo della vicenda, prosegue il gruppo, riguarda la richiesta dell’Esercito di istituire “un percorso triennale chiuso ed esclusivo. Quali altre categorie professionali hanno mai beneficiato di corsi universitari inaccessibili al resto della comunità studentesca?”. Secondo Avs, la missione pubblica dell’università “si fonda sulla libera ricerca, sulla formazione aperta e sulla piena indipendenza da interessi esterni, siano essi politici, economici o militari”. Un corso “su misura”, aggiungono, non sarebbe compatibile con questi principi né con il ruolo dell’università “come luogo finanziato dalle cittadine e dai cittadini e accessibile a tutte e tutti”. “Gli ufficiali delle forze armate, come chiunque altro, possono iscriversi ai corsi esistenti: nessuno ha mai negato loro questa possibilità”, prosegue la nota, che critica l’idea di un’università “come scaffale di esami o percorsi costruiti su commessa per specifiche organizzazioni. Difendere l’università pubblica significa difendere la libertà, la democrazia e lo spazio critico della conoscenza. Continueremo a farlo”.
L’intervento della premier arriva dopo le dichiarazioni di altri ministri del suo governo dei giorni scorsi. “Se fossi una facoltà di Filosofia e il capo di Stato maggiore mi chiedesse di formare i miei ufficiali, allargando la loro mente il più possibile, ne sarei onorato – aveva dichiarato ieri il ministro della Difesa, Guido Crosetto – Sarei onorato di contribuire al fatto di migliorare il più possibile la cultura, l’esperienza e la capacità di analisi delle persone a cui la Costituzione affida l’uso della forza per la mia difesa”, ha aggiunto. “Abbiamo bisogno di Forze Armate che siano il più preparate possibile. Il più colte e visionarie possibile. Perché a loro abbiamo affidato la nostra sicurezza. Più sono intelligenti e preparate e più sono in grado di capire i fenomeni che accadono nel mondo – e la facolta di filosofia li avrebbe aiutati in questo – meglio è per il nostro futuro”.
“Una decisione incomprensibile – aveva scritto il ministro dell’Interno, Matteo Piantedosi, su Facebook – quella di alcuni professori dell’università di Bologna che hanno negato a un gruppo selezionato di 15 giovani ufficiali dell’Esercito dell’Accademia di Modena la possibilità di frequentare un corso di laurea in Filosofia, nel timore di una presunta ‘militarizzazione dell’Ateneo’. Mi addolora ancora di più che tutto questo sia avvenuto proprio in una città colta e aperta come Bologna, nella più antica Università al mondo, che da sempre rappresenta un punto di riferimento internazionale dei valori di laicità, cultura e pensiero. Un ateneo deve per sua natura promuovere una cultura basata sulla libertà, sulla tolleranza, sul rispetto delle differenze e sull’uso critico e ragionato delle idee, senza che una sola visione domini sulle altre. Deve operare per il progresso intellettuale dell’uomo. Di qualsiasi uomo. E Bologna lo ha sempre fatto”. “D’altronde un’università non può essere gestita come una sezione di partito, chiudendosi rispetto all’esterno. Infine, a questi professori e ai sostenitori di tale scelta voglio ricordare che gli ufficiali a cui è stato negato il diritto allo studio hanno giurato sulla Costituzione per garantire la sicurezza dei cittadini, compresa la loro, e che questi militari si sono impegnati a farlo, ove necessario, a costo della loro stessa vita”.
Sabato dopo il colloquio con il rettore dell’Università di Bologna, Giovanni Molari, la ministra dell’Università e della Ricerca, Anna Maria Bernini, aveva avuto una conversazione telefonica anche con il generale Carmine Masiello, Capo di Stato Maggiore dell’Esercito per esprimere rammarico e delusione.

(dagospia.com) – Homo homini Lupi… Il moderatissimo ciellino Maurizio Lupi s’agita, scalpita, si barcamena. Sa di essere conteso tra Ignazio La Russa e Giorgia Meloni. Sembra incredibile ma, ormai, siamo in caduta libera…
Se il presidente del Senato l’ha indicato come candidato in pectore alla carica di sindaco di Milano, per il centrodestra, sfanculando il candidato della Ducetta, il fedelissimo Carlo Fidanza.
La premier della Sgarbatella a denti stretti ha capito che in Lombardia i Fratelli d’Italia non toccano palla, comandano solo i Fratelli La Russa, allora ha ripiegato su un Lupi in funzione anti-Salvini.
La “centralità” del sosia della figlia di Fantozzi non è tanto dovuta ai voti, che non ha (Noi moderati in Campania, regione di Mara Carfagna, ha preso appena l’1,27%), quanto piuttosto al suo essere una leva per scardinare i vecchi equilibri nella maggioranza. Lupi, infatti, si è spostato ormai sempre più a destra: se un tempo si parlava di un’opa di Forza Italia su Noi moderati, ormai la formazione, incardinata nel Partito popolare europeo, è una “costoletta” di Fratelli d’Italia
È per questo che Giorgia Meloni, presidente del Consiglio di un Paese del G7, con un’agenda fittissima di visite di stato, summit europei, video-call con intelligence e diplomazia, ha trovato il tempo di recarsi all’assemblea di Noi moderati, il nano-partito di Lupi, al Marriott Park Hotel di Roma.
Essì: serviva far sentire importante il Maurizio, il cui partitino che potrebbe tornare utile alla causa di de-salvinizzazione che ha in mente la Ducetta del Colle Oppio per infine affiancarsi ai democrisrìtiani del Partito Popolare Europeo, che detestano il “patriottismo” orbaniano anti-EU di Salvini .
Dal palcoscenico, non a caso, la Ducetta del Colle Oppio ha ribadito la necessità (secondo lei) di procedere spediti con premierato e nuova legge elettorale.
Le nuove regole immaginate dalla sora Giorgia sono kryptonite per Salvini: come scrivevamo su Dagospia la scorsa settimana: “la soglia del 40% permetterebbe alla “Giorgia dei Due Mondi” (Colle Oppio e Garbatella) di fare a meno della Lega. Il calcolo è presto fatto: con Fdi al 30-31%, Forza Italia al 9-10% e cespugli centristi tra l’1-2%, l’ex Truce del Papeete, ormai alleato rompicojoni, non serve più”.
E ‘Gnazio? La Russa questa volta ha avuto la buona creanza di non presentarsi: in quanto seconda carica dello Stato, riveste un ruolo super partes di cui spesso si dimentica. Inolte, lo stesso Lupi è dubbioso sulle avance del mai paludato ras siculo-lombardo di Fdi:
Certo, Lupi è stuzzicato dall’idea di diventare sindaco di Milano, ma le elezioni ci saranno solo nel 2027. Campa cavallo: “Lui mi candida, ma nel frattempo tutto può succedere…”. E allora mostrarsi disponibile alla Statista della Sgarbatella può sempre servire…
Tre volontari italiani picchiati e derubati da coloni israeliani, ma il governo italiano non prende posizione né chiama l’ambasciatore

(Beppe Giulietti – ilfattoquotidiano.it) – Prima gli italiani? Ma quali?
Come ha già raccontato il Fatto Quotidiano, in modo preciso e dettagliato, tre volontari italiani sono stati derubati e picchiati da un gruppo di coloni israeliani, picchiatori e squadristi, impegnati nel rubare acqua, terre, case, cibo ai legittimi proprietari palestinesi.
A Gaza si uccide, in Cisgiordania pure. Non da oggi, almeno dal 1948. Il governo italiano ha balbettato qualcosa di incomprensibile, non ha neppure chiamato l’ambasciatore israeliano a Roma; nella corte sovranista, ai comandi di Trump e Netanyahu, non c’è spazio per il dissenso di cortigiane e cortigiani. Gli italiani impegnati nella difesa dei diritti dei palestinesi non contano nulla, sono soggetti pericolosi, sgraditi agli oligarchi di ogni colore.
“Prima gli italiani” non vale neppure per Giulio Regeni, per Mario Paciolla, per Andrea Rocchelli, Ilaria Alpi, Miran Hrovatin, in tutti questi casi governo silente, incapace persino di far finta di chiedere spiegazioni formali a Egitto, Ucraina, Colombia, Né all’Onu – visto che Mario Paciolla lavorava per l’Onu. Per non parlare di Alberto Trentini sempre rinchiuso in un carcere venezuelano.
Camilo Castro, detenuto come Alberto, è già tornato a casa sua, perché la Francia si è limitata a dichiarare che non avrebbe partecipato a nessuna azione decisa in modo unilaterale da Trump contro il Venezuela di Maduro. L’Italia non ha voluto fare neppure questo, per non rischiare di inquietare il capo dei sovranisti. Altro che prima gli italiani!
Sei articoli aggirano la sentenza della Corte e cristallizzano le disuguaglianze per legge. L’opposizione: ostruzionismo

(di Marco Palombi – ilfattoquotidiano.it) – La scoppola è stata pesante e i parlamentari del Sud di FdI e FI, specie di Campania e Puglia, a mezza bocca la attribuiscono anche al ritorno di fiamma del governo Meloni per l’autonomia differenziata: sei contestati articoli ad hoc infilati nella manovra e, poco prima del voto, pure le pre-intese firmate da Roberto Calderoli con Veneto, Lombardia, Piemonte e Liguria per devolvere poteri in 4 ambiti (gestione delle risorse sanitarie, protezione civile, professioni non ordinistiche e previdenza complementare) in cui non vanno precedentemente definiti – a parere dell’esecutivo e dei suoi tecnici – i famosi Lep, cioè i Livelli essenziali delle prestazioni che vanno garantiti a tutti i cittadini.
Il problema di quegli eletti del Sud è che se loro hanno perso, e male, il vincitore delle Regionali a destra è Luca Zaia, il vero padre della cosiddetta “secessione dei ricchi”: scontentarlo ora sarà difficile, tanto più che Giorgia Meloni potrebbe volerlo usare in chiave anti-Salvini. Per questo la premier che pronuncia la parola “nazione” con la maiuscola sta per far votare in Parlamento che le disuguaglianze territoriali sono stabilite per legge, immutabili.
Per capire il livello della forzatura firmata Calderoli serve un piccolo riassunto. Come il lettore ricorderà, un anno fa la Corte costituzionale ha fatto a pezzi la legge per l’autonomia differenziata: ne ha cancellati sette punti e ha dato una lettura “costituzionalmente orientata” (e cioè contraria a quella di Calderoli) su tutto il resto. In particolare la Consulta ha ribadito che il Parlamento va coinvolto nelle intese e può emendarle, che il governo non può decidere i Lep a colpi di Dpcm, che la devoluzione non può avvenire in blocco per materie ma per singole funzioni, che vada sempre dimostrata la maggiore efficienza della gestione locale, che alcune materie non possano proprio essere trasferite anche se sono citate nella Costituzione versione 2001 (tutela dell’ambiente, energia, porti e aeroporti, etc.) e molto altro.
La prima reazione di Calderoli e soci è stata scrivere una nuova legge, che da settembre giace su un binario morto in Senato. La seconda è stata infilare nella legge di Bilancio, complice il collega di partito Giancarlo Giorgetti, sei articoli in cui si definiscono i Lep in alcune materie, il passo preliminare prima di devolverle alle Regioni: l’orizzonte del piano è il 2027, l’anno in cui si tornerà al voto. La scoperta di quei sei articoli ha irritato parecchi dentro Fratelli d’Italia e Forza Italia, ma prima del voto nelle Regioni non si poteva dir nulla: ora, però, è troppo tardi. Nel frattempo, come detto, Calderoli gli ha fatto ingoiare pure la firma di quattro “pre-intese” con le regioni ordinarie del Nord, tutte amministrate dal centrodestra. Questa settimana, infine, si inizia a votare la manovra in Senato e l’autonomia tornerà sulle prime pagine: le opposizioni chiedono lo stralcio di quegli articoli e hanno deciso di fare (un po’ di) ostruzionismo se non saranno accontentate.
Le proteste sono il minimo, perché il piattino preparato da Calderoli è decisamente indigesto: un irrispettoso surf tra le virgole della sentenza dalla Consulta per aggirarla, violarla in qualche caso, e stabilire che l’autonomia differenziata si fa a risorse vigenti, cioè perpetuando le diseguaglianze territoriali che tutti conoscono: per evitare problemi, politici e di bilancio, basta scrivere in una legge che i Lep sono quelli garantiti dai soldi che spendiamo ora. Siamo nel migliore dei mondi possibili e non lo sapevamo. In un articolo ad esempio, il 124 per la precisione, si stabilisce che i Lep nella sanità esistono già e sono i cosiddetti Lea, livelli essenziali di assistenza. Poco importa che i Lea non vengano rispettati in gran parte delle Regioni, quasi sempre per mancanza di personale, macchinari e risorse: “Al finanziamento dei Lea si provvede mediante le risorse disponibili a legislazione vigente”. Cioè non si provvede e dove la sanità non funziona pace. Intanto i Lep ci sono e si può regionalizzare quel poco che era rimasto allo Stato.
Lo schema viene ripetuto, e in maniera persino più esplicita, altre tre volte. In materia di assistenza si stabilisce, per dire, che i Lep sono un assistente sociale ogni 5mila abitanti e, nelle equipe multidisciplinari, uno psicologo ogni 30mila abitanti e un educatore socio-pedagogico ogni 20mila (a questo fine si stanziano 200 milioni dal 2027). Il Lep dell’assistenza domiciliare agli anziani non auto-sufficienti è invece dichiaratamente una presa in giro: un’ora a settimana, ma compatibilmente con le risorse esistenti… Contemporaneamente vengono però ribaditi tutti quei bei piani teorici per le Case di comunità, i Progetti di assistenza individuale, i servizi di supporto alle famiglie tanto notturni che diurni. Tutta roba che gran parte degli italiani non ha mai visto e mai vedrà: “La disposizione – dice la Relazione tecnica – non comporta nuovi oneri, ma valorizza le risorse esistenti”.
Il giochino si ripete per il sostegno ad alunni e studenti con disabilità: il Lep, dice la manovra, sono le ore dedicate a ciascun studente. In futuro si vedrà, intanto “in via transitoria” il Lep è fissato alle ore che si possono fare coi fondi già a disposizione: 50 ore all’anno per studente, calcola la Ragioneria generale, che specifica peraltro come si tratti di “un obiettivo” la cui “attuazione è subordinata alla disponibilità delle risorse”. Quanto alle borse di studio per studenti universitari, se non altro i fondi aumentano di 250 milioni l’anno: resta che saranno ripartiti come al solito sul costo storico, che è una fonte di riconosciuto squilibrio (dallo stesso ministero) a danno dei territori più poveri. L’orizzonte per la devoluzione di queste materie, come detto, è il 2027 delle prossime Politiche. E come si decide la distribuzione dei fondi? Niente paura, ci penserà il governo via Dpcm con tanti saluti alla Consulta.
Il silenzio delle armi dice più delle negoziazioni

(Giuseppe Gagliano – lafionda.org) – A Ginevra, nelle sale illuminate da luci neutre e immerse nella ritualità diplomatica, le delegazioni occidentali e ucraine si sfidano attorno a progetti di pace rivisti, corretti, respinti e riscritti. Ma mentre il teatro diplomatico va in scena, la verità decisiva si esprime altrove, là dove i mezzi corazzati scavano il terreno e dove le mappe cambiano ogni settimana. Sono le linee del fronte, e non le dichiarazioni politiche, a fissare già oggi i termini della pace che verrà: il campo di battaglia scriverà la pace. Ed è questo scarto, tra il linguaggio del terreno e quello delle cancellerie, a rivelare tutta la profondità della crisi europea.
Un fronte che avanza mentre l’Europa distoglie lo sguardo
Le ultime settimane hanno messo in evidenza una realtà che molti preferiscono ignorare. Diverse città considerate essenziali per la stabilità delle difese ucraina sono cadute o sono ormai accerchiate. A nord, la spinta russa attorno a Kupyansk apre due possibili sacche che minacciano migliaia di soldati ucraini. A est, le forze russe sono penetrate in varie località che Kiev presentava come bastioni. A sud, l’avanzata verso Zaporizhzhia si è riattivata con un’intensità inattesa, approfittando di trincee insufficienti e di linee logistiche ormai esauste.
Il silenzio mediatico che accompagna questi sviluppi è rivelatore. Quando nessuno parla del campo di battaglia, significa spesso che la situazione evolve in una direzione difficile da accettare. Quel silenzio è il sintomo più evidente del collasso della narrativa occidentale sull’equilibrio strategico. E chi siede oggi ai tavoli negoziali lo fa da posizioni sempre più lontane dalla realtà militare.
L’avanzata russa come strumento di negoziazione
L’accelerazione russa non ha nulla di fortuito. È strettamente legata ai negoziati in corso. Più il fronte avanza, più la Russia accumula “fatti compiuti” che diventeranno la base di qualsiasi accordo futuro. Il concetto centrale è semplice: la linea di controllo nel giorno dell’armistizio. Mosca lo conosce da decenni. Washington ha imparato a conviverci. Kiev tenta disperatamente di evitarlo.
Per questo gli assalti si moltiplicano, le pressioni convergono verso Zaporizhzhia e il Donbass torna a essere un labirinto di corridoi esposti. Sul campo, la Russia vuole entrare nella trattativa come potenza che ha imposto la propria lettura dei fatti, non come attore costretto a compromessi astratti.
Un esercito ucraino vicino all’esaurimento
Kiev oggi combatte non soltanto contro una potenza superiore, ma anche contro un declino logistico profondo. Gli attacchi russi contro le locomotive hanno paralizzato la distribuzione delle munizioni. Le trincee mancano in varie zone chiave. Le rotazioni dei reparti diventano rare. Le armi occidentali arrivano col contagocce. E soprattutto cresce tra i soldati una domanda: cosa difendiamo ancora, se le posizioni cedono e gli arsenali si svuotano?
La convinzione morale non basta più. L’esercito ucraino ha bisogno di un sistema di sostegno che non possiede più. E questa fragilità militare si riflette immediatamente in fragilità politica.
Gli Stati Uniti preparano l’uscita, non il rilancio
Il piano statunitense ha introdotto un cambiamento di linea. Prevede neutralità per l’Ucraina, limitazioni sulle future alleanze, una riduzione drastica delle forze armate e concessioni territoriali fondate sulla situazione del fronte. La logica è chiara: chiudere il conflitto, non prolungarlo. Washington vuole liberare risorse per la competizione strategica con la Cina, riaprire canali di dialogo con Mosca su dossier globali e porre fine a una guerra che, per gli Stati Uniti, è diventata più un ostacolo che un vantaggio.
L’Ucraina, in questa visione, non è un tema esistenziale. Lo è invece per la Russia, e questa asimmetria spiega il nuovo equilibrio diplomatico.
Un’Europa spettatrice, non protagonista
L’Europa appare paralizzata. Da un lato, capitali che evocano una possibile guerra diretta con la Russia. Dall’altro, paesi che non dispiegheranno alcun soldato e che vedono nella continuazione del conflitto una minaccia mortale per economie già indebolite dal costo dell’energia. La frattura è totale. E soprattutto l’Unione Europea non ha alcun ruolo reale nelle negoziazioni. I suoi documenti vengono ignorati. Le sue prese di posizione non spostano nulla. L’Europa non è al tavolo: l’Europa è sul tavolo.
E quando una regione divisa, indebolita e lenta non può influenzare la diplomazia, la pace si decide altrove.
Verso una nuova ripartizione delle zone d’influenza?
Tra Washington e Mosca si delinea un accordo che va molto oltre la questione ucraina. Ciò che sta prendendo forma potrebbe essere una nuova ripartizione delle sfere di influenza, una sorta di Yalta aggiornata. L’Ucraina sarebbe solo il primo capitolo, non l’ultimo. L’Europa, politicamente e militarmente indebolita, rischia di tornare a essere terra di mezzo tra due grandi potenze. Ciò che non è riuscita a diventare — una potenza autonoma — la trasforma oggi in un oggetto geopolitico.
La pace nascerà dal terreno, non dai comunicati
La conclusione è amara ma inevitabile. Le negoziazioni non stanno scrivendo la fine della guerra. La stanno registrando. È il campo di battaglia ad aver parlato. E la pace — qualunque ne sarà la forma — sarà la traduzione diplomatica di ciò che gli eserciti hanno già deciso.
La guerra non finisce nelle conferenze stampa. Finisce là dove si combatte. E oggi questa verità è più visibile che mai.

(di Milena Gabanelli e Claudio Gatti* – corriere.it) – Uno spettro si aggira per il vecchio continente: è quello della disgregazione dell’Unione Europea. Nel suo recente non-paper, dal titolo «Il contrasto alla guerra ibrida: una strategia attiva», il ministro della Difesa Guido Crosetto ha parlato di «Stati autoritari» che, in modo «subdolo», alimentano la «delegittimazione» dei processi democratici interni e delle «alleanze sovranazionali come l’Ue». Il ministro ha fatto i nomi: Russia, Cina, Iran e Corea del Nord. Ma c’è un convitato di pietra: a minare l’Unione Europea, insieme a Putin, c’è anche l’America di Donald Trump e dei suoi suggeritori strategici, a partire dalla Heritage Foundation, think tank ultraconservatore che ha prodotto il «Project 2025». Si tratta del documento programmatico che Trump ha adottato per affermare la supremazia presidenziale, sopprimendo molti degli anticorpi che la Costituzione Usa ha creato a protezione della democrazia.
Lo smembramento dell’Unione Europea è da vent’anni uno degli obiettivi strategici della Heritage Foundation. In tempi più recenti la Foundation ha sviluppato un’alleanza con quelle stesse associazioni e amministrazioni dell’ultradestra sovranista europea coltivate da Vladimir Putin.
Per decenni il leader russo ha usato le forniture di gas per esercitare un’influenza politica sui singoli Stati membri dell’Ue e, dopo l’invasione della Crimea, ha fatto leva sulla dipendenza della Germania da quel gas (il 50% dei consumi fino al 2022) per spingerla a opporsi a sanzioni più severe chieste dagli Stati confinanti con la Russia. Così come oggi Putin sta usando la dipendenza dell’Ungheria dal suo petrolio per spingere Orbán a mettere i bastoni tra le ruote di una politica unitaria continentale.
Ma un’Unione Europea forte si scontra anche con la strategia dell’America First sostenuta da Donald Trump, che ha tutto l’interesse a indebolire il coordinamento istituzionale e il potere collettivo europeo. La miglior riprova di questa apparentemente paradossale coincidenza di interessi tra Putin e Trump è stata fornita dalla Brexit. L’uscita dalla Ue della Grand Bretagna è stata infatti fortemente sostenuta da entrambi. Ed entrambi hanno usato lo stesso canale per favorirla: Nigel Farage, il politico inglese che il presidente americano continua ancora oggi a sponsorizzare e il cui fedele luogotenente Nathan Gill è stato appena condannato a 10 anni per essere stato portatore della propaganda del Cremlino sulla guerra in Ucraina.
A febbraio di quest’anno Donald Trump ha dichiarato senza alcuna remora diplomatica che «l’Unione Europea è stata creata per fregare gli Stati Uniti: quello è il suo scopo» (qui) e che «è per molti versi peggio della Cina». Si potrebbe pensare che si tratti di esternazioni tipiche del personaggio, ma gli stessi promotori del manuale strategico di Trump ritengono la Ue un avversario da smantellare.
L’attività anti Ue della Heritage Foundation, che ricordiamo è considerato il centro studi ultraconservatore più grande e influente a livello internazionale, è diventata più esplicita negli ultimi 20 anni, con un’accelerazione dal 2022. Passiamo in rassegna fatti e documenti.
Giugno 2005: l’ex vicedirettore per le comunicazioni strategiche della Heritage Foundation Lee Casey scrive: «Dal punto di vista degli Stati Uniti, la mancata approvazione della Costituzione Europea ai referendum in Francia e Olanda rappresenta un duro colpo allo stesso progetto europeo (…). Ed è giunto il momento che i politici americani mettano in discussione tale progetto».
Dicembre 2006, in un rapporto intitolato «L’Ue è amica o nemica dell’America?», il ricercatore della Heritage Foundation John Blundell scrive: «Le differenze politiche tra Europa e Stati Uniti si sono moltiplicate e approfondite. (…) non c’è alcun motivo per cui gli Stati Uniti, che hanno fatto da levatrice alla nascita di questo neonato politico, non debbano svolgere un ruolo nella sua scomparsa» (qui).
Febbraio 2007, il dirigente Nile Gardiner scrive: «La crescente centralizzazione politica dell’Europa rappresenta una minaccia fondamentale per gli interessi degli
Stati Uniti (…). Nulla è mai certo nella storia. La spinta verso un’Unione sempre più stretta può ancora essere fermata».
Nel 2020 il primo ministro dell’Ungheria, Victor Orbán, grande nemico dell’integrazione europea, cede una quota del 10% della compagnia petrolifera ungherese Magyar Olaj (Mol) al Mathias Corvinus Collegium (Mcc), un centro studi schierato su posizioni di chiaro euroscetticismo. Ed è soprattutto dagli utili della Mol, per lo più dovuti alla vendita di petrolio russo, che arrivano i finanziamenti annuali del Collegium. L’emittente tedesca Zdf ha calcolato che nel solo 2023 ha ricevuto da Mol 50 milioni di euro in dividendi (qui).
A novembre 2022, in un discorso tenuto a Budapest davanti un pubblico di euroscettici ungheresi, il presidente della Heritage Kevin Roberts afferma: «Lo Stato-nazione ha due principali avversari, da un lato c’è il nemico che viene dall’alto: le organizzazioni sovranazionali (…) dall’altro c’è il nemico che viene dal basso: i propagandisti woke (…). E non esiste una cricca di élite globalista più pericolosa dei totalitari woke di stanza a Bruxelles.» (qui). Il 19 settembre 2024 l’Heritage organizza una conferenza a Varsavia per contrastare il «pericoloso progetto» di consolidamento della Ue assieme al think tank euroscettico polacco Ordo Iuris. Come il confratello ungherese, anche l’Ordo Iuris ha legami con Mosca tramite il World Congress of Families, associazione finanziata dall’oligarca russo Konstantin Malofeev e strettamente legata al politologo putiniano Aleksandr Dugin (qui). Lo stesso sito di Ordo Iuris scrive che «al termine della conferenza sono state prese alcune decisioni preliminari su attività congiunte da intraprendere» (qui)
E veniamo a quest’anno. Pochi giorni dopo il suo insediamento Trump dichiara pubblicamente: «Gli europei sono come i democratici, ci odiano (…) per decenni il nostro Paese è stato saccheggiato, depredato, violentato e spogliato (…). Denunceremo l’Unione Europea.».
L’11 marzo l’Heritage Foundation riunisce a Washington alcune delle maggiori associazioni euroscettiche d’oltreatlantico per discutere di come riformare le attuali strutture dell’Ue. In quell’occasione, in un «workshop a porte chiuse» si dibatte un rapporto prodotto da Mcc e Ordo Iuris intitolato «Il Great Reset: ripristinare la sovranità degli Stati membri nel XXI secolo». Il documento invoca «lo scioglimento dell’Ue nella sua forma attuale» (qui)
Nell’aprile 2025, il dirigente dell’Heritage Foundation Nile Gardiner elogia Trump dicendo che «è l’unico presidente americano ad essersi opposto attivamente al progetto europeo» (qui).
Il 1 maggio, a un mese dal ballottaggio delle elezioni presidenziali polacche, in un incontro nello Studio Ovale Donald Trump fa l’endorsement a Karol Nawrocki, il candidato euroscettico e contrario a una maggiore integrazione europea (qui). Pochi giorni dopo, in un convegno a Varsavia, la segretaria alla Sicurezza Interna americana Kristi Noem, elogiando pubblicamente Nawrocki, esorta i polacchi a votare per lui. La rivista online DeSmog, che ha ottenuto un file audio dell’evento, scrive: «I relatori hanno parlato in termini apocalittici del futuro dell’Unione Europea e uno di loro ha promesso di “liquidare” la Commissione Europea» (qui).
L’agenzia di stampa britannica Reuters rivela che in quegli stessi giorni una delegazione del Dipartimento di Stato incontra a Parigi alti funzionari del Rassemblement National di Marine Le Pen, il partito più euroscettico della Francia (qui). La delegazione è guidata da Samuel Samson, il funzionario dell’Ufficio per la democrazia, i diritti umani e il lavoro (Drl) del Dipartimento di Stato. Samson fa parte di un gruppo di giovani ultraconservatori che stanno scalando i ranghi dell’amministrazione Trump. Nella pagina Substack del Drl Samson scrive: «Il regresso democratico dell’Europa inficia la sicurezza e l’economia americana, oltre che i diritti di libertà di espressione dei cittadini e delle aziende americane» (qui).
Poche settimane dopo, in un’intervista a Fox News, il presidente dell’Heritage Kevin Roberts dichiara: «Siamo all’inizio di un’era d’oro, non solo per gli Stati Uniti – un’era d’oro di autogoverno in tutto il mondo, in particolare in Europa. Pensiamo a Santiago Abascal, leader del partito Vox in Spagna, pensiamo a Nigel Farage, che probabilmente sarà il prossimo primo ministro del Regno Unito» (qui a 3’31”). Farage è il principale promotore della Brexit e Abascal è tra i leader europei che più invocano «un cambiamento di rotta radicale nell’Ue» nel nome della «sovranità nazionale».
Consultando gli archivi dell’agenzia delle entrate americana e i documenti del Parlamento europeo, Giorgio Mottola di Report ha scoperto quanto hanno investito in Europa negli ultimi 5 anni i maggiori think tank conservatori statunitensi: 109,8 milioni di dollari, con un vertiginoso aumento di flussi a partire dal 2022.
(…) un modello europeo forte potrebbe essere di intralcio al modello americano sulla scena internazionale (…) mentre per Mosca un’Europa divisa consente più libertà di trattare da una posizione di forza con i singoli Paesi Ue (…).
Raphaël Kergueno, ricercatore di Transparency International fa notare che «La maggior parte di queste organizzazioni non è iscritta nel registro delle lobby dell’Ue, vuol dire che non è dato sapere come spendano le loro risorse e quali siano i loro obiettivi. Possiamo solo monitorare il numero di incontri segnalati dai deputati europei, e sappiamo che con l’arrivo di Donald Trump ha registrato un forte aumento». Il fatto che gli interlocutori europei preferiti da Putin siano gli stessi di quelli dei Maga non può essere ritenuto casuale: «Per entrambi un’Europa liberal-democratica unita e funzionante rappresenta una minaccia». Secondo i più esperti analisti, un modello europeo forte potrebbe essere di intralcio al modello americano sulla scena internazionale, e Washington non vuole competitor; mentre per Mosca un’Europa divisa consente più libertà di trattare da una posizione di forza con i singoli Paesi Ue, e di influenza sui suoi ex vicini sovietici.
* Claudio Gatti è un giornalista investigativo che risiede a New York dal 1978. Il suo ultimo libro, «Noi, il popolo – Terra dei nativi. Lavoro dei neri. Libertà dei bianchi» è pubblicato da Fuoriscena.
dataroom@corriere.it
La dimora di 28 vani e 674 metri quadri pagata 1,35 milioni. Ma in quella zona i prezzi sono quasi il doppio. La casa era degli Acampora. Il padre fu condannato con Previti, il cui studio ha gestito l’operazione

(Nello Trocchia – editorialedomani.it) – Gli stilisti, le stelle del calcio, i vip, le ville di lusso avvolte nel silenzio e nella totale riservatezza. L’ultimo arrivato nel cuore di Roma nord, tra ricchezza e discrezione, è Matteo Salvini, il ministro delle Infrastrutture e numero due del governo. Proprio alla Camilluccia, zona rinomata e ambita, ha comprato una villa regale insieme alla compagna Francesca Verdini, figlia dell’ex senatore e pluricondannato, Denis: l’immobile di 674 metri quadri, con 28 vani più due box, è stato pagato 1,35 milioni di euro. In pratica una reggia, pagata 2mila euro a metro quadro: come un appartamento in zone periferiche e meno centrali della Capitale. Quei prezzi infatti, emerge da una verifica sui siti specializzati, si trovano in quartieri distanti dal benessere della città. Insomma il ministro ha ottenuto un super prezzo per la zona in cui si trova e per le dimensioni dell’immobile.
L’acquisto sancisce definitivamente la romanizzazione del leader leghista, che entra così nei salotti dell’alta società della Capitale. Le carte del grande affare, che Domani ha letto, sono un viaggio lungo 30 anni. Ma andiamo con ordine e raccontiamo prima di tutto il gran colpo di Salvini.
La cifra chiesta al leader leghista era già stabilita dai proprietari, che avevano affidato la procura agli avvocati dello studio Previti: fondato dall’ex ministro della Difesa (il fedelissimo di Silvio Berlusconi, Cesare Previti), ora in mano al figlio Stefano (totalmente estraneo alle vicende berlusconiane). Salvini ha infatti sborsato 1,35 milioni di euro, 300mila euro li ha versati con due bonifici; il resto con un mutuo. Un’occasione imperdibile visto che la casa vale certamente di più. Alla fine è costata 2mila euro a metro quadrato mentre in quella zona la media è di 3.800 euro a metro quadrato, come emerge dai dati ufficiali dell’Agenzia delle Entrate di ottobre 2025.
Salvini ci tiene a precisare che nulla sapeva riguardo la proprietà della villa. «Matteo e Francesca hanno individuato l’immobile sul noto sito specializzato immobiliare.it, e da lì sono entrati in contatto con l’agenzia Rivolta che aveva il mandato per vendere la casa. È proprio l’agenzia che ha seguito in prima persona tutte le fasi della vendita insieme al notaio, comprese quelle con avvocati o mediatori che hanno affiancato esclusivamente i venditori. A proposito del prezzo, si precisa che è stata pagata esattamente la cifra pubblicizzata nell’annuncio visibile sul web e quindi accessibile a chiunque. La proprietà era sul mercato da tempo, era stata visitata da numerosi altri potenziali acquirenti e necessitava di numerosi interventi, di tipo urbanistico e strutturale», ci scrive lo staff del ministro.
Sono lontani gli anni del Salvini uomo del popolo con la microcasa: «Buona Pasqua, semplicemente. È un video di ringraziamento fatto dal mio prestigioso bilocale di Milano. Sono in un condominio come tanti, alle mie spalle palazzi, dal piano di sotto arrivava il profumo di torta. Più che una casa, è un accampamento. Ecco la sala da massimo venti metri quadrati», diceva nel 2020. La villa romana è tutt’altra cosa: si eleva su «quattro livelli, ai piani seminterrato, terra, primo e secondo, collegati tra loro mediante scala interna, con annessa area circostante di pertinenza ricompresa nell’unitaria consistenza del villino, della estensione catastale complessiva di vani 28 (ventotto) compreso accessori», più la titolarità di due box auto.
Per ricostruire la storia di questo immobile di prestigio bisogna tornare indietro a metà anni Novanta. Quando inquirenti rovinarono il sogno di vita di Giovanni Acampora e consorte, in procinto di sposarsi. Le cronache raccontarono l’arrivo dei poliziotti per cercare tracce di bonifici e conti correnti. La donna nulla c’entrava con le indagini. La villa era di proprietà di una società che aveva sede in Lussemburgo.
La lussuosa dimora, infatti, acquistata dalla coppia Salvini-Verdini era della famiglia di Giovanni Acampora, scomparso lo scorso anno. Acampora era un avvocato, uno degli uomini fidati di Previti, anche lui come l’ex ministro e fondatore di Forza Italia indagato e condannato nei processi Imi-Sir e lodo Mondadori: una delle più grandi corruzioni della storia italiana.
Insomma, la storia di questa reggia finita in mano al ministro ci porta a uno dei più potenti e influenti uomini d’affari e politica del nostro paese: Cesare Previti, tessitore di relazioni e trame, l’uomo che con Marcello Dell’Utri sussurrava al presidente Berlusconi. Quel Berlusconi che non lo ha mai abbandonato nonostante le inchieste con le condanne definitive scontate tra domiciliari e servizi sociali. Il tutto grazie alla legge Cirielli, una norma ad personam, la ribattezzarono opposizioni e giuristi, visto che salvava dal carcere gli ultrasettantenni, tra questi anche l’amico di sventure. In fondo Previti attraversò processi e sentenze con l’unico scopo di proteggere l’impero imprenditoriale di Berlusconi.
Il 2011 è un anno cruciale per il destino di quella che diventerà villa Salvini-Verdini. In quell’anno la signora Mary Badin, compagna di Acampora, sposta la sede della Valim in Italia: entrano come socie le figlie e in pancia della srl viene trasferita anche la proprietà della dimora da sogno. È il 2016 quando la società Valim srl viene messa in liquidazione. A liquidarla c’è Giovanni Acampora in persona, l’uomo del Cavaliere. Nell’assemblea dei soci si decide di trasferire la villa dalla srl alle socie, Giulia e Valeria Acampora. Nel 2018 arriva un primo guaio con un pignoramento che viene poi cancellato quattro anni dopo.
C’è un altro contenzioso che si apre. Il trasferimento dell’immobile alle due Acampora viene contestato da un creditore, la società Meit di Terni che chiede al tribunale di revocare l’atto: l’immobile è quanto di valore in possesso dalla società in liquidazione. Di questo contenzioso si trova traccia nei bilanci di Valim. La Meit aveva effettuato lavori nell’immobile ritenuti in parte non pagati, il tribunale aveva condannato inizialmente Valim a pagare 53mila euro, decisione poi appellata. Il trasferimento della dimora di lusso dalla Valim alle due Acampora alla fine si formalizza definitivamente.
«Non ci siamo occupati di prezzo né di aspetti commerciali, interamente gestiti da un’agenzia immobiliare come da prassi. Le venditrici vivono all’estero e per questo motivo ci siamo occupati di rappresentarle davanti al notaio. Ovviamente non c’erano questioni pendenti che potessero impedire la stipula dell’atto», chiariscono a Domani dallo studio Previti.
Proprio le due proprietarie firmano una procura speciale agli avvocati Stefano Previti, Carla Previti, Daniele Franzini perché vendano la villa «in suo nome, vece e conto, chi vorranno, per il prezzo complessivo di Euro 1.350.000», si legge. E alla fine l’atto viene siglato. A sottoscriverlo ci sono Franzini, per la parte venditrice, Verdini Fossombroni e Salvini come acquirenti.
Per il ministro, un tempo padano, è il definitivo salto nell’alta società di quella che un tempo definiva «Roma ladrona». Gli insulti, spiegò Salvini, non erano rivolti alla città, ma al sistema di potere che la regge. Il sistema di potere che abita negli atti della sua villa da sogno.
Il mondo crede che tutto vada bene, ma dal 10 ottobre sono stati uccisi 354 palestinesi. Usa e arabi si muovono per interessi

(Anna Foa – lastampa.it) – Sembra che ci siamo dimenticati di Gaza. Dopo tante manifestazioni a sostegno della Palestina che hanno riempito di grandi folle le strade italiane come quelle di molte altre parti dell’Italia e del mondo, dopo tanto parlare e scrivere, dopo che la distruzione di Gaza e l’uccisione di tante migliaia di palestinesi erano diventate l’argomento del giorno nelle nostre scuole, nelle nostre università, nei nostri talk show televisivi, a partire dal 10 ottobre, data di inizio della tregua, su Gaza e sulla questione palestinese è sceso il silenzio, o almeno qualcosa di molto simile al silenzio.
Forse perché la tregua regge? Perché non ci sono più bombardamenti sulla Striscia martoriata di Gaza? Non è così, la tregua regge, ma una tregua che consente ancora bombardamenti e uccisioni. Dal 10 ottobre ad oggi sono stati uccisi 354 palestinesi. Sembra poco, se paragonati ai numeri precedenti, ma provate ad immaginarveli tutti in fila, nei loro sudari.
O forse perché i rifornimenti bloccati alla frontiera sono stati lasciati passare, la popolazione rifornita di cibo ed acqua, i medicinali tornati in ciò che resta degli ospedali? Non è così, Israele apre e chiude i valichi, e le chiusure corrispondono ai momenti di tensione, quasi i rifornimenti fossero in realtà ostaggio dello svolgimento delle operazioni legate alla tregua. Non restituisci tutte le salme degli ostaggi, noi teniamo in ostaggio cibo, acqua, medicine sembra dire la chiusura a singhiozzo dei valichi.
Ma gli ostaggi sono tornati, e con loro sono stati liberati i prigionieri palestinesi chiusi nelle carceri di Israele. È un risultato importante. Che gli ostaggi nascosti da Hamas nei tunnel di Gaza tornino alle loro famiglie, che si possano seppellire i morti, è cosa che ha fatto tirare un sospiro di sollievo ad Israele, come ha fatto tirare un sospiro di sollievo ai palestinesi la liberazioni di famigliari spesso detenuti sulla base di semplici sospetti e in condizioni che gli ultimi scandali ci hanno rivelato non aver poi molto da invidiare a quelle degli ostaggi israeliani di Hamas.
Eppure, sia Gaza che Israele hanno accolto con speranza e favore la tregua. Perché ha significato l’idea, almeno l’idea, di non essere più in guerra. Ma più le settimane passano, più questo sollievo diminuisce, più le speranze sfumano. Ma se possiamo capire e condividere il sollievo che la tregua ha procurato ad israeliani e palestinesi, riesce meno facile capire perché anche il mondo sembra credere che tutto stia andando per il meglio.
Le grandi manifestazioni, importanti nonostante le sbavature politiche e gli accenni antisemiti, sembrano aver dato luogo al vecchio copione dei gruppi sociali che se la prendono a caso con tutti quelli che considerano espressione del “potere”, come dimostra la devastazione di questo giornale, devastazione che di “Pro-Pal” ha solo il nome e ci ricorda invece l’inizio del fascismo un secolo fa, con gli attacchi e le devastazioni squadriste a l’Avanti, l’organo del Partito Socialista.
Sul fronte dell’alta politica, gli Stati dell’Ue tacciono, o sono invece impegnati a disquisire sull’antisemitismo crescente, senza vedere che soprattutto di una conseguenza di quanto succede si tratta, non di una sua spiegazione. Solo Trump e in parte i Paesi arabi insistono, e per motivi loro, tutti diversi. E se fosse tutto, sul fronte mediorientale, si potrebbe anche trarre un sia pur piccolo sospiro di sollievo.
Ma, intanto, se Gaza non è più sulle bocche di tutti, la Cisgiordania è in fiamme, e non solo ad opera dei coloni che aspettano il Messia sbarazzandosi dei palestinesi e distruggendone case e campi, ma ormai direttamente ad opera dell’esercito. I video che ci arrivano mostrano episodi che suscitano in noi una sorta di inorridita incredulità, come quello dei due palestinesi – terroristi o no, che importa, dal momento che si arrendevano con le mani alzate? – assassinati a sangue freddo dai militari. A Gaza è subentrata la Cisgiordania, ma sembra che non susciti nel mondo una pari indignazione. O forse, l’indignazione è a tempo, ad un certo punto si esaurisce, la clessidra ha versato tutta la sua sabbia, parliamo d’altro.
Si parlasse almeno dell’altro fronte di guerra, quella scatenata dallo Zar della Russia. Ma di quella si è già smesso di parlare da tempo. E non perché fosse arrivata la questione di Gaza, evidentemente. È perché l’attenzione di chi vive tranquillo nel tepore della sua casa è limitata. La abbiamo consumata già tutta? E su quanto succede oggi in Cisgiordania, niente o poco da dire?

(repubblica.it) – “La Nato sta valutando un attacco preventivo contro la Russia in risposta agli attacchi ibridi. Forse dovremmo essere più aggressivi del nostro avversario”. Lo ha dichiarato al Financial Times l’ammiraglio Giuseppe Cavo Dragone, capo del Comitato Militare della Nato. “Stiamo valutando di agire in modo più aggressivo e preventivo, piuttosto che reagire”, ha affermato Dragone. Alcuni diplomatici, soprattutto provenienti dai paesi dell’Europa orientale, chiedono all’Alleanza di smettere di limitarsi a “reagire” e di contrattaccare. Secondo l’ammiraglio italiano, un “attacco preventivo” può essere considerato “azione difensiva”. Tuttavia, “questo va oltre il nostro solito modo di pensare e di comportarci”, ha osservato. “Forse dovremmo agire in modo più aggressivo del nostro avversario, le domande riguardano il quadro giuridico, la giurisdizione: chi lo farà?”, ha aggiunto.
Il Financial Times cita la missione Baltic Sentry della Nato, che pattuglia il Mar Baltico e ha impedito il ripetersi di incidenti dovuti al taglio dei cavi. “Dall’inizio dell’operazione ‘Baltic Sentry’ non è successo nulla. Questo significa che la deterrenza funziona”, ritiene Dragone. Tuttavia, ha ammesso che uno dei problemi è che i paesi della Nato hanno “molti più vincoli rispetto ai nostri avversari, a causa di etica, leggi e giurisdizione”. “Non voglio dire che questa sia una posizione perdente, ma è più complicata di quella del nostro avversario”, ha valutato l’ammiraglio. “Dobbiamo analizzare a fondo come si ottiene la deterrenza: attraverso azioni di ritorsione o attraverso un attacco preventivo?”, ha concluso il capo del Comitato Militare della Nato.