(Ilaria Marciano – ultimabozza.it) – Approvata al Senato la riforma che rivoluzionerà lâingresso alle facoltà di Medicina e Chirurgia, Odontoiatria e Veterinaria. Ma ancora non si può parlare di numero aperto. Tutto si decide dopo il primo semestre in base al fabbisogno di medici stimato dal Sistema Sanitario Nazionale. Approfondimento e risposte.
Di abolire il numero chiuso a Medicina se ne parla ormai da diverso tempo, e proprio in questi giorni il Comitato ristretto della Commissione Istruzione del Senato ha votato con larghissima maggioranza una ambiziosa riforma per il sistema dâaccesso al corso di laurea in questione. Ogni anno, infatti, gli aspiranti camici bianchi, secondo i dati del Ministero dellâIstruzione, sono oltre 79.000, ma i posti a disposizione sono poco meno di 20.000. Ma che cosa cambierà ?
Una delle modifiche più rilevanti riguarda lâabolizione del tradizionale test dâingresso: lâiscrizione al primo semestre dei corsi di laurea in Medicina e Chirurgia, Odontoiatria e Veterinaria sarà libera. Il che non significa che lâaccesso sarà privo di criteri: gli iscritti, infatti, dovranno superare una serie di corsi propedeutici nel primo semestre e superare gli esami. à dunque finita lâera del numero chiuso? Non proprio. Anzi, niente affatto. Studenti e studentesse si iscriveranno a un semestre aperto condiviso con le aree di studi biomedica, sanitaria, farmaceutica e veterinaria al termine del quale dovranno sostenere gli esami. Dopo di che, chi li avrà superati, potrà accedere a un test nazionale, un test con quiz a risposta multipla basato sulle conoscenze apprese. Per avanzare al semestre successivo, dunque, sarà necessaria una âcollocazione in posizione utile nella graduatoria di merito nazionaleâ, anche se resta ancora da chiarire come questa graduatoria verrà compilata.
Allora quanti aspiranti medici effettivi ci saranno? Anche questo punto non è ancora del tutto chiaro: il numero di iscrizioni al secondo semestre sarà determinato in base al fabbisogno di medici stimato dal Sistema Sanitario Nazionale, garantendo un allineamento con le esigenze delle scuole di specializzazione e cercando di evitare il sovraffollamento dei corsi di laurea. E chi non riesce ad accedere alla âseconda faseâ? Niente va perduto: i crediti universitari acquisiti nel primo semestre saranno comunque riconosciuti, e studenti e studentesse avranno la possibilità di continuare il percorso in uno dei corsi di laurea di area, senza perdere il lavoro svolto fino a quel momento. Sulla base di quale criterio? La riforma prevede che al momento dellâiscrizione al corso di medicina gli iscritti e le iscritte indichino una âseconda sceltaâ allâinterno dellâarea che potrebbe diventare la loro destinazione finale. Se invece decideranno di cambiare area, perderanno i crediti acquisiti.
Se tra gli esperti del settore câè chi esulta per questa nuova riforma, vedendola come la realizzazione di una promessa fatta da tempo, câè però chi non la vive con lo stesso entusiasmo, sollevando dubbi e preoccupazioni in merito al futuro lavorativo dei laureati (saranno troppi?) e le conseguenze sul sistema di cure pubblico. Dunque, lâaccesso alla formazione medica sarà davvero più inclusivo e trasparente e, soprattutto, di qualità ?
In molti si sono chiesti se il problema delle fiction su Rai 1 non fosse proprio la scritta âRai 1â in alto a destra. Perché appena uno legge quella piccola scritta pensa subito: âVabbè, sarà una merdaâ
(GIACOMO CIARRAPICO – ilmillimetro.it) – La libertà di espressione è spesso il termometro dello stato di salute di una democrazia. Per anni, le fiction prodotte dalla televisione pubblica italiana sono state sotto il giogo della censura. Bisognava stare attenti alla presenza occulta della Chiesa cattolica, al Movimento Italiani Genitori (il temutissimo MOIGE), ma anche semplicemente a quella che i dirigenti della Rai pensavano fosse la soglia della moralità . E questo ha avuto effetti devastanti sul risultato finale. Trame timidissime, se non proprio pavide, una montagna di cliché e personaggi totalmente inverosimili.
Il tutto ambientato dentro a un mondo che esisteva solamente nella fiction italiana. Ricordo la trama di una fiction che si chiamava Le ragazze di piazza di Spagna. à la storia di quattro amiche disoccupate e in grandi difficoltà economiche. Poi a una di loro viene unâidea geniale: «Apriamo un negozio di vestiti a piazza di Spagna!». Le sue amiche si dicono entusiaste e nella scena seguente â pensate â il negozio è già avviato. E da lì parte tutta la storia.
Ma in quegli anni, gli stessi sceneggiatori delle fiction avevano sviluppato, per senso di sopravvivenza, una censura preventiva dentro di loro. La frase più frequente durante la scrittura delle sceneggiature era: «Questa non ce la faranno mai passare», e si rinunciava alla scena. E così, già nella sua fase embrionale, il progetto era spacciato per sempre. Inoltre, gli sceneggiatori hanno presto capito che il vero monarca di tutto ciò che scrivevano era lâutente medio. Che è unâentità astratta ma decisiva, un essere umano che non esiste, che è solo nella testa dei dirigenti Rai. Nelle fiction è molto importante non disturbarlo in alcun modo. E ricordarsi che è cieco (quindi tantissimi primi piani), sordo (battute scandite in modo surreale) e soprattutto molto lento di comprendonio (quindi le battute oltre che essere ben scandite devono essere estremamente informative e semplici, a volte, meglio ripeterle più di una volta). Per evitare di turbare lâutente medio non si poteva parlare, ad esempio, dei buddisti. Perché non si capiva se collocarli tra i buoni o tra i cattivi e quindi era preferibile evitarli.
Cioè, il personaggio islamico era o buonissimo o cattivissimo e questo rilassava lo spettatore, il buddista lo disorientava. E non câè da stupirsi che, se in una fiction di quegli anni un personaggio tossiva, dopo tre scene moriva. Perché non era concesso che morisse e basta. La sua malattia andava seminata, altrimenti lâutente medio non capiva, dava di matto e poteva sterminare tutta la sua famiglia. Qualcuno a un certo punto si è chiesto se il problema delle fiction su Rai 1 non fosse proprio la scritta âRai 1â in alto a destra. Perché appena uno legge quella piccola scritta pensa subito: âVabbè, sarà una merdaâ. Levandola, forse il prodotto sarebbe stato percepito in modo diverso, chissà . Ma poi, a un certo punto è cambiato tutto. Sono arrivate le grandi piattaforme internazionali e le reti generaliste dovevano per forza tenerne conto. Perché il pubblico stava fuggendo e non se lo potevano assolutamente permettere.
Intanto si è deciso di non chiamarle più fiction (che aveva assunto una connotazione negativa) bensì âserieâ, che suona meglio. E per stare al passo con le piattaforme internazionali, la televisione pubblica italiana ha cercato di cambiare, di includere, di essere più fluida. Nelle fiction attuali (per semplicità continuerò a chiamarle così) è sempre più probabile vedere un ragazzo di colore. Addirittura, certe volte, lâimmigrato africano può finalmente parlare senza usare solo lâinfinito (âio essere stancoâ). Può avere anche un barlume di felicità ⦠ma è importante che in passato abbia sofferto molto.
Nelle fiction attuali, i disabili sono sempre più benvenuti ma non hanno il diritto di essere dei pezzi di merda. Il disabile pezzo di merda ancora non è contemplato. Al più, può covare un poâ di livore⦠ripensando a quella maledetta Smart. Ma poi, sotto sotto, deve aver capito che la vita è bellissima anche così. Comunque, per bilanciare tutto il doloroso passato è preferibile che i disabili abbiano un grandissimo senso dellâumorismo. Il disabile che fa molto ridere crea nellâutente medio un misto di allegria e commozione. Anche i rom vengono rappresentati con molta più disinvoltura. E non sono più baffoni con denti dâoro che frustano bambini, ma rom pentiti (che se ci si pensa, è la forma di razzismo più alta), totalmente integrati, stanziali e a volte addirittura pagano il mutuo. Nelle fiction attuali, gli omosessuali hanno finalmente diritto di cittadinanza. Possono avere un bellissimo rapporto con la loro famiglia e un lavoro come tutti gli altri, possono vivere felicemente una storia dâamore ma⦠non hanno ancora il diritto di tradire. Perché, se tradiscono, lâutente medio pensa: âAh, pure?!â. In realtà , nelle fiction della televisione pubblica, la censura esisterà sempre. Con diversi gradi di invadenza, certo, ma esisterà sempre. Perché essendoci di mezzo i soldi degli italiani, ci sarà comunque qualcuno che avrà il compito di selezionare i progetti presentati dagli autori.
E mi chiedo come mi comporterei io se fossi quella persona. Cioè, se fossi un dirigente che ha la possibilità di scegliere quali proposte produrre. Mettiamo che due giovani sceneggiatori, pieni di fantasia, mi presentano la sitcom: Brigate Rosse tutte da ridere. I due ragazzi ci tengono a dirmi che fa effettivamente molto ridere. Fanno un esempio: un brigatista con i baffi entra in scena e chiede agli altri: «Sono Moretti o sono Morucci?». I due sceneggiatori ridono forte e si danno il cinque per la trovata. Probabilmente tenderei a storcere il naso, non solo per la qualità della proposta ma anche per motivazione etiche. Magari chiederei se hanno pensato ai parenti delle vittime. Loro probabilmente non demorderebbero e mi direbbero che hanno pensato una parte divertente anche per i parenti delle vittime. E così mi ritroverei a essere a mia volta censore e, ai loro occhi, un vecchio stronzo che tarpa le ali alla loro fantasia.
Dalla bisnipote di Giolitti allâeterno Luigi Grillo: sintesi (incompleta) delle liste per le elezioni europee
(ilfattoquotidiano.it) – Cosa câè oltre âGiorgiaâ? Chi corre dietro ai leader che trascinano le liste con la chiara intenzione di non accettare lâelezione allâEuroparlamento? Quali nomi si nascondono dietro a candidature che hanno riempito i giornali negli ultimi giorni? Una volta che lâinquadratura non viene più impallata dal generale Vannacci, quali altre opzioni hanno gli elettori? Molti amministratori locali, ex candidati già trombati una o più volte a elezioni di ogni ordine e grado negli anni passati, qualche figura uscita dalla scena politica che bussa per rientrare, altri novelli che si affacciano dalla cosiddetta âsocietà civileâ: imprenditori, funzionari, attivisti. Quella che segue è una breve e incompleta sintesi di qualche nome che si trova nelle âretrovieâ dei listoni.
Fratelli dâItalia
Dietro a âGiorgia Meloni detta Giorgiaâ, per esempio, nelle liste di Fratelli dâItalia câè âGiovannaâ, che porta un cognome dal peso specifico significativo Giovanna Giolitti: è bisnipote dello statista liberale della storia italiana del primo Novecento, la cui figura è ancora controversa dopo centâanni, anche per la sua maestria a nuotare nelle dinamiche trasformiste tanto che Gaetano Salvemini lo definì il âministro della mala vitaâ. E in più si portò dietro la responsabilità di votare la fiducia al primo governo Mussolini, cambiando orientamento solo nel 1924 dopo le leggi con le quali il regime limitò la libertà di stampa. In quota parenti dâItalia câè anche Giovanni Crosetto, consigliere comunale di Torino, nipote dello zio ministro della Difesa. Sempre con Fdi corre Patrizia Baffi e magari i lombardi si ricordano di lei: in una sola consiliatura regionale fu capace di un volo a planare che la portò dal Pd a Italia Viva e poi appunto al partito di Meloni, e non è detto per sempre. Spiccano poi un paio di giovani del partito come Stefano Cavedagna, portavoce di Gioventù nazionale e già capogruppo in consiglio comunale a Bologna e Nicola dâAmbrosio, presidente di Azione Universitaria. Corrono anche Mario Pellegrini, lâex vicesindaco del Giglio che fu tra i primi a soccorrere i naufraghi della Costa Concordia, e in quota lobby Anna Olivetti, presidente di Federfarma.
Forza Italia
Tra i manifesti più grandi che si vedono a Milano câè Letizia Moratti che alle Regionali di qualche anno fa Carlo Calenda provò in tutti i modi di offrire al Pd come la nuova Anna Kuliscioff (âviene da una tradizione famigliare azionista, il papà è stato partigianoâ), costringendola a dire frasi choc come âIo vicina al centrosinistraâ. Questo giornale si è già occupato poi dellâimprenditore torinese Paolo Damilano, ex candidato sindaco e dato per disperso in consiglio comunale, mentre non è di oggi la notizia del ritorno alla politica di Roberto Cota attraverso Forza Italia, di cui è responsabile Giustizia in Piemonte essendo stato dâaltra parte condannato in via definitiva a un anno e 7 mesi per il processo Rimborsopoli. Uscì dalla porta della Lega e rientra ora dalla finestra anche Marco Reguzzoni.
Un altro ritorno è quello di Luigi Grillo, nome che fa sentire tutti un poâ più giovani avendo attraversato varie stagioni politiche non mancando ovviamente quella berlusconiana: dieci anni fa ha patteggiato una pena di 2 anni e 8 mesi e una multa di 50mila euro al termine dellâinchiesta milanese sugli appalti relativi alle gare per Expo 2015: fu anche arrestato e il tribunale del Riesame scrisse tra lâaltro che nel corso delle indagini aveva âdato prova di sapersi defilare e di evitare di essere direttamente intercettatoâ.
Nelle file di Forza Italia câè anche un DellâUtri ma non è Marcello bensì Massimo ed è esponente di Noi Moderati, il mini-partito di Maurizio Lupi con cui i forzisti hanno fatto un accordo per le Europee visto che la soglia di sbarramento non lâavrebbe vista nemmeno col cannocchiale. La sfida dei nomi da poter inserire sulla scheda la vince sicuramente lâassessore siciliano Edmondo Tamajo âdetto Tamaio detto Di Maio detto Edy Detto Edi Detto Eddyâ. Per sbagliare ce ne vuole.
Tra i nomi in lista si segnala Firial Cherima Fteita che durante il primo lockdown fece sue queste parole attribuite al virologo Giulio Tarro: âLa notizia del vaccino serve per farci accettare il lockdown, nella convinzione che a brevissimo saremo liberi. Invece non arriverà nessun vaccino. Almeno non prima dellâestate. Il lockdown durerà fino a maggio. Giusto il tempo di portare a termine lâoperazione. Una volta che lâintero sistema economico sarà collassato, la grande speculazione finanziaria passerà allâincasso e si porterà via tutto a prezzi stracciatiâ.
Lega
Nella Lega oltre a Vannacci câè di più. Per esempio la sindaca di Monfalcone Anna Cisint, che basa la sua celebrità nella sua battaglia per non far pregare i musulmani della sua città . Si ricandida Cinzia Bonfrisco, parlamentare ininterrottamente dal 2006, prima socialista di scuola craxiana, poi berlusconiana, da qualche tempo salviniana. La scuola di formazione leghista produce molti candidati âdal bassoâ (e a quelli fanno riferimento i detrattori interni della candidatura del generale), come sindaci, consiglieri, assessori, gli eurodeputati uscenti. Tra loro ce nâè uno arrivato giusto un mese fa: lâex sindaco di Catania Raffaele Stancanelli.
Azione
Con Azione era già nota la candidatura di Alessandro Tommasi, membro del cda del Sole 24 Ore e fondatore di Will Media, che produce informazione sui social. Ha creato anche lâassociazione Nos che corre appunto insieme al partito di Carlo Calenda. Tra i nomi noti ci sono quelli di Daniele Nahum, consigliere comunale a Milano che poche settimane fa ha lasciato il Pd in polemica per una posizione non chiara â secondo lui â del partito sulla guerra in Medio Oriente, e di Cuno Jakob Tarfusser (âdetto Cunoâ), sostituto procuratore generale di Milano e prima ancora capo della Procura di Bolzano e magistrato alla Corte penale internazionale, che ha avuto una botta di fama per la sua iniziativa in favore della revisione del processo a Olindo Romano e Rosa Bazzi.
Tra i veterani spunta il nome di Mario Raffaelli, dirigente trentino di Azione, che ha un cursus honorum politico che affonda le sue radici nella fine degli anni Settanta. Eâ stato in parlamento per 15 anni fino al 1994 e 4 volte sottosegretario. Per la quota generali ci riprova, dopo il flop delle Politiche del 2022, Vincenzo Camporini, mentre per la quota Confindustria câè Lara Bisin, vice presidente fino a qualche settimana fa dellâassociazione industriali di Vicenza. In lista anche Nataliya Kudryk, giornalista ucraina, 49 anni, da venti a Roma. Con Azione câè anche Sonia Alfano, già eurodeputata dal 2009 al 2014 con Italia dei Valori.
Stati uniti dâEuropa
Negli Stati Uniti dâEuropa â la lista guidata da Italia Viva e +Europa â tenta la rielezione, questa volta a Strasburgo, Gianfranco Librandi che è rimbalzato da un partito allâaltro negli ultimi 20 anni e ora sembra aver trovato pace tra i renziani: fu berlusconiano (con Forza Italia e Pdl), poi si candidò con Scelta Civica di Mario Monti, passò al Pd (quando tra lâaltro la stagione renziana era già calante) e infine lâapprodo a Iv. I radicali portano in dote il nome storico di Marco Taradash, il volto noto Alessandro Cecchi Paone e la giovanissima presidente Patrizia De Grazia (25 anni).
Nello strano remix renziano sono candidati nelle stesse liste da una parte il corrispondente di Liberation â il giornale della sinistra francese â Eric József e dallâaltra Alessandrina Lonardo Mastella detta Sandra Mastella, ex senatrice e moglie dellâex ministro e ora sindaco di Benevento. O ancora da una parte il capolista nel Nord Est è Graham Robert Watson, scozzese di nascista, italiano per matrimonio, storico eurodeputato dei liberaldemocratici inglesi (âHo paura che lâItalia faccia lo stesso errore commesso dal Regno Unitoâ ha detto) e dallâaltra riecco lâex ministra Teresa Bellanova. La linea garantista esprime il recordman in questa disciplina, lâex presidente delle Camere penali Giandomenico Caiazza
Pd
Superati i molti nomi noti nelle liste del Pd, fa capolino il nome di Davide Mattiello, ex parlamentare, molto attivo in quella sua unica legislatura sui temi della legalità : fu relatore tra lâaltro della modifica del reato di voto di scambio. Fece notizia il fatto â più che anomalo per la politica italiana â che quando smise di fare il deputato andò a lavorare, sul serio: nel 2020 cominciò a lavorare come conducente e netturbino. Qua e là poi si trova un poâ di gioventù democratica come quella di Elena Accossato (29 anni, segretaria regionale dei Giovani democratici in Piemonte) e Silvia Panini, che è in lista in forza dellâaccordo del Pd con Volt, partito politico paneuropeo, che attira soprattutto i più giovani. Al Centro è candidata Elena Improta, mamma di Mario, un ragazzo con una grave disabilità , e fondatrice di una onlus che si occupa del âDopo di noiâ. Candidato anche Michele Franchi, il sindaco di Arquata del Tronto, il paese ascolano distrutto dal terremoto del 2016. Al Sud ci sono lâarchitetto Francesco Forte, figlio di Mario che fu brevemente ex sindaco Dc di Napoli, e Shady Alizadeh, avvocata 35enne barlettana di famiglia iraniana, esperta di welfare aziendale di genere nonché attivista del movimento âDonna vita libertà â.
M5s
Le selezioni online dei 5 Stelle hanno prodotto una mole notevole di attivisti del territorio, i cui nomi non dicono niente allâopinione pubblica nazionale, ma suggeriscono di più nei rispettivi territori. Per questo Giuseppe Conte ha puntato su qualche figura più riconoscibile di cui è stato già scritto. I nomi che sono rimasti un poâ nellâombra sono quelli di Ugo Biggeri, economista specializzato nella finanza etica e sostenibile, tra i fondatori di Banca Popolare Etica, Cinzia Pilo, manager con esperienza internazionale in ambito finanziario e dei pagamenti digitali, madre di un âbambino farfallaâ, che da anni ha messo le sue competenze anche al servizio volontario in ambito sociale e dellâassistenza ai malati e alle loro famiglie, e Maurizio Sibilio, pedagogista, docente e prorettore a Salerno. Anche in questo caso â e in questo caso dopo aver superato le votazioni interne â ci sono nomi già noti allâelettorato M5s per aver ricoperto in passato altri incarichi, come lâex deputato Paolo Bernini (attivista animalista che durante il mandato ebbe vari momenti di notorietà per alcune sue uscite apparentemente complottiste), lâex senatore Gianluca Ferrara e lâex sindaco di Bagheria Patrizio Cinque.
Verdi-Sinistra
I leader Nicola Fratoianni e Angelo Bonelli lasciano il posto di capolista: di Ilaria Salis sanno ormai tutti, gli altri sono esponenti che hanno avuto già esperienze politiche in passato: lâex sindaco di Roma Ignazio Marino, lâex sindaco di Riace Mimmo Lucano e lâex sindaco di Palermo Leoluca Orlando. Le liste rossoverdi sono piene di attivisti del territorio. Spiccano Benedetta Scuderi, esponente della nuova generazione ambientalista, poco più che trentenne, attivissima sui social e energica ospite da talk show, e Marilena Grassadonia, storica attivista di Sinistra Italiana sulle tematiche Lgbtqi+. Al Centro si candida Christian Raimo, scrittore e insegnante, noto per le sue battaglie âantifà â, attento alle questioni delle periferie della Capitale, al Sud câè il nome di Anna Grazia Maraschio, tra le poche ad aver già perso il posto nella giunta di Michele Emiliano in attesa di âresetâ, mentre nelle Isole colpisce il nome di Cinzia Dato che alle spalle ha già lâesperienza da parlamentare con la Rosa nel Pugno nella legislatura, brevissima, del governo Prodi II.
Per la prima volta gli spettatori di Mediaset superano quelli Rai, ma attenti a Discovery. Sul prime time Viale Mazzini resta prima, ma nell’arco delle 24 ore c’è il sorpasso della concorrente lombarda. In terza posizione si affaccia il colosso Warner Bros con il Nove, che conferma un’interessante crescita. I dati Agcom
(MARCO CARLOTTI – ilfoglio.it) – La Rai torna al centro dei riflettori, ancora. Questa volta perché, come rileva l’Agcom, Mediaset ha superato la televisione pubblica negli ascolti che riguardano le 24 ore.
I dati dellâOsservatorio sulle Comunicazioni relativi allâintero 2023, pubblicati ieri, registrano un netto calo di spettatori rispetto alla concorrente. Più nel dettaglio, lâazienda di Cologno Monzese vanta â sullâintero giorno â 3,09 milioni di spettatori contro i 3,04 della Rai. Un gap di 50 mila ascoltatori che ha del clamoroso, perché segna un sorpasso storico che finora non si era mai verificato.
Rispetto al periodo pre pandemico, inoltre, lâeditore pubblico perde complessivamente 510 mila spettatori (-14,4 per cento) sull’intero giorno, a fronte dei 50 mila (-1,6 per cento) di Mediaset. Nel comunicato viene spiegato come siano i canali televisivi âminoriâ a determinare la debacle della Rai, benché la stessa si confermi leader della fascia âprime timeâ con uno share pari a 7,17 milioni (37,8 per cento) a fronte dei 7,12 di Mediaset (37,5 per cento), soprattutto grazie ai tre canali principali e generalisti: Rai 1, Rai 2 e Rai 3, che sull’intero anno tengono.
La rilevazione dell’Agcom non è una sorpresa per l’azienda, che di recente ha attirato su di sè i riflettori. Lâaddio del giannizzero Fabio Fazio â ormai un anno fa, dopo quarantâanni di fedele servizio â aveva causato a suo tempo malumori e sollevazioni popolari, sapientemente cavalcate dallâopposizione. Lâaffaire Scurati, a metà tra la censura e una non oculata mossa comunicativa dei vertici di Viale Mazzini, ha poi riacceso le polemiche. A perorare la causa del bavaglio di stato, poi, il dietrofront di Amadeus, il quale si è pubblicamente lamentato dellâinvasione di campo nella direzione artistica, con Povia e Pino Insegno divenuti capri espiatori di una bagarre che ha portato il celebre conduttore ad accettare la proposta del colosso Warner Bros. Prossima destinazione: Discovery. E a guardare i dati, i nuovi volti della piattaforma americana, tra i più noti della televisione italiana, stanno decisamente dando i loro frutti.
L’arrivo di Fazio sul Nove sembrerebbe avere attratto una consistente fetta di pubblico e non è azzardato presumere che lo stesso succeda con Amadeus. Sempre in base ai dati pubblicati da Agcom, infatti, nell’ultimo trimestre del 2023 la Nove ha aumentato gli ascolti giornalieri del 2,2 per cento, registrando addirittura una crescita complessiva del 46,4 per cento nella fascia di programmazione serale. A testimoniare l’exploit fanno da contraltare le consistenti flessioni nello stesso periodo delle principali reti pubbliche, Rai 2 (-9,5 per cento) e Rai 3 (-20 per cento). Più in generale, il canale italiano di Warner Bros è il terzo più visto in Italia nell’arco delle 24 ore durante il 2023.
âCol ddl Calderoli si creerebbero delle Regioni-Stato. Diventeremmo un Paese arlecchino. Con politiche pubbliche decise qua dal governatore e là dallo Stato. E passerebbe il principio per cui chi vive in una terra più agiata ha diritto a servizi miglioriâ. Intervista a Gianfranco Viesti, professore di Economia applicata al Dipartimento di Scienze politiche dellâUniversità di Bari, autore di “Contro la secessione dei ricchi” (Laterza)
(Enrico Mingori – tpi.it) – Professor Viesti, nel suo libro definisce lâAutonomia regionale differenziata una «secessione dei ricchi». Ci spieghi.
«à così per due motivi. Il primo è che la dimensione delle competenze che la riforma consente di trasferire alle Regioni è simile a quella di uno Stato sovrano. Si verrebbero a costituire delle vere e proprie Regioni-Stato allâinterno dello Stato: per questo parlo di âsecessioneâ. E sarebbe una secessione âdei ricchiâ perché sono state le tre Regioni più ricche del Paese â Veneto, Lombardia ed Emilia-Romagna â ad aver chiesto per prime quei poteri».
Questo è il primo motivo. E il secondo?
«Glielo spiego subito. Oltre a quei poteri, Veneto e Lombardia chiedono anche risorse finanziarie. E cercano di ottenere dei meccanismi di finanziamento simili a quelli delle Regioni a statuto speciale. Di fatto è un tentativo di âsecedereâ dalle regole nazionali del federalismo fiscale. Ed è un tentativo che si basa sullâipotesi che un territorio più ricco meriterebbe più servizi. Ecco perché, anche da questo punto di vista, sarebbe una secessione âdei ricchiâ».
Il ragionamento è: se consentiamo a tutte le Regioni di prendersi più poteri, le Regioni che oggi sono più ricche se ne prenderanno di più, allargando ulteriormente il divario con le Regioni più povere.
«Sì, ma non è questo a mio avviso il punto principale. Il punto principale è sulle materie: se ciascuna Regione chiedesse poteri autonomi su certe materie, avremmo politiche pubbliche gestite in maniera differente a seconda dei territori. Diventeremmo un Paese arlecchino, come non câè da nessuna parte nel mondo. Fra lâaltro, anche se non sono un costituzionalista, credo che si porrebbero anche problemi di costituzionalità , perché applicando lâarticolo 116 della Costituzione si cambierebbe lâarticolo 117 senza passare per la procedura speciale prevista dallâarticolo 138».
Quali sono le materie che secondo lei non dovrebbero essere lasciate alle Regioni?
«Ad esempio la politica energetica, o quella delle reti infrastrutturali di trasporto. O lâistruzione. Poi ci sono le norme generali sulla sanità , che con lâAutonomia differenziata potrebbe essere totalmente regionalizzata. Non sono il solo a pensarla così: anche secondo la Banca dâItalia è dubitabile che le Regioni siano più efficienti dello Stato nella gestione di tutte quelle competenze. Il principale effetto di questa riforma sarebbe concedere un immenso potere ai presidenti di Regione, ma per i Comuni e i cittadini di quelle stesse Regioni non è affatto detto che la situazione migliorerebbe».
La riforma Calderoli subordina però la concessione dellâautonomia alla definizione dei Lep, i livelli essenziali di prestazione: sullâintero territorio nazionale bisognerebbe garantire dei livelli minimi di qualità nellâerogazione dei servizi. Sappiamo che i Lep attendono di essere definiti da diversi anni, ma questa non potrebbe essere la volta buona?
«Siamo un Paese straordinario: nessuno ricorda che già in base al Pnrr abbiamo lâobbligo di definire i Lep in tutte le materie, che siano di competenza statale, regionale o comunale. Quindi legare il processo di definizione dei Lep allâAutonomia differenziata è una mossa politica. Non solo: la legge si applica unicamente alle funzioni statali che vengono trasferite alle Regioni e non dispone stanziamenti ulteriori, quindi il rischio è che, alla fine di un processo lungo e molto complesso, la definizione dei Lep si risolva in una mera fotografia dellâesistente. Lo dice anche lâUfficio parlamentare di bilancio. E aggiungo unâannotazione: la Calderoli è una legge ordinaria, non ha carattere costituzionale; basterebbe una legge successiva per modificarla».
Osservazione storica: fino a 163 anni fa, eravamo un Paese diviso in tanti piccoli âstaterelliâ. E ancora oggi dallâAlto Adige alla Sicilia ogni territorio ha caratteristiche ed esigenze diverse. Non basta questo per riconoscere maggior autonomia alle Regioni?
«Questo è un argomento a favore del decentramento dei poteri, cioè a favore del fatto che, ad esempio, su una specifica materia le scelte che si fanno in Sicilia sono diverse da quelle che si fanno in Lombardia. E io sono molto favorevole a questo decentramento, sia a livello di Regioni sia â ancor più â a livello di Comuni. Ma con lâAutonomia differenziata si parla di una cosa diversa. E cioè del fatto che in una Regione quella politica sia decisa dalla Regione e in unâaltra Regione sia decisa dallo Stato: non è una sana differenziazione delle scelte, ma una differenziazione dei poteri».
Quindi decentramento sì, ma Autonomia differenziata no.
«In un Paese così ricco di differenze come lâItalia non si può pretendere di decidere da Roma se, ad esempio, nel centro di Bologna le auto devono andare a 30 o a 50 chilometri allâora. à una scelta che deve fare il sindaco, non il ministro. Ma questo non significa creare delle Regioni che siano âpiù Regioniâ di altre. A livello internazionale ci sono molte differenziazioni di poteri tra le città , anche in Italia: è chiaro che il sindaco di Roma deve gestire una realtà molto più complessa del sindaco di Tagliacozzo. Non esistono, invece, esperienze internazionali di Regioni che sono âpiù Regioniâ di altre, se non nel caso molto discutibile delle Regioni a statuto speciale italiane e della Catalogna in Spagna».
Infatti câè chi argomenta a favore dellâAutonomia differenziata proprio a partire dallâesistenza delle Regioni a statuto speciale. Si dice: queste Regioni sono la dimostrazione ch la loro maggior autonomia di un territorio non intacca lâunità nazionale.
«Conosco questa argomentazione. In buona sostanza il Veneto, che è il vero regista di questâoperazione, vuole diventare come il Trentino Alto Adige. I veneti vedono i loro vicini di casa con più poteri e più soldi e si chiedono: perché loro sì e noi no? Ad esempio la spesa media per studente in Trentino è più alta del 70% che in Veneto. Il punto è che non è possibile che tutte le Regioni italiane ottengano lo statuto speciale, a meno che non si cambi la Costituzione o si frantumi definitivamente lo Stato. E comunque credo che lâesistenza di Regioni a statuto speciale meriterebbe oggi una riflessione».
In Catalogna, invece, lâautonomismo è diventato indipendentismo.
«Il regionalismo differenziato in Spagna nasce però nei Paesi Baschi, che sono sostanzialmente una regione a statuto speciale più ricca delle altre. I Paesi Baschi ricordano il caso italiano della Provincia autonoma di Bolzano, ma con una differenza importante: quando le fu concessa lâautonomia, Bolzano era molto povera ed è diventata ricca proprio grazie ai super finanziamenti della Provincia autonoma; i Paesi Baschi, invece, quando dopo il Franchismo ottennero maggiore autonomia, erano già ricchi di loro. In quel caso lâautonomia fu frutto di una scelta politica di pacificazione».
Mi dica della Catalogna.
«In Catalogna esisteva un movimento autonomista storico, fra lâaltro giustificatissimo perché il Franchismo aveva represso la cultura catalana in modo impressionante. La concessione di ampie autonomie alla Catalogna è stata un processo assolutamente benvenuto. Gli indipendentisti catalani rappresentavano una quota minoritaria, tra il 25 e il 30% secondo i sondaggi di opinione, ma negli anni Dieci del Duemila, con lâavvento in Europa della grande austerità , il livello dei servizi nella regione si è abbassato. E a quel punto i catalani hanno iniziato a pensare, esattamente come i veneti fanno con il Trentino: ma perché i baschi sì e noi no?».
E la situazione ha rischiato di degenerare.
«Dietro la rivolta catalana ci sono storici motivi politico-culturali, ma anche concreti motivi di carattere fiscale, che hanno fatto sì che il sostegno agli indipendentisti sia man mano cresciuto, fino allo scontro del 2017, quando è stato proclamato un referendum per lâindipendenza della regione. Come sappiamo, la Corte costituzionale spagnola ha negato la legittimità di quella consultazione, ma i catalani lâhanno svolta lo stesso e da lì si è scatenata una contrapposizione molto violenta e complessa. Molti lâhanno dimenticato, ma nel 2016 anche il Consiglio regionale del Veneto aveva chiesto un referendum sullâindipendenza. Anche in quel caso la Corte costituzionale italiana disse che la consultazione non si poteva fare. Ed è lì che scattò la differenza con la Catalogna: il Consiglio regionale del Veneto si è accontentato di chiedere maggior autonomia».
Nei giorni scorsi lei è stato a presentare il suo libro proprio a Barcellona. Che clima ha trovato?
«Oggi il clima è più tranquillo. Il Governo socialista non è centralista e sta cercando di avere un rapporto più disteso con la Regione catalana».
Abbiamo parlato di materie. Ora parliamo di soldi: la Lombardia ha un residuo fiscale sui 50 miliardi di euro, il Veneto e lâEmilia Romagna oscillano tra 17 e 18. Ã giusto che le tasse pagate da un cittadino di Milano vadano a finanziare i servizi ricevuti da un napoletano?
«Così è scritto nella Costituzione: quando nasciamo diventiamo cittadini italiani. Siamo uno Stato unitario decentrato, non uno Stato federale. Il residuo fiscale, quindi, è un concetto politico: non câè alcun principio che vi attribuisca rilevanza. Anche perché, allargando il discorso, si potrebbe parlare di residuo fiscale provinciale, o comunale. Perché i milanesi devono pagare per i pavesi? O perché quelli di via Montenapoleone devono pagare per quelli del quartiere Gratosoglio? Questo ragionamento per assurdo ci fa capire che, alla fine, il residuo fiscale è in-di-vi-dua-le! La nostra Costituzione dice che i servizi sono garantiti a tutti i cittadini indipendentemente dal loro reddito. Al contrario, il principio del residuo fiscale tende ad attribuire diritti diversi in base alla ricchezza dei territori in cui si vive. Questo è pericoloso».
Si può dire, però, che esiste un tema di malgoverno che riguarda soprattutto il Sud?
«Assolutamente sì, ma da questo punto di vista lâAutonomia differenziata non cambierebbe le cose. Anzi. La riforma Calderoli va a modificare lâimpostazione del finanziamento alle Regioni disegnata dalla legge 42 del 2009 (la legge delega sul federalismo fiscale, ndr): in base a quel sistema, rimasto peraltro in gran parte inattuato, gli indicatori di finanziamento sono basati sul fabbisogno. à così che possono emergere i maggiori casi di inefficienza. Con lâAutonomia differenziata, invece, le nuove competenze non sarebbero finanziate in base ai livelli di fabbisogno a costi standard e a risultati tangibili in termini di qualità di servizi, ma con una percentuale del gettito fiscale nazionale. Questo significa che il presidente di una Regione che avesse tutte queste nuove competenze sarebbe totalmente irresponsabile: avrebbe i soldi senza destinazione vincolata e potrebbe farci quel che vuole».
Oggi però, almeno in campo sanitario, sono già previsti i Lea (Livelli essenziali di assistenza).
«Ma non sono legati ai meccanismi di finanziamento! Le faccio un esempio che chiarisce molto. Se una Regione ha una bassa capacità di fare screening tumorali, per cui in quel territorio si muore per malattie curabili, non si viene a determinare un fabbisogno. E quindi quella Regione non riceverà delle risorse aggiuntive vincolate a fare gli screening, perché il Fondo Sanitario Nazionale è ripartito in base alla popolazione pesata per età ».
Che conclusione dobbiamo trarne?
«à tutto il sistema italiano di costruzione dei meccanismi di responsabilizzazione che è ben lungi dallâessere attuato. Il punto chiave è che le regole di allocazione delle risorse dovrebbero essere uguali per tutti. Invece con lâAutonomia differenziata si va nella direzione opposta: regole speciali per le Regioni a maggior autonomia».
Come si è venuto a creare questo divario tra le Regioni più ricche, che spesso sono al Nord, e le Regioni arretrate, che spesso sono al Sud?
«Lâesistenza di un divario di reddito tra i territori non è inconsueta nel panorama mondiale ed europeo: anche in Germania e nel Regno Unito ci sono vari esempi analoghi. Quel che colpisce, in Italia, è la durata del fenomeno e la sua intensità . Da cosa deriva? Câè un insieme complesso di vicende che attengono alla geografia, alla storia e alle politiche che sono state fatte. Ci sono poi divari di efficienza: il caso più rilevante è appunto quello delle sanità , dove incidono contemporaneamente una gestione clientelare e dei meccanismi di finanziamento, che fanno sì che, ad esempio, la sanità del Sud sia sotto-finanziata. Ma finché non si mettono in campo indicatori più precisi, basati sui fabbisogni, un presidente di Regione potrà sempre dire che la sua Regione ha una sanità peggiore perché dispone di molte meno risorse di unâaltra. Ma la sanità è un argomento molto complesso».
A cosa si riferisce?
«Col complessivo sotto-finanziamento della sanità italiana, i sistemi sanitari dellâEmilia-Romagna, prevalentemente pubblico, e della Lombardia, prevalentemente privato, stanno in piedi grazie alla mobilità sanitaria. Se i sistemi sanitari del Sud diventassero improvvisamente efficienti e si azzerasse la mobilità sanitaria, in Emilia-Romagna e Lombardia si aprirebbero colossali problemi».
Pensa che il regionalismo in Italia abbia fallito?
«No. Io sono per fare analisi basate sui fatti e sulle performance. Quando sento dire che le Regioni hanno fallito e bisognerebbe ri-accentrare tutto, non sono dâaccordo. Sicuramente, se fossimo un Paese serio, dovremmo preoccuparci di fare una valutazione sulla riforma del Titolo V della Costituzione, che questâanno compie 23 anni: dovremmo analizzarne i risultati e intervenire dove serve, ma resto dellâidea che lâItalia non è un Paese che si può governare da Roma. Bisogna trovare la miglior combinazione dei poteri che consenta di progredire sul profilo dellâefficienza».
E questa combinazione, secondo lei, non è certo nellâAutonomia differenziata.
«Negli ultimi mesi il dibattito sulla riforma ha assunto una colorazione politica â la maggioranza a favore, lâopposizione contro â che fino a poco tempo fa era meno netta. Andando più indietro nel tempo, ricordo ad esempio che nel 2014 Giorgia Meloni presentò una proposta di legge per abolire le Regioni⦠Oggi non mi aspetto che la riforma possa subire âscricchioliiâ in parlamento. Qualcosa per contrastarla possono farla invece i sindacati, le rappresentanze delle imprese e i cittadini. Il tema è complicatissimo dal punto di vista tecnico ma molto chiaro dal punto di vista politico: dove sta il potere in Italia? Quali garanzie di controllo hanno i cittadini? Su cosa basare lâuguaglianza tra i cittadini indipendentemente da dove vivono?».
(Giovanni Macchi – tpi.it) – Matteo Renzi âha dato mandato ai propri legali di agire in giudizio contro Lilli Gruber per le dichiarazioni rilasciate questa sera (ieri, ndr) nel corso della trasmissione 8 e mezzo, su La7â³.
Nelle scorse ore lâex presidente del Consiglio ha annunciato la sua candidatura per le elezioni europee, e nel farlo ha sottolineato che in caso di vittoria andrà a Strasburgo. La conduttrice non gli ha âcredutoâ, ed è partita la minaccia di querela.
Nel suo annuncio, il fondatore di Italia viva ha rimarcato più volte la differenza tra gli altri leader di partito â che si candidano ma hanno già fatto sapere di non essere intenzionati ad andare al Parlamento europeo â e se stesso: âCome può lâItalia farsi sentire se i principali leader dei partiti italiani decidono di candidarsi alle europee per finta, per scherzo? Si candidano e dicono da subito che non andranno a Strasburgo se eletti. à una truffa ai cittadiniâ, ha dichiarato. Per poi sottolineare ancora: âNoi abbiamo deciso che chi si candiderà , se eletto, andrà al Parlamento a fare una battaglia sulle questioni ambientali, a cambiare le regole istituzionali, a portare un poâ di speranza. E gli altri che fanno? Gli altri no. Questa è la differenzaâ.
Durante la puntata di Otto e mezzo, però, la conduttrice Lilli Gruber ha espresso più di un dubbio sul fatto che Renzi sia effettivamente intenzionato a rinunciare al proprio seggio in Senato, se anche dovesse risultare eletto. Così, il leader di Italia viva si è mosso sul piano legale, come ha comunicato in una nota il suo partito: i legali di Renzi hanno avuto mandato di agire in giudizio contro Gruber âper la parte in cui la conduttrice ha affermato che Renzi come gli altri leader se eletto non andrà in Europaâ.
Lâufficio stampa di Italia viva ci ha tenuto a rimarcare che âè una affermazione falsa, tendenziosa e priva di fondamentoâ. Infatti, ha ribadito la nota, âil senatore Renzi ha più volte detto che, a differenza degli altri, come tutti i candidati della lista Stati Uniti dâEuropa se eletto andrà a Strasburgoâ.
(Ricky Farina – ilfattoquotidiano.it) – Si parla tanto in questi giorni del benedetto generale Vannacci e delle sua affermazioni sulle classi separate per disabili, ovviamente il benedetto generale si è affrettato a dire che è stato frainteso dalla stampa, da buon generale âha corretto il tiroâ.
Câè già chi ha preso le distanze e chi ha cercato di difenderlo, io invece vorrei prendere le vicinanze e approfondire la visione del mondo (weltanschauung) del suddetto generale fraintendibile per natura. Il generale viene spesso equivocato, ergo è lecito affermare che Vannacci è un generale equivoco.
Come tutti sapete il generale si candida alle Europee grazie a quel genio di Salvini che vuole sfruttarne lâequivoca popolarità . Poniamoci la domanda vera: perché un troglodita come il Vannacci ha tanto successo? Prima però non vorrei essere frainteso, per il vocabolario il troglodita è un abitatore delle caverne, quindi non câè nulla di male, non è unâoffesa, le caverne possono essere anche platoniche, è quasi un complimento se ci pensate bene.
Dicevamo, perché il troglodita equivocabile Vannacci ha tanto successo? Ve lo spiego con un esempio: lâaltro giorno stavo facendo la spesa in un supermercato, un anziano signore ha urtato una signora dai tratti orientali, la signora gli ha detto âPotrebbe anche chiedermi scusaâ e il signore anziano ha così replicato âNon rompere i cogli*ni, tornatene al tuo Paeseâ e la signora dai tratti orientali gli ha risposto âQuesto è il mio Paeseâ.
Ecco, abbiamo individuato lâelettore tipo dellâequivoco Vannacci, non è tanto la maleducazione dellâanziano a colpire ma quel âtorna al tuo Paeseâ. Câè tutto il Vannacci pensiero in questo concetto. Câè il concetto di Patria, ma una patria asfittica, soffocante, somatica, non tanto una patria ma un ghetto, un filo spinato, un recinto, una patria proverbiale âmoglie e buoi dei paesi tuoiâ.
âPer la patria darei la mia vita e quella dei miei figliâ, parole non equivocabili questa volta, parole dellâequivocabile inequivocabile Vannacci. âSignor generaleâ ora mi rivolgo direttamente allâequivoco generale, ânon è necessario che lei dia la sua vita per la patria, ci accontentiamo di un grammo di intelligenza, se ne è provvistoâ.
Che ci volete fare? Vannacci è un uomo di classe. In un mondo dove tutto è fluido, anche la sessualità , un uomo come Vannacci fa presa sui cervelli più statici e deboli, un uomo è un uomo e deve
fare lâuomo, una donna è una donna e deve fare la donna, basta con queste confusioni! Vannacci vuole mettere una divisa anche al sesso, e si sa: il fascino della divisa è forte! E un generale deve fare il generale, un Vannacci deve fare il Vannacci. In Italia più le spari grosse e più hai successo. Vi ricordate di Berlusconi? Ogni giorno ne tirava fuori una, ricordo la più bella di tutte: âMussolini non ha mai ucciso nessunoâ.
Perché fanno questo? La risposta è fin troppo semplice: lâimportante è fare parlare di sé, sulla stampa, tra i tavolini di un bar, alle feste, nei circoli e così via. Lo sappiamo, lâitaliano medio è reazionario, superficiale, ignorante, buoi dei paesi tuoi, lâitaliano medio è mediocre ma senza nulla di aureo, lâitaliano medio non ha il pollice opponibile ma il medio opponibile, lâitaliano medio è talmente triste e vuoto che può rispecchiarsi nel volto di un Vannacci qualsiasi.
Non câè solo questo ovviamente, dicendo scempiaggini e balordaggini di ogni tipo, non si fa solo parlare di sé, ci si macchiettizza, si diventa delle macchiette, dei personaggi da operetta, la violenza e la cecità di certe affermazioni (sarebbe meglio chiamarle negazioni) si perde in una sorta di atmosfera cabarettistica, si diventa in qualche modo âsimpaticiâ, âcomuniâ, âpopolariâ, in sostanza: dei buffoni di corte.
Solo che non siamo alla corte degli Estensi, ma alla corte degli equivoci e della stupidità più bieca e insolente. Così Mussolini diventa uno statista e un pedofilo è solo un uomo che âama i bambiniâ come lâetimologia ci suggerisce, ma se Girolimoni poi risultò innocente non si può dire la stessa cosa del nostro Vannacci: non ci troviamo davanti a uno sprovveduto come potrebbe sembrare a prima âsvistaâ.
Vannacci e Salvini sanno benissimo a che elettorato si rivolgono e lo lusingano con ogni mezzo, senza vergogna, lâimportante è fare colpo, centrare il bersaglio, se la prendono col fantomatico âpensiero unicoâ portando alla ribalta popolare il loro âunico pensieroâ. E come mai questi esseri monocerebrali sono addirittura equivocabili? Perché fa parte del gioco delle parti, è tutto un teatrino, il famoso teatrino della politica, un varietà senza varietà dove al posto dei pomodori si lanciano voti.
E poi non dimentichiamocelo: câè la guerra! Il mondo è in guerra e un generale fa sempre comodo, anche se si chiama Vannacci; vogliono mettere la divisa alle nostre effusioni sessuali, vogliono mettere la divisa ai nostri cervelli, vogliono uniformarci, vogliono metterci sullâattenti, e noi dobbiamo proprio stare attenti, molto attenti, perché il fascismo degli italiani non muore mai, purtroppo. Il fascismo è eterno, ma anche la Resistenza. Siamo uomini o caporali?
(ilfattoquotidiano.it) – Il circo per il candidato della Basilicata, il caos sulle Comunali di Bari, sullo sfondo la delusione delle Regionali in Abruzzo. Ma il filo tra i due poli forti del Campo progressista â nonostante qualche strappo e qualche tensione â non si è spezzato evidentemente. Lâasse sembra rafforzarsi sui temi del lavoro. Ieri Pd, M5s e Verdi-Sinistra si sono presentati alla Corte di Cassazione per presentare la proposta di legge sul salario minimo, misura avversata dalla presidente del Consiglio Giorgia Meloni. Oggi Elly Schlein e Giuseppe Conte sono insieme a Piana degli Albanesi, in provincia di Palermo, per la manifestazione della Cgil a Portella della Ginestra, pianoro teatro della strage di contadini e braccianti del Primo maggio del 1947. Sono arrivati in Sicilia con lo stesso aereo, anche se in file diverse.
Davanti alla Casa del popolo di Piana degli Albanesi, da dove è partito il corteo diretto a Portella della Ginestra, Conte è stato accolto da una studentessa di Giurisprudenza, iscritta al Pd, Chiara il suo nome, che ha invitato lâex presidente del Consiglio a costituire una âalleanza per sconfiggere la destraâ. Conte ha risposto che è sua intenzione portare avanti il progetto. (ANSA). âTi ringrazio e ti garantisco che stiamo lavorando, io con la mia comunità politica, per garantire un progetto serio, forte, credibile, coeso e coerente per garantire una vera alternativa nel paese a queste forze di centrodestraâ ha risposto Conte allâappello di Chiara che ha citato anche la frase del magistrato Rosario Livatino sulla necessità di avere testimoni ânon credenti ma credibiliâ. âDobbiamo lavorare per restituire credibilità alla politica â ha chiosato Conte â per far tornare la gente a votare. Câè tantissimo astensionismo. Sono persone che non hanno più fiducia nelle istituzioni, nella politicaâ.
Il leader del M5s ha annunciato che firmerà il referendum della Cgil contro il jobs act. âOggi è la festa del primo maggio â ha spiegato Conte â ma non dei lavoratori sotto pagati, dei lavoratori poveri, dei lavoratori precari. Dignità del lavoro significa avere un lavoro che dà soddisfazione, un lavoro che consenta anche di poter curare gli interessi personali, la vita familiare e affettiva, e consenta la giusta retribuzione. Un lavoro che non sia âneroâ. E deve essere la festa anche di chi non ha in questo momento un lavoro e vorrebbe averloâ. Parole che vanno a braccetto con quelle della segretaria democratica Elly Schlein: âEâ una giornata di lotta contro il lavoro povero, contro il lavoro precario e anche per la sicurezza sul lavoro â dice â perché non è possibile in Italia continuare a morire di lavoroâ. Una giornata di lotta, sottolinea ancora la leader del Pd, âal fianco di lavoratrici e lavoratori che vogliono migliorare le loro condizioni materiali che sono peggiorate in questâanno a causa delle scelte fatte dal governo Meloni che esattamente un anno fa sceglieva di aumentare la precarietà in Italia. In barba a tantissime persone, giovani e donne, che hanno contratti di un mese, non sanno ce ce lâavranno il giorno dopo e quindi non possono costruirsi un futuro o una famiglia se lo vogliono fareâ.
Il ruolo di Giovanni Anversa, il dirigente candidato al consiglio
(di Antonella Baccaro – corriere.it) – Parola dâordine: disinnescare. Sul Concertone del 1° Maggio, il primo nella cui fattura sia stata coinvolta, accanto ai tre sindacati confederali organizzatori Cgil, Cisl e Uil, la dirigenza Rai indicata dal centrodestra, la cautela è massima. Dopo il caso Scurati, sul quale lâistruttoria è ancora in corso, il timore che la diretta dellâevento sfugga di mano, è comprensibile.
Lâincubo ricorrente è che si ripeta il caso Fedez del 2021, con le accuse di censura rivolte alla dirigenza Rai (allora, col governo Draghi, lâad era Carlo Fuortes) e un clamore finito nel nulla, visto che la Rai non sporse querela, come aveva minacciato. Lâanno scorso il fuori-programma lo offrì il fisico Carlo Rovelli, attaccando il ministro della Difesa Guido Crosetto nel suo monologo. Ambra, che presentava, ci mise una pezza, scusandosi per lâassenza di contraddittorio.
Questâanno, in unâatmosfera già abbastanza incandescente, Massimo Bonelli, che organizza la kermesse da ben 11 anni, ha preferito tagliare la testa al toro: niente monologhi. Una scelta che, curiosamente, assomiglia molto a quella fatta da Amadeus a Sanremo. «La narrazione sarà fatta dai musicisti» ha detto.
Quanto alla scelta del cast, su Bonelli sono già ricadute alcune critiche che suonano più o meno così: «Più che il Primo Maggio sembra Sanremo». Con riferimento ai 70 artisti invitati, tra i quali in effetti ci sono molti reduci dal Festival. Del resto, Bonelli quello che vorrebbe fare più in là lo ha confessato candidamente. «Riformare Sanremo Giovani perché così non funziona». Una mezza candidatura a sostituire Amadeus…
Ma torniamo agli artisti sul palco: molti lanceranno proprio dal Circo Massimo i prossimi album e tour, come se fossero ospiti di un programma qualsiasi. Tra i nomi, spicca quello di Ultimo, il cantautore che riempie gli stadi ma che la sinistra non ama molto. In compenso, ci saranno Dargen DâAmico, già interrotto a Domenica In, per aver parlato di immigrati (protagonisti del suo pezzo sanremese) e Achille Lauro, le cui provocazioni non hanno mai imbarazzato davvero la tv di Stato. Tra le vecchie glorie ribelli, spiccano Piero Pelù, che nel 1993 infilò un profilattico sul microfono. E Morgan, il più imprevedibile, candidato alla conduzione di trasmissioni Rai che poi non gli vengono date.
Tra i cantanti impegnati sui diritti civili, Ermal Meta (conduttore insieme con Noemi), Uzi Lvke da Corviale, i dissacranti rapper Corveleno e Big Mama. Stefano Massini dovrebbe recitare il monologo sulle morti sul lavoro, già messo in scena a Sanremo, insieme con Paolo Jannacci. Ma sono in molti a pensare che potrebbe essere proprio lo scrittore, che si è molto speso sul caso Scurati, a introdurre il tema dellâantifascismo.
La possibilità che di questo si parli sul palco è stata oggetto di domande nella conferenza-stampa di presentazione del concerto, corredata dai timori di censura. E se Bonelli ha dribblato il quesito, sottolineando che il tema scelto dai sindacati è lâEuropa, per la Rai ha risposto il vicedirettore del Prime-Time, Giovanni Anversa. «Non utilizzerei questa parola (censura, ndr) a proposito del palco del Primo Maggio (…) â ha detto â. Non appartiene alla Rai, alla tradizione di questi eventi musicali dove gli artisti si esprimono con la musica e la poesia».
Ad Anversa la dirigenza Rai sembra aver volutamente lasciato il «cerino» di questo Primo maggio: su di lui ricadranno eventuali errori. Ma già da ora, la sua distanza dalla filiera dei dirigenti di fede meloniana, mette a riparo i vertici da accuse di censura preventiva. Il vicedirettore, da parte sua, ostenta tranquillità : se il suo nome è spuntato, a sorpresa, tra le candidature al prossimo cda della Rai, oggi se la gioca tutta.
A viale Mazzini, intanto, assicurano che la diretta sarà tale, senza slittamenti temporali anche minimi, che sarebbero serviti a ritoccare eventuali interventi sopra le righe. Simona Sala, direttrice di Rai Radio 2, è definitiva: «Non abbiamo paura. Il rischio è libertà ».
(di Fabrizio Roncone – corriere.it) – In un pomeriggio romano caldo, dolcissimo, tra giapponesine con gli ombrellini e biondi americani gonfi di birra, finiamo dentro al Tempio di Adriano, in piazza di Pietra, per sentire e vedere da vicino questo famoso Vannacci, questo generale fan di Benito Mussolini â «Per me, resta uno statista» â questo capopopolo arrivato da un mondo brutale e oscuro, che a molti quando parla fa spavento e che a Matteo Salvini invece piace, da subito ne è rimasto politicamente sedotto e adesso spera sia il personaggio giusto per rosicchiare qualche voto a Giorgia Meloni. A destra, molto a destra. Proprio laggiù, dove tutto è nero. E la Lega non câè mai stata.
Salvini ha candidato il generale alle Europee. E, tra poco, con la scusa di parlarci del suo libro («Controvento – LâItalia che non si arrende»), ce lo presenterà .
Intanto: bolgia, telecamere già accese, talk tv in diretta. Chi câè, in platea? Stavolta, la domanda è poco fru fru. Perché lâidea di ritrovarsi il generale in lista ha scatenato un inferno nel Carroccio. Lo sguardo scorre allora tra le colonne e lì compare Andrea Crippa, il vicesegretario della Lega, un monzese di 37 anni considerato il più autorevole interprete del Salvini pensiero, pure lui come il capo tutto braccialetti e camicie attillate, però più secco, più tonico, il fisicaccio sotto un sorriso alla Jim Carrey, che ha fatto innamorare Anna Falchi (lui, sobrio e riservato, dette lâannuncio a Radio Libertà , diretta da Giovanni Sallusti, che oggi modera). Poi ecco pure Laura Ravetto e, dietro, lâattore Antonio Zequila detto «er mutanda» («Sono un grande amico di Matteo», già ). Il senatore Claudio Borghi, opportunamente, resta in piedi. Dicono sia arrivato anche Claudio Durigon, sottosegretario al Lavoro, ras delle â poche â tessere leghiste dellâAgro Pontino, perché nato a Latina, dove avrebbe voluto eliminare la dedica di un parco pubblico a Falcone e Borsellino, per ripristinare la vecchia: ad Arnaldo Mussolini, fratello del Duce. Diciamo che il lugubre capoccione, in qualche modo, aleggia: il tipo che, con aria fosca, appare dietro al banchetto dei libri (non sembra vadano esattamente a ruba) è Mauro Antonini, ex capo di Casapound del Lazio.
Di botto, parapiglia. Sono arrivati Salvini e Vannacci? No: câè Antonio Angelucci, il deputato più ricco di Montecitorio che, però, è anche quello che lavora meno, il più assenteista. Ex portantino dellâospedale Forlanini, oggi possiede un piccolo impero: dal gruppo Tosinvest, enorme polo della sanità privata, a tre quotidiani (Il Giornale, Libero, Il Tempo), cui dicono stia per aggiungere anche lâagenzia di stampa Agi, la seconda del Paese. Indossa un abito gessato con, sotto, una maglietta nera (anche questo colore, diciamo così, torna abbastanza). La gente si inchina, uno gli cede la sedia, un altro cerca di baciargli la mano. Spunta il ministro dellâIstruzione, Giuseppe Valditara. Francesco Storace trova posto dallâaltra parte, proprio mentre parte lâapplauso.
Eccoli: Salvini avanti e il generale dietro. Il generale, un sorriso largo con tanti denti, è in abito blu, e blu è pure la cravatta (elegantissimo, altroché la vestaglietta con cui si fece fotografare dopo quel tuffo nel mare di Viareggio, che scatenò il web e divenne icona dei siti gay-friendly). Salvini presenta a Vannacci la sua fidanzata â Francesca Verdini indossa vezzosi occhiali da sole e una minigonna di pelle rossa (dopo tanto nero, un lampo di allegria) â e poi insieme salgono sul piccolo palco.
Il capo leghista cerca di fare lo spiritoso al momento della photo-opportunity â «Siamo una coppia luciferina per la sinistra» â ma si vede che è teso, nervoso. Nemmeno mezzo sguardo, sulla platea. Sa già tutto, glielâhanno appena detto: Matteo, ci sono solo i nostri. I fedelissimi. Mancano i due capigruppo di Camera e Senato: Riccardo Molinari e Massimiliano Romeo. Non câè lâex ministro Gian Marco Centinaio («Matteo, su Vannacci, ripensaci»). Non câè il ministro Giancarlo Giorgetti (al suo «Il generale non è della Lega», Vannacci ha già risposto sprezzante: «Non mi interessa cosa pensa Giorgetti»). Dei governatori Luca Zaia e Massimiliano Fedriga, nemmeno a parlarne: la loro ostilità nei confronti del generale è nota da settimane.
La presentazione del libro comincia con Salvini che appare solo. Plasticamente solo. Una solitudine politica, e umana. Secondo lâopinione di numerosi osservatori, lâassenza dellâintero establishment leghista gli spedisce, più o meno, questo messaggio: il generale lâhai voluto tu, e adesso ti assumi tutta la responsabilità di una scelta tanto estrema. La faccenda, messa così, rischia di portare a due possibili, complessi scenari: se lâoperazione che ha architettato non dovesse assicurare quei due, tre punti necessari per evitare il sorpasso di Forza Italia (nei sondaggi, per ora, dato quasi per certo), la colpa della sconfitta resterebbe comunque tutta di Salvini. Se, al contrario, dovesse essere la presenza del generale a garantire un colpo di coda, è chiaro che Vannacci assumerebbe una forza inedita, capace di spostare il Carroccio in acque nerastre.
Su questo, si ragiona.
I due, sul palco, cincischiano.
I cronisti aspettano che la presentazione finisca, per chiedere al generale cosa pensi davvero dei disabili. E se gli danno così fastidio. E se, sul serio, non si senta un bel poâ fascio.
Lâex presidente della Camera: io assolto da tutti i reati legati alla vendita
(di Paola Di Caro – corriere.it) – Si può parlare per ore con Gianfranco Fini, ma non dirà mai quello che ha deciso di non dire. E quindi, poco dopo la sua condanna a due anni e 8 mesi per aver autorizzato la vendita di «quella maledetta casa a Montecarlo», non câè unâaccusa ai giudici: «No, non è stata una sentenza politica. à stato un processo politico, questo sì. Perché io ero il leader di un partito, ho avuto alti incarichi, e per la cornice politica in cui quei fatti si svolsero e proseguirono».
Che differenza câè?
«Non câè stato accanimento. Sono stato assolto per tutti i casi di accusa che implicavano il reato di riciclaggio».
 Quindi cosa pensa di questa condanna?
«à stato un processo paradossale con una sentenza illogica. Paradossale perché è durato 10 anni tra il primo avviso di garanzia e questa sentenza, e nel frattempo dal giudizio è uscito per prescrizione lâimprenditore Corallo, che diede a Giancarlo Tulliani i soldi per comprare lâappartamento. E ne è uscito il suo factotum, Laboccetta, che non ha ripetuto in aula le sue dichiarazioni contro di me».
Lei è stato condannato perché autorizzò la vendita. Perché è una sentenza «illogica»?
«Perché sono stato assolto da tutti i reati collegati agli effetti di quella vendita. Per tutti i fatti che la procura mi addebitava, è stato deciso che o non costituissero reato, o non li avevo commessi. Quindi quale sarebbe la mia colpa? Non aver previsto nel 2008 quello che sarebbe poi successo nel 2015?».
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I giudici avranno pensato che, trattandosi della sua compagna, di suo cognato e di suo suocero, lei sapesse?
«Ma io non sapevo. Non esiste una prova, una dichiarazione, un fatto che testimoni lâopposto. Se ci fosse stata, la condanna doveva essere per tutti i capi di imputazione. Ma non câè nulla. Câè anche la dichiarazione di Elisabetta Tulliani che lo attesta, oltre a quello dello stesso fratello Giancarlo, pur latitante. Attendo le motivazioni. E naturalmente conto che in appello arrivi quellâassoluzione piena che già câera stata quando in un primo procedimento sugli stessi fatti venni prosciolto».
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Come avete vissuto in famiglia questi anni?
«à stato doloroso. Al processo e in privato, quando Elisabetta mi ha detto: âSe continuo a difendere mio fratello finisco per danneggiare te. E non lo faròâ».
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Lei avrebbe potuto rompere i rapporti con la sua compagna, «salvarsi». Non lâha mai fatto.
«Io sono convinto che anche lei sia stata vittima del comportamento del fratello. Sono fratelli, è difficile entrare nelle dinamiche così strette. Lei ha sofferto per quello che ha fatto Giancarlo, e ha sofferto per me. In un rapporto, anche se provi dolore, prevale quello che percepisci. E io so che lei è stata sincera quando mi ha parlato. Poi, tutti possono sbagliare».
Teme lâarresto per i suoi familiari?
«Ma no. Essendo venuta meno lâipotesi di riciclaggio transnazionale, questo processo può andare in prescrizione in uno o due anni».
Lei ha smesso di fare politica attiva negli ultimi anni: a causa del processo?
«Sì e no. Ho sempre pensato che la compagna di Cesare dovesse essere al di sopra di ogni sospetto. Mi dava intima sofferenza chi magari mi accusava conoscendomi â Storace lo fece, ora siamo tornati amici â e chi ha cavalcato la tigre della delegittimazione, e lo hanno fatto soprattutto in ambienti di destra. Poi io ho votato convintamente Meloni, e convintamente ho deciso di lasciare la politica attiva».
Avrebbe detto lo stesso oggi se fosse stato assolto?
«Sì, avrei continuato a fare quello che facevo prima, conferenze, dare consigli non richiesti… Ritengo che ci siano stagioni nella vita, anche nella politica. Oggi tocca ai giovani portare avanti il Paese».
Non tutti alla sua età lo pensano.
«E allora vorrà dire che ho il pregio dellâeccezione…».
Chi le è rimasto amico, chi lâha chiamata?
«Tantissimi mi sono stati vicini, il mio telefono non smette di squillare. Militanti, amici, persone di destra e no. Non dico i nomi, non dico i buoni e i cattivi».
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Il suo grande avversario, a tratti nemico, fu Berlusconi, i cui giornali cavalcarono lo scandalo della casa. Vi siete mai chiariti?
«No, non ci siamo più né visti né sentiti. Ma quando è morto, ho scritto quello che pensavo, al di là dei rapporti personali: era un uomo di grande umanità . Le nostre madri si spensero nello stesso periodo: mi fu molto vicino».
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Come esce Gianfranco Fini da questa giornata?
«Cito le parole del mio avvocato Sarno, che con Grimaldi ringrazio molto: âA un cliente qualsiasi avrei detto abbiamo stravinto, ma siccome sei Fini sono furioso, perché ne va di mezzo la tua onorabilità â. Ma io sono certo che arriverà presto il momento della verità ».
Lâintervista al politico e filosofo, già sindaco di Venezia
(di Alessandra Arachi – corriere.it) – Massimo Cacciari, come vede il Pd in questa competizione per le elezioni europee?
«Penso che non andrà male, non dovrebbe arretrare. Tre quarti del voto del Pd è come il mio, di inerzia: ho sempre votato da quella parte, cosa dovevo fare? à un voto di assuefazione che costituisce lo zoccolo duro del partito».
Chi sono quelli che come lei votano per inerzia?
«Una certa borghesia, un ceto medio relativamente tranquillo che non voterebbe mai a destra né il partito di Berlusconi. Ha cercato di votare Renzi, delusioni tremende. Poi Calenda che non è credibile. Voterà Schlein, donna, giovane, è giusto anche sperare che riesca a fare qualcosa».
Pensa che riuscirà a fare qualcosa?
«Ha capito che deve tentare ma non è credibile, non ha il physique du role. Ma almeno ha capito che si deve occupare di temi sociali perché il Pd è un partito di massa e non può essere un partito radicale né tantomeno radical chic».
La segretaria dem ha messo davanti i temi sociali.
«Ma riprende quei temi in maniera puramente retorica».
Cosa intende?
«Cita quei temi senza minimamente dire: come, quando, dove trovare le risorse. Sulle politiche internazionali nemmeno a parlarne».
Perché?
«Schlein è sdraiata di fatto sulle stesse posizioni che sta perseguendo Meloni. Del resto cosa le si può chiedere? Non ha un partito, non una classe dirigente, un gruppo dirigente. à attorniata da persone che non aspettano altro che farle la pelle. Cosa può fare povera fanciulla?».
Ha detto che la richiesta della sinistra alla destra di abiura del fascismo è una foglia di fico…
«Sì, ma prima ho detto che lâantifascismo è il fondamento della Costituzione. Quindi essere antifascisti oggi significa marciare sulla via che la Costituzione indica».
Ma ha contestato chi continua a chiedere a Giorgia Meloni di dirsi antifascista.
«Questa richiesta di pentimenti, di conversione è odiosa. Ma cosa siamo, confessori? Beatrice con Dante alle soglie del paradiso?».
Câè un rincorsa al partito del leader di berlusconiana memoria.
«Una vera sciagura. Continuiamo questa sub cultura totalmente populista e di destra. Il partito si riduce al leader, persiste lâidea che si può essere una democrazia senza partiti, la sciagurata idea che ha coinvolto tutti dopo Tangentopoli. Si è data la colpa ai partiti, non a quello che avevano combinato alcuni gruppi dirigenti».
Da diversi mesi si sta parlando del duello tv tra Giorgia Meloni e Elly Schlein. Cosa ne pensa?
«Ma duello di cosa? Non certo nel merito. Non ci sarà un vero confronto ma un confronto puramente elettorale e propagandistico».
Chi prevarrà ?
«Penso ci sarà un pareggio. Né Meloni né Schlein dovrebbero perdere rispetto alla situazione attuale. Lâobiettivo della Meloni non è aumentare o mantenere i voti in Italia».
Qual è quindi lâobiettivo?
«Diventare decisiva in Europa, dove i popolari, il centro, anche per ragioni di numero, finiranno per allearsi con le destre. E allora la Meloni diventerebbe il vero leader europeo. La sfida tra le due è questa, non è quella dei voti in Italia che rimarranno più o meno quelli».
In Italia si sta alzando lâonda della protesta degli studenti. Usano linguaggi forti.
«Usano linguaggi sbagliati, purtroppo. Dovrebbero essere per il cessate il fuoco e per riaprire un cammino di intesa tra Stato di Israele e Palestina. Sarebbe essenziale per un grande movimento europeo. Ma è chiaro che questo movimento non può essere dalla parte di Hamas. Bisogna operare distinzioni che al momento il movimento degli studenti fa fatica a fare».
La protesta è tutta contro Israele.
«à vero ed è sbagliato, come ho appena detto. Dopodiché la comunità ebraica è restìa a fare un discorso netto: lo Stato di Israele non si tocca ma la politica di Netanyahu va mandata e casa. Voltiamo pagina al più presto perché stiamo vivendo una guerra mondiale a pezzi e prima o poi questi pezzi si uniranno. Siamo esattamente nella situazione in cui eravamo tra il 1910 e il 1914: Sarajevo è dietro ogni angolo».
EPITETI, QUANDO ERA SGRADITO –Â I colleghi. Da La Russa a Sangiuliano: anche i compagni di partito non lâhanno mai amato
(DI LORENZO GIARELLI – ilfattoquotidiano.it) – Vittorio Sgarbi lâimpresentabile, quello che supera âil limite della decenzaâ, Vittorio Sgarbi il âsessistaâ. Che fine ha fatto? Chi lo sa. Ogni volta con Sgarbi si riparte da zero: la destra lo candida o lo nomina a qualcosa, poi scopre allâimprovviso di aver premiato un soggetto capace di gettare nellâimbarazzo governi e partiti e dunque lo caccia, con tanto di indignazione. Passa qualche mese e però tutto è dimenticato, si torna al punto uno.
Succede anche stavolta, con la candidatura del critico dâarte alle Europee con FdI. Strano, perché appena qualche mese fa era stato proprio il partito di Giorgia Meloni a prendere più volte le distanze da Sgarbi (fino alle dimissioni da sottosegretario), sommerso dalle polemiche non solo per le inchieste del Fatto, ma pure per le sue follie a Report (voleva abbassarsi la patta dei pantaloni in video e augurò la morte a un giornalista) e le altre sparate in libertà .
Forse giova allora rinfrescarsi la memoria. Tra i più severi con Sgarbi câera il ministro della Cultura Gennaro Sangiuliano, che più volte lo ha scaricato. Un anno fa, lâex sottosegretario viene invitato a una serata al museo Maxxi e straparla di sesso, lasciandosi andare a volgarità in serie. Sangiuliano (peraltro memore di quando, alla Camera, Sgarbi riempì di insulti sessisti Mara Carfagna) lo attacca: âSono da sempre lontano dalle manifestazioni sessiste e dal turpiloquio. Le istituzioni culturali devono essere plurali, ma lontane da ogni forma di volgarità e chi le rappresenta deve mantenere un rigore più alto degli altriâ.
Quando il Fatto rivela alcuni affari privati che Sgarbi svolge â illecitamente secondo lâAgcm â mentre è al governo, Sangiuliano si confida col nostro giornale: âSono indignato. Non lâho voluto io e anzi, cerco di tenerlo a debita distanza e di rimediare ai guai che fa in giroâ. Poi Sgarbi pensa bene di prendersela con Ignazio La Russa, paragonato ad Amadeus per aver portato in Senato Gianni Morandi per celebrare i 75 anni del Senato: âè stato inquietanteâ, chiosa Sgarbi. Da FdI gli risponde, furioso, mezzo partito: âHa perso unâoccasione per stare zitto e ha passato il limite della decenzaâ (Antonella Zedda); âà in cerca di visibilità â (Salvo Sallemi). Col medesimo La Russa le cose non erano andate meglio sul tema abbattimento di San Siro, su cui a un certo punto il presidente del Senato lo liquida: âNessuno nel governo ha mai sostenuto che ci sia la possibilità di apporre il vincolo allâabbattimento di San Siro. Sgarbi non ha una delega per farlo. Sgarbi è Sgarbi, lo conosciamo tuttiâ.
Sgarbi viene persino spernacchiato quando Miss Italia decide di escluderlo dalla giuria. Il deputato Fabio Petrella lo tratta come un concorrente di un talent show: âPer lui Miss Italia finisce quiâ. E che dire di quando â eravamo nella scorsa legislatura â il meloniano Federico Mollicone sfiorò la rissa con uno Sgarbi particolarmente su di giri che, in commissione, gli contestava alcune innocue considerazioni su Leonardo da Vinci: âCapra! Non capisci un cazzo! Picchiatore fascistaâ. E Mollicone: âPrenditi un sedativo, sei patetico!â. Seduta sospesa con tanto di onorevoli impegnati a separare i due litiganti.
Ma a essere stufi di Sgarbi non erano mica solo gli esponenti di FdI. Anche gli alleati hanno dovuto più volte smarcarsi dalle peggiori uscite del critico. Dopo la sfuriata contro Report, la vice-capogruppo di FI alla Camera Rita dalla Chiesa parlava così al Fatto: âLa scenata di Sgarbi non è compatibile con il suo ruolo, non è compatibile con nessuna carica, non è compatibile con lâeducazione familiare. Non câè spazio per cadute di stile come questaâ. Persino un bonario Maurizio Gasparri, capogruppo in Senato, pur definendosi âamico personaleâ di Sgarbi, non poteva non ammettere che la soluzione migliore fosse tenerlo lontano dalla politica: âIo glielâho detto tante volte: fai il critico dâarte. Invece lui vuol fare il sindaco, lâassessore, tutte queste cose che gli portano guai. Non mi ascoltaâ. Tutti lo conoscono, eppure in qualche modo se lo ripigliano. E lui ringrazia pensando già al prossimo stipendio.
VANNACCI – Salvini: âPiù a destra di così non si può…â
(DI TOMMASO RODANO – ilfattoquotidiano.it) – Antonio Angelucci sorride dietro gli occhiali da sole. à in prima fila allâevento con Matteo Salvini e Roberto Vannacci, capitano e generale della Lega alle elezioni europee. Recordman di assenze in Parlamento, raramente il deputato leghista Angelucci si fa vedere in pubblico e ancora più raramente parla dei suoi affari da editore.
Questa volta fa eccezione a metà : si vede, cioè, ma non parla. Però sorride. Al Fatto Quotidiano risulta che la trattativa per acquistare lâAgi, agenzia di stampa di proprietà di Eni, sia ormai definita, lâaccordo è stato trovato, la vendita sarà annunciata e formalizzata in estate, tra luglio e agosto, per non âdisturbareâ la campagna elettorale di Giorgia Meloni e dei suoi alleati. A questa domanda, Angelucci risponde con una risata sorniona e apre le braccia: âSe lo dice leiâ¦â. Insistiamo: lâannuncio arriverà dopo le Europee? Altro sorriso: âChi vivrà , vedrà â. à vero che Agi costerà solo 7 milioni di euro? Angelucci si passa un dito sulla bocca, come a cucirsi le labbra. La postura e lâallegria valgono più di una dichiarazione.
Allâevento congiunto Salvini-Vannacci, lâimprenditore Angelucci (già titolare dellâoligopolio della stampa di destra, con il Giornale, Libero e Il Tempo) è uno dei pochi leghisti presenti: ci sono solo Andrea Crippa, Claudio Borghi, Claudio Durigon, il ministro Giuseppe Valditara, Laura Ravetto, Giulio Centemero, Antonio Maria Rinaldi e altre figure minori
I giornalisti accreditati invece sono più di cento: quello di Vannacci â almeno fino alla prova delle urne â si conferma un successo di carta, favorito dalla stessa stampa che lâha reso famoso tentando di ridicolizzarlo. Di questo incontro si ricorderà soprattutto la battuta dei due leghisti mentre si girano e posano per i fotografi: âPiù a destra di così non si puòâ.
(di Marcello Veneziani) – Se cercate la madre di tutte le violenze alle donne, gli stupri e i cosiddetti femminicidi, dovete risalire a 80 anni fa nel centro-sud dâItalia. à il capitolo amaro e atroce delle cosiddette marocchinate. I singoli episodi di violenza e di abusi che si leggono quotidianamente e che suscitano ribrezzo e preoccupazione, impallidiscono di fronte a una vera e propria mattanza di corpi femminili, ragazze, minorenni o sposate, che avvenne nella primavera di ottantâanni fa, in Italia, in unâarea che va dalla Toscana alla Campania e alla Sicilia, con particolare accanimento nel basso Lazio. Non fu opera di sciagurati maniaci sessuali, ma fu quasi pianificato e autorizzato come bottino di guerra, ed ebbe come protagonisti soldati in divisa di eserciti di liberatori, come i francesi.Â
Esorto le femministe di lotta e di denuncia, le compagne di piazza e di corteo, le parlamentari progressiste e radicali, le combattenti antifasciste, antisessiste e le attrici impegnate, ad aprire e approfondire quella pagina di storia che risale alla primavera del 1944.  E vi suggerisco un insolito punto di partenza. Andate a scoprire chi era Maria Maddalena Rossi. Per aiutarvi nella ricerca vi dirò che aderì al Partito comunista quandâera ancora clandestino, fu arrestata dalla polizia fascista, mandata al confino, espatriata. Poi fu eletta nellâassemblea Costituente nel gruppo comunista, fece battaglie per la parità dei diritti delle donne; fu parlamentare del PCI, sindaco, presidente dellâUnione Donne Italiane. Morì novantenne nel â95. Insomma ha i titoli a posto per essere celebrata dalle femministe progressiste.
Perché proprio lei? Perché nel â52 aprì in unâinterrogazione parlamentare quel capitolo scabroso e rimosso della seconda guerra mondiale nelle vulgate storiografiche sulla liberazione: le marocchinate, ovvero le migliaia di donne italiane stuprate, violentate dalle truppe marocchine venute a âliberareâ lâItalia con gli alleati. In Ciociaria, in particolare, fu uno scempio, di cui restò traccia molti anni dopo nel film La ciociara di Vittorio De Sica con Sophia Loren, tratto da un romanzo di Alberto Moravia. Donne stuprate e messe incinta, bambini violentati, più di mille uomini uccisi per aver cercato di difendere le loro donne, madri, mogli, sorelle, fidanzate, figlie.
Nel dibattito parlamentare che seguì allâinterrogazione della Rossi, venne fuori che il numero più attendibile era di 25mila vittime, ma se si considera che il campo dâazione dei magrebini si estendeva a mezzo centro-sud, il numero di 50-60mila marocchinate indicato da alcune ricerche è plausibile. Il pudore nel raccontare queste storie ne ha ridotto la portata e coperto con un velo protettivo di omertà le reali dimensioni della tragedia. Si voleva tutelare col silenzio lâonorabilità delle loro donne, e non sottoporle anche a una gogna. La responsabilità , oltre che dei soldati marocchini, fu dei vertici dellâesercito francese che dettero loro sostanziale impunità e carta bianca, come un tribale diritto di preda. Non furono i soli, intendiamoci, nella barbarie di quel tempo. Ma un fenomeno così vasto e quasi pianificato, su donne inermi che non avevano colpe è raccapricciante per la ferocia animalesca.
Una pagina rimasta impunita e rimossa.
Migliaia di storie strazianti e interi paesi violentati, quando il sud era âliberatoâ. Per chi voglia approfondire, rimando ai libri sulle marocchinate di Emiliano Ciotti, Stefania Catallo e di una francese dâorigine italiana, Eliane Patriarca. Un corposo e documentato dossier uscì sulla rivista âStoria in reteâ di Fabio Andriola.
Ma è da sottolineare che una donna comunista, leader delle donne in lotta, antifascista col fascismo imperante â non come i grotteschi militanti postumi dellâAnpi dâoggi â ebbe il coraggio e lâamor di verità di denunciare questo obbrobrio, che per ragioni di antirazzismo e antifascismo ora si preferisce mettere a tacere. Le stesse ragioni che portano a non scendere in piazza se una ragazza oggi è stuprata e uccisa da migranti. O a dimenticare quelle donne violentate, rasate a zero e uccise solo perché ausiliarie della Repubblica sociale; o stuprate in Istria. La stessa omertà che accompagna il vergognoso racket di uteri in affitto, dove la dignità della donna è venduta al capriccio danaroso di benestanti, spesso coppie omosex. Il Pci sessista di quegli anni aveva donne più rappresentative nei suoi ranghi, che provenivano dalla lotta politica, dalla piazza, dalla militanza di base e anche dalla guerra civile.Â
Probabilmente la Rossi dovette vedersela anche allora con le reticenze dei suoi compagni, lo strisciante maschilismo del vecchio Pci e lâomertà sulle pagine nere dei âliberatoriâ. Anche perché quelle pagine infami ne avrebbero richiamato delle altre, per esempio gli eccidi nel Triangolo rosso.
Suggeriamo alle femministe perennemente mobilitate in campagne contro i maschi e i loro soprusi, di ricordarsi di una femminista, comunista e antifascista che non si tirò indietro a raccontare le scomode verità e le pagine nere della Liberazione. Sarebbe il caso che il presidente della repubblica, che non si lascia sfuggire mezzo anniversario di quel che accadde nella storia della seconda guerra mondiale e della resistenza, si ricordasse anche di questo evento corale, che mortificò la dignità femminile e stuprò i loro corpi, la loro verginità , la loro maternità . Gli orrori della guerra vanno raccontati e ricordati per intero, senza amnesie (come ad esempio il silenzio sugli ottantâanni dello scempio dellâabbazia di Montecassino, bombardata dagli Alleati). Per aiutarlo a ricordare e a ripararsi dietro unâimmagine inattaccabile, si ricordi almeno della compagna partigiana comunista Maria Rosaria Rossi, del film di Vittorio de Sica e del libro dello scrittore filocomunista Alberto Moravia. Tre alibi per poter raccontare in modo inattaccabile, compiacendo lâantifascismo dominante, una storia dolorosa di cui furono vittime così tante donne italiane.