Selezione Quotidiana di Articoli Vari

Marx e Nietzsche non si diedero mai la mano, né ad Atreju né altrove


(dagospia.com) – Ovviamente Marx e Nietzsche non si diedero mai la mano, né ad Atreju né altrove. Ciò è semplicemente stato immaginato nell’ultimo libro di Marcello Veneziani (“Nietzsche e Marx si davano la mano”, Marsilio).

Lo scrittore e polemista ipotizza come mise en scène che la sera del 5 maggio 1882 si sarebbero trovati in una locanda di Nizza (dove entrambi passarono). “La mano carnosa di Friedrich Nietzsche incontrò la mano smagrita di Karl Marx, un breve sorriso e un rapido incrocio di sguardi suggellò la stretta”, scrive Veneziani. Ma l’episodio è un artificio narrativo: più di cinquecento chilometri e ventisei anni separavano Marx, nativo di Treviri, da Nietzsche, nativo di Röcken: Marx era all’ultimo capitolo della vita; Nietzsche aveva da poco scritto “La gaia scienza”.

È evidente che la battuta della Meloni venga anche dall’aver messo sul comodino il libro di Veneziani. Non si capisce bene se la Meloni ci abbia creduto davvero. I due, comunque, non avevano pareri univoci sul Risorgimento italiano: entrambi non avevano alcuna ammirazione per Garibaldi (troppo socialista e massone per Nietzsche; patriottardo per Marx), ma erano divisi su Mazzini (a differenza di Marx, Nietzsche nutriva un’autentica venerazione).


Zelensky pronto a rinunciare alla richiesta di adesione alla Nato


(repubblica.it) – Oggi a Berlino il presidente ucraino Zelensky incontrerà il cancelliere Merz e la delegazione americana per discutere il piano di pace europeo recentemente modificato a 20 punti. Il Financial Times riferisce che il leader ucraino ha dichiarato di essere pronto a rinunciare alla richiesta di adesione alla Nato in cambio di garanzie di sicurezza da parte degli Stati Uniti e dell’Europa. 

Zelensky: “Unica opzione per la pace è che le parti si fermino dove sono e poi si negozi”

Per Volodymyr Zelensky “l’unica opzione giusta e possibile” per una vera pace è che “le parti si fermino dove sono e poi si cerchi di risolvere le questioni più ampie attraverso la diplomazia”. Così il presidente ucraino, in dichiarazioni pubblicate su una chat su WhatsApp di giornalisti riferite dal Financial Times, ribadisce “non considerare giusta” la proposta degli Usa che Kiev si ritiri dalla “cintura delle fortezze” delle città nel Donbass che la Russia in anni di guerra non è riuscita a conquistare.

“Se le troppe ucraine si ritirano tra i cinque e dieci chilometri per esempio, allora perché le truppe russe non si devono ritirare nelle zone dei territori occupati della stessa distanza?”, argomenta Zelensky, sottolineando che “questa è una domanda a cui ancora non c’è risposta, ma è estremamente delicata e importante”. “Noi rimaniamo dove siamo”, ha aggiunto riferendosi alla proposta di congelare le posizioni attuali delle due parti, concludendo che “questo è precisamente un cessate il fuoco”.

Zelensky: “Oggi a Berlino vedremo gli americani, pronto al dialogo”

“Oggi a Berlino è la giornata ucraino-americana. Naturalmente vedrò il cancelliere Merz separatamente e probabilmente incontrerò alcuni dei nostri leader europei più tardi questa sera”: così il presidente ucraino Volodymyr Zelensky, parlando ai media tra cui Rbc, spiega i negoziati sul piano di pace al via oggi a Berlino. “Non ho ancora ricevuto – afferma il leader ucraino – una risposta dagli Stati Uniti d’America. Ho ricevuto alcuni messaggi tramite il mio team negoziale. Ma sto ricevendo tutti i segnali e sarò pronto per il dialogo, che inizierà oggi”.

Cremlino: “Ci opporremo alle modifiche di europei e ucraini al piano di pace”

Mosca si opporrà fermamente all’inclusione delle proposte elaborate da Kiev e Bruxelles nel piano di pace. Lo ha affermato il consigliere del Cremlino Yuri Ushakov citato dalla Tass. Parlando con il giornalista televisivo Pavel Zarubin, Ushakov ha sottolineato che Mosca non ha ancora preso visione delle proposte. “Tuttavia, ci opporremo fermamente se verranno apportate le modifiche necessarie”, ha osservato Ushakov, aggiungendo: “Abbiamo reso molto chiara la nostra posizione e gli americani sembrano averla capita”.

Cremlino: “Dubbi che gli europei e gli ucraini aiutino il piano di pace”

La Russia non ha ancora preso visione delle proposte di pace elaborate dall’Ue e dall’Ucraina, ma dubita che possano dare un contributo costruttivo al processo di pace, ha affermato il consigliere del Cremlino Yuri Ushakov, citato dalla Tass. “Penso che sia improbabile che ucraini ed europei diano un contributo costruttivo ai documenti”, ha dichiarato Ushakov al giornalista televisivo Pavel Zarubin. “Non le abbiamo ancora viste (le proposte, ndr)”, ha aggiunto Ushakov.


Giorgia, er mejo tacco di Atreju


Meloni saltella sul palco di Atreju sul coro ‘Giorgia, Giorgia’

(ANSA) – ROMA, 14 DIC – Prima di iniziare il suo intervento ad Atreju, la manifestazione di FdI, la premier Giorgia Meloni è stata accolta dal coro ‘Giorgia, Giorgia’. La presidente del Consiglio ha iniziato a saltellare sul palco con le braccia al cielo. “Buongiorno a tutti, siete uno spettacolo meraviglioso, voglio ringraziarvi per questo entusiasmo”, ha esordito Meloni.

“Per la vostra energia contagiosa – ha aggiunto – e il vostro impegno senza sosta in queste giornate che profumano di buona politica, di comunità, di appartenenza. E grazie perché davvero vedervi qui così numerosi e orgogliosi con le nostre bandiere davvero mi ripaga di ogni giorno impossibile, di ogni notte passata senza dormire, di ogni fine settimana passato a lavorare per cercare quanto di meglio possiamo per questa nazione”.

Meloni, Atreju luogo di confronto, chi scappa non ha contenuti

(ANSA) – ROMA, 14 DIC – “Questo è il luogo in cui tutte le idee hanno diritto di cittadinanza. Questo è il luogo in cui Nietzsche e Marx si danno la mano. In cui il valore delle persone si misura sui contenuti. E chi scappa dimostra di non avere contenuti”. Lo ha detto la premier Giorgia Meloni nel suo intervento sul palco di Atreju, la manifestazione di FdI.

Meloni, ‘nannimorettismo’ di Schlein, campo largo riunito da noi

(ANSA) – ROMA, 14 DIC – “Voglio ringraziare i tanti leader delle opposizioni che hanno partecipato, Conte, Bonelli, Renzi, Marattin Calenda, Magi e voglio ringraziare anche Elly Schlein che con il suo nannimorettiano ‘mi si nota di più se vengo o sto in disparte o se non vengo per niente’ ha comunque fatto parlare di noi”.

Così la presidente del Consiglio e di FdI Giorgia Meloni ad Atreju. “La cosa divertente è che il presunto campo largo l’abbiamo riunito noi e quella che dovrebbe federarli è l’unica che non si è presentata”. (ANSA). 

Meloni, da sinistra macumbe su Atreju, si portano sfiga da soli

(ANSA) – ROMA, 14 DIC – “Parlano male di Atreju ed è l’edizione migliore di sempre, parlano male del governo e il governo sale nei sondaggi. Hanno tentato di boicottare una casa editrice ed è diventata famosissima.

Si portano sfiga da soli, che manco quando te capita la carta della pagoda al Mercante in fiera. E allora grazie a tutti quelli che hanno fatto le macumbe prendendo questa edizione di Atreju la più intensa e partecipata di sempre”. Lo ha detto la premier Giorgia Meloni nel suo intervento sul palco di Atreju, la manifestazione di FdI. 

Meloni, allarme per il disimpegno di Trump?

(ANSA) – ROMA, 14 DIC – “Ci sono state valutazioni molto allarmate perché Trump ha detto in maniera più decisa che gli Usa intendono disimpegnarsi e gli europei devono organizzarsi per difendersi da soli: buongiorno Europa, per ottant’anni abbiamo appaltato” la nostra sicurezza “pensando che questo giorno non sarebbe venuto e che fosse gratis” ma aveva il prezzo del “condizionamento”.

Così la presidente del Consiglio e di FdI Giorgia Meloni ad Atreju. “Lo dico sempre la libertà ha un prezzo e noi che al contrario di altri non abbiamo mai amato le ingerenze straniere da qualsiasi parte arrivino abbiamo sempre preferito una costosa libertà a una costosissima e apparentemente comoda servitù”. 


L’opposizione che vive solo di indignazione senza offrire soluzioni non è un’alternativa di governo: Padellaro oggi lo riconosce


(Gabriele Lanzi) – 𝐍𝐨𝐧 𝐬𝐨 𝐬𝐞 𝐚 𝐏𝐚𝐝𝐞𝐥𝐥𝐚𝐫𝐨 𝐚𝐛𝐛𝐢𝐚𝐧𝐨 𝐟𝐚𝐭𝐭𝐨 𝐜𝐚𝐦𝐛𝐢𝐚𝐫𝐞 𝐢𝐝𝐞𝐚 𝐥𝐞 𝐦𝐢𝐠𝐥𝐢𝐚𝐢𝐚 𝐝𝐢 𝐫𝐞𝐚𝐳𝐢𝐨𝐧𝐢 𝐢𝐫𝐫𝐢𝐭𝐚𝐭𝐞 𝐜𝐡𝐞 𝐡𝐚 𝐫𝐚𝐜𝐜𝐨𝐥𝐭𝐨 𝐧𝐞𝐠𝐥𝐢 𝐮𝐥𝐭𝐢𝐦𝐢 𝐠𝐢𝐨𝐫𝐧𝐢, 𝐦𝐚 𝐮𝐧𝐚 𝐜𝐨𝐬𝐚 𝐞̀ 𝐜𝐞𝐫𝐭𝐚. Nell’articolo di oggi Padellaro dice, nero su bianco, cose che il M5S sostiene da tempo e che fino a ieri venivano liquidate come ambigue o divisive. A partire dalla lettura corretta delle parole di Conte su Trump, che non erano un auspicio ma una constatazione amara del fallimento europeo, fino alla difesa di un punto politico fondamentale: Conte non divide il fronte progressista, chiede serietà, tempo e rispetto per una comunità che vota solo se convinta. Padellaro lo dice chiaramente, e aggiunge una domanda che pesa come un macigno su tutta l’opposizione: va bene indignarsi contro la destra, ma quali sono le proposte concrete su sicurezza, immigrazione, Ucraina, spesa pubblica? Con quali soldi, con quali strumenti, con quale strategia alternativa a quella che ha già fallito? È legittimo chiedersi se questa improvvisa lucidità sia anche figlia del nervosismo di chi, in questi giorni, ha provato a zittire ogni voce non allineata accusandola di tradimento. Ma al di là delle motivazioni, conta il merito. E nel merito questo articolo fotografa una verità scomoda: l’opposizione che vive solo di indignazione morale senza offrire soluzioni credibili non è un’alternativa di governo. Il M5S, invece, pone problemi reali e pretende risposte reali. Questo Padellaro oggi lo riconosce. Non per simpatia, ma perché i fatti, alla lunga, sono testardi.

Bettini e Crosetto sporchi trumpiani?

(di Antonio Padellaro – ilfattoquotidiano.it) -L’impresa appare disperata, ma un antidoto contro i gargarismi di destra e di sinistra uniti nella lotta a Giuseppe Conte e ai Cinque stelle è ciò che dice Goffredo Bettini. Una lunga e importante storia politica la sua (dal Pci al Pd), oltre a una istintiva repulsione verso il cretino programmatico che infesta i giornali (con esiti infausti per i giornali stessi). Quando il “Domani” gli chiede se è d’accordo con le parole di Conte che hanno sollevato vasta riprovazione nel campo del cretinismo largo: “Lasciamo fare a Donald Trump”, Bettini risponde, “io le ho interpretate da subito come a dire che così tanti sono stati gli errori dell’Europa che si è arrivati a far decidere tutto a Trump. Non un auspicio, ma una dolorosa constatazione”. Quanto all’accusa rivolta all’ex premier di dividere il fronte dell’opposizione, Bettini non è per niente d’accordo: “Conte ha portato i cinquestelle stabilmente nel campo progressista. Ha dato una mano, più di ciò che è apparso, per varare la coalizione in Toscana, Marche, Campania e Puglia. Ma ha un vincolo: la sua comunità politica è esigente e combatte e vota solo se è convinta. È giusto che chieda tempo per un percorso di consultazione nei territori”. Sul conto di Trump c’è un concetto analogo espresso da Guido Crosetto nel dibattito con Marco Travaglio, venerdì sul palco di Atreju, quando il ministro della Difesa ammette che il presidente americano fa ciò che l’Europa non fa. Nell’attesa che il cretinismo bolli pure Bettini e Crosetto come degli sporchi trumpiani (e putiniani) c’è invece un’altra frase di Conte riguardo alle trattative imposte a Kiev dalla Casa Bianca che i censori trasversali dell’opposizione hanno preferito tralasciare, questa: “Se i farisei che criticano hanno soluzioni alternative si facciano avanti”. Infatti, sono buoni tutti a fare l’opposizione semplicemente ributtando la palla nel campo avversario senza mai azzardarsi a proporre qualcosa di seriamente diverso. Per esempio, più che giusto accusare la destra di non aver saputo tutelare la sicurezza dei cittadini se non escogitando nuovi reati e inasprimenti di pene con esiti abbastanza inefficaci. Ma la sinistra dica come risolverebbe il problema: con più mezzi e più uomini alle forze dell’ordine? Perfetto, ma pagati con quali soldi visto che per raggranellare qualche residuo spiccio nelle casse dello Stato c’è chi pensa perfino a vendersi l’oro? La lotta all’immigrazione irregolare è un flop, come del resto gridano vendetta i soldi buttati dal governo Meloni nel centro di accoglienza in Albania. Ma il Pd e i cinquestelle (e Matteo Renzi e Carlo Calenda e Bonelli & Fratoianni) cosa propongono in concreto per arginare la crescita degli sbarchi? E quando le anime belle protestano per i modi spicci del tycoon Usa nel mettere alle corde il riluttante Zelensky non è forse vero che l’Europa a cui ci siamo legati mani e piedi ha scommesso sulla vittoria militare dell’Ucraina e adesso non sa dove sbattere la testa? Perciò, compiti a casa per la sinistra perennemente indignata: leggete il compagno Bettini e meditate.


Report: La tecnodestra all’assalto dell’Europa e altre inchieste  


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(rai.it) – Dal documento ufficiale sulla strategia nazionale di sicurezza pubblicato dalla Casa Bianca qualche giorno fa, emerge sempre più nitido il progetto di Donald Trump per indebolire l’Unione Europea. Parte da qui l’inchiesta di Giorgio Mottola con la collaborazione di Greta Orsi “La tecnodestra all’assalto dell’Europa” in onda per “Report” domenica 14 dicembre alle 20.30 su Rai 3 e su RaiPlay. L’obiettivo è condiviso dai colossi della Silicon Valley che vedono come il fumo negli occhi i rigidi regolamenti europei sul monopolio e sulla protezione dei dati. Da mesi Elon Musk – l’uomo più ricco del mondo – ha iniziato a sostenere pubblicamente i partiti del Vecchio Continente più critici con Bruxelles. In particolare, ha costruito in Italia un rapporto preferenziale con la presidente del consiglio italiano Giorgia Meloni. Per la prima volta, l’emissario in Italia di Elon Musk, Andrea Stroppa, racconta davanti alle telecamere come è nata questa relazione speciale e quali sono state le implicazioni politiche e commerciali del filo diretto tra Musk e Meloni. Nella strategia di influenza americana sulla democrazia europea un ruolo fondamentale lo sta giocando un altro miliardario della Silicon Valley, Peter Thiel, ex socio di Musk e fondatore di Palantir, una della più misteriose e discusse società tecnologiche del settore della difesa che potrebbe rischiare di far sembrare il Grande Fratello di Orwell una favola per bambini Giorgio Mottola ha intervistato l’ideologo di riferimento di Peter Thiel e della cosiddetta tecnodestra americana, Curtis Yarvin. Ingegnere informatico e filosofo autodidatta è una delle figure più controverse del panorama intellettuale statunitense per via delle sue posizioni delle sue posizioni estreme sul razzismo e sulla democrazia, che però hanno fatto presa su alcune figure cruciali dell’amministrazione Trump.
“Odessa Connection” di Sacha Biazzo con la collaborazione di Samuele Damilano ricostruisce, poi, il ruolo dell’Italia nei progetti di ricostruzione dell’Ucraina, in particolare i 47 milioni di fondi pubblici destinati all’area di Odessa, seguendo i rapporti tra le istituzioni italiane, l’ex sindaco della città Gennadiy Trukhanov e il suo consigliere per la cooperazione internazionale Attilio Malliani. L’inchiesta, basata su atti giudiziari, rapporti di polizia e testimonianze, documenta i procedimenti anticorruzione che riguardano Trukhanov, i lavori sulla cattedrale di Odessa finanziati tramite l’Unesco e alcuni casi di gestione dei fondi umanitari, anche mettendoli a confronto con il modello anticorruzione adottato dalla Danimarca a Mykolaiv.
E ancora, “Starlights Rooms” di Lucina Paternesi. Dormire sotto la volta celeste nel cuore delle Dolomiti, a 700 euro a notte: è l’idea che ha avuto un noto imprenditore di Cortina D’Ampezzo che qualche anno fa ha realizzato le Starlight rooms, stanze panoramiche che ruotano fino a 360 gradi posizionate a 2.055 metri di quota e rivestite di legno e vetro per permettere, appunto, di osservare le stelle durante la notte. Ma chi le ha realizzate – e ha ospitato anche cantanti e attori famosi – non aveva le autorizzazioni per farlo, dal momento che la legge regionale del Veneto sul turismo prevede il divieto di costruire sopra i 1.600 metri, ad eccezione di rifugi e bivacchi. A sanare le casette dell’imprenditore ampezzano è stata la passata giunta presieduta da Luca Zaia che ha modificato la norma e ora ogni comune montano potrà dotarsi di almeno due stanze panoramiche anche sopra i 1600 metri d’altitudine.
Lab Report, infine, propone “Gaza. La pace del gas” di Nancy Porsia. Dopo la firma del piano di pace di Donald Trump, Gaza viene nuovamente bombardata, come mostrano le immagini girate nella Striscia all’indomani dell’accordo. L’inchiesta di “Report” segue gli effetti del piano tra Stati Uniti, Cisgiordania e Israele, ricostruendo pressioni religiose e politiche, l’avanzare delle annessioni, le tensioni sul gas offshore conteso e il ruolo dell’Eni nelle partnership energetiche con Israele. Le testimonianze di esperti, giuristi e analisti delineano i rischi geopolitici ed economici del dossier Gaza Marine, mentre la storia della diciassettenne Shireen Abu Al-Kas riporta alle conseguenze umane del conflitto.

Mafia e corruzione, su Report l’inchiesta sulla ricostruzione di Odessa. E Giuli promette un documentario Rai

L’inchiesta di Report sui fondi italiani per Odessa rivela ombre di corruzione nella gestione della ricostruzione ucraina

(ilfattoquotidiano.it) – Torna Report, in onda a partire dalle 20.30 con la conduzione di Sigfrido Ranucci, domenica 14 dicembre, su Rai3 con l’inchiesta “Odessa Connection” di Sacha Biazzo, con la collaborazione di Samuele Damilano. L’inchiesta ricostruisce il ruolo dell’Italia nei progetti di ricostruzione dell’Ucraina, in particolare i 47 milioni di fondi pubblici destinati all’area di Odessa, seguendo i rapporti tra le istituzioni italiane, l’ex sindaco della città Gennadiy Trukhanov e il suo consigliere per la cooperazione internazionale Attilio Malliani. L’inchiesta, basata su atti giudiziari, rapporti di polizia e testimonianze, documenta i procedimenti anticorruzione che riguardano Trukhanov, i lavori sulla cattedrale di Odessa finanziati tramite l’Unesco e alcuni casi di gestione dei fondi umanitari, anche mettendoli a confronto con il modello anticorruzione adottato dalla Danimarca a Mykolaiv.


Fratelli d’Italia presenta un ddl contro chi “esalta” la mafia


“Gomorra” e “Suburra” a rischio sanzione? Fratelli d’Italia presenta un ddl contro chi “esalta” la mafia. Roberto Saviano tuona: “Censura mascherata da tutela morale”. Presentato dalla deputata FdI Maria Carolina Varchi, il ddl sembra esporre serie tv, canzoni e post al rischio di sanzione penale

“Gomorra” e “Suburra” a rischio sanzione? Fratelli d’Italia presenta un ddl contro chi “esalta” la mafia. Roberto Saviano tuona: “Censura mascherata da tutela morale”

(di Claudio Savino – Fqmagazine) – Una legge per contrastare gli “episodi di vera e propria apologia della criminalità organizzata, in particolare di stampo mafioso”, che da anni si susseguono “sotto varie forme”. Come, ad esempio, “gli ‘inchini’ dinanzi alle residenze di personaggi legati alla malavita nel corso di processioni religiose” o “la costruzione di altarini e monumenti in memoria di persone legate alla malavita organizzata o mafiosa”. O, ancora, “serie televisive che mitizzano personaggi reali o immaginari delle varie associazioni criminali di stampo mafioso”. È sulla base di questi presupposti che la deputata di Fratelli d’Italia Maria Carolina Varchi ha presentato una proposta per introdurre una norma che prevede fino a tre anni di carcere e una multa da 10mila euro.

Il disegno di legge, che è stato depositato alla Camera lo scorso 14 ottobre e assegnato alla Commissione II Giustizia di cui Varchi è capogruppo FdI, prevede l’estensione dell’articolo 416 del codice penale e introduce il reato di “apologia e istigazione” dei comportamenti mafiosi. La norma, se approvata, non punirebbe soltanto chi “pubblicamente esalta fatti, metodi, princìpi o comportamenti propri delle associazioni criminali di tipo mafioso”. Ma anche chi “ne ripropone atti o comportamenti con inequivocabile intento apologetico ovvero istiga taluno a commettere i medesimi delitti”.

È quest’ultimo passaggio, in particolare, a sollevare qualche dubbio. Formulata in questo modo, la legge sembrerebbe esporre al rischio di sanzioni penali anche opere artistiche, testi di canzoni e post sui social. È la stessa Varchi a indirizzare la sua proposta di legge verso un’interpretazione di questo tipo. In particolare quando, nella relazione introduttiva, inserisce le “serie televisive che mitizzano personaggi reali o immaginari delle varie associazioni criminali di stampo mafioso” e “i testi delle canzoni, che contengono messaggi espliciti di esaltazione della malavita e della criminalità organizzata, attraverso la glorificazione di figure o di episodi ad esse collegate” tra gli esempi di “episodi di vera e propria apologia della criminalità organizzata”.

Secondo la deputata, infatti, queste condotte ad oggi “non configurano nel nostro ordinamento alcun fatto penalmente rilevante” e necessitano quindi di una norma ad hoc, dal momento che “l’indignazione, la condanna mediatica, la stigmatizzazione e l’allarme sociale rimangono le uniche concrete risposte che si registrano”. E chi commette il reato verrebbe punito con “la reclusione da sei mesi a tre anni” e una multa che va dai mille ai 10mila euro. La pena può aumentare di un terzo o della metà se il fatto è commesso attraverso stampa, televisione, Internet o social.

A mettere in luce i possibili rischi interpretativi del disegno di legge è Roberto Saviano, autore di Gomorra, che sul “Corriere della Sera” ha definito la norma “legge Omertà”, perché, a suo avviso, “trasforma il racconto del crimine in un sospetto penale senza intaccare il potere criminale, colpendo invece chi lo osserva, chi lo racconta, chi lo rende intelligibile”.

Secondo l’analisi di Saviano, se questa legge passasse così com’è formulata “solo i tribunali, solo le sentenze, solo i giudici e magari qualche politico” potrebbero trattare pubblicamente il tema della criminalità organizzata. Mentre qualsiasi altro prodotto culturale, come arte, letteratura, musica e cinema, “diventa una zona grigia, potenzialmente criminale”, aggiunge. Per lo scrittore, dunque, si tratta di una “gravissima censura mascherata da tutela morale”. Insomma, la proposta di legge presentata da Fratelli d’Italia, conclude Saviano, “trasforma la cultura in una zona sorvegliata, la narrazione in un rischio penale, il pensiero critico in un sospetto”.


La dolce vita di Atreju


Dalla prima della Scala alla fiera dei libri di Roma, fino alla Atreju “jubilee edition” di Giorgia Meloni: tra vin brulé, presepi, gourmet bus, filosofi mancati e panel sull’AI, va in scena una Roma pacificata e natalizia, un Valtour di governo e cazzeggio dove si sta soprattutto per stare insieme. Pandoro o panettone, albero o presepe: è Natale, in fondo

(Michele Masneri – ilfoglio.it) – E tu a dicembre vai alla Scala, alla Nuvola o ad Atreju? E’ un mese come sempre ricco di opportunità ed eventi questo, con tre dei più grandi riti identitari nel giro di una decina di giorni. Cominciamo dall’ultimo, la kermesse identitaria di Giorgia Meloni.  E’ una Atreju deluxe, decisamente quella della consacrazione di governo e soprattutto di ceto. E’ una Atreju borghese, versione “Jubilee edition”, anche un po’ après ski, questa che va in scena a Roma fino a domani.  Temperatura perfetta nei tendoni trasparenti, tutto maxi: due sale stampa invece che una, 9 giorni invece che otto, tre tipi diversi di pass. Lo sfondo a tutto è  blu Atreju, un blu-nero molto elegante, un filo più scuro del celebre blu Estoril di giambruniana memoria. Radio Atreju ha un suo nuovo avamposto, anche questo trasparente, detto “l’acquario”, dove il deejay ricciolone vestito da Babbo Natale Marco Gaetani  sottopone gli illustri ospiti alla “ Ruota della fortuna di Atreju”, e passa l’universo mondo, da Mara Venier a  Pietro Senaldi; c’è il “premio Atreju alla carriera” (andato a Beppe Vessicchio, in memoriam). E grafica elegante, il nuovo logo sembra quello di un’acqua minerale di quelle  in vetro dei ristoranti stellati, che costano più del vino. Post-Fiuggi insomma. E poi altre differenze rispetto allo scorso anno, la pista da pattinaggio questa volta ad anello, tutto più articolato, non più al dispersivo (e un po’ da fagottari) Circo Massimo ma attorno a Castel Sant’Angelo che fa molto “Tosca”, e dall’altra parte si sbuca sulla nuova piazza Pia rimessa in ordine da Gualtieri. E’ una Roma pacificata, questa natalizia, finalmente con addobbi e luminarie degni di una città europea, forte anche del patto tra comune e governo. Può finalmente competere con Milano. Atreju versione giubileo si snoda come un presepione ai piedi della tomba di Adriano-poi carcere: c’è appunto il castello, ci stanno tante capanne, che vendono cibi, bevande, presepi (molti presepi), e poi i tendoni degli immancabili talk. Il centro però è l’albero di Natale, ovviamente tricolore, con illuminazione a led verde bianca e rossa, ed è tutto un “ci vediamo sotto l’albero”, “sono sotto l’albero, non mi vedi?”. Passa dall’albero Arianna Meloni, va di corsa al tendone “Giustizia Giusta” (l’altro si chiama “Rosario Livatino”, è un Atreju molto referendario) e forse il grande albero segue il nuovo diktat di “Giorgia” che quest’anno si è fotografata ai piedi di un sontuoso abete, ritorno alle origini per lei che si definiva “cintura nera di albero di Natale”, però nel frattempo è tornato “virale” (vabbè) un suo vecchio video in cui si diceva  invce “presepista”  (seguiva piagnisteo vittimistico, ci vogliono togliere il presepe, i ladri di presepe sotto Natale sono un evergreen della destra, è come a sinistra Zerocalcare che disdice la partecipazione a qualcosa). 

Insomma, albero o presepe, pandoro o panettone, tanti riti, e cosa c’è di più bello, a Natale, di un bel rito collettivo? Tradizioni: a livello culinario, Davide Oldani per la cena del dopo-Scala ha dichiarato che  ‘il  menu è stato pensato con alcuni tocchi milanesi su una base di cucina italiana classica’ tra cui ‘spaghetti 3D Artisia’,  ‘Vellutata di zucca con semi tostati, polvere di caffè e sciroppo al balsamico e il Baccalà tiepido setato con uvetta appassita’ e poi ‘Rustin Negàa’ di vitello, “Un piatto tipico milanese, con quel sound del dialetto milanese che quasi diventa internazionale”. Ad Atreju invece si rimane più sul classico,  birre artigianali, polenta, arrosticini abruzzesi. Ma ieri sera alle 20 partiva il Gourmet Italia Bus, un torpedone bianco a due piani dell’Enit, l’Ente del turismo,  da piazza Cavour non lontano da qui, e girava per Roma con a bordo la ministra Santanché in un tour da Grande abbuffata  a delibare prelibatezze made in Italy per il  riconoscimento della cucina italiana a patrimonio Unesco . Unico bus funzionante nella Roma oltretutto bloccata dagli scioperi consueti dei mezzi del venerdì (Fellini, dove sei? Torna). E’ chiaro che il melonismo punta molto sul food come elemento identitario. Già c’era stata  la tavolata coi sindaci in diretta Rai a mezzogiorno qualche settimana fa che ricordava le trasmissioni di Wilma De Angelis, e l’immediata illuminazione del Colosseo dell’altro giorno sempre per la vittoria Unesco. Tajani invece posta sui social un video di lui che gira un enorme mastello di quello che sembra un risotto alla milanese.  Chissà che direbbe Oldani. 

A livello alimentare, tristanzuola l’altra grande kermesse di dicembre, cioè la fiera dei libri di Più libri più liberi, ogni anno giù nel deep Eur, alla Nuvola. Panini così così, prosecco e tartine del privé “business lounge” al primo piano, per scrittori ed editori, e giornalisti. Più gustose come sempre  le polemiche. L’anno scorso era stato il filosofo forse manesco Caffo, quest’anno la sconosciuta casa editrice di destra “Passaggio al bosco”, che come si sa ha fatto il tutto esaurito. Ma, genialmente, mica ha preso uno stand ad Atreju, sennò chi se la filava? Ad Atreju manca infatti per essere veramente una kermesse completa la figura del filosofo o scrittore o vignettista  che  fa il gran rifiuto, con grande risalto su giornali e siti. Volendo, un Osho sarebbe perfetto, servirebbe un Osho che però ogni anno butta giù un disegnetto: “Aho, volevo tanto venì ma nun posso accettà” – inserisci impedimento etico. Per la presenza magari di un banchetto di estrema sinistra. Gli editori di estrema sinistra però o non ci sono o non sono così scaltri. Che poi: costerà di più uno stand a Più libri, o ad Atreju? Che differenza a metroquadro?  Il problema è forse anche che il super comunista la pensa esattamente come il postfascista: infatti è stato accolto con tutti gli onori Marco Rizzo, ospite da sempre ghiottissimo qui. Non se ne esce.  Non funziona, e addio marketing. 

Ma i libri non mancano, non possono mancare. Ecco, ad Atreju,   giovedì pomeriggio, presentazione del volume “La gaia incoscienza. Immaginario del tecnopotere” di Guerino Nuccio Bovalino, edizioni Luiss. Lo presenta Sebastiano Caputo, giovane in ascesa nel mondo romano tra geopolitica e giornalismo e Circolo degli Scacchi, un young Da Empoli di destra. “Bovalino ci guida nella giungla simbolica del tecnopotere, dove Elon Musk è il Cavaliere Oscuro e anche il Joker, Donald Trump è il wrestler e villain da kolossal, mentre Peter Thiel tesse trame da dietro le quinte”, dice la quarta di copertina. Tutti bevono vin brulé, signore col colbacco, sembra Cortina InConTra degli anni Novanta. Da Bovalino a Bova, ci spostiamo nel tendone principale dove si svolge uno dei panel più attesi, quello con Raul appunto Bova che racconta della sua vicissitudine, la pubblicazione del suo audio privato a una signorina, finito online, quello celebre di “buongiorno essere speciale dagli occhi spaccanti e dai baci meravigliosi”, già proverbiale. Eccolo, Bova, tutto in nero, e aria intimidita, mentre Arianna Meloni in dolcevita chiaro è chiaramente la boss in casa sua  (in prima fila, la mamma d’Italia Anna Paratore). E’ tutto un “Come dice Arianna Meloni”, “Approfitto della presenza di Arianna Meloni”, “Arianna ti invito a riflettere”, “voglio concludere con Arianna”. Il tema sono i social, la loro deriva, la fine della privacy, i deepfake, cioè i video finti dell’AI, “ma chiamiamoli in italiano”, proclama l’attore Fabio Ferrari, l’indimenticabile Chicco dei “Ragazzi della Terza C”, e di “Vacanze di Natale a Cortina”, ricevendo una grande ovazione. “Il 41 per cento degli italiani non sa cosa vuol dire deepfake”. Ferrari sogna un mondo dove si parla in italiano e “se pubblichi un falso te vengono a prendere a casa e te portano in galera!”. Altra ovazione. Servirebbe un mondo invece dove “ognuno per entrà sui social deve dà la carta di identità”,  dove ognuno “se facesse i cazzi suoi”, chiarisce ulteriormente il suo pensiero Ferrari. 

Insomma i social, il web, l’AI, sono il nuovo nemico, sono un po’ il nuovo gender, pare di capire, del resto il gender, parlandone da vivo, ha perso, è come il suo parente, il  woke, non si portano più. Poi certo bisognerebbe sentire il grande amico di Giorgia Elon Musk cosa ne pensa dell’idea di identificare tutti quelli che vanno sui social. Arianna termina citando papa Francesco, nel suo discorso contro l’AI. Una povera rappresentante di Meta fa una timida  difesa d’ufficio della modernità e della categoria. Ma  i temi e il dibattito sembrano un di più, quasi una scusa. Si sta qui per stare insieme, è Natale in fondo. La pesantezza è da “poveri comunisti”. Chiaro che questi della nuova destra sono molto più bravi ad annusare la modernità, cavalcarla, giocarci, vedere come va, in quest’epoca di meme. “Adesso abbiamo puntato su Pasolini per farli impazzire”, mi dice tutto contento un pezzo grosso di Fratelli d’Italia. “Poi prenderemo pure Calvino”. Mi chiedo come non abbiano ancora pensato all’arma finale,  Eugenio Scalfari, del resto nel momento in cui la Repubblica finisce al fantomatico editore greco “amico della Meloni”, perché non rispolverare i trascorsi giovanili del young Eugenio nel Guf?  Scalfari nel pantheon di Atreju, già, perché no? Forse perché i giornali non li legge nessuno, e tra i giovani nessuno saprà chi è. Ci vediamo sotto l’albero, comunque. 

E che albero. Niente a che vedere col tristo abete di Natale verde, fatto di carta e libri, nella hall gigantesca della nuvola di Fuksas, appunto alla fiera dell’Eur. Manco illuminato.  E lì va in scena l’Italia de sinistra, l’Italia pensosa, cioè gli scrittori a forma di scrittori, lo stand di Repubblica parlandone da viva, col talk su Pasolini, ormai contendibile,  l’enorme banco di Zerocalcare che in absentia vende e fattura comunque. Certo ci son momenti notevoli anche lì. Cortocircuiti. Domenica scorsa, nella galassia di salette del mezzanino che si chiamano Sirio Antares Saturno, tra le presentazioni della “prima graphic novel della Polizia di Stato”, il libro di don Antonio Loffredo prete anticamorra del rione Sanità, uno di Vanni Santoni sulla psichedelia, in una velocissima carambola di libri ed editori, tipo speed date letterario,  ecco quella del libro di Gilda Moratti, attivista ambientalista e salvatrice dei delfini, ed ecco un pubblico molto più da Scala, o volendo da Atreju: a parte la mamma Letizia Moratti, scortata da due bodyguard con l’auricolare, ci sono il principe Colonna, il principe Fabio Borghese pronipote di Junio Valerio, dei Brachetti Peretti, dei  ricchi milanesi generici, Sandra Carraro, e Minoli. Però a parte questi cortocircuiti, il core business di Plpl è ancora il woke. Il woke è il presepe di Plpl.   

Verso l’ora di chiusura, nel rito ormai codificato, nell’ultimo giorno di Plpl, la liturgia prevede infatti che tutte le scrittrici di area salgano su dal privé in processione, prendano la scala mobile per l’ascensione al  piano più alto della Nuvola (stairway to heaven) e vadano a celebrare Michela Murgia. “Michela Murgia e la famiglia; Michela Murgia e la radio; Michela Murgia e il femminismo”,  è la scaletta. E poi: “Michela Murgia e Stephen King”. Non si sa in quale segmento,  in collegamento da Yale c’è uno dei più stimati membri di quella che fu la famiglia queer, il figlio d’anima Alessandro Giammei, col suo cravattone,  ma  non ci son più gli applausoni dell’anno scorso, quando il murgismo era ancora roboante. Tutte le famiglie felici si somigliano; ogni famiglia queer è infelice a modo suo? Vedi mai che l’anno prossimo questi di Atreju si prendono pure la Murgia. Volendo, qualcosa si trova.  Il cattolicesimo, le fiere origini locali, anche la fiera resistenza fiscale. Forse più collocabile in quota Lega che Fratelli d’Italia, però. A proposito di Fratelli d’Italia, incredibile che Atreju di Arbasino non si sia ancora appropriata o accorta, ma forse l’algoritmo meloniano non lo calcola, è il suo santo destino, del nostro gran lombardo, non essere appropriabile, rimanere in una nicchia (l’unico, forse, a non essere mai stato né fascista né comunista).  Che rap che avrebbe fatto, però, su Atreju.  

Comunque rispetto all’eccitazione molto istituzionale della prima milanese, e alla vaga depressione di Più libri più liberi, ad Atreju si respira un’atmosfera più giovane, giocosa. Dalle casse esce “Jingle bell rock”, i guardiani all’ingresso sono più rilassati degli altri anni, c’è uno spirito più di cazzeggio, sono passati i “TheJournalai”, il collettivo dei  videogiornalisti ggiovani che animano l’omonima pagina Instagram, e vengono qui e sfottono un po’ tutti, che si lasciano sfottere. “Non tiri fuori la pistola” al sottosegretario Delmastro Delle Vedove, quello della festa con la sparatoria di capodanno. Poi sempre ieri i volontari hanno organizzato un altro scherzone, un finto sciopero alla Landini. Con striscioni del fantomatico “Sindacato autonomo dei volontari di Atreju contro Donzelli”, Donzelli che gli son spuntati i capelli grigi, non è più Minnie, è Basettoni. E’ il vero dominus e animatore  e G.O. (Gentil Organisateur) di questo Valtour di lotta e di governo, un po’ Cortina e un po’ piazza Navona delle bancarelle della Befana. Ecco, i volontari. Son mille, son giovani e forti, han l’aria simpatica, e il pass. Chiedo a qualcuno: la sera che fate? Niente, andiamo a letto o a bere una cosa qui, la maggior parte son romani, anche perché per stare una settimana a Roma non è che si posson pagare l’albergo.   I giovani avventori non hanno invece particolari caratteristiche estetiche  a parte l’abuso di Barbour verde (molti meno loden degli anni scorsi, forse conta anche la temperatura mite). Non c’è, rispetto alla vecchia destra delle barbe e delle occhiaie e dei cappotti da poliziotto, quel dato di differenza antropologica, che fa dire a un militante riflessivo che mi racconta con definizione fulminante– ovviamente sotto l’albero di Natale –  “sono diventati di destra in quanto soggettoni, non soggettoni in quanto di destra. I vecchi esponenti di Fdi hanno tutti quell’aria di chi non è mai stato a Milano”. 

Però qui invece le nuove classi dirigenti meloniane, o almeno quelle sotto il tendone,  han più l’aria di chi fa Milano-Hotel Cristallo di Cortina in due ore, cinquantasette minuti e ventisette secondi. Soprattutto le donne. Le signore son tutte bionde,  c’è parecchia chirurgia plastica, ma moderata, non i vecchi nasi rifatti all’insù tutti uguali di Roma Nord. Un labbro superiore pizzutello, non a gommone. Che stia nascendo anche un “Atreju look”, versione italiana del “Mar a Lago look” americano? Tinta di capelli: “lavish biondo cenere Roma sud”, come dice un mio amico sapiente, da Giorgia e poi Arianna, in giù. Finte bionde vanziniane, con moderazione. Anche una certa tensione non politica ma vitalistica, quando arriva Bova gli si buttano tutte addosso, bocche guizzanti e occhi spaccanti. Lui è protetto dai giovani della falange di Atreju. Arianna Meloni, in dolcevita di cachemire chiaro, lo ringrazia per “il coraggio di raccontarsi”. Suonano le musiche natalizie. Ci vediamo sotto l’albero. E anche questo Atreju… 


Schlein, hai visto come si fa?


Atreju con Renzi e Conte, inedita coppia all’attacco. “Sedia vuota della premier”. Il senatore Iv scatenato contro le riforme di Calderoli e Casellati. Il presidente M5S stuzzica la platea su immigrazione e patriottismo

Atreju con Renzi e Conte, inedita coppia all’attacco. “Sedia vuota della premier”

(Francesco Bei – repubblica.it) – ROMA – Ci volevano Matteo Renzi e Giuseppe Conte, i due carissimi nemici, per scuotere un po’ il piedistallo natalizio che FdI ha eretto al centro di Roma, con una edizione di Atreju tra il nazional-popolare e la celebrazione vagamente coreana (del Nord) della leader. Due panel diversi, ma il cinema è lo stesso e che lo spettacolo valga il biglietto – nonostante il forfait di Elly Schlein – lo si capisce dalla prima battuta del leader di Italia viva, messo a sedere tra Zangrillo, Casellati, Calderoli e Rampelli: «Grazie dell’invito, è un piacere anche se questa è una gang bang, quattro contro uno. Per fare le cose più tradizionali arriva Conte dopo, uno a uno».

Sotto al gazebone si ride, ma è solo il primo assaggio perché i toni cambiano rapidamente quando si parla della riforma del premierato e dell’autonomia differenziata. È un ping-pong su chi ha tradito di più le promesse elettorali, su chi si è smentito di più, con Bruno vespa, che pure dovrebbe essere allenato, che fatica a contenere la rissa. Renzi: «Adesso votate l’autonomia di Calderoli, ma quando al governo c’ero io, Meloni le regioni le voleva abolire. Cambiare idea è un segno di intelligenza». Rampelli: «Se è un segno di intelligenza, allora tu sei un fenomeno». Ancora Renzi: «Al momento l’autonomia è nel libro dei sogni, dopodiché se Calderoli la riesce a realizzare, che almeno sia un po’ meno porcata delle altre cose che ha fatto». Calderoli non riesce a imporsi e si alza in piedi minaccioso: «Basta, parli solo tu! I governatori del centrosinistra erano d’accordo sull’autonomia, poi hanno ricevuto una telefonata quando è stata eletta Schlein e hanno cambiato idea». Renzi: «Calderoli è quello violento della gang bang, su calmati Robertino, rimettiti seduto. Non dire cazzate».

Con la ministra delle Riforme lo scontro sale allo zenit. Perché Renzi la accusa di aver fatto una riforma annacquata, in cui il premier non può cambiare i ministri che non funzionano ma quel potere è lasciato al presidente della Repubblica, però poi scivola su una gaffe dimenticandosi che il disegno di legge è già passato al voto del Senato. Casellati può infierire: «Ci credo che non te lo ricordi, al Senato non ci sei mai». Renzi: «Io forse non ero al Senato quel giorno, ma tu non hai nemmeno letto la riforma che porta il tuo nome. C’è qualcuno qui laureato in giurisprudenza?». Casellati: «Io lo sono! E ho fatto pure l’avvocata». La platea inizia a spazientirsi, sembrava tutta una recita e invece questi litigano per davvero. Renzi: «Se volete fischiarmi, fatelo, me ne faccio un vanto. Non sono venuto qui per dirvi che siete bravi». Adesso sono tutti in piedi e continuano a parlarsi sopra la voce, come finirà? Per sdrammatizzare arriva di corsa dal retropalco Giovanni Donzelli, l’organizzatore della festa. E fa una cosa clamorosa: letteralmente ruba i microfoni dalle mani di Renzi e Casellati e lancia la sigla di chiusura. A dargli manforte, sale sul palco anche Guido Crosetto e da dietro prende di peso Renzi e lo tira su come se non fosse alto un metro e ottanta per ottanta chili.

Il clima si distende, si ride, ma solo per un momento, perché ora è la volta di Giuseppe Conte che ingaggia un corpo a corpo con il neodirettore del GiornaleTommaso Cerno. La tattica del leader del M5S è diversa da quella di Renzi. Invece di contrapporsi, li stuzzica sui loro temi, dall’immigrazione irregolare aumentata allo scarso patriottismo di una premier che «va a genuflettersi a Washington», dalla sicurezza delle città in declino alla riforma Fornero delle pensioni che sta ancora lì nonostante le promesse di abolirla. Sono cavalli di battaglia da destra sociale e Conte li maneggia senza ingombri ideologici: «Chi vuole la sicurezza non è di destra, aumentano scippi, rapine, stupri e Nordio che fa? Una norma che impone di avvertirli prima di arrestarli». L’ applauso sentito è quando attacca Mario Draghi, che i Fratelli non hanno mai amato per via delle politiche anti-Covid: «Vi ricordo che il green pass e l’obbligo vaccinale over 50 è stato introdotto dal governo Draghi, non da me. E vi dirò di più: quando Draghi ha preannunciato che voleva introdurre l’obbligo over 50, l’ho chiamato, gli ho detto che era una stupidaggine e non mi ha sentito. Come mai avete un problema con Draghi, anche solo a nominarlo?». Cerno non sa più che fare e chiama in causa l’assente Schlein, ma Conte svicola: «La sedia vuota importante qui è quella di Giorgia Meloni. Aveva esteso l’invito anche a me, poteva esserci lei da buona padrona di casa».

Oggi è il giorno di chiusura della premier, ieri sera Ignazio La Russa ha svolto il ruolo di padre nobile e, a parte una scivolata su un mussoliniano «me ne frego», l’intervista con Enrico Mentana è filata liscia. Con un piccolo retroscena: «Magari fra dieci anni – ha detto sibillino il presidente del Senato – scopriamo che Conte o Schlein e Meloni la notte si messaggiano e parlano. Lo scopriremo, come per Almirante e Berlinguer, solo molti anni dopo».


Il quadro dimezzato


(di Michele Serra – repubblica.it) – Si leggono con interesse sempre più blando i sondaggi sulle intenzioni di voto perché (ammesso siano attendibili) inquadrano una porzione di italiani anno dopo anno più ristretta. Ottimisticamente, e parlando solo delle elezioni politiche: poco più della metà del Paese. Decisamente meno parlando di europee ed elezioni locali. Ancora meno nei referendum.

La metà in ombra, quella che non vota, ammutolita per scelta o per distrazione o per sfinimento o per menefreghismo o chissà, è un mistero evidentemente inaffrontabile, non inquadrabile e non leggibile: eppure, politicamente parlando, rappresenta l’enigma la cui soluzione, anche parziale, cambierebbe in modo radicale il futuro non solo in Italia, ma in tutti i Paesi muniti di suffragio universale.

Chi sono, perché non votano, quanto del loro silenzio politico è imputabile a loro e quanto invece alla politica? Se fossi un partito commissionerei ai sondaggisti solamente indagini sugli astenuti, l’oceano muto e sordo sul quale nessuno sa più come navigare. È solo in mezzo a quelle acque indefinite che si potrebbe riuscire a capire lo sprofondo della politica, la sua perdita di senso e di peso, il suo sembrare un’attività tutta interna ai suoi artefici.

Esistono studi (per esempio quello del Mulino) sull’astensionismo, ma poi, lontano dalle elezioni, tutti continuiamo a commissionare, pubblicare e leggere la classifica dei partiti, gli 0,1 in più o in meno, senza renderci conto che si tratta di trascurabili dettagli di un quadro la cui metà è scomparsa. Come sa la Gioconda fosse dimezzata, mezzo volto di mezza donna. E l’Ultima cena: mezzo Cristo e sei apostoli.


Il nuovo antiamericanismo


Prima di dare il calcio dell’asino agli States, ragioniamo sulle probabili conseguenze della nostra furbizia. E magari diamo il nostro contributo alla pace

Donald Trump e Giorgia Meloni

(di Lucio Caracciolo – repubblica.it) – “In Italia sino al 25 luglio c’erano 45 milioni di fascisti. Dal giorno dopo, 45 milioni di antifascisti. Ma non mi risulta che l’Italia abbia 90 milioni di abitanti”. La perfida battuta attribuita a Winston Churchill — certo non un ammiratore degli italiani, con qualche eccezione (per esempio Mussolini) — torna in mente leggendo nel rapporto Censis 2025 che il 73,7% degli italiani non considera più gli Stati Uniti un modello di riferimento. Da affiancare al 38,7% per cui le democrazie non sono più adeguate a questo mondo. E soprattutto al 29,7% che apprezza i regimi autocratici.

Riflesso diretto di tanto disamore per l’America, la sensazione che tra i decisori economici e politici nostrani si guardi alla Cina non più quale futuro Numero Uno ma come egemone in carica. Destinato a segnare questo secolo come l’America guidò il Novecento. Per conseguenza, schizziamo Washington e accostiamo a Pechino.

Aveva dunque ragione Ennio Flaiano quando attribuiva agli italiani la vocazione a correre in soccorso del vincitore? Premesso che l’opportunismo è sport praticato alle più varie latitudini, quel che di casa nostra impressiona è la rapidità con cui a ogni variazione atmosferica saltiamo da un carro all’altro. Talvolta fuori tempo. Sicché ci rompiamo l’osso del collo.

L’ultima ondata di simmetrica sinofilia e americanofobia risale all’emergenza Covid. Quando commossi dal profluvio di mascherine cinesi — e dalla parallela missione sanitaria russa, con retrogusto di intelligence — ci scoprimmo improvvisamente innamorati di Pechino (e di Mosca). Sentimento rovesciato appena esaurita la fase acuta del virus.

Spesso ci lamentiamo di essere trascurati dalle potenze “amiche e alleate”. Triplo errore. Primo, perché i lamentosi si autosqualificano in quanto tali, specie in questa «età selvaggia, del ferro e del fuoco», come definita nel citato rapporto Censis curato da Massimiliano Valerii. Secondo, perché per essere presi sul serio nel mercato della politica internazionale bisogna scegliere una posizione, oppure nessuna, se ci si vuole specializzare nell’antica e nobile arte della pirateria, nuovamente di moda. Terzo, perché in politica, giusto il postulato di Lord Palmerston, non esistono amici o nemici eterni. Perpetuo resta solo l’interesse della nazione.

Non entriamo qui nel merito della disputa su chi oggi comandi il mondo. Dibattito abbastanza ozioso, visto che siamo all’alba di una rivoluzione che nasce dalla fine dell’impero globale a stelle e strisce senza che nessuno ne abbia preso il posto.

Interessa invece evocare il pericolo cui l’italica furbizia ci espone. Noi non siamo in grado di difenderci dall’attacco di potenze di qualche peso. Non tanto per deficit di armi e soldati quanto per indisponibilità psicologica e culturale a batterci. Sarà per la disabitudine al conflitto maturata negli ottant’anni di pace guadagnata volendo perdere la guerra mondiale, come diagnosticato nel 1945 da Salvatore Satta. Sarà perché un popolo di mediamente cinquantenni, nel quale le classi sociali che hanno sostenuto il peso delle grandi guerre sono virtualmente scomparse, anche volesse non potrebbe schierare un esercito all’altezza della sfida. Sarà soprattutto perché la morte cerebrale della politica esprime e rafforza l’inclinazione a pensare ciascuno per sé e nessuno per tutti.

Se qualcosa di vero c’è in questa diagnosi, dubitiamo che l’antiamericanismo sia utile all’Italia. Trump può dire quel che vuole, ma l’Italia è militarmente parte del suo schieramento strategico. Le basi Usa, con tanto di bombe atomiche a (teorica) doppia chiave, diventerebbero immediatamente bersagli del nemico. Perciò restano l’unico deterrente di cui disponiamo. Regolato in gran parte da accordi segreti “negoziati” nel dopoguerra fra il vincitore e lo sconfitto. Sarebbe tempo di aggiornarli, non solo nel nostro interesse.

Durante la guerra fredda il potenziale aggressore sovietico era certo — forse sbagliando — che in caso di attacco all’Italia avrebbe dovuto affrontare l’America. Oggi questa certezza, con relativa deterrenza, non c’è più. Anzi. Prima di dare il calcio dell’asino agli States, ragioniamo sulle probabili conseguenze della nostra furbizia. E magari diamo il nostro contributo alla pace, fosse solo per puro egoismo di Belpaese a scarsa vocazione bellica.


L’Onu vuole Di Maio come Coordinatore speciale in medio oriente. C’è l’ok del governo


L’Organizzazione delle Nazioni Unite punta sull’inviato Ue nel Golfo. L’ex vicepremier è in pole position per il ruolo di coordinatore delle varie entità dell’Onu che si occupano del futuro di Israele e dei territori palestinesi, con l’incarico anche di supportare l’implementazione del Piano Trump

(ilfoglio.it) – In attesa di Tony Blair, in arrivo c’è Di Maio. La notizia è gustosa. Luigi Di Maio, attuale rappresentante speciale dell’Unione europea per il Golfo Persico, ex vicepremier, ex ministro del Lavoro, ex ministro dello Sviluppo, ex ministro degli esteri, nonché ex delfino di Beppe Grillo del M5s prima della rottura nel 2022, è in pole position per ottenere un importante incarico internazionale alle Nazioni Unite. Il ruolo in palio è quello di coordinatore speciale delle Nazioni Unite per il processo di pace in Medio Oriente (Unsco), carica che comprenderebbe anche la nomina a vicesegretario generale dell’Onu (la posizione ha base a Gerusalemme). Senso del ruolo: coordinare le varie entità che si occupano nelle Nazioni Unite del futuro di Israele e dei territori palestinesi e supportare l’implementazione del Piano Trump. Luigi Di Maio è stato contattato dalle Nazioni Unite poche settimane fa. Le parti coinvolte nell’operazione hanno già dato parere positivo, compreso il governo italiano. La procedura è ancora in corso. In attesa di Blair, in medio oriente c’è un Di Maio in arrivo.


Tagli a caso e soldi agli amici, governo in tilt sulla manovra


La Rai paga 30 milioni di euro e il Cda protesta. Anica preoccupata per i fondi al cinema. La società Sport e salute ottiene 100 milioni e potrà finanziare altri concorsi a pronostici. All’Aci vengono “restituiti” altri 50 milioni

(Stefano Iannaccone – editorialedomani.it) – Tagli di 20 milioni di euro alle tv locali, che vengono sconfessati dallo stesso governo che li ha previsti, e di altri 30 milioni alla Rai. Misure tampone su affitti brevi e tasse sui dividendi, che risultano un compromesso forzato.

Fondi elargiti agli amici di sempre, dall’Aci del futuro presidente Geronimo La Russa fino all’immancabile Sport e salute, società sempre più a trazione meloniana, che addirittura può finanziare i «concorsi a pronostici sportivi». Benvenuti nell’ultima puntata del caos manovra, ennesimo esercizio di dilettantismo del governo Meloni.

La strategia del diversivo sull’oro della Banca d’Italia non funziona più di fronte ai fatti. Una situazione grottesca con il ministro dell’Economia, Giancarlo Giorgetti, costretto ad affrontare la questione con la presidente della Bce, Christine Lagarde. Ed esprimendo soddisfazione ammette che l’emendamento-Malan «ha un effetto simbolico» per quanto ritenuto «fondamentale». Nel frattempo, si accumulano ritardi: prima di lunedì non si inizieranno le votazioni in commissioni Bilancio al Senato.

Tutti contro tutti

La valanga di emendamenti di governo ha prodotto un ulteriore ingarbugliamento. Anche perché la maggioranza ha usato uno strumento “al limite” per rattoppare i temi più delicati, come il rifinanziamento dei fondi per l’editoria, e lo stop all’aumento della cedolare secca per gli affitti brevi.

Al di fuori del tecnicismo, sono stati presi emendamenti già presentati dai senatori e ribaltati a proprio piacimento dal governo. A cercare di mettere ordine nel marasma è stato il sottosegretario all’Economia, Federico Freni. Missione impossibile.

La tensione è molto alta e la riduzione di 20 milioni di euro alle tv locali, per destinarli al fondo dell’editoria, ha creato spaccature nel governo. Il ministero delle Imprese e del made in Italy, guidato da Adolfo Urso, ha fatto trapelare la netta contrarietà rispetto alla misura. Il Mimit «ha espresso da sempre la propria ferma contrarietà alla proposta ritenendo il taglio intollerabile» ed «è stata ribadita anche nelle scorse ore, in sede di riformulazione dell’emendamento». Urso non è comunque solo.

Fratelli d’Italia ha bocciato l’iniziativa, che però è stata inserita nel testo dallo stesso governo. «L’emittenza radiofonica e televisiva locale, rappresenta un pilastro fondamentale del pluralismo informativo e della vita democratica dei territori», ha detto Nicola Calandrini, senatore di FdI e presidente della commissione Bilancio a palazzo Madama.

La battaglia si sposta sui subemendamenti: la maggioranza potrebbe correggere la misura, ma lasciando scoperto di 20 milioni di euro l’aumento del fondo. La coperta è corta. Cortissima. Non va meglio sulla Rai: il consiglio di amministrazione, espressione della destra, ha manifestato «preoccupazione per il taglio finanziario (10 milioni all’anno, ndr)» che può avere ripercussioni soprattutto sui «grandi eventi».

cahiers de doléances continuano su altri fronti. Nemmeno la riduzione del taglio, da 150 a 90 milioni di euro, al settore audiovisivo è stata accolta con particolare giubilo. I problemi restano. Così come la drastica diminuzione degli stanziamenti al fondo per il cinema.

«Le risorse che sono state parzialmente trovate (60 milioni di euro, ndr) non sono sufficienti, ma non è mai stato questo il vero problema. Bisognerà vedere quale azienda seria deciderà di rimanere a lavorare in Italia», ha sottolineato l’Anica. La preoccupazione è legata alla mancata risposta sulle proroghe all’attuale sistema. Insomma, il ministro della Cultura, Alessandro Giuli, non è riuscito a silenziare i malumori.

Affare Aci

E se c’è chi paga il conto, si reperiscono finanziamenti a pioggia per gli amici di sempre. Il caso più emblematico è quello dell’Automobile club d’Italia: in attesa del completamento della nomina di La Russa jr. alla presidenza, la legge di Bilancio ha garantito qualche fondo in più. Nella precedente manovra il governo aveva chiesto un contributo fisso all’Aci di 50 milioni di euro all’anno.

La norma, dopo l’ultimo emendamento del governo, avrà valore solo per il 2026: dall’anno successivo sarà sostanzialmente cancellata. In tre anni affluiscono altri 100 milioni di euro in totale per Sport e salute, la società pubblica – cassaforte dello sport – presieduta da Marco Mezzaroma, amico di vecchia data della presidente del Consiglio, Giorgia Meloni. Una quota finirà invece al Coni dell’era post-Malagò, oggi è infatti guidato da Luciano Buonfiglio.

A farla da padrone c’è poi l’Olimpiade Milano-Cortina 2026: da un emendamento alla manovra arrivano altri 60 milioni di euro. Peraltro i Giochi invernali avevano già ricevuto 84 milioni di euro attraverso il decreto Anticipi, appena approvato dalla Camera, con un prelievo di risorse addirittura dalle multe dell’Antitrust, che dovrebbero risarcire i consumatori danneggiati da pratiche sleali di mercato.

Nel calderone è finita l’ennesima commissione tecnica per valutare le richieste di indennizzi per i risparmiatori danneggiati: la spesa messa in conto dal ministero dell’Economia, per garantire i compensi, è di altri 120mila euro. Il piatto della legge di Bilancio piange, ma non per tutti.


Per gli italiani il nemico numero uno è Trump. Putin al secondo posto con distacco


(Sondaggio Izi sui nemici dell’Europa) – L’unione europea resta un’istituzione utile e tutela gli interessi dei cittadini per la maggioranza degli italiani che vedono negli Stati Uniti  di trump il pericolo principale , ancora di più che la Russia di Putin.

La stragrande maggioranza degli intervistati è poi fortemente contraria all’affermazione del presidente americano che ha descritto l’Europa come decadente e guidata da  leader deboli. È quanto emerge da un sondaggio sulla fiducia nell’Ue realizzato da Izi, azienda di analisi e valutazioni economiche e politiche,  presentato questa mattina nel corso della trasmissione l’Aria che Tira condotta da David Parenzo su La 7.

Per il 55% degli intervistati l’Unione Europea resta utile per lo sviluppo dell’Italia e ne tutela gli interessi, anche se il 46% rivela che negli ultimi 3 anni, la fiducia riposta nell’unione è peggiorata, contro il 40% per cui è rimasta invariata. Sulla questione chiave del voto in Consiglio Europeo il 58% degli intervistati ritiene che gli Stati membri debbano esprimersi a maggioranza e non all’unanimità, mentre per oltre l’85% l’attuale conformazione politica dell’Unione non rispecchia l’idea dei padri fondatori.

Al numero uno della classifica dei principali nemici dell’Ue si posiziona Trump , con il 39,5% degli italiani che lo ritiene un pericolo, mentre il 29,5% vede Putin come principale ostacolo all’Unione , e al terzo posto ci sono i paesi sovranisti (23,4%). La stragrande maggioranza degli italiani ,più dell’81% si dice contraria alle affermazioni di Trump  sulla debolezza dell’Europa e dei suoi leader .


Ne uccide più la penna


(di Gianvito Pipitone – gianvitopipitone.substack.com) – Un chiarimento è d’obbligo. Dopo l’ultimo articolo “Un Rutte ci seppellirà” – più ironico e sferzante del solito – che prende di mira il segretario Mark Rutte e la funzione stessa della Nato, ho ricevuto qualche messaggio privato: “ma sei davvero diventato putiniano allora?” mi chiedeva qualcuno, fra il serio e il provocatorio. Come se non bastasse, diversi fra gli account che mi seguivano assiduamente hanno deciso di interrompere l’abbonamento su Substack. Della serie: ne fa più fuori la penna che la guerra. Allo stesso tempo, però, ho notato un buon numero di nuovi sottoscrittori in entrata. Segno di quanto il dibattito sia oggi irrimediabilmente polarizzato.

Rispondo nel merito, non perché le mie posizioni personali abbiano particolare importanza, ma nella convinzione che parlando di me e delle mie idee qualcuno possa riconoscersi o confrontarsi.

Non ho mai avuto esitazioni su ciò che accadde dal 22 febbraio 2022: l’aggressione russa contro l’Ucraina, accompagnata dai crimini di guerra che il regime di Mosca continua a infliggere a Kyiv. A mente fredda, come molti, ho ritenuto inevitabile l’aiuto militare della Nato e dell’Europa: non si poteva abbandonare l’Ucraina nelle mani di Putin. Su questo punto la mia convinzione non è mai mutata: stare dalla parte di Kyiv era ed è un dovere. Eppure, rimane intatta anche un’altra certezza: ogni giorno dedicato alla guerra è un giorno sbagliato, un giorno irrimediabilmente perduto.

Con il tempo, lontano dall’emotività iniziale, ho iniziato a guardare con più distacco alla narrazione. Ho distribuito le responsabilità nelle giuste caselle. Ho approfondito – come molti – che già dal 2014 la pressione della Nato sul Donbas e sull’Ucraina non fosse affatto disinteressata. Ma, sia chiaro, nulla giustifica l’aggressione russa. Mosca porta la responsabilità di aver trasformato una guerra – fino ad allora – sotterranea in un conflitto ad alta intensità, uno scenario da incubo con centinaia di migliaia di vittime civili e militari. Inaccettabile.

Un punto fermo dunque: l’Ucraina e Zelensky, pur tra scandali e terremoti politici che verranno, andavano aiutati a difendersi. Una posizione morbida allora avrebbe incoraggiato l’orso russo a spingersi oltre il Donbas, fino a ingoiare l’intera Ucraina e – chissà – coltivare mire egemoniche sui Paesi dell’ex Patto di Varsavia. Io sono ancora lì. È quello il mio frame di riferimento. Per quanto continui a pensare che la guerra non sia mai una soluzione.

Ciò che è davvero mutato – ed è sotto gli occhi di tutti, come ho ricordato in decine di articoli – è la percezione di una follia che ormai sembra dilagare anche in Europa. I venti di guerra soffiano gelidi nelle capitali europee. La decisione del riarmo – Rearm EU, con il 5% del budget destinato alla difesa – ha improvvisamente acceso una retorica preoccupante. La diplomazia si è inabissata nelle pieghe più ottuse del silenzio. Leader che parlano apertamente di armamenti, che rispondono muscolarmente e in modo scomposto alle provocazioni di Putin: così il rischio di escalation diventa concreto, e l’intera Europa potrebbe finire in fiamme. Anche senza volerlo. Il contrario di ciò che penso io, e – spero – la maggior parte degli uomini di buona volontà.

Pertanto, non per favorire il regime criminale di Mosca, ma per fermare l’emorragia di morti civili e scongiurare una pericolosa escalation che potrebbe portarci alla terza guerra mondiale, la mia posizione è a favore del congelamento del fronte. Ne ho scritto più volte: accettare cioè – almeno temporaneamente – che una parte del Donbas resti sotto Mosca. Normalizzare l’area. Ricostruire. E porre così termine, con un pacchetto di garanzie di sicurezza per l’Ucraina e per l’Europa, a una delle guerre più ingiuste che abbiano mai preso piede sulla terra. Se mai ci sia stata una guerra giusta da combattere.

È una posizione di realpolitik, che mette al centro il valore della vita più che la giustizia assoluta. Non significa lisciare il pelo a Putin, né ammettere che abbia vinto la legge del più forte. Significa, piuttosto, ribaltare l’assunto: vincere mettendolo nelle condizioni di non fare più male.

Ecco perché ogni posizione come quella di Mark Rutte – ragazzone olandese amante della musica e dell’arte – va contrastata. Perché da quelle premesse muscolari non si arriva da nessuna parte, se non dritti verso la terza guerra mondiale.