Giuli contro Veneziani: “Arruolato dai nemichettisti, sversa bile nera su di noi”

(di Giacomo Galanti – repubblica.it) – Polemica a destra. Il ministro della Cultura, Alessandro Giuli se la prende con Marcello Veneziani: “Consentitemi di esprimere una dose omeopatica di contravveleno nei confronti di chi, da sinistra o da una sempre più presunta destra, ha deciso di arruolarsi nel fronte del nemichettismo pur di negare la forza dei fatti e dei numeri; invece di incoraggiarci o almeno di giudicare con equanimità”, ha detto il ministro nel messaggio inviato alla presentazione del rapporto “Ales verso il 2026 – Report annuale: risultati e prospettive future” in corso a Palazzo Montecitorio.
Giuli ha proseguito: “A tale riguardo, una dose di vaccino anti nemichettista la inoculiamo volentieri nella pelle esausta del vecchio amico Marcello Veneziani: egli, dopo aver confidato a suo tempo che aveva rifiutato l’onore di diventare il ministro della Cultura del governo Meloni, oggi sversa su di noi la bile nera di cui trabocca evidentemente il suo animo ricolmo di cieco rimpianto. Si rassereni: nello sciagurato giorno in cui il nemichettismo dovesse espugnare Palazzo Chigi, il nostro ex consigliere Rai in quota An (per tacer d’altro) sarà senz’altro premiato honoris causa. Buone festività”.
Ieri Veneziani, in un editoriale su La Verità dal titolo “Sta meglio la Meloni che la destra al governo”, aveva scritto: “Da quando è al governo la destra non è cambiato nulla nella nostra vita di italiani, di cittadini, di contribuenti e anche in quella di ‘intellettuali’, di ‘patrioti’ e di uomini ‘di destra’. Tutto è rimasto come prima, nel bene, nel male, nella mediocrità generale e particolare. E perdura anche il clima di intolleranza e censura verso le idee che non rientrano nel mainstream. Non saprei indicare qualcosa di rilevante che segni una svolta”.

(ANSA) – Cresce nel 2024 il reddito disponibile delle famiglie per abitante del Mezzogiorno che raggiunge 17,8mila euro (era 17,2mila euro nel 2023) ma si conferma il più basso del Paese: il suo valore è di poco inferiore al 70% di quello del Centro-Nord, dove si attesta a 25,9mila euro.
E’ quanto indica l’Istat nel report sui conti economici territoriali, aggiungendo che nel 2024 il Pil in volume (+0,7% a livello nazionale) è aumentato dell’1% nel Nord-ovest, dello 0,8% nel Centro, dello 0,7% nel Mezzogiorno e dello 0,1% nel Nord-est. La crescita degli occupati invece è stata maggiore nel Mezzogiorno: +2,2% rispetto al 2023 contro +1,6% a livello nazionale.
Nel 2024, indica l’Istat, il reddito disponibile delle famiglie è cresciuto in valori correnti del 3% a livello nazionale.
L’incremento più significativo si è osservato nel Mezzogiorno (+3,4% rispetto al 2023), quello più contenuto nel Nord-est (+2,7%). Sostanzialmente in linea con la media nazionale sono state le dinamiche del reddito disponibile nel Nord-ovest e nel Centro (rispettivamente, +2,9% e +3%).
I consumi delle famiglie nel 2024 sono aumentati in volume dello 0,7% a livello nazionale.
Anche in questo caso il Nord-ovest ha mostrato la crescita più sostenuta (+0,9%), invece l’incremento nel Centro è risultato in linea con la media nazionale, mentre dinamiche lievemente inferiori si sono osservate nel Nord-est e nel Mezzogiorno (+0,6% e +0,4%, rispettivamente). Resta stabile il divario tra Mezzogiorno e Centro-nord quanto a Pil e consumi per abitante.
Il Nord-ovest mantiene il primo posto nella graduatoria del Pil pro-capite, con un valore in termini nominali di 46,1mila euro, mentre nel Mezzogiorno il livello risulta notevolmente inferiore a 25mila euro (24,8mila). I mezzo, il Nord-est, con 43,6mila euro e il Centro, con 40mila euro.
Quanto all’occupazione, nel 2024 il numero di occupati è aumentato a livello nazionale dell’1,6%. La crescita ha interessato tutte le ripartizioni territoriali, risultando più intensa nel Mezzogiorno (+2,2%).
Il Nord-ovest ha mostrato una dinamica in linea con la media nazionale (+1,6%), il Centro ha registrato un incremento leggermente superiore (+1,8%), mentre nel Nord-est l’aumento è stato più contenuto (0,8%).
In tutte le ripartizioni il principale contributo alla crescita della occupazione è arrivato dal comparto dei Servizi; seguono, ma con un impatto più modesto, le Costruzioni nel Mezzogiorno, nel Centro e nel Nord-est, e l’Industria nel Nord-est e nel Nord-ovest.
Nel Mezzogiorno la crescita occupazionale ha interessato tutti i settori ed è riconducibile in prevalenza all’andamento delle Costruzioni (+6,9%) e dei Servizi (+2,1%), che hanno registrato, in questa ripartizione, gli aumenti più consistenti. Da segnalare, inoltre, l’aumento degli occupati nel settore dell’Agricoltura, silvicoltura e pesca (+1,0%, a fronte dello 0,5% a livello nazionale).
Umberto Eco, nella sua Bustina “Viaggiare su Internet”, racconta di quando si è divertito a giocare con un programma che fornisce velocemente tutte le connessioni ferroviarie europee. Chi l’avrebbe mai detto che, in futuro, si sarebbe rivelato utile a tutti i fuorisede che vogliono rientrare a casa

(Vincenzo Voltarelli – lespresso.it) – Forse un giorno torneremo a Itaca senza passare attraverso Scilla e Cariddi, senza imbatterci in sirene e ciclopi nel tragitto. Abbiamo già raccontato, in un altro articolo, dell’estraniazione di chi parte, di chi abbandona la propria dimora e, una volta tornato, tenta invano di riconoscerla, provando la strana sensazione di percepirsi straniero in casa propria. Abbiamo immaginato Ulisse, il fuorisede per eccellenza, approdare sulle sponde della sua amata isola, non riuscendo più a identificarsi nel calore delle braccia di Penelope, sentendosi il re di una terra che non gli appartiene più. Ma non possiamo osservare solamente un lato della storia.
Umberto Eco, nella sua Bustina Viaggiare su Internet, racconta la scoperta di un programma che fornisce velocemente tutte le connessioni ferroviarie europee. Su un aereo immaginiamo squarci di vita che accadranno a breve, impazienti di goderci il viaggio che abbiamo pianificato da tempo; sul treno che conduce a casa per Natale, invece, pregustiamo l’atmosfera delle feste in arrivo, oppure avvertiamo nostalgia al solo pensiero di alcune sedie che rimarranno vuote, la sera della Vigilia. Ma non tutti riusciranno a salire a bordo: Ulisse deve lottare contro chi gli nega il ritorno nella propria isola. Nelle ultime settimane si è parlato molto del fatto che ai fuorisede, per trascorrere il Natale in famiglia, converrebbe fare scalo all’estero e partire da lì, evitando così di incorrere in prezzi folli.
Secondo l’Adoc – l’Associazione nazionale per la difesa e l’orientamento dei consumatori – se volessimo viaggiare da Milano a Catania (senza rinunciare a giorni di ferie retribuite) sarebbe più vantaggioso, economicamente parlando, fare scalo in una città come Varsavia. Torna utile a questo punto Deutsche Bahn, il programma con cui Eco si è divertito a immaginare ipotetici viaggi: lo scrittore non si è limitato a chiedere “come arrivare da Palermo a Londra”, ma anche come andare da Londra a Grosseto via Napoli, Madrid-Roma proprio via Varsavia, da Battipaglia a Chambéry via Milano e, alla fine di tutto, “se va bene ci scappa anche un assassinio sull’Orient-Express”. Di questo passo, Ulisse farebbe bene ad ancorare la propria nave sulle coste di Nausicaa o addirittura del ciclope Polifemo. Chissà cosa direbbe Eco se vedesse che il suo piccolo gioco si è trasformato in una concreta soluzione per poter riabbracciare i propri cari. È chiaro che si tratta di una provocazione, questa soluzione non calcola il costo del tempo impiegato, il pagamento dei bagagli accessori per più di un volo o gli sconti messi a disposizione da alcuni territori, come il bonus della regione Sicilia per i residenti che tornano a casa. Una provocazione non possiede il dono di sconfiggere le sirene, tuttavia mette a nudo le assurdità di un sistema che non funziona e, soprattutto, le disuguaglianze che esso provoca: pare, infatti, che ci siano degli Ulisse più re di altri.
Senza politiche nazionali e regionali che possano attenuare il fenomeno, ci sarà chi si lamenterà della spesa onerosa ma salperà a bordo della sua nave, e chi addobberà l’albero della propria fermo a riva. Le spese diventano per molti insostenibili perché l’acquisto dei biglietti non è un’azione isolata in un contesto di tranquillità economica, ma uno dei tanti aumenti che continuiamo a subire, a partire dal caro affitti. Capite ora perché l’eroe greco ci ha messo dieci lunghi anni a tornare, dopo la guerra? Come se non bastasse, Ulisse spesso non può viaggiare prendendo in considerazione l’idea di restare: lo sappiamo, le nostre terre sono tanto belle quanto dannate, e non dal dio delle acque. Luoghi in cui Ulisse, per essere se stesso, è spesso costretto a incontrare il mare. Se la sorte gli ha riservato questo destino, dovrebbe avere almeno il diritto di percepire quell’estraneità di cui parlavamo all’inizio: di scoprire se, tornando a casa, essa è ancora il focolare che ricordava, o se le radici si sono spostate con il suo viaggiatore. Per comprenderlo deve prima tornare. Ma, almeno questo Natale, Ulisse rischia di rimanere aggrappato solamente alla propria nave. Di non rivedere, ancora una volta, la sua Itaca.
È pubblicizzato come antidoto ai non voto, ma è solo un espediente della propaganda. Alle elezioni dove la scelta diretta esiste, il numero degli elettori cala ugualmente

(di Sergio Rizzo – lespresso.it) – Ignazio La Russa lo dà per scontato. Il referendum sulla riforma costituzionale del premierato si farà nella prossima legislatura e «si riuscirà a ottenere il risultato che vogliamo», prevede il presidente del Senato alla festa di Atreju. Ma dovrebbe ricordare bene com’è andata vent’anni fa, perché lui c’era. E la storia, com’è noto, ha il brutto vizio di ripetersi.
Anche nel 2006 il referendum sulla riforma costituzionale voluta dal medesimo centrodestra di oggi, ma con Silvio Berlusconi alla guida del governo anziché Giorgia Meloni, si tenne nella legislatura successiva. La maggioranza che l’aveva approvata era uscita sconfitta dalle elezioni e gli elettori bocciarono anche la sua riforma. Andò a votare più del 50 per cento e i «no» superarono il 60. Quella riforma introduceva una specie di premierato simile per certi versi a quello di oggi rafforzando notevolmente i poteri del presidente del Consiglio. Con in più l’eliminazione del bicameralismo perfetto, riproposta da Matteo Renzi dieci anni dopo, ma bocciato dal referendum del dicembre 2016, e il taglio del numero dei parlamentari poi riproposto dai grillini e stavolta approvato dal referendum dell’autunno 2020. Per completezza d’informazione, la riforma del centrodestra di Berlusconi venne sconfitta in tutte le Regioni tranne Lombardia e Veneto.
Certo, era un’Italia diversa. Così diversa da risultare, per la partecipazione alla politica dei cittadini, irriconoscibile. Alle elezioni politiche della primavera 2006 votò l’81,2 per cento degli aventi diritto: 40,4 milioni, italiani all’estero compresi. A settembre del 2022 ha votato appena il 60,5 per cento, quasi 21 punti in meno: in tutto 30,7 milioni. In 16 anni sono andati perduti 10 milioni di elettori, un quarto di chi aveva votato nel 2006. E per dire quanto il Paese sia cambiato, fra il 2006 e il 2022 il numero dei nostri connazionali che votano all’estero è più che raddoppiato, da 2 milioni 707.382 a 4 milioni 743.980. A testimoniare il ritmo con cui è ripresa l’emigrazione.
Dunque se è scontato, come dice La Russa, che il referendum costituzionale si farà la prossima legislatura, sempre che la maggioranza riesca a completare il percorso parlamentare fermo ormai da un anno e mezzo, il risultato, invece, scontato non è affatto. E lo sa bene pure chi su quella riforma ha puntato tutto, cioè la premier. Mai prendere con sufficienza le parole del sottosegretario alla presidenza Giovanbattista Fazzolari, per Giorgia Meloni l’uomo «più intelligente che abbia conosciuto», e quindi suo prezioso consigliere. Ecco il suo piano, spiattellato giusto poche ore dopo le elezioni regionali del 23 novembre: «Il referendum con ogni probabilità si terrà nella prossima legislatura, a quel punto sarebbe bene avere una legge elettorale che rispecchi quella che dovrà essere adottata con la forma del premierato. Credo che il sistema per sindaci o Regioni, dove l’elettore sa chi sarà a guidare il governo, è il modello. Un proporzionale con premio di maggioranza e indicazione del presidente del Consiglio». Potrebbe essere un modo, sostiene Fazzolari, anche «per interessare chi non fa politica». O chi ha smesso di votare. Il succo? Se non passa il premierato per riforma costituzionale, passerà con legge elettorale.
La tesi secondo cui l’elezione diretta del capo sia «un antidoto all’astensionismo», come afferma la ministra delle Riforme Maria Elisabetta Alberti Casellati, è una delle argomentazioni principali dei sostenitori del premierato. Anche se l’esperienza dice esattamente il contrario. L’elezione diretta del capo in Italia è già stata introdotta dal 1993, per i Comuni, e dal 1999 per le Regioni. E in tutte le elezioni comunali e regionali più recenti l’astensionismo è cresciuto ancora più che nelle elezioni politiche generali. Il sindaco di Roma Roberto Gualtieri è stato eletto nel 2021 al secondo turno con un’affluenza del 40,68 per cento. Dieci punti in meno rispetto al 2016, quando fu eletta Virginia Raggi, quasi 23 in meno rispetto al 2008 (Gianni Alemanno) e 34 in meno rispetto al 1997 (Francesco Rutelli).
Per non parlare delle ultime elezioni regionali. In vent’anni e quattro tornate, l’affluenza in Campania è scesa di oltre 23 punti, dal 67,69 al 44,1 per cento; in Veneto è calata di oltre 27 punti, dal 72,43 al 44,65 per cento: in Puglia, di quasi 29, dal 70,49 al 41,83 per cento.
Al crollo del numero dei votanti si è accompagnata ovviamente l’emorragia dei consensi per i singoli partiti. In confronto al picco massimo di voti raggiunto alle politiche del 2022, Fratelli d’Italia ne ha persi alle ultime Regionali più di 165 mila in Campania, circa 160 mila in Puglia e più di mezzo milione in Veneto, dove il partito della premier è sceso da 821.620 a 312.839 preferenze. Sempre rispetto al picco massimo, toccato questa volta alle Europee del 2019, la Lega di Matteo Salvini ha ceduto 297 mila voti in Campania, 309 mila in Puglia e ben 627 mila in Veneto, il suo maggiore bacino elettorale. Non è andata meglio al Partito democratico, che in confronto al record delle Europee 2014 ha perduto 206 mila preferenze in Puglia, 462 mila in Campania e 622 mila in Veneto. Nulla di paragonabile, tuttavia, al disastro del Movimento 5 stelle che rispetto alle Politiche del 2018 ha perso 660 mila voti in Veneto, più di 885 mila in Puglia e un milione 300 mila in Campania dove aveva fatto il pieno promettendo il reddito di cittadinanza.
E se nel 2021 Giorgia Meloni diceva che «quando c’è un astensionismo intorno al 50 per cento non è una crisi della politica, ma della democrazia», una volta al governo ha ammesso nella sua rubrica social che si tratta invece di «una sconfitta della politica» (19 febbraio 2023). Che perciò difficilmente si può curare cambiando le regole della democrazia. Bensì riportando la politica alla sua funzione, perduta ormai da troppo tempo. Ma di questo problema i partiti non si curano, mentre cresce in silenzio in Italia un premierato strisciante.
Lo spiega bene nel suo saggio “Capocrazia”, pubblicato nel 2024 per i tipi della Nave di Teseo il costituzionalista Michele Ainis. Raccontando come negli anni più recenti il governo «si sia sostituito al Parlamento, usurpandone i poteri». E «all’interno del governo si è via via gonfiato il ruolo del presidente del Consiglio, benché l’articolo 95 della Costituzione gli attribuisca unicamente funzione di direzione e coordinamento dei ministri».
Sostiene Ainis che la deriva è cominciata negli anni Novanta, a cavallo della crisi della cosiddetta prima Repubblica. Con l’abuso del decreto legge, strumento che i costituenti avevano pensato per i soli casi di vera estrema urgenza. Va però detto che la cattiva abitudine era iniziata già prima. Nel 1987, anno dell’ultimo governo di Bettino Craxi che dopo le elezioni politiche di giugno passò il testimone a Giovanni Goria, si sfornarono la bellezza di 163 decreti legge. Niente, però, in confronto a un altro anno elettorale, il 1996, diviso a metà fra Lamberto Dini e Romano Prodi, quando la bulimia della decretazione raggiunse il massimo di 362 decreti legge in 365 giorni.
L’abuso dei decreti ha ridotto il ruolo del Parlamento a una semplice funziona notarile di ratifica delle decisioni prese a palazzo Chigi dal presidente del Consiglio e dai suoi ministri. Ulteriormente mortificato, quel ruolo costituzionale, grazie ad altri meccanismi escogitati dalla politica per aggirare il detto costituzionale, come sottolinea Ainis. Per esempio il ricorso sempre più frequente alle leggi delega, con cui il Parlamento firma al governo delle cambiali in bianco. Succede regolarmente con le riforme di sistema, dall’anticorruzione al fisco. Soprattutto, c’è l’utilizzo sistematico al voto di fiducia, che di fatto ha abolito perfino la possibilità di discutere nell’assemblea dei nostri rappresentanti il merito dei provvedimenti dell’esecutivo. Non è forse già questo un surrogato del potere assoluto di palazzo Chigi?

(Emanuele Maggio – lafionda.org) – L’omicidio civile di Jacques Baud, per mano dell’Unione Europea, preoccupa tutte le persone con un QI pari o superiore alla temperatura ambiente (in Celsius, non in Kelvin), di qualunque schieramento politico.
Sul pover’uomo, ex colonnello svizzero ed ex collaboratore Onu e Nato, si è abbattuta la Santa Inquisizione del debanking, che colpisce là dove non può nulla il debunking.
Conti bancari bloccati, sanzioni potenziali ai familiari, divieto di circolazione in UE, divieto di diffondere il proprio pensiero.
La sua colpa: aver scritto sul conflitto ucraino quello che scrivo pure io e mille altri, ma con il supporto di documenti desecretati dei servizi segreti inglesi e americani. E francesi.
Si tende a sottovalutare il ruolo della Francia nell’impegno UE contro “l’attacco ibrido russo alle democrazie”. L’iniziativa regolamentare è partita proprio dalla Francia, e insieme a Jacques Baud (che scrive e pubblica in francese) è stato colpito anche Xavier Moreau, ex ufficiale militare francese.
Se si scorre l’elenco delle 54 entità sanzionate fino a questo momento, si scopre che molte sono agenzie di influenza russe in Africa (non in Europa, in Africa), in competizione con i francesi.
L’elettore di Calenda sperava che lo strumento servisse per chiudere la bocca a un Travaglio, e invece viene usato soprattutto per gli affari colonialisti francesi. Che delusione.
Ciò non toglie che parliamo di un pericolo esteso, che riguarda tutti (anche l’ignaro e ingenuo elettore di Calenda).
Nell’Unione Europea il GOVERNO (semplifico), e non un tribunale, può incriminare senza prove un cittadino, che poi dovrà dimostrare la propria innocenza. Nel frattempo gli viene negata la possibilità di comprarsi un panino.
Ora, questa prassi oscurantista è molto inquietante, tuttavia al momento non sembra molto efficace. Non dobbiamo mai dimenticare che tutto ciò che ha a che fare con l’Unione Europea, persino l’oscurantismo, è condannato ad essere ridicolo.
Jacques Baud è stato sanzionato, ma il suo libro aumenta le vendite su Amazon (che non è europea e non rischia sanzioni).
Le ultime misure europee contro la “guerra ibrida” russa si riducono alla persecuzione di qualche gruppetto di hacker russi e di un settantenne svizzero che, siccome la Svizzera non è in UE, potrebbe comunque ricevere denaro da un conto in patria.
Vorremmo tanto immaginarci l’UE con gli occhi “scuri e penetranti” del Big Brother di Orwell, ma quello che vediamo è solo lo sguardo da cernia di Kaja Kallas.
Sono stupidi anche quando sono cattivi, e sono pericolosi perché sono stupidi.
Con questo non voglio sminuire la gravità della situazione. Voglio anzi dire che è ancora più grave, perché mossa da imprevedibile idiozia.
Anche il DSA europeo (la censura sui social) ha seguito lo stesso destino tragicomico. In quel caso la volontà di censura ha incontrato un limite giuridico e uno economico.
Nessuno si chiede come mai, con il DSA in vigore, non si fa piazza pulita della “guerra ibrida” sui social, chiudendo decine di migliaia di profili con un click? Avere un elenco di questi profili è facile. Il problema viene dopo.
Un testo unico di regolamentazione come il DSA ha inevitabilmente comportato un sistema automatico di ricorsi e indennizzi a disposizione dei censurati, per non intasare i tribunali comunitari.
Con chiusure di massa dei profili (immotivate), soprattutto di profili “militanti” con un seguito e magari una conversione economica dell’audience, i prevedibili risarcimenti non sarebbero gestibili.
Non solo. Censure di massa colpirebbero ciò da cui le piattaforme americane estraggono il profitto: il traffico. Per questo i social si stanno orientando più verso la marginalizzazione della dissidenza, rinchiusa all’interno di bolle a cui l’algoritmo impedisce di crescere. La censura non paga.
Il debanking è più preoccupante, perché ancora agisce in uno spazio non regolamentato, di puro arbitrio.
Certo, negli Usa molte vittime di questo sistema hanno già ottenuto giustizia nei tribunali, e presto succederà pure in Europa, anche in virtù della Direttiva UE 2014/92 (ciascun cittadino ha diritto a un conto di base, che non può essere chiuso o rifiutato per motivazioni politiche o per presunti “rischi reputazionali” dell’ente bancario).
Inoltre, l’articolo 3 comma 1 del Regolamento UE 2024/2642 (quello contro la “guerra ibrida russa”) prevede curiosamente che le autorità competenti degli Stati Membri possano attivarsi per garantire le spese essenziali del soggetto escluso dal circuito finanziario.
Tuttavia, questo non basta. Nel frattempo che si aspettano ricorsi e tempi della giustizia, la Commissione ti ha colpito e danneggiato. E riguardo ai ricorsi, se la UE aderisse alla CEDU staremmo più tranquilli.
(E già, perché l’Unione Europea NON ADERISCE alla Convenzione Europea dei Diritti dell’Uomo).
Insomma, non credo sia mai esistito nella storia umana un apparato repressivo così crudele contro l’individuo e così inefficace e demenziale nei suoi effetti sociali.
Mi sovvengono certe ironie di Musil sulla “Cacania”, l’ottusa macchina asburgica, la decadenza di una burocrazia tanto rigida quanto irrazionale. Un’evidente eredità culturale di questa Europa “teutonica” (nel senso ampio di “germanica”).
Ma più che i fatti si temono le tendenze. Rischiamo di andare verso una società del credito sociale priva di contante, o verso la repressione esplicita dell’Inghilterra, dove le cose si fanno alla vecchia maniera: arresti e manganelli.
Posti seri, mica come l’UE, che fa ridere anche quando fa piangere.
L’attacco preventivo è sempre stato il sogno nascosto dei nostri ammiragli e generali. Perché aspettare? Ci vuole qualcuno che inizi

(Luciano Casolari, Medico psicoanalista – ilfattoquotidiano.it) – Capisco la frustrazione degli ammiragli e dei generali che da quarant’anni si preparano alla guerra e che vedono il rischio che la trattativa di pace allontani la tanto agognata possibilità di dimostrare il loro valore. Non è che dovranno andare in psicoterapia per affrontare la loro frustrazione?
Che sfortuna! Mi metto nei loro panni. Sarebbe come se un medico studiasse per tanti lustri come curare per non avere mai un paziente. Tutti sani per fare un dispetto ai medici. Siamo capitati in un’epoca strana in cui molte persone, quelli che ora hanno circa meno di 80 anni, non hanno attuato una bella guerra totale. Nelle epoche precedenti più o meno ogni generazione aveva la sua in cui mostrare preparazione e determinazione. E’ vero che l’Italia con la scusa delle attività “umanitarie” ha contribuito a bombardare i suoi vicini in Jugoslavia e Libia che ora, grazie a questa nostra bontà d’animo, sono ex nazioni. E’ vero che abbiamo partecipato come comparse in tante altre guerre nel mondo, ma vuoi mettere quella “vera” con un nemico “vero” e non con dei poveri cristi senza difese da bombardare?
Finalmente in questi anni le aspirazioni dei nostri ammiragli e generali potrebbero essere esaudite. Ci si mette in mezzo la riluttanza dei plutocrati a rischiare di perdere tutto. Costoro vogliono vendere, arricchirsi, speculare sulla guerra; ma di fronte alla possibilità che questa li coinvolga in prima persona si tirano indietro. Fomentano le guerre lontano da casa, ma quando arrivano a lambirli desistono. Vili! Per questo occorre fare delle belle dichiarazioni in cui si auspica l’inizio della guerra con un attacco preventivo.
L’attacco preventivo è sempre stato il sogno nascosto dei nostri ammiragli e generali. Perché aspettare? Ci vuole qualcuno che inizi. Tanto si sa che la propaganda, una volta in guerra, sarà tale da affermare che c’erano tutte le ragioni per sferrare il primo colpo. Tre soldati sono già sconfinati calpestando il nostro sacro suolo; questo è certamente un motivo più che valido! Il nemico, brutto e cattivo, come verrà descritto dagli organi di informazione dopo l’inizio del conflitto, è un orco disumano che sicuramente aveva già in mente di sferrare lui, l’attacco preventivo.
Quindi prima che lui attacchi preventivamente è doveroso che noi attacchiamo ancor più preventivamente. Tra l’altro siamo sicuri che i generali e gli ammiragli dall’altra parte, tra i nemici, non stiano già preparando un attacco molto ma molto più preventivo del nostro? Finora le dichiarazioni sono mitigate da aggettivi che sminuiscono un poco la portata di questi attacchi. L’attacco potrebbe essere ibrido, asimmetrico o altro. La sostanza però non cambia. L’importante è che si inizi a menare le mani. Le mani saranno di poveri soldati che senza alcuna preparazione sulla guerra vera verranno mandati al fronte. I nostri ammiragli e generali rimarranno seduti alle loro poltrone a pianificare nuovi assalti, ritirate, perdite “accettabili” anzi “necessarie” per avere un poco di gloria e un posto nella storia.
Ottanta anni di pace hanno fiaccato le menti rendendo le persone mosce. Tutti pensano alle vacanze di Natale, ai regali, ai baci e agli abbracci fra amici, senza stare a rimuginare sui nemici che devono essere colpiti ora preventivamente. Qualche politico prova a scuotere le coscienze dicendo che “dobbiamo esser pronti a sacrificare i nostri figli” ma i più pensano al panettone. Fortunatamente la più alta carica dell’Unione europea, teutonica, donna in controtendenza con sette figli (altro che tutte quelle smidollate che non producono prole per la patria) afferma che dobbiamo prepararci alla guerra. Peccato che non conti molto e che le persone pensino solo al cenone di Capodanno.
Questo buonismo prenatalizio ci rende smidollati, incapaci di reagire. Pensiamo solo a dare baci ai nostri figli e genitori mentre dovremmo rimuginare su come rifilare qualche sganassone ai nemici. Questo Gesù poi era un perdente che invece di incenerire i suoi avversari con una bella bomba ha lasciato che prosperassero. Verso i 20 anni avrebbe dovuto distruggere tutti quelli che non la pensavano come lui. Questo è quello che dovrebbe fare un Dio che si rispetti!
Per l’attacco preventivo occorre fare presto, prima che le elezioni in alcuni paesi non portino al potere persone vili che vogliono evitare la guerra e colludono col nemico. Quindi daje!
MELONI, LA FORZA DEGLI ESERCITI STRUMENTO PIÙ EFFICACE CONTRO LE GUERRE

(ANSA) – ROMA, 22 DIC – “È la forza degli eserciti e la loro credibilità lo strumento più efficace per combattere le guerre. Il dialogo, la diplomazia, le buone intenzioni certo servono ma devono poggiare su basi solide”.
Così la presidente del Consiglio, Giorgia Meloni, in visita al Comando operativo di vertice interforze, dove partecipa ad un collegamento in videoconferenza per rivolgere gli auguri ai Contingenti militari italiani impegnati nei teatri di operazioni internazionali.
“Quelle basi solide – ha aggiunto Meloni rivolta ai contingenti militari italiani – le costruite voi con il vostro sacrificio, con la vostra competenza, la vostra professionalità, il vostro coraggio. E se noi riusciremo a riportare pace, che è chiaramente l’obiettivo più grande che abbiamo in questo tempo, sarà grazie a voi”.
MELONI, ‘SI VIS PACEM PARA BELLUM’ NON È BELLICISMO MA PRAGMATISMO
(ANSA) – ROMA, 22 DIC – “La pace è un bene prezioso quando la si possiede e da ricercare con ogni sforzo quando la si perde. Questo lo comprende più di chiunque altro chi conosce la guerra ed è preparato a fronteggiarla. Per questo non ho mai accettato la narrazione di chi contrappone l’idea del pacifismo alle forze armate”.
Così la presidente del Consiglio, Giorgia Meloni, in visita al Comando operativo di vertice interforze, dove partecipa ad un collegamento in videoconferenza per rivolgere gli auguri ai Contingenti militari italiani impegnati nei teatri di operazioni internazionali.
La premier ha citato la formula latina ‘si vis pacem para bellum’, chi vuole la pace prepari la guerra, sottolineando che “non è, come molti pensano, un messaggio bellicista. Tutt’altro, è un messaggio pragmatico, il senso è – ha aggiunto – che solo una forza militare credibile allontana la guerra. Perché la pace non arriva spontaneamente: è soprattutto un equilibrio di potenze. La debolezza invita l’aggressore, la forza allontana l’aggressore”.
Meloni ha poi fatto riferimento all’etimologia di ‘deterrenza’: “Io sono appassionata di etimologia della parola, racconta sempre il senso più profondo di quello che noi diciamo. E l’etimologia della parola deterrenza arriva dal latino, il senso è incutere timore al punto da distogliere”.
MELONI, L’ITALIA È ASCOLTATA PERCHÉ RAPPRESENTIAMO UNA NAZIONE AUTOREVOLE
(ANSA) – ROMA, 22 DIC – “Si deve dirvi grazie, e devo essere proprio io più di tutti a dirvi grazie, perché la credibilità che voi costruite è uno straordinario strumento del quale io dispongo e le istituzioni dispongono per difendere l’interesse nazionale italiano”. Così la presidente del Consiglio, Giorgia Meloni, in visita al Comando operativo di vertice interforze, dove partecipa ad un collegamento in videoconferenza per rivolgere gli auguri ai Contingenti militari italiani impegnati nei teatri di operazioni internazionali.
“Quando io porto a casa un risultato, quando le istituzioni portano a casa un risultato, tendenzialmente qualcuno lo riconosce, non tutti, diciamoci la verità. Però tendenzialmente viene riconosciuto come se fosse semplicemente merito mio, nostro, merito di chi rappresenta le istituzioni di questa nazione.
Allora – ha continuato Meloni – io sono qui oggi soprattutto per dire, non a voi ma agli italiani con voi, che io, noi, chiunque altro che rappresenti le istituzioni al nostro livello, non veniamo ascoltati perché siamo bravi.
Noi veniamo ascoltati perché rappresentiamo una nazione autorevole. Noi veniamo ascoltati perché rappresentiamo una nazione forte, e quella forza non la costruiamo noi, quella forza la costruiscono migliaia di uomini e donne sparsi nel mondo, lontani dalle loro famiglie, disposti a sacrificarsi e a farlo nell’ombra, per dare a noi quello che serve a difendere l’Italia”.
Ma che sinistra è quella che snobba le persone che hanno paura di microcriminalità, immigrati e baby gang? Sempre più persone si sentono insicure nei loro quartieri, la sinistra parla di tutto tranne che dei problemi che i cittadini denunciano e vorrebbero venissero risolti, senza rendersi conto di fare un piacere alla destra. Ma che sinistra è quella che si dimentica del popolo?

(di Riccardo Canaletti – mowmag.com) – Il 59% dei bolognesi si dice preoccupato per l’aumento della microcriminalità nella propria zona. Partiamo da qui, dove vivo. E dal nuovo sondaggio di Pisos per Changes Unipol. Il vero momento drammatico, per i cittadini di Bologna (come per quelli di Milano, Napoli e Verona) è la notte. Il dato riguarda soprattutto i giovani, che di notte si sentono più insicuri degli adulti. Fa effetto che tra le zone considerate più insicure ci sia il centro (lo dicono 7 cittadini su 10 non solo a Bologna, ma a Milano, Napoli, Firenze e Torino). Sul podio ci finiscono anche i parchi (leggasi aree verdi) e le fermate dei mezzi pubblici. In generale, cioè sia di notte che di giorno, sono i baby boomer a sentirsi più insicuri (60-79), quindi il problema è trasversale. I bolognesi, i fiorentini e i milanesi credono fortemente che la microcriminalità stia aumentando. I napoletani pensano esattamente l’opposto. L’aumento viene percepito principalmente dagli adulti, mentre Gen Z e Millenials paiono più tranquilli.
Ora arriviamo al punto dolente: per i partecipanti al sondaggio le due cause principali dell’insicurezza sono l’immigrazione incontrollata (1 italiano su 3) e la perdita del ruolo educativo della famiglia. Questi fenomeni di crisi si accompagno alle critiche verso il lavoro delle autorità, che risultano essere poco incisive nel garantire la sicurezza in strada. Certo, per i giovani della Gen Z la microcriminalità ha a che fare con disuguaglianza e mancanza di servizi sociali, mentre per quelli un po’ più attempati il problema, appunto, sono immigrati e poche forze dell’ordine. Come a dire: i giovani sono di sinistra e i vecchi di destra. La cosa è in realtà più sfumata, ma va da sé che saltino all’occhio le differenze. La spiegazione tocca un po’ tutti questi punti, senza esaurirsi in nessuno di essi, con buona pace di marxisti da un lato e sovranisti dall’altro. Come riporta Il Sole 24 Ore nell’analisi sugli indici di criminalità in Italia, sia i giovani che gli stranieri commettono più crimini che in passato. In particolare, sono tutte e due categorie particolarmente coinvolte nei crimini commessi in strada, cioè quelli che fanno sentire insicure le persone. I ragazzi che commettono crimini sono aumentati del 30% rispetto al 2023 e un arrestato su quattro per furti in pubblica via ha meno di 18 anni.

Gli stranieri rappresentano oltre un terzo di chi commette crimini in Italia (il dato si basa sul numero di segnalazioni), anche se sono poco meno del 10% della popolazione; e se si tratta di furti con destrezza, furti con strappo e rapine in pubblica via l’incidenza raddoppia (60%). Insomma, per quei crimini che fanno sentire insicuri i baby boomer i giovani e gli stranieri sono effettivamente un problema. Aggiungiamo un altro particolare: oltre il 70% dei crimini commessi da stranieri sono fatti da irregolari, quindi la percezione dei baby boomers è giusta. C’entrano l’alienazione e il senso di sradicamento dalla cultura di appartenenza ma anche la povertà e le difficoltà a livello sociale, quindi hanno ragione in parte anche i più giovani.

Tornando a Bologna, per chiudere il cerchio, la città di Matteo Lepore è anche quella che, dal 2023 al 2024, ha ottenuto il maggior aumento di segnalazioni e denunce (+ 9,6%): seguono Firenze (+ 7,4%), Roma (+ 5,3%) e Torino (+ 2,7%). Insomma, la percezione e i dati ci dicono che forse non sempre è un bene trattare da stupidi i cittadini preoccupati. Mentre la destra, con una strategia famelica, prova a intestarsi qualsiasi battaglia (dalla disoccupazione alla sanità, le due maggiori preoccupazioni per gli italiani secondo un altro sondaggio Ipsos, fino al problema delle tasse), la sinistra fa la schizzinosa. Se sulla disoccupazione e la sanità qualche volta ci prova, sulla sicurezza non riesce a fare nessun passo avanti. La sola parola triggera, rende impacciati, incapaci di darsi una svegliata. A sinistra preferiscono dare dei coglioni alla gente comune, riducendo tutto agli effetti del lavaggio del cervello del governo fascista, che ha reso gli individui più timorosi e razzisti. Preferiscono scegliere quali siano i temi di serie A di cui occuparsi e quali di serie B da sminuire. Ma davvero in una democrazia la sinistra cala dall’alto l’agenda politica ai cittadini invece di ascoltare cosa pensano davvero? Non è più democratico, invece che indicare quali siano i problemi di sinistra e quali i problemi di destra, fornire delle possibili soluzioni a qualsiasi problema giudicato tale da chi vota?

Chiedo per un amico, anzi un compagno: cosa dovremmo dire alle persone votanti, viventi, producenti nelle nostre città, ai consumatori, ai lavoratori, che vogliono più forze dell’ordine e più telecamere o almeno una strategia per evitare che le piazze e le città si riempiano di criminali o aspiranti (minorenni) tali? Questo fenomeno, che materialmente si esprime perlopiù nelle metropoli, riguarda tuttavia anche i piccoli borghi, dove per altro è più facile tentare di ricostruire la catena causale che ha portato a città più insicure. Se in un paese altrimenti tranquillo, come quello in cui sono cresciuto nelle Marche, si segnalano almeno cinque casi di rissa, regolamento di conti, minacce, urla, sbronze in pubblico, ovviamente in centro, in neanche sei mesi, se in quella stessa città la gente non cammina più tra il ponte storico del Paese e la cartiera perché gli stranieri irregolari pagati una miseria per lavorare nei cantieri ci dormono, ci pisciano e ci si lavano i denti, se passeggiando preferisci costeggiare i parchi principali invece che attraversali, un problema c’è. E questo problema è soprattutto della sinistra, perché la destra ha ovviamente trovato un modo di comunicare con i cittadini allarmati senza che questi ultimi si sentano dei cretini. La sinistra no, convinta di poter scartare ciò che vuole, convinta che il purismo (lo stesso che ha smontato pezzo per pezzo i grandi partiti e ci ha regalato tante nicchie da 0,…% di voti) premi. E non premia, lo sanno, lo hanno visto. Ma un po’ come le scimmie: si mettono le mani davanti agli occhi, alle orecchie e alla bocca. Forse troppo spesso davanti agli occhi e alle orecchie. E troppo poco davanti alla bocca.

(Giancarlo Selmi) – È un destino avverso quello che condanna Mattarella a fare “moniti” in tempi sbagliati. O meglio: a dimenticare di farne alcuni a vantaggio di altri.
Ci chiediamo tutti come sarebbe andata a finire se, all”indomani delle dimissioni di Giuseppe Conte e del suo secondo governo, che non aveva ancora ricevuto il voto avverso delle Camere, invece di dare l’inutile e tattico “mandato esplorativo” a Fico (sapeva benissimo ciò che avrebbe fatto Renzi), avesse rimandato Conte al voto del Parlamento, accompagnandolo con quel “pungente ed efficace monito” che, invece, tenne nel cassetto riservandolo a Draghi.
Avrebbe rispettato la Costituzione, della quale è custode e, forse avrebbe svolto la funzione di Presidente di tutti gli italiani e non solo di alcuni di essi, passando alla storia come uno “al di sopra delle parti”. Invece lui “delle parti” rimase sotto. La maledizione dei moniti ritardatari o assenti continua. Ci saremmo aspettata qualche parola sui massacri in Medio Oriente, ma l’attesa è stata vana.
Invece non si è fatto attendere il paragone fra i russi che persero 26 milioni di vite per fermare un pazzo scatenato, con il pazzo scatenato che avevano fermato. Non si fece attendere da lui, un cattolico dichiarato, l’ordine ai nostri aerei di partecipare ai bombardamenti di Belgrado. E il monito non giunto sul medio oriente è stato sostituito dalla totale benedizione al riarmo e all’invio di armi, anche offensive, alla Ucraina e alla presunta democrazia mediorientale. Strafottendosene di ciò che potrebbe pensare sul tema il popolo italiano. Ma è la regola della rappresentanza, direbbe qualcuno. Ma è il rispetto della Costituzione, direbbe qualcun altro.
Insomma è condannato a essere in ritardo, quando non fuori luogo. E dire che di lui si dica un gran bene. Che il pensiero unico lo accrediti come figura illuminante e illuminata. Ci accontenteremmo che, invece di illuminarci, custodisse e garantisse la Costituzione, suo vero lavoro. Dei suoi non centrati moniti, faremmo a meno, preferiremmo 100 volte che ergesse una diga per il rispetto dell’art. 11 della Costituzione, per esempio. O che rimandasse indietro più leggi, a partire da quella sulla sicurezza.
Ma, tant’è purtroppo. Però almeno in questo caso gli italiani possono dire di non averlo votato. E io di questo distinguo mi accontento. Fu imposto da Di Maio e Guerini, credo che basti. Non è il mio presidente.
A palazzo Chigi Giordano Sottosanti cura il social X, affiancato dall’ombra della premier, Alberto Danese. Il gruppo Atreju conta su Di Benedetto, l’ideatore di Poveri comunisti, una delle pagine non ufficiali di FdI

(Stefano Iannaccone – editorialedomani.it) – Una cinghia di trasmissione che parte da palazzo Chigi e arriva fino a via della Scrofa. Dall’ideologo della comunicazione digitale di Giorgia Meloni, Tommaso Longobardi, all’inventrice dello stile-Atreju, Marina Improta, c’è una pattuglia di comunicatori trentenni-quarantenni, talvolta con una formazione alla Luiss, senza saluti romani o post nostalgici. Ma con una forma di venerazione verso Meloni.
Lo snodo decisivo è alla Camera, cuore pulsante della Fiamma di comunicazione che arde intorno a Meloni, mandando in pensione la Bestia di Matteo Salvini: negli uffici del gruppo c’è la mini-war room, si assumono alcune delle scelte decisive.
Un mix che intreccia varie community, interconnesse tra loro per macinare follower ed engagement: ci sono i profili ufficiali di Fratelli d’Italia e della sua leader, ma soprattutto le pagine unofficial, altrettanto cruciali nella propaganda meloniana.
Su tutte spiccano Atreju e Poveri comunisti, quest’ultima gestita da Alberto Di Benedetto, il responsabile dei social di FdI, che – come raccontato da Domani – ha anche pensato a un business sullo slogan «siete dei poveri comunisti», creando il sodalizio con la Italica solution, società dell’ex dirigente di Forza Nuova, Martin Avaro.
Alle varie pagine si è aggiunta da qualche tempo Giorgia 2027, la piattaforma social per la ricandidatura della presidente del Consiglio, benedetta da Longobardi, l’uomo che dal 2018 sovrintende ogni post e qualsiasi iniziativa riconducibile a Meloni. Ed è lui che declina la strategia politico-comunicativa dettata dal sottosegretario alla presidenza, Giovanbattista Fazzolari. Il focus specifico è su Instagram, là dove si mietono più follower, secondo il Longobardi-pensiero. La strategia è la solita, passiva-aggressiva: idolatria per la leader, individuazione dei bersagli nemici. E una dose di vittimismo.
Longobardi è a capo di una filiera ben oliata, concentrata sull’attuale presidente del Consiglio. Una delle emanazioni di Longobardi a palazzo Chigi è Giordano Sottosanti, 40 anni, il Mr. X di Meloni: cura infatti solo l’ex Twitter ribattezzato X da Elon Musk. Sottosanti è al fianco di Meloni già prima dell’era-Longobardi. Nel 2013 è stato reclutato dalla leader di Fratelli d’Italia per dare una mano sulla comunicazione, incrociando nelle sue esperienze anche l’eurodeputato Carlo Fidanza e l’attuale deputato Mauro Rotelli, che dicono un gran bene di lui.
Il salto di qualità nella carriera è comunque arrivato con l’approdo alla corte di Longobardi e al conseguente incarico di supporto alla premier. L’altro uomo social della premier è Alberto Danese, 36 anni. Segue Meloni nei vari viaggi ufficiali, dagli Stati Uniti alla Turchia, non disdegnando un pizzico di vanità. Sul suo profilo spiccano le foto fatte con il campione di tennis, Jannik Sinner, e con l’imprenditore Musk. Nel curriculum di Danese c’è anche qualche articolo firmato per la Voce del Patriota, l’house organ del partito di Meloni.
Non c’è solo il team-Longobardi, con il binomio Sottosanti-Danese che traducono la strategia del guru meloniano. Ci sono anche e soprattutto “i ragazzi” della comunicazione, come li definiscono benevolmente nel partito. Si tratta del gruppo-Atreju, che ha plasmato le pagine social della festa di partito. La leader riconosciuta è Marina Improta. I colleghi le riconoscono il ruolo di grande protagonista della rivitalizzazione dei social di Atreju, qualcuno la etichetta come la Longobardi del futuro.
«La comunicazione di Atreju ha iniziato a prendere la forma tre anni fa», ha ammesso Improta, in un colloquio con il Giornale. La giovane esperta si autopromuove, definendo lo stile «irriverente e tagliente» e mettendo da parte l’approccio aggressivo verso gli avversari con la compilazione di liste di proscrizione, da Roberto Saviano a Maurizio Landini, fino alla new entry Francesca Albanese.
Laurea alla Luiss, dopo l’esperienza con l’agenzia Bepop, Improta ha anche fatto parte dello staff per la campagna elettorale del 2021 di Gaetano Manfredi per l’elezione a sindaco di Napoli, dimostrando una capacità di adattamento alle esigenze. Terminata quell’esperienza, la folgorazione per la fiamma: ha iniziato a lavorare per Fratelli d’Italia grazie a un contratto alla Camera.
Al suo fianco c’è Di Benedetto, 37 anni, che nel concreto declina la linea social, comunque in stretta collaborazione con Improta. Il feeling maggiore lo ha tuttavia cementato con il suo corregionale (sono entrambi siciliani) Sottosanti: i due lavorano insieme fin dal 2019, quando Di Benedetto è approdato negli uffici di Montecitorio di FdI.
Dietro molti post di Meloni c’è la sua firma, oltre che dell’immancabile Longobardi. Per molti, però, Di Benedetto è soprattutto la manina che muove la community “Siete dei poveri comunisti”, utile allo storytelling meloniano più dei profili ufficiali.
L’altro giovane rampante è il pugliese Marco Gaetani, speaker di Radio Atreju, laureato (alla Luiss) con una tesi sulla comunicazione nella campagna elettorale di Donald Trump. Nel 2024 il golden boy del melonismo è stato nominato leader leccese di Gioventù nazionale, la giovanile del partito. Dopo la breve parentesi al ministero della Salute, da scudiero del sottosegretario Marcello Gemmato, è stato uno dei protagonisti dell’ultima festa di partito, diventando la voce della propaganda. Nell’ultima edizione di Atreju Gaetani è stato fianco a fianco con i big del partito.
Dietro le quinte, infine, come esperto di Google si muove Aldo Cardoni, vicino al vicepresidente della Camera, Fabio Rampelli, anche lui rientrante in parte nel progetto di Poveri comunisti: Cardoni ha registrato il dominio. In un mix di vecchie e nuove generazioni, che formano la Fiamma della comunicazione di Meloni.
La Fiamma meloniana si chiude – last but not least – con Andrea Moi, responsabile comunicazione del partito, a lungo l’uomo che ha diretto i contenuti del sito ufficiale, operando in sinergia con la Voce del Patriota. La sua formazione è atipica rispetto agli altri. Moi è principalmente un designer, abile con la comunicazione visuale. La politica ha ampliato i suoi orizzonti. Il suo futuro, si racconta negli ambienti di partito, sarà quasi sicuramente in parlamento al prossimo giro elettorale.
Di recente è stato chiamato a Montecitorio nelle vesti di esperto da audire per una proposta di legge sulla comunicazione digitale. Il suo erede come capo della comunicazione istituzionale potrebbe essere Ulderico de Laurentiis, attuale direttore della Voce del patriota. Con un trait d’union valido per vecchi e nuovi comunicatori: l’idolatria per Meloni.
La Lega a mani libere, l’Ucraina e Trump possono spaccare la maggioranza

(Flavia Perina – lastampa.it) – Conta il risultato, dice Giancarlo Giorgetti, ed è il mantra che da tre anni la maggioranza ripete ogni volta che si segnalano divergenze interne. Conta il risultato, conta il voto finale, e alla fin fine sull’Ucraina, sulla manovra, su tutto, la Lega ha sempre votato con gli altri e Forza Italia pure. Molto rumore per nulla, scrivono i quotidiani d’area, tempesta in un bicchier d’acqua dicono i portavoce in coro. Tempi rispettati, corsa di fine anno come al solito, è sempre successo così. E tuttavia è proprio l’eccesso di rassicurazioni ad amplificare le sirene d’allarme che suonano da settimane. In sintesi: un 2026 a rischio Vietnam per il centrodestra.
Perché il 2026 è anno pre-elettorale, e nella prospettiva di una riforma proporzionale ciascuno dovrà mostrare i muscoli al suo elettorato. Perché Matteo Salvini non avrà un Ponte da magnificare nelle slide, e vai a vedere che pure sul Pnrr ferroviario non prenda una batosta, e dunque qualcosa dovrà inventarsi per muovere il consenso. Perché Antonio Tajani è stato più volte chiamato a una prova di protagonismo e autonomia dalla famiglia Berlusconi, e non potrà più fare finta di niente. Perché la stessa Giorgia Meloni si gioca tutto e il “non sono ricattabile” con cui ha inaugurato il suo premierato dovrà essere confermato, anche a spese degli junior partner in cerca di rimonta.
Ci sono almeno tre controprove della frana del patto di responsabilità che ha tenuto in asse la maggioranza per 36 lunghissimi mesi. La prima è il trucco da Prima Repubblica con cui la Lega si è aggiudicata una facile vittoria sul tema pensioni: ha mandato avanti un emendamento che non condivideva, ha lasciato che il Mef lo mettesse nero su bianco con la controfirma di Giorgetti, poi appena si sono accesi i riflettori ha fatto saltare il banco. Poteva mettersi di traverso prima, bloccare tutto fin dall’inizio, ma non avrebbe raccolto il risultato a cui puntava: riqualificarsi come paladina dei diritti dei pensionandi, la forza coraggiosa che minacciando la crisi (ma figuriamoci!) è riuscita a rimettere in riga il governo. Il solo aver costretto Giorgia Meloni alle forche caudine di un vertice notturno, giovedì scorso, dopo il tour de force a Bruxelles su Ucraina e beni russi congelati, è già un successo dal punto di vista di Matteo Salvini: la prova generale di quel che potrà dire, fare, combinare nell’anno “delle mani libere” che si sta per aprire.
Il secondo riscontro alla prospettiva Vietnam è l’aperto conflitto esploso sul decreto Ucraina. Che esistessero convinzioni differenti lo si sapeva da un pezzo, ma mai era successo che idee diametralmente opposte sul ruolo dell’Italia fossero portate in pubblico attraverso interviste e dichiarazioni in dissenso. “Serve discontinuità”, dice apertis verbis Claudio Borghi, il miles gloriosus che Salvini manda avanti quando vuole dare segnali. E dunque aiuti civili e “strumentazioni solo difensive a differenza di quanto avvenuto finora”. Servono “anche armi” controbatte Antonio Tajani parlando con La Stampa, e così anche il compromesso immaginato – un contorto paragrafo che possa essere liberamente interpretato un minuto dopo il voto – diventa banco di prova: misurerà la capacità di interdizione della Lega e il potere effettivo del suo leader. Vale la pena ricordare che fin dal suo debutto nel 2022 il governo di centrodestra ha presentato l’invio di armi all’Ucraina come ovvio atto di coerenza rispetto alle linee di politica estera del Paese. “I vari governi che si susseguono – disse Guido Crosetto al suo esordio come ministro della Difesa – implementano le scelte ed onorano gli impegni che i governi precedenti hanno sottoscritto”. Dunque la discontinuità invocata dalla Lega, comunque si manifesti nel testo del decreto, non sarebbe cosa da poco: segnalerebbe il cambio di una storica e pluri-confermata posizione della Repubblica italiana.
Il terzo segnale è esterno. È nell’escalation degli attacchi russi alle istituzioni italiane. È negli spifferi americani che indicano l’Italia come uno dei Paesi su cui puntare per infrangere l’unità europea in nome della dottrina Maga. Indicano sollecitazioni alla nostra politica, ai nostri partiti, ai loro uomini e alle loro donne, e dunque nuovi terreni di scontro poco decifrabili ma concreti e densi di conseguenze. Nel 2026 anche questo potrà rivelarsi detonatore di guerriglie finora tenute a bada dai compromessi in cui la maggioranza è specialista: dire Vietnam magari è esagerato, ma la navigazione senza scosse degli ultimi tre anni è già adesso un ricordo, difficilmente potrà essere ripresa.
L’edizione numero 28 del rapporto “Gli italiani e lo Stato” realizzato da LaPolis dell’università di Urbino Carlo Bo in collaborazione con Demos e Avviso Pubblico

(di Ilvo Diamanti – repubblica.it) – Il Rapporto su “Gli italiani e lo Stato” è giunto alla XXVIII edizione. È, dunque, da quasi 30 anni che LaPolis – il Laboratorio di Studi Politici e Sociali dell’Università di Urbino Carlo Bo – conduce, in collaborazione con Demos e Avviso Pubblico, questa indagine. Una ricerca che permette, quindi, di osservare gli orientamenti e i mutamenti del sentimento espresso dai cittadini nei confronti dello Stato e delle istituzioni. Quest’anno la ricerca appare particolarmente interessante perché il mondo è attraversato da tensioni crescenti. Che coinvolgono e scuotono l’Occidente e l’Europa. Dunque, l’Italia.
È legittimo, per questo, interrogarsi sul futuro della nostra democrazia. E del nostro futuro. È significativo, al proposito, osservare come quasi 6 italiani su 10 ritengano che la democrazia in Italia negli ultimi anni si sia indebolita. E si stia indebolendo ulteriormente. Attraversata dalle minacce che provengono dall’esterno e dall’interno. Da guerre vicine e lontane. E da cambiamenti profondi che mettono in discussione i riferimenti su cui si fondava la nostra sicurezza. L’Europa e l’Occidente, in particolare. Oggi entrambi questi riferimenti sono messi in discussione. E, quindi, è messa in discussione anche la nostra sicurezza. La nostra stabilità. Il nostro futuro. Perché è difficile sentirsi sicuri quando il mondo intorno a noi è insicuro. Così, i soggetti e le istituzioni che guidano il Paese rimangono in fondo alla graduatoria della fiducia espressa dai cittadini. I partiti in particolare, appaiono un participio passato: partiti. Senza una destinazione precisa. E rischiano di trascinare con sé lo Stato. Che è stato. E non sappiamo che sarà. Al di là delle battute, appare difficile guardare avanti, progettare il futuro se il futuro appare così incerto. Perché in tempi di globalizzazione tutto ciò che avviene dovunque nel mondo, in qualsiasi momento, può avere, nello stesso momento, influenza sulla nostra vita. E, comunque, sul nostro modo di guardare il mondo intorno a noi.
D’altra parte, assistiamo a un sensibile indebolimento delle basi su cui si fonda la nostra democrazia. Anzitutto, la partecipazione sociale e associativa, che non mostra segni di crescita diffusa, come in passato, ad eccezione del volontariato. Ma, al contrario, esprime percezione di declino. In particolare, per quel che riguarda le attività culturali, sportive, ricreative. O l’acquisto di prodotti di consumo etico come forma di impegno. Così, la partecipazione si traduce, talora, in protesta accesa.
Mentre cresce la percezione di declino, che coinvolge, soprattutto, le persone delle classi popolari e del ceto medio. E allarga il distacco nei confronti delle istituzioni e dello Stato. Perché lo spirito democratico è alimentato dalla condizione sociale. E, parallelamente, si indebolisce quando l’ascensore sociale invece di salire discende. Per questo motivo le ragioni che alimentano la democrazia non sono solamente politiche. Ma riguardano, anzitutto, la condizione di vita delle persone. Perché è difficile esprimere fiducia verso il sistema e i soggetti che guidano il Paese e le istituzioni, quando nella società prevale un senso di incertezza. E di insicurezza.
Per queste ragioni il modo più efficace per sostenere la democrazia è garantire condizioni di vita adeguate alle persone. Inoltre, promuovere i luoghi e i canali della partecipazione. Cercando di andare oltre i media e il digitale. Perché la partecipazione in rete alimenta le relazioni. Ma a distanza. E, in questo modo, non favorisce la fiducia tra le persone. Perché sono sempre collegate e sempre lontane.
Mentre è importante costruire legami personali e associativi. Che favoriscono la costruzione di relazioni reali. Per questo motivo la democrazia ha bisogno di partecipazione e non solo di comunicazione. O meglio, ha bisogno di comunicazione attraverso la partecipazione. Attraverso le associazioni. Alcune indagini di Demos e LaPolis lo hanno mostrato con chiarezza: la fiducia negli altri cresce quando avviene non solo attraverso collegamenti a distanza. Ma in modo diretto. E immediato. Senza mediazioni e senza mediatori. Attraverso il coinvolgimento personale. Perché la partecipazione, anche quando esprime protesta, è uno strumento di sostegno e rafforzamento della democrazia.


(Dott. Paolo Caruso) – Otto mesi sono passati da quel 21 aprile, lunedì dell’ Angelo, quando i media di tutto il mondo riportarono l’ annuncio Vaticano della scomparsa di Papa Francesco, il Papa rivoluzionario della rivoluzione di Cristo. Ci aveva appena salutato il giorno precedente, la domenica di Pasqua, impartendo la benedizione Urbi et Orbi estendendo a tutti un messaggio di pace e di speranza. Quella Speranza che aveva riposto nel cammino giubilare del 2025, e quella pace che aveva sempre cercato di riscoprire nell’ animo umano e per la quale si era impegnato alacremente per porre fine al conflitto russo ucraino ( innalzare la bandiera bianca, sic! ) che non era sinonimo di resa come qualcuno miseramente avrebbe voluto farci intendere, e per fermare il genocidio palestinese. Per questo popolo da sempre martoriato rivolgeva quotidianamente le sue preghiere e la sua attenzione di Padre. La scelta di chiamarsi “Francesco”, con riferimento al Santo, caratterizzò il suo pontificato, infatti volle essere il Servitore degli Ultimi, il difensore degli oppressi, il protettore del creato, Colui che dava voce a quelli che non l’ avevano, gli umili, i poveri, i diseredati, i carcerati. Cercò sempre Gesù nei poveri e li incontrò a Lampedusa per la sua luna di miele appena eletto Papa. Li cercò fino ai confini della Terra, egli che dichiarava di essere venuto proprio da lì. Voleva cambiare la Chiesa, e fino all’ultimo pretese dai suoi preti di “non essere clericali”. Ci provò egli stesso. Il mondo medievale da “cesaropapismo” gli era totalmente estraneo. Non cercò mai la gloria. La sua fu “diakonia”, servizio di Cristo che lava i piedi. Egli fino all’ultimo lo fece con i carcerati. Le sue parole sconvolsero, scandalizzando i parrucconi del conservatorismo, terrorizzando i potenti e furono spese solo a beneficio dei popoli. Scongiurò i signori della guerra e in nome della pace predicò per una fratellanza umana che superi ogni divieto, anche religioso. Cristo ha cercato l’uomo e Papa Francesco ci ha creduto. La sua fede fu il più bel dono alla Chiesa, e a noi figli di questo secolo. Papa pieno d’amore e vestito di umiltà, resosi pastore di tutti in nome della Umanità che Cristo aveva fatta sua, espletò prepotentemente la sua opera pastorale legata alla Carità e alla Misericordia.
Quando perfino le grandi agenzie di stampa iniziano a mettere lo zampino nella narrazione della guerra, significa che la malattia non è più solo contagiosa: è diventata terminale.

(di Gianvito Pipitone – gianvitopipitone.substack.com) – Nonostante tutto intorno continui a raccontarci di Natale, la strana sensazione della guerra si avverte negli interstizi, sotto forma di un’inquietudine intercostale. Come se qualcosa ci stia sfuggendo di mano. Anche se non sappiamo bene cosa. O forse lo sappiamo troppo bene.
Reuters, colosso britannico dell’informazione, è una delle tre sorelle maggiori del giornalismo globale. Insieme ad Associated Press e Agence France-Presse forma quel triangolo quasi sacro che detta il ritmo dell’informazione mondiale. Migliaia di giornalisti, una rete planetaria, un’autorità che raramente viene messa in discussione. Per questo, la notizia arrivata ieri ha colpito come un pugno allo stomaco.
Mentre AP parlava di colloqui “costruttivi” a Miami tra la delegazione russa guidata da Kirill Dmitriev e quella americana guidata da Steve Witkoff e Jared Kushner, Reuters ha sganciato inaspettatamente una bomba. Secondo l’agenzia, che cita “sei fonti vicine all’intelligence USA”, Vladimir Putin non avrebbe affatto abbandonato gli obiettivi iniziali della sua guerra: non solo conquistare l’intera Ucraina, ma anche rivendicare parti dell’Europa appartenute all’ex impero sovietico. Ed ecco così svelati, i veri piani dell’autocrate russo.
La notizia, firmata da tre reporter esperti, è rimbalzata ovunque, gettando analisti e osservatori in uno stato di frustrazione, se non di smarrimento. Non era il momento giusto. Non ora, mentre i colloqui di Miami sembravano aprire un minimo spiraglio: una tregua natalizia, forse un cessate il fuoco, almeno un primo passo verso garanzie di sicurezza per Ucraina, Europa e mondo. E invece, come un fulmine a ciel sereno, arriva il dispaccio Reuters, rilanciato senza battere ciglio da diverse altre testate: U.S. News & World Report, The Jerusalem Post, The Times of India. Persino MSN, l’aggregatore di notizie di Microsoft, lo ripropone, seppur nel contesto della smentita – dura e immediata – di Tulsi Gabbard, la direttrice dell’Intelligence nazionale USA. Ed è a questo punto che la narrazione cambia direzione, ma senza dissipare i timori di una escalation sempre più concreta fra Occidente e Russia.
Chi è Tulsi Gabbard, e perché – suo malgrado – si trova al centro di questo intreccio ? E chi è che – a questo punto – attraverso un’agenzia di stampa autorevole, sta cercando di sabotare il difficile processo di pace in corso?
Tulsi Gabbard è una politica e militare hawaiana di lungo corso, cresciuta nell’area progressista, vicina a Bernie Sanders, poi sostenitrice di Joe Biden, fino ad approdare al Partito Repubblicano di Donald Trump. Una figura complessa, che negli anni ha assunto posizioni sempre più conservatrici su temi interni come aborto, diritti delle persone trans e sicurezza delle frontiere. Nel 2025 viene nominata Direttrice dell’Intelligence Nazionale degli Stati Uniti, a capo delle 18 agenzie di intelligence USA. È lei a smentire apertamente la ricostruzione Reuters, accusando l’agenzia di diffondere “notizie false e tendenziose” utili solo a “sabotare gli sforzi diplomatici del presidente Trump”.
In una nota su X scrive che i “guerrafondai del Deep State” e i loro media starebbero cercando di ostacolare gli sforzi di pace, diffondendo falsità secondo cui la comunità dell’intelligence USA concorderebbe con la narrativa UE/NATO sull’intento russo di invadere l’Europa. È un linguaggio inquietante, da guerra interna, oltre che da guerra esterna.
Aggiunge poi, a supporto delle sue tesi, che l’intelligence statunitense ritiene che la Russia non abbia nemmeno la capacità di conquistare e occupare l’Ucraina, figuriamoci l’Europa. Smentendo categoricamente che la Russia possa essere interessata a cercare un conflitto diretto con la NATO, viste le sue limitate capacità militari e i rischi esistenziali che ciò comporterebbe per sé stessa
La sua smentita, per quanto categorica, non basta però a rassicurare. È invece inevitabile chiedersi se qualcuno, dentro o attorno agli apparati di sicurezza, stia usando i media come cassa di risonanza per orientare l’opinione pubblica, irrigidire le posizioni e sabotare i negoziati. Certo, è una domanda che fa tremare le vene ai polsi, perché implica che la guerra non sia solo un conflitto, ma un ecosistema di interessi che si autonutrono.
E dunque, di grazia, chi a questi punto vuole davvero la guerra in Europa e all’interno della Nato? Chi sta soffiando senza tregua verso una contrapposizione sempre più frontale tra Occidente e Russia?
Domanda dalla risposta difficile. Se in teoria a nessuno converrebbe una guerra distruttiva e rovinosa, quello che in pratica si delinea, nelle varie cancellerie, così come nelle stanze che contano della Commissione Europea, è piuttosto un intreccio contrastante di interessi, paure, strategie ed asimmetrie di potere. E per quanto la realtà della guerra “vera” sembri irreale, il rischio è che la guerra, invece, diventi una possibilità reale, quando questi elementi si sovrappongono.
In prima fila, pronti alla guerra, ci sono loro, i Paesi baltici e la Polonia, con governi memori di un passato prossimo e recente, a spingere per una linea durissima contro la Russia, convinti che ogni cedimento porti a un’ulteriore avanzata di Putin. Allo stesso tempo, il complesso militare‑industriale europeo pare prosperare nei contesti di alta tensione: basta guardare l’andamento del settore difesa on Borsa – principalmente le tedesche Rheinmetall e Thyssenkrupp, le francesi Dessault Aviation e Thales Group, l’italiana Leonardo, la svedese Saab e la spagnola Indra sistemas – per percepire quanto la paura possa diventare, anche, un mercato molto redditizio.
Inoltre, ampi segmenti dell’intelligence occidentale continuano a leggere la Russia come minaccia strutturale, utile a giustificare budget, programmi, cooperazioni rafforzate. Non è tutto. Diversi reportage hanno mostrato recentemente come numerosi think tank atlantisti, soprattutto statunitensi, spesso finanziati da governi o dall’industria della difesa, abbiano moltiplicato rapporti e iniziative incentrati sulla difesa nazionale degli stati europei contro la “minaccia russa”, contribuendo a consolidare un clima di allarme permanente.
Chi scrive, vuole credere che la guerra, in sé, non possa essere mai davvero desiderata. Nonostante, sia chiaro, a nessuno sfuggano le responsabilità dell’aggressore russo e gli orrori perpetrati dagli invasori nei confronti della popolazione civile ucraina. Ma è difficile ignorare il fatto che una strategia di tensione costruita e alimentata giorno dopo giorno da NATO e UE possa sfuggire di mano, innescando davvero la miccia per l’irreparabile. E questo, forse, è ancora più inquietante della guerra stessa: l’idea che si possa scivolare in un conflitto non tanto per decisione, ma per inerzia.
La domanda più scomoda, però, è un’altra: chi teme la pace più della guerra? Domanda scorretta, ma che ha un fondamento. In breve. Una pace negoziata legittimerebbe la Russia come attore, obbligherebbe l’Europa a ripensare la propria architettura di sicurezza, renderebbe forse meno centrale il programma di riarmo al 2030, ridurrebbe la dipendenza dall’ombrello USA, aprirebbe crepe interne nella NATO, toglierebbe argomenti a chi vive di “minaccia permanente”.
Possiamo scommettere che esistono diversi attori per i quali la pace sarebbe destabilizzante quanto la guerra. E che agiscono di conseguenza, con obiettivi precisi, raramente compatibili con la vita concreta delle persone che, al fronte o sotto le bombe, pagano il prezzo più alto. Chissà se costoro abbiano mai analizzato a fondo le conseguenze in cui l’incubo di una guerra mondiale, potrebbe precipitare il pianeta. Forse non abbastanza.
Proprio per questo, da un’agenzia autorevole come Reuters ci si aspetterebbe prudenza e professionalità al di sopra degli standard. Citare fonti anonime, su un argomento così delicati, in un momento così delicato, non è solo una caduta di stile. Ma lascia un retrogusto amaro: non tanto per l’errore in sé, quanto per ciò che suggerisce del nostro ecosistema informativo. Quando anche i più autorevoli custodi della notizia iniziano a giocare con il fuoco, significa che il rischio di bruciarsi non è più astratto. È stato messo già nel conto. Sereno natale a tutti.

(Gioacchino Musumeci) – Come ben sapete la fenomena Elisabetta Gardini, parlamentare della Dx equestre al governo del Paese, ha concepito una norma secondo cui l’amministratore di condominio debba essere laureato per fronteggiare il compito gravosissimo delle gestione di organismi estremamente complessi come i condomini italiani.
La norma è particolarmente comica perché contiene in sé un’ obiezione logica e insuperabile: se un amministratore condominiale dovrebbe essere laureato per essere considerato capace, perché gli italiani dovrebbero accontentarsi di una presidente del consiglio che col suo diplomino dell’alberghiero al massimo potrebbe spiegarmi, e aggiungo forse, la mise en place di un tavolino da ristorante o la compilazione del registro check in alla reception di un albergo. Perché ce lo dicono Gardini e Bolloli? ![]()
Se la norma della Gardini presuppone che amministrare un condominio sia più complicato che gestire un Paese, evidentemente siamo davanti all’ennesimo strafalcione concettuale di una Dx che fatica a razionalizzare idee, sballate, di cui è partoriente indefessa.
Se invece amministrare l’Italia è più difficile che occuparsi di giardino scale e quote condominiali, evidentemente Elisabetta Gardini deve cambiare spacciatore oppure tornare in Rai al comando di Domenica In che tanto è solo questione di porte girevoli.
Ma chi potrebbe essere talmente coraggiosa, oppure spudorata, da difendere orrori normativi ove il capo condomino laureato è necessario ma contestualmente il presidente del consiglio col diplomino striminzito è un assioma indiscutibile che gli italiani hanno l’obbligo di subire?
Tra le poche capaci di buttarsi nel guano della Dx e nuotarvici con la grazia di una marionetta petulante abbiamo la mitologica Brunella Bolloli spesso ospite tragicomica ad Otto e Mezzo di Lilly Gruber, colei che, badate bene, non professa opinioni ma verità.
Mi è capitato di vedere uno stralcio del programma in cui la Bolloli davanti a Scanzi, che parlava di un governo di Dx di scappati di casa, ha proposto una tesi demenziale al 100%.
Secondo la Bolloli in passato abbiamo avuto gli scappati di casa Cinque Stelle, dei quali però nessuno rinviato a giudizio per falso in bilancio o bancarotta e nessuno commissariato o arrestato per corruzione, voto di scambio e atrocità simili. Nessuno insomma che se la faceva con Cuffaro.
Perciò a parità di scappati di casa gli Italiani si possono accontentare dei meloniani per quanto moralmente lerci.
Ora: forse la Bolloli non s’è accorta ma ha ammesso che la Dx è un’ assembramento di scappati di casa, congratulazioni. A parte che i pentastellati non governano e chiamarli in causa è una fallacia purissima da cervello fritto, la Bolloli geniale decide per tutti la qualità della classe dirigente secondo i propri criteri orripilanti, tanto a perderci sono i cittadini ai cui imporre scappati di casa ad interim. “Anche no grazie, e poi diciamolo, gli scappati di casa veri, scrivono su Libero; sveglia Bolloli e torna a casa.”
Morale: la Dx ha fatto campagna elettorale professando diversità, migliorie e qualità su tutte le ruote ma dopo tre anni di governo c’è una realtà stridente che i giannizzeri della Dx vorrebbero occultare evocando il passato remoto.
Invece dopo tre anni di Meloni e i vari Bolloli mentitori col megafono, l’Italia è in brandelli: produzione industriale inceppata, si aspetta un anno per una Tac, stipendi inchiodati, carovita asfissiante, tasse aumentate, pressione fiscale ai massimi storici, i giovani abbandonano l’ Italia sempre più numerosi, povertà galoppante e famiglie più stritolate che mai. Il contrappeso a tutto questo? Le foto della Meloni con Trump e la cazzate dell’editoria tossica figlia di un establishment di cui la presidente del consiglio è il burattino preferenziale. Salvini tempo fa disse che si sarebbe pulito il culo col tricolore, la Meloni se lo pulisce col cadavere del sovranismo con cui ha incantato quasi 8 milioni di elettori su 51 totali. E a proposito di Meloni capace facciamola finita: se lo fosse non si circonderebbe di scappati di casa legittimati strumentalmente indicando quelli pentastellati del 2018. “Nel 2025 cambia disco Bolloli, sei vergognosa.”