Selezione Quotidiana di Articoli Vari

Giorgia Hobbite i cattivi maestri


Meloni, oggi premier, vaneggia come gli allora ragazzi neofascisti, che si raccontavano come nel mondo di superficie esistessero “nascosti nei salotti” ideologici seminatori di violenza, non solo verbale

(di Pino Corrias – ilfattoquotidiano.it) – Ma davvero Giorgia Meloni, a 48 anni compiuti, non è ancora uscita dalla penombra della sezione missina di Colle Oppio, dove scalò l’adolescenza e la militanza?

Ragiona e fantastica come allora, quando i ragazzi neofascisti si raccontavano tra loro che fuori, nel mondo di superficie, esistevano “nascosti nei salotti” i cattivi maestri “in giacca e cravatta” che seminavano parole d’odio pronte per essere trasformate in sangue nelle piazze dalle zecche comuniste. Fa finta di non sapere come sono andate le cose. O peggio ancora, non sa quel che accadde qui in Italia, nel mondo reale, e ugualmente fa il presidente del Consiglio, esercitando il massimo potere di comunicazione sulla comunità nazionale, seminando tensione, distorcendo la verità dei fatti, delle storie, durante la nostra stagione di piombo e fiamme e vittime.

Dal 1969 al 1980 abbiamo avuto, qui in Italia, 7 stragi di matrice neofascista: Piazza Fontana, Gioa Tauro, Peteano, Questura di Milano, Piazza della Loggia, treno Italicus, stazione di Bologna. Tutti labirinti di inchieste, depistaggi, processi che hanno condotto al filo nero delle trame e ai responsabili, titolari di odio e di tritolo, variamente distribuiti nelle organizzazioni del terrorismo nero, da Ordine Nuovo a Ordine nero, da Avanguardia nazionale ai Nar. A loro volta intrecciati, finanziati, coperti da quell’altro mondo dei poteri occulti, i Servizi segreti, la P2, la rete anticomunista e clandestina di Gladio. Gli identici poteri che sempre qui, in Italia hanno lavorato a tre tentativi di colpo di Stato, nel 1964, nel 1970, nel 1974. Sollecitati dal crescente allarme delle lotte sociali di quegli anni che rischiavano di sbilanciare a sinistra la Repubblica, la sua appartenenza al blocco occidentale, esito stabilito alla fine di una guerra persa, la Seconda guerra mondiale (combattuta in camicia nera al fianco della macchina di sterminio nazista) liberata, protetta e insieme occupata dalle forze militari americane.

Accadde certamente che la violenza di quegli anni non fu a senso unico, né poteva esserlo. Protagonista di quella stagione di sangue non fu la sinistra che si riconosceva nel Partito comunista, ma quella che lo contestava da sinistra, quella extraparlamentare dei movimenti giovanili che si presero le piazze e le cronache, i teorici della “Nuova resistenza” imbracciata per rimediare al tradimento di quella vecchia che segnò, dal 1943 al ’45, il riscatto dell’Italia dal ventennio fascista, depositato a fondamento della nostra Costituzione.

Le Brigate rosse – malamente rievocate in questi giorni – non c’entrano nulla con l’oggi. Nascono per metà dalla matrice cattolica di una radicale militanza cristiana, per l’altra metà dalla cultura marxista-leninista in forte contrasto proprio con il Partito comunista, che più di tutti fu protagonista di quella guerra di liberazione “interrotta”. Che ne rivendicava le radici. E che a differenza di quello che crede Giorgia Meloni e la vulgata opportunista della destra, si oppose al terrorismo nero tanto quanto a quello rosso, affiancandosi – non solo sul piano politico – all’azione di contrasto di carabinieri e polizia, esercitando la sua influenza sulla classe operaia e le forze sociali progressiste che in parallelo ai disordini che infiammavano le piazze e al sangue versato, contribuì al nuovo ordine delle conquiste sociali e civili dell’intero decennio anni Settanta.

Renato Curcio e Mara Cagol, fondatori delle Br, hanno matrice cattolica, prima che leninista. Franceschini, Gallinari, Pelli, Paroli, Ognibene, vengono dalle file del Partito comunista e partigiano di Reggio Emilia, sono loro il nucleo giovanile e insofferente che contesta il Pci fino alla scissione e alla scelta della lotta armata. Cento altri futuri militanti usciranno dalle formazioni extraparlamentari, Lotta Continua, Potere operaio, Servire il popolo, Autonomia operaia. Tutti credendo finito “il tempo della mediazione e dei partiti borghesi” e inevitabile la scelta dell’avanguardia armata, del “comunismo che diventa percorso al comunismo”. Nemico lo Stato. Ma nemico anche il Partito comunista di Berlinguer e del suo ministro dell’Interno ombra Ugo Pecchioli, che dello Stato si sentono fondamento e anche baluardo, spesso con più fermezza della Democrazia cristiana.

Nelle piazze, nei quartieri di Milano, Roma, Torino, Genova, Padova, Napoli, si combatte un’altra guerra, con le parole d’odio, le spranghe, i coltelli, le pistole, i ragazzi morti ammazzati. Guido Salvini, magistrato che per una trentina d’anni a Milano si è occupato di quel sangue versato – da Piazza Fontana a Sergio Ramelli, a Fausto e Iaio – ha provato a contabilizzarli quei morti, 19 ragazzi di sinistra uccisi, 7 ragazzi di destra. E se ogni morte com’è giusto pesa in sé, anche la proporzione pesa, non per intestarsi il primato di un delitto o di una colpa, ma per la verità dei fatti.

In quanto alle parole d’odio, Giorgia Meloni ha accanto a sé l’archivio vivente di quel catalogo, Ignazio La Russa, oggi presidente del Senato, che di quegli anni fu protagonista, insieme con Almirante, Servello, Pisanò e i rispettivi busti di Mussolini riscaldati dalla fiamma tricolore, durante la stagione missina a Milano e Roma, con le scorribande delle frange più o meno violente dei camerati del Fronte della gioventù. E potrebbe chiedere alla sua sottosegretaria Isabella Rauti, lumi sul padre, Pino Rauti, fondatore di Ordine nuovo con Clemente Graziani, o al suo capo-segreterie di allora Adolfo Urso, oggi suo ministro, e la deriva terroristica che ne seguì, con le militanze clandestine di Stefano Delle Chiaie, Paolo Signorelli, Pierluigi Concutelli, Mario Tuti, tutti variamente indagati e coinvolti nella stagione delle stragi e degli omicidi politici. O potrebbe informarsi sulla temperatura emotiva, oggi, Anno III dell’Era Meloniana, dei camerati di CasaPound a Roma, o dei guerrieri che a ogni scadenza si radunano e inneggiano con i saluti romani e gli slogan fascisti a onorare la memoria dei “martiri della destra”. Visibilissimi a ogni anniversario a Roma, a Milano, persino a Predappio. O nascosti nel nero delle sezioni della Gioventù nazionale, come ha svelato l’istruttiva inchiesta di Fanpage, organizzazione giovanile del partito di Fratelli d’Italia. Il quale, transitando dalla opposizione al governo del Paese, non ha mai fatto i conti con il suo passato, né con il suo presente. Fatica a pronunciare la parola “antifascismo”, considerandola sequestrata dalla sinistra. Che attacca ogni volta che può, ma sempre maneggiando l’arma del vittimismo, il fantasma degli alti salotti, dei nemici “in giacca e cravatta”. Salvo che a forza di fingersi hobbit, gli “abitanti dei buchi”, saranno quei buchi (di storia, di studio, di ipocrisia) a imprigionarli.


Altro capolavoro Ue: la rottura con l’Iran


Quel che veramente stupisce è la meraviglia con la quale l’opinione pubblica e i governi europei accolgono le ormai decennali violazioni del diritto internazionale da parte […]

(di Elena Basile – ilfattoquotidiano.it) – Quel che veramente stupisce è la meraviglia con la quale l’opinione pubblica e i governi europei accolgono le ormai decennali violazioni del diritto internazionale da parte di Israele e Stati Uniti, come se ogni volta scoprissero i metodi brutali dell’impero statunitense e della sua pedina atlantica in Medio Oriente.

Con Netanyahu e Trump è divenuto palese quel che era la norma anche in passato con le amministrazioni democratiche Usa. Mettiamo in fila le violazioni: bombe Nato a Belgrado, invasione di Afghanistan, Iraq e Libia, colpo di Stato a Kiev, sanzioni unilaterali, apartheid in Cisgiordania e crimini di guerra compiuti in una regione dove regna l’Anp e non un movimento terrorista, assedio di Gaza e punizioni collettive della popolazione a cominciare da “Piombo fuso” (2008-2009), invasione di Gaza e genocidio, attacchi ripetuti al Libano dagli anni Ottanta, crimini di Sabra e Chatila fino ai più recenti attacchi terroristici per la decapitazione della leadership di Hezbollah, fomentazione della guerra civile in Siria e attacchi al paese, attentati terroristici contro l’Iran, fino al più recente bombardamento dei siti nucleari, omicidi della leadership politica di Hamas in Iran e a Doha, la stessa Hamas con cui si negozia. Sono sicura di aver dimenticato molti altri eventi criminali. Naturalmente l’élite europea, al fine di gestire il consenso, pronuncia ridicole frasi di condanna, l’aggettivo più inflazionato è “inaccettabile”, mentre di fatto la violazione del diritto internazionale, gli atti mafiosi come l’attacco alla Flotilla, o ben più gravemente, l’assassinio statunitense di 11 venezuelani considerati, senza nessuna prova, narcotrafficanti, si succedono con la complicità più o meno evidente dei liberi e democratici Paesi occidentali. L’opinione pubblica maggioritaria presta scarsissima attenzione ai ripetuti crimini in quanto la propaganda planetaria ha ormai inserito nel Dna dei cittadini un pregiudizio radicato: l’Occidente buono si difende dai cattivi, autocrazie e terrorismo. La prima parte del libro Un approdo per noi naufraghi, che uscirà con PaperFirst in ottobre, è dedicata alla distruzione del multilateralismo e delle norme internazionali, costruite nel dopoguerra dall’Occidente trionfante, e ora simulacro difeso soltanto dai Brics. Si documentano i processi che ci hanno portato ai gravissimi eventi odierni, dal genocidio alla guerra in Europa. In Medio Oriente l’escalation non ha limiti. Mi ha sempre meravigliato che Hamas e Hezbollah avessero strategie in grado di fare da sponda alla più oscura e ipocrita retorica israeliana. I missili lanciati nel vuoto che offrivano l’occasione per continue rappresaglie contro i palestinesi, la beffa del non riconoscimento di Israele che ha nutrito le azioni criminali di Tel Aviv sono esempi di una complicità paradossale tra terrorismo di Stato ed estremismi. L’attentato a Gerusalemme avvenuto il giorno in cui si attendeva il processo a Netanyahu è il più recente evento che lascia perplessi.

L’Iran, al contrario, è stato in grado, soprattutto recentemente, grazie a una diplomazia preparata e all’influenza di politici progressisti, di prendere posizioni moderate, temperando le risposte alle continue provocazioni israeliane. Eppure, secondo il colonnello statunitense D. Macgregor, si sta preparando un nuovo imminente attacco all’Iran. A nulla vale che Teheran in diverse occasioni, (me lo ha confermato pochi giorni fa l’ambasciatore iraniano in Italia, Mohammad Reza Sabouri) abbia comunicato di essere disponibile a rispettare gli obblighi del trattato sul nucleare del 2015, firmato e garantito dai 5 membri permanenti del Consiglio di Sicurezza più Germania e Europa. La posizione intransigente di Trump, uscito unilateralmente dal Tnp nel 2018, a cui si allineano le potenze europee E3, rimane la stessa. Non viene ammesso l’arricchimento di uranio, anche solo per scopi civili.

È ovvio che un Paese di 90 milioni di abitanti la cui economia dipende fortemente dall’energia nucleare non potrà accettare il diktat occidentale. Si ha purtroppo l’impressione che il nucleare iraniano sia concepito dagli occidentali come un’arma di destabilizzazione del Paese, oppure come alibi per gli illegali attacchi militari. La situazione in Medioriente è divenuta esplosiva come nella frontiera orientale dell’Europa. Russia e Cina alleate di Teheran evitano di assumere toni bellicosi, mantenendo ferma la loro posizione contraria alle sanzioni illegali verso l’Iran e garante degli obblighi del Jcpoa. Di fronte all’ottusità occidentale, non mi stupirei se Mosca e Pechino non si convincano rapidamente che l’unico modo di temperare la hubris della Nato sia fornire l’arma nucleare all’Iran e, in caso di attacco, di aiutare il paese militarmente. Siamo di fronte al nuovo capolavoro di una diplomazia europea inesistente.


Fiori rosa fiori di Peskov


(Marco Travaglio – Il Fatto Quotidiano) – Siccome l’attentato russo all’aereo di Ursula non era né russo né attentato, siccome il killer russo del leader Nato-nazista ucraino Parubij era un ucraino incazzato col suo governo, siccome lo sciame di droni fuori rotta abbattuti o caduti in Polonia aveva subìto eguale sorte in Bielorussia ed è improbabile che Putin bombardi il migliore amico per bombardare un nemico, e siccome i popoli europei continuano a opporsi alla guerra preventiva alla Russia, bisogna somministrare loro […]


Avanti così, verso il dirupo


Avanti così, verso il dirupo

(di Antonio Pitoni – lanotiziagiornale.it) – Ora che l’ha detto persino il ministro della Difesa, Crosetto, siamo tutti più tranquilli: “Non siamo pronti né ad un attacco russo né ad un attacco di un’altra nazione”. Ammesso che lo saremmo mai contro la prima potenza nucleare del pianeta. Ma preso atto dell’evidenza, il titolare del dicastero della guerra non demorde.

“Lo dico da più tempo – incalza -. La gente non vuole sentire parlare di necessità di difesa, ma io penso che il mio compito sia quello di mettere questo Paese nelle condizioni di difendersi se qualche pazzo decidesse di attaccarci”. Qualche pazzo tipo i polacchi che spingono l’escalation con Mosca, chiedendo agli alleati una No fly zone sull’Ucraina trasformandoci in bersaglio? O come Macron e Starmer, due leader sulla via del tramonto che, alla testa dei cosiddetti volenterosi, non vedono l’ora di inviare truppe al fronte per piombarci nella terza guerra mondiale?

Ma deposto per un attimo l’elmetto, Crosetto imbraccia subito il moschetto: “Come sentinelle dell’Est abbiamo già degli F-35, degli Eurofighter, oltre duemila soldati, siamo tra i primi contributori in assoluto nella Nato sul fianco Est e noi abbiamo anche il fianco Sud – argomenta -. Il contributo che abbiamo dato finora è abbastanza, se poi dovremo incrementarlo, e ci verrà formalmente chiesto, perché io ad oggi ho visto solo una dichiarazione di Rutte ma non una formale richiesta all’Italia, decideremo”.

Il collega Giorgetti trema solo all’idea. “Gli impegni internazionali connessi alle spese per la difesa e il sostegno all’Ucraina non sono gratis”, ma “sono un elemento nuovo che dobbiamo considerare”, ha avvisato domenica scorsa il ministro dell’Economia. Giustamente preoccupato che, tra impegni Nato (il 5% del Pil) e forniture militari/finanziarie a Zelensky, restino le briciole per la prossima Manovra. Rimane un mistero perché diavolo mai Mosca avrebbe lanciato i suoi droni – ipotesi peraltro smentita dal Cremlino – sui cieli polacchi avvicinando il “dirupo” che tanto preoccupa Crosetto.

Per l’analista Andrew Spannaus non ha senso: “Che vantaggio avrebbe Putin di attirare più F-35 in Polonia, e un rafforzamento delle difese aeree, quando da anni chiede esattamente il contrario?”. Qualcuno lo spieghi agli strateghi della Nato.


Israele entra a Gaza City in spregio a ogni diritto: ancora una volta il mondo sta a guardare


Amnesty International aveva messo in guardia già il 5 settembre: se Israele non avesse fermato il suo attacco, avrebbe avuto conseguenze catastrofiche e irreversibili

(Riccardo Noury Portavoce di Amnesty International Italia – ilfattoquotidiano.it) – Amnesty International aveva messo in guardia già il 5 settembre: se Israele non avesse immediatamente fermato il suo assalto su vasta scala a Gaza City e il progetto di sfollare centinaia di migliaia di persone e se nessuno nella comunità internazionale avesse fatto pressioni in tal senso, il già insopportabile livello di sofferenza della popolazione palestinese, alle prese con l’intenzionale campagna di riduzione alla fame e col genocidio, avrebbe avuto conseguenze catastrofiche e irreversibili.

E così è e sarà, in spregio a ogni norma del diritto internazionale e nel più totale disprezzo della vita umana.

A Gaza City si muore sotto i bombardamenti perché non si sa più dove andare, perché le persone affamate, ferite, malate o con disabilità non possono affrontare l’ennesimo trasferimento forzato.

Nei giorni scorsi il Comitato internazionale della Croce rossa aveva dichiarato che era impossibile, nelle attuali condizioni, un’evacuazione di massa da Gaza City in modo conforme al diritto internazionale umanitario. La maggior parte delle persone palestinesi Ã¨ stata già sfollata più volte e vive in campi di fortuna, fatiscenti e sovraffollati, privata dei beni più necessari. Molte persone non hanno alcun luogo sicuro dove andare o non possono muoversi a causa della malnutrizione o perché sono malate, ferite o hanno disabilità.

Secondo l’Ufficio delle Nazioni Unite per il coordinamento degli Affari umanitari, alla data del 27 agosto oltre l’86 per cento della Striscia di Gaza si trovava all’interno della zona militarizzata da Israele o era soggetta a ordini di sfollamento. L’esercito israeliano ha ordinato alle persone palestinesi di andare nella zona di al-Mawasi, nella Striscia di Gaza meridionale, già attaccata dalle forze israeliane. Le Nazioni Unite hanno dichiarato che la zona non è attrezzata per ospitare persone a causa della mancanza d’acqua, del sovraffollamento delle tende e della mancanza di cure mediche, a causa della decimazione del sistema sanitario causata da Israele.

Dunque, ancora una volta il mondo sta a guardare mentre Israele continua a sfidare i più elementari principi di umanità. Il tutto mentre l’Assemblea generale delle Nazioni Unite si accinge, dal 18 settembre, a riunirsi, impotente di fronte a una cesura storica: il passaggio dal concetto di diritti umani a quello del diritto del più forte.


Si vis pax: l’importanza del linguaggio


(Giulia Grilllo e L’Indispensabile – lafionda.org) – Nella questione riguardante il conflitto Israele-Palestina assistiamo ad un aumento esponenziale dei toni e del linguaggio di giorno in giorno. Botte e risposte sempre più forti, sempre più offensive e sempre più accusatorie. Tutte le parti coinvolte, e tutti coloro che decidono di coinvolgersi, utilizzano lo stesso meccanismo, la stessa logica: diciamo ciò che pensiamo sempre con più forza perché chi avrà più forza, avrà la meglio in questa disputa e quindi vincerà. Un partecipante ai processi di riconciliazione tenutisi dal 2009 al 2015 tra un gruppo di ex militanti dell’estrema sinistra italiana, che ha operato durante gli anni di piombo, e un gruppo di vittime, ha detto che all’epoca fare politica significava riuscire a fare un buco più grande in uno più piccolo e chi ci riusciva, vinceva (Bertagna, Ceretti and Mazzucato, 2015, pp. 109–110). Beh, in Italia sappiamo bene questo a cosa ha portato e nonostante ciò, utilizziamo ancora questo meccanismo, che vediamo tuttora in atto con qualunque cosa: il conflitto tra Russia e Ucraina, quello tra Israele e Palestina, quello tra no-vax e pro-vax e altri.

Chissà poi perché a nessuno sembra importare di tutta un’altra serie di conflitti, ad esempio in Sudan o in Congo o in Myanmar o ad Haiti (!!!) ed altri luoghi dove violenze e massacri vari si susseguono senza sosta da molto più tempo e prima degli anni 2020 – 2025. E non dico questo perché voglia fare una classifica dei morti o del dolore, affermando che alcuni sono più importanti di altri, anzi, proprio il suo esatto contrario. Ogni vita umana è uguale e ha pari dignità e ogni forma di danno o violenza contro essa, quindi contro la persona, è un atto grave, che deve essere compreso, nel senso che bisogna capire da dove derivi, ma che non si può né giustificare né minimizzare perché non esistono scuse per fare del male ad altri, neanche se si tratta dei vari Caini di turno (E giusto per essere precisi, nella nostra vita siamo stati e siamo tutti Caino e Abele allo stesso tempo, questo sarebbe bene tenerlo a mente, soprattutto quando ci sentiamo in dovere di diramare sentenze e condanne).

Ma tornando al punto, assistiamo ogni giorno ad urla sempre più forti, ad insulti sempre più forti, ad umiliazioni sempre più forti. Perché? Perché, alla fine, la logica impiegata è sempre la stessa, spesso anche da chi si dice lì per riportare la giustizia e la pace: se urliamo più forte, se umiliamo di più, se accusiamo di più allora avremo la meglio sul ‘male’ di turno, sul cattivo di turno – di nuovo, dimenticandoci che tutti siamo stati e possiamo essere nella nostra vita sia Caino che Abele; dr Jekyll e Mr Hyde.

Ma cosa sono la pace e la giustizia? Ce le poniamo davvero queste domande? E se sì, ci diamo davvero delle risposte serie e vere o ci diamo risposte che giustifichino e minimizzino le nostre azioni e quelle di coloro che identifichiamo come nostri ‘amici’ o dalla ‘nostra parte’, puntando invece i riflettori sugli altri e sulle azioni di altri? E che parole usiamo quando denunciamo ciò che è male, quando portiamo alla luce le ingiustizie? O anche quando parliamo a noi stessi? Usiamo parole che costruiscono la pace, che disinnescano la violenza, che spezzano la spirale ascendente di toni aggressivi o utilizziamo parole che invece fomentano le divisioni, le polarizzazioni e quindi la violenza e la guerra? Le parole non sono vuote, non sono neutre, hanno un peso molto forte e, come hanno detto in tanti, hanno il potere di costruire mondi (Goodman, 1978; Rosenberg, 2003; Sclavi, 2003). Mondi che appunto non sono neutri, ma rispecchiano ciò che le parole usate hanno voluto comunicare; gli obiettivi che le parole usate volevano raggiungere.

Allora chiediamoci: che cosa voglio comunicare? Qual è l’obiettivo che voglio raggiungere? Quando parlo di pace e di giustizia, che cos’è che intendo veramente? Sto cercando di vendicarmi dell’altro o sto cercando di ricomporre i pezzi di un vaso che si è rotto? E se il mio scopo è la ricomposizione di un vaso rotto, le mie parole e le mie azioni consequenziali mi stanno avvicinando a questo obiettivo o stanno invece rompendo il vaso ancora di più?

Fermiamoci a riflettere, dunque; prendiamoci del tempo per capire quali sono i nostri obiettivi, se è la pace e la giustizia che vogliamo o se invece sono la vendetta e la sopraffazione dell’altro che ci sta antipatico cui aspiriamo e che mascheriamo con parole quali pace, giustizia, diritti umani e simili. Fermiamoci e riflettiamo senza cadere nella trappola della fretta e dell’urgenza perché la fretta è cattiva consigliera – e non è solo un modo di dire, ma un dato di fatto. Tutti abbiamo ragioni per urlare, anche quelli che noi consideriamo essere in torto e ‘cattivi’, proprio tutti, sì. Ma aiuta? Sta aiutando? O forse è arrivato il momento di uscire dai questi soliti schemi e logiche, questa volta per davvero.

Bibliografia

Bertagna, G., Ceretti, A. and Mazzucato, C. (2015) Il libro dell’incontro. Vittime e responsabili della lotta armata a confronto. Guido Bertagna, Adolfo Ceretti and Claudia Mazzucato. Milan: ilSaggiatore.

Goodman, N. (1978) Ways of Worldmaking. Hassocks: Harvester Press.

Rosenberg, M.B. (2003) Le parole sono finestre [oppure muri]. Introduzione alla comunicazione non violenta. Reggio Emilia: Edizioni Esserci (Dire, fare, comunicare).

Sclavi, M. (2003) Arte di ascoltare e mondi possibili. Come si esce dalle cornici di cui siamo parte. Milan: Bruno Mondadori (Sintesi).


Erdogan: “Ideologicamente, Netanyahu è come un parente di Hitler”


(ANSA) – Il presidente turco, Recep Tayyip Erdogan, è tornato a paragonare il premier israeliano Benjamin Netanyahu ad Adolf Hitler. “Ideologicamente, Netanyahu è come un parente di Hitler”, ha detto Erdogan, come riferisce Anadolu.

“Proprio come Hitler non poteva prevedere la sconfitta che lo attendeva, Netanyahu affronterà lo stesso destino finale”, ha aggiunto il leader turco una volta rientrato in Turchia dopo avere partecipato al vertice della Lega Araba e dell’Organizzazione per la cooperazione islamica di Doha, convocato dopo l’attacco di Israele contro la capitale del Qatar contro una delegazione di Hamas.

Erdogan ha definito l’attacco “una palese sfida all’ordine internazionale e al diritto internazionale” e ha affermato che la leadership israeliana ha “trasformato la propria mentalità radicale in nient’altro che una rete omicida costruita sull’ideologia fascista”.


Salvini difende Vannacci (che diserta i Federali Lega) e il generale prepara la presa di Pontida


In Toscana l’europarlamentare usa come slogan “La Lega svolta a destra”, viene coperto da Salvini, e alle riunioni della Lega manda il suo collaboratore (che impone nel listino bloccato). A Pontida i vannacciani con le felpe “Make Pontida great again”

(Carmelo Caruso – ilfoglio.it) – Roma. Si sta rassegnando a fare il vice Vannacci, Salvinacci, Salvini l’aiutante. Lo copre, lo difende, lo sposa. In Toscana gli lascia usare lo slogan elettorale, “La Lega svolta a destra”; ai leghisti che scappano, per colpa del generale, replica: “C’è tanta gente che in Lega entra e anche qualcuno che può prendersi del riposo” perché “Vannacci è un valore aggiunto”. E’ così aggiunto che da vicesegretario non si presenta ai federali. Al suo posto ha  mandato recentemente  il factotum speciale Massimiliano Simoni, lo stesso che  ha imposto in Toscana nel listino bloccato. A Pontida vuole far sfilare i suoi vannacciani con le felpe, “Make Pontida great again”.  E’ l’Arlecchino del nuovo caos. 


Si è vannaccizzato per intero anche Salvini. Garantisce che lo fa da fisico, da scienziato, per esperimento. Pensa Salvini: se in Toscana va male Vannacci finisce la bolla Vannacci; se va bene Vannacci (e vedrete) insieme, costruiranno Casa Vannacci al posto di Casa Pound. Si sono presentate ieri le liste della Lega in Toscana e Salvini ha partecipato di persona, a Firenze,  ha  dichiarato: “Il dibattito sulla vannaccizzazione della Lega interessa solo ai giornalisti” perché “in Toscana, casa sua, è giusto che Vannacci abbia voce in capitolo”.

Ormai non si capisce dove finisce Salvini e inizia Vannacci, si sovrappongono. Vannacci spiega: “Il clima che si è creato, dopo l’omicidio Kirk, è una cosa vergognosa e purtroppo devo constatare che la violenza è sempre a sinistra”,  Salvini annuisce, si traveste da pedagogo: “Andrò nelle scuole e nelle università a parlare con i ragazzi”. Alla presentazione mancava l’europarlamentare Susanna Ceccardi, mancavano i leghisti toscani che sono stati estromessi dal generale, consiglieri che hanno versato in questi 5 anni fino a 135 mila euro al partito.  Sono le liste bollinate da Vannacci e che la segretaria della Lega Viareggio, dimissionaria, ha definito, “da pulizia etnica”. Hanno chiesto a Vannacci delle esclusioni e il generale ha fatto  spirito: “In Lega tutti potevano correre. Candidarsi non è né un premio né una rendita di posizione”. E’ infatti un privilegio che Salvini ha concesso solo al suo factotum, questo Simoni, collaboratore personale di Vannacci a Bruxelles, che il generale invia, in missione, perfino ai federali di partito.  Sono i leghisti a dirlo: “E’ come se Luca Zaia o Attilio Fontana si facessero sostituire dai loro collaboratori. Da quando?”.

Oggi pomeriggio, alle 17, si tiene un nuovo federale: chi manda Vannacci? Simoni o un ologramma? E’ per Simoni che si è deciso (Salvini era contrario) di usare in Toscana il listino bloccato, scelta che ha provocato la fuga degli iscritti. Racconta al Foglio, Fabio Filomeni, il primo dei vannacciani (anche il primo a separarsene) “che tanti seguaci di Vannacci stanno rimproverando al generale la scelta di entrare nella Lega. L’unione fra  Vannacci e Salvini è stata un matrimonio d’interesse ma adesso nuoce a entrambi”. La Lega antica non ha mai avuto niente a che fare con la destraccia, che Meloni ha messo ai margini.

Anche Claudio Durigon, al sud, in Calabria e Sicilia, ogni volta che viene fermato, dice: “Io non c’entro niente con i fascisti. Io sono un leghista e democristiano”. Prima che Salvini consegnasse a Vannacci la campagna elettorale Toscana (e chissà cosa altro ancora) l’europarlamentare “no vannax” Ceccardi, raccontano a Firenze, suggeriva: misuriamoci, fai correre Vannacci in tre collegi e in altri tre fai correre me. Vediamo chi porta più voti. La risposta è stata ‘no’ perché Vannacci è un generale, ma non ci mette la faccia (non è candidato).  Lui mette solo faccioni nei poster dei vannacciani. Attilio Fontana, il Cambronne di Varese, l’autore del “col cazzo che vannaccizziamo la Lega”, si chiede in queste ore: “Vannacci a Pontida? Non lo so? So solo che Pontida è la festa della Lega”. E invece Vannacci parlerà, già sabato pomeriggio, alla festa dei giovani (nelle stesse ore ci sarà l’altra, quella dei giovani FdI, e c’è da scommettere che sarà un’occasione per riabilitarsi, tanto più con   Vannacci come termine di paragone). Non parlerà Ceccardi, non lo farà l’altra vicesegretaria Lega, Silvia Sardone. Tutto il carnevale deve essere suo. Per tenerlo buono prenderà la parola Salvini, per primo, e seguiranno due interviste: una a Vannacci e l’altra al ministro Valditara. Attenti, c’è del metodo. L’ultima vestaglia che Vannacci intende indossare a Pontida è quella del Bossi con la cernia, il generale finto padano. Teme contestazione, da parte dei leghisti veneti, e prepara una sorpresa, la contromossa. Il suo manipolo prepara queste  felpe:   â€œMake Pontida Great again”. Sogna, ma non lo dice ancora, i cortei al nero di seppia, quelli di Londra (Matteo Renzi ha scritto: “Occhio: se Vannacci fa come Farage, Meloni va a casa. Meloni alimenta la paura perché lei ha paura”). Pontida 2025? O diventa Predappio o la Vannacciexit.


Libertà dalla stampa


(Alberto Ferrigolo- professionereporter.eu) – “Tutti, quasi tutti i presidenti del Consiglio, in generale, hanno avuto controversi rapporti con la stampa”. 

Così Filippo Ceccarelli, giornalista e commentatore di Repubblica e di “Propaganda Live”, memoria storica e archivistica del giornalismo politico italiano, commenta le Dieci domande pubblicate da Professione Reporter il 31 agosto, recapitate direttamente alla premier Giorgia Meloni il 23 agosto senza avere ottenuto risposta, circa i suoi rapporti con la stampa e la volontà di non voler parlare con i giornalisti, come captato da un fuori onda a Washington il 18 agosto nel corso dell’incontro della delegazione europea con il presidente degli Stati Uniti Donald Trump.

Dunque nessuno si salva? Quali casi ricordi di Premier contro la stampa”?

“Ricordo D’Alema, Craxi che querelò il direttore del Corriere della Sera Alberto Cavallari, penso a De Mita che querelò Montanelli, il più importante giornalista italiano. E poi Renzi, Letta, Draghi che, da tecnico, ha fatto poche conferenze stampa”.

E D’Alema, in particolare?

“Come Sartre parlò dei giornalisti come ‘jene dattilografe’ in una memorabile intervista a Lucia Annunziata per Prima Comunicazione, e disse che i giornali ‘bisogna lasciarli in edicola…’”. 

Meloni dunque non è un’eccezione?

“Onestamente, allungando un po’ il tavolo della storia, non direi che Giorgia Meloni sia così speciale. Certo, la sua origine politica potrebbe fare intendere…, ma mi sembrerebbe attardante come risposta… Aggiungo anche un pensiero che spero non venga frainteso, ma credo che i giornalisti debbano essere una cosa diversa dai politici. Mantenere una distanza. Meloni ha fatto delle conferenze stampa fiume. Ne ricordo una in cui a un certo punto è sbottata: ‘Regà, devo andà al bagno’. Non ce la faceva più”.

Quindi è normale che una presidente del Consiglio si rifiuti di parlare con la stampa o si scelga i giornali a cui dare le interviste?

“Loro, i politici, osservano un criterio di convenienza nei confronti dell’informazione. In certi momenti non vogliono parlare perché sanno che combinerebbero soltanto dei casini se parlassero, oppure parlano per strada in velocità. Questa alzata di scudi su Meloni che ha un cattivo rapporto con i giornalisti è un po’ forzata, occasionale. C’è un fuori onda in cui lei dice ‘io non ci parlo proprio mentre a lui piace’ riferito a Trump durante l’incontro alla Casa Bianca”.

Tutto era cominciato con “L’Agenda di Giorgia”, video senza intermediazione, che poi s’è diradata negli appuntamenti. Che fine ha fatto?

“Direi che l’Agenda si è un po’ persa. È chiaro che è un ruolo cruciale quello della comunicazione oggi per chi governa e lo dimostra, anche a Palazzo Chigi, la girandola di portavoce, di voci. E c’è questo e poi non gli va più bene quello e quindi l’ha chiesto a quell’altro e quell’altro c’è andato, ma poi se n’è andato a fare il direttore di Libero, però adesso ce ne vuole un altro ancora. Ci sono delle logiche che sovraintendono a non so che cosa, ma la vera partita si gioca li dentro, nella comunicazione.

Quindi necessariamente Giorgia Meloni non parla quando sente che non le conviene. Quando decide di fare la conferenza stampa, o anche fa finta che sia tale, ma una volta in Tunisia ne fece una senza giornalisti che le ponessero le domande, sola davanti a un leggio. Oppure fa la prolusione o il video o l’intervento social, nel frattempo filtrano pure le foto di lei che sta sulla barca a fare il rafting”.

Ti pare normale?

“Diciamo che il ruolo di mediazione dei giornalisti che abbiamo conosciuto, che abbiamo fatto in tempo come generazione a conoscere, è saltato. È qualche cosa che forse non attiene al singolo Presidente del Consiglio che arriva a Palazzo Chigi, ma fa parte di questo tempo, della rivoluzione tecnologica. Il pensiero che il politico debba necessariamente rispondere al giornalista, per altro poi dicendo una dubbia verità, non è nel novero delle cose certe.

Naturalmente chiunque abbia una concezione minimamente realistica delle cose sa che a volte è pure meglio che stiano zitti piuttosto di dire sciocchezze. Però non penso che lei sia speciale rispetto agli altri che l’hanno preceduta nello stesso Palazzo. Penso che chi arriva al potere ha a che fare con i giornalisti e stabilisce più o meno dei rapporti, a seconda dei momenti, dei tempi, di varie cose”.

Poi c’è tutta la storia di Berlusconi, su cui tu hai scritto un poderoso voluminoso libro (“B. Una vita troppo”)…

“Berlusconi, a proposito, non è mai andato nemmeno a fare il question time. E lui, va ricordato, ha cominciato la sua discesa in campo proprio con una cassetta registrata mandata a tutte le tv, un monologo, una firma.

E poi le ‘dieci domande’ di Giuseppe D’Avanzo in cui non s’è mai capito se lui ha risposto oppure no, però ha fatto causa a la Repubblica e il giornale è stato assolto. Ma è tempestoso, e vivaddio ha da esserlo, il rapporto tra i giornalisti e Palazzo Chigi, il governo, il potere. Sempre un bel guazzabuglio”.

Insomma, al fondo non te la senti di dire che Meloni sbaglia nel suo atteggiamento con la stampa e i giornalisti in genere?

“Onestamente, sarei più per un approccio problematico che non scandalizzato. Il passato non dice che lei è particolarmente contro i giornalisti, ci sono tanti altri precedenti come abbiamo visto.

Se tu pensi che anche soltanto a livello giudiziario le cause fatte dai Presidenti del Consiglio in carica sono Craxi contro Cavallari, De Mita contro Montanelli, Berlusconi contro la Repubblica, D’Alema contro Forattini, la satira, mentre Meloni ancora non mi pare che abbia fatto la voce grossa. Aveva querelato il professor Luciano Canfora che l’aveva definita ‘neonazista nell’anima’, ‘una poveretta’, ma poi ha ritirato la querela. Poteva farlo anche con Roberto Saviano, peccato, ma c’è ancora tempo”.


Israele e la violenza di stato


(Tommaso Merlo) – Altro che violenza social, siamo alla violenza di stato e pure a livelli inauditi. Ormai Israele è una associazione a delinquere di stampo sionista assetata di sangue. Quello che ha sempre fatto ai palestinesi, oggi lo sta facendo all’intera regione mediorientale. Dopo aver sterminato l’intero governo dello Yemen in riunione e mentre sta radendo disumanamente al suolo perfino Gaza City affollata di civili allo stremo, Netanyahu e i suoi complici hanno tentato di ammazzare i negoziatori di Hamas in Qatar. Un emirato alleato degli americani con tanto di mega base militare, lo stesso che ha regalato a Trump il mega jumbo da 400 milioni di dollari. Vai a fidarti dei politicanti. Ormai Netanyahu e Trump lavorano in coppia, gli americani aprono tavoli di trattativa e quando arrivano i negoziatori Israele bombarda tutto. Lo hanno fatto con gli Hezbollah a Beirut, con l’Iran attaccato a tradimento mentre trattava a Roma sul nucleare e adesso in Qatar. Un duo rodato. Trump per dire, è quello che ha ordinato l’assassinio di Soleimani a Teheran anni fa e quello che di recente invece di intercettare legalmente una barca proveniente dal Venezuela, l’ha bombardata uccidendo 11 persone fregandosene altamente. Senza parla dello schieramento dell’esercito contro gli immigrati ed i suoi stessi cittadini. Violenza di stato di cui i sionisti rimangono insuperabili, uccidere i leader politici contrari al loro progetto coloniale, è un loro chiodo fisso. Qualcuno gli ha messo in testa la panzana che le idee crepano con chi le pensa. Funziona così, chi è conto di loro è un terrorista a prescindere e quindi degno di essere annientato mentre loro sono un popolo eletto che ha dato vita ad una democrazia liberale modello costretta a sporcarsi le mani di sangue per tutti noi occidentali, un nobile sacrificio che compiono in difesa della nostra superiore civiltà e che gli dà diritto a piena impunità e supporto incondizionato. Barzellette propagandistiche più tristi della realtà. I sionisti la pace non l’hanno mai voluta, quello che vogliono è il dominio sulla regione. Soggiogando con la violenza bruta non solo i palestinesi, ma tutti i popoli limitrofi che ormai bombardano a piacere come se la Grande Israele fosse già realtà e non un loro delirio ideologico. Solo negli ultimi due anni hanno bombardato otto paesi sterminando di tutto, dai governanti fino a decine di migliaia di civili inermi. Una carneficina immane che dura da decenni e compiuta con la complicità politica e miliare della superiore civiltà occidentale paladina della pace, dei diritti umani e che detesta la violenza in politica. Barzellette propagandistiche più tristi della realtà. Biden si era definito sionista e si era beccato il nomignolo di “genocide Joe”, ma Trump è peggio. È un viscido inserviente di Netanyahu a cui ha lasciato carta bianca. Anche in Yemen e Qatar visto che da quelle parti non vola una mosca senza autorizzazione dei Marines. Come se davvero nei famosi Epstein file vi siano le prove di quando il rampollo Trump molestava ragazzine. Tempi in cui Trump si lasciava andare alle sue perversioni come se non credesse che la democrazia fosse così corrotta da permettere perfino ad una canaglia come lui di diventare presidente. Si è fatto eleggere promettendo trasparenza sullo scandalo di pedofilia peggiore della storia americana, ed invece lo sta insabbiando perché è dentro fino al collo insieme a miliardari che hanno finanziato la sua campagna elettorale in un giro ricattatorio dalle ombre sioniste ancora tutto da decifrare. Mafia lobbistica che prevale perfino sul dolore delle vittime e la giustizia. Una crisi democratica davvero spaventosa. Soldi che si sono comprati tutto, perfino la dignità, perfino la verità storica. Almeno per adesso. In Occidente come in Medioriente dove a seguito dell’inaudito attacco in Qatar, il mondo arabo si è riunito d’urgenza condannando duramente. Hanno paura di uno stato paria assetato di sangue che può potenzialmente colpire chiunque. Hanno usato parole forti ma bisogna vedere se passeranno ai fatti occupandosi finalmente di quella che in fondo è casa loro e smettendola d’inchinarsi all’inciviltà occidentale. Hanno comunque capito il punto, una ideologia omicida fuori controllo è un pericolo per tutti. Anche per noi, anche per i paesi occidentali perché saltata la comunità internazionale possiamo tutti finire nel mirino della violenza sionista il giorno in cui gli volteremo le spalle. Altro che violenza social o sui marciapiedi, siamo alla violenza di stato e pure a livelli inauditi.


Mastella: “Fico si calmi, i candidati in Campania non li può selezionare un pool di ex magistrati”


L’ex ministro (come De Luca) contro il candidato presidente che vuole vagliare le liste. Nella sua “Noi di centro” gli chiedono di inserire alcuni candidati: “Non se ne parla. I grillini mi odiano, ma non pensate che ai miei piaccia Fico”

(Gianluca De Rosa – ilfoglio.it) – “Ma siamo matti?”. Clemente Mastella non ci sta. L’ex ministro della Giustizia ed eterno sindaco di Benevento sta preparando la lista di Noi di centro a sostegno della candidatura dell’ex grillino e oggi contiano Roberto Fico in Campania. A Mastella però non va giù l’idea dell’ex presidente della Camera di istituire una commissione di ex magistrati – i nomi che girano sono quelli dell’ex procuratore aggiunto ed ex presidente del Pd di Napoli Paolo Mancuso e dell’ex capo della Direzione nazionale antimafia, oggi deputato del M5s, Federico Cafiero De Raho – che dovrebbero occuparsi del controllo sui candidati delle diverse liste che supportano la candidatura di Fico.


“A me – dice Mastella – non va di essere giudicato una volta dai giudici in carica, un’altra da illustri ex magistrati. Con tutto il rispetto, lo dico da ex ministro, questa storia è un’assurdità. Non può esserci questa pudicizia moralistica. Ricordo come in passato sia mia moglie Sandra, sia il presidente De Luca finirono nella famosa ‘lista degli impresentabili’ stilata dalla commissione Antimafia, all’epoca presieduta da Rosy Bindi. Entrambi ovviamente per vicende che finirono nel nulla, ma che servirono ai loro avversari politici ad additarli. Fu una schifezza incredibile alla quale la Bindi si prestò e che non credo debba essere replicata”. Questa vicenda è stata ricordata anche dal presidente De Luca negli scorsi giorni che, come lei, è contrario all’istituzione di questa commissione. Non è giusto però che il candidato presidente possa mettere bocca sulle persone che lo sostengono? “Guardi, fare una commissione per valutare le candidature va anche bene, ma deve essere fatta con una composizione mista, dove c’è la politica. Poi va bene anche inserire qualche ex magistrato, ma non possiamo appaltare queste scelte solo a chi ha svolto un ruolo in magistratura. Bisogna valutare caso per caso, procedimento giudiziario per procedimento giudiziario. E’ chiaro che se una persona ha collegamenti con la camorra deve restare fuori, ma non si può fare di tutta l’erba un fascio. Anche perché io sono sempre per rispettare le regole, ma se ci sono devono valere per tutti”. A cosa si riferisce? “Penso ad esempio alla Calabria dove Avs voleva candidare come consigliere Mimmo Lucano. A fermarlo però non è stata una commissione di illustri ex magistrati, ma la Corte d’Appello che gli contesta la legge Severino. E ancora – prosegue Mastella – penso al mio amico Nichi Vendola. Anche lui qualche problemino giudiziario lo ha. Io penso sia giusto debba essere candidato, ma perché il discorso che vale per lui in Puglia non dovrebbe valere anche per altri in Campania? Se c’è una regola deve essere rigorosa, non è che può cambiare a seconda delle circostanze”.

Pensa che Fico tema alcuni dei vostri portatori di voti, intendiamo suoi e di Vincenzo De Luca? “Ma non lo so – risponde Mastella –, non faccio processi alle intenzioni, certo di questo passo finirà che Fico prenderà meno voti della coalizione che lo sostiene, una cosa mai vista in un’elezione regionale. La verità è che a queste elezioni in Campania e Puglia il centrodestra non esiste, altrimenti sarebbero cavoli amari. Invece in queste condizioni ci si è potuto permettere tutta questa vanità e ipocrisia all’interno del centrosinistra”. E qui Mastella prende a parlare delle richieste che sono arrivate a lui sulla sua lista dal resto della coalizione: “Vorrebbero che io metta alcuni candidati che non mi piacciono. Ma perché dovrei farlo? Perché dovrei portare i miei voti a candidati degli altri? Alcuni non sanno dove andare, ma portano voti, mi dicono. Amen, io ne porto di più. Anche perché oltre a un partito noi portiamo amministratori dalle province, non posso mica litigare con i miei per mettere dentro qualcun altro”. Ne ha parlato con il candidato presidente? “Giovedì ci sarà una riunione programmatica con lui e ovviamente se si farà cenno a tutte queste cose io non potrò non dire la mia, non posso mettere candidati che mi fanno litigare con i miei”. Perché teme questo litigio? “Io sto sulle palle al mondo della sinistra e dei cinque stelle, ero uno dei bersagli di Grillo nelle piazze dei Vaffa, ma non pensate che Fico non stia sulle palle ai miei, che non voterebbero mai per lui se non ci fossi io? E però io faccio questa operazione politica, di lungo raggio, guardo davanti e non ai lati, supero dei dissidi sul piano personale, persino atteggiamenti di crudeltà politica ai mie danni, per il bene della coalizione. Ma anche gli altri devono fare lo stesso”.


Il vuoto americano


L’idea e l’identità. Le sue istituzioni minacciano di dissolversi nel caos feroce dei partiti, delle fazioni e delle culture contrapposte

(di Ernesto Galli della Loggia – corriere.it) – L’assassinio di Charlie Kirk, l’odio feroce che esso testimonia e il truce scambio di accuse tra trumpiani e antitrumpiani che ne è seguito ripropongono la domanda che da tempo gli europei e non solo si pongono: che cosa è accaduto negli Stati Uniti che ha sconvolto nel modo brutale che è sotto i nostri occhi la loro vita pubblica, il loro ruolo politico, e la loro immagine? Che cosa è successo di così devastante da rendere irriconoscibile quell’America che in tanti abbiamo amato e ammirato?

In realtà Ã¨ la stessa grande storia di quel Paese che in qualche modo si ritorce contro se stessa. La storia degli Usa è una storia assai diversa da quella dei Paesi europei. A differenza di questi — costituitisi per effetto di una lunga e tormentata vicenda che nei secoli ne ha plasmato l’identità — gli Stati Uniti, invece, sono nati come Stato e come nazione in conseguenza di un’audace operazione rivoluzionaria di natura tutta ideologica. Essi sono nati, potremmo dire, come uno «Stato ideologico» (o se si preferisce uno Stato intimamente legato a un mito politico). L’ideologia era quella racchiusa nella dichiarazione d’Indipendenza e nella Costituzione del 1787 (tuttora in vigore: un caso unico al mondo), costruita intorno a due caposaldi.

Da un lato, un’idea radicale di libertà dell’individuo-cittadino, un’idea della libertà in quanto strumento anche del successo e della felicità personali, e dall’altro una profonda ispirazione religiosa fondata sul retaggio biblico-protestante che affidava alla nuova comunità una missione profetico-salvifica di portata mondiale («A Nation under God», una nazione sotto Dio, come un tempo si proclamava nel giuramento ufficiale di fedeltà agli Stati Uniti). Fino a ieri essere americani ha significato credere in Dio e nella libertà: sostenere i principi fondamentali dell’etica giudaico-cristiana (non importa secondo quale confessione religiosa, magari anche essendo atei…) e insieme i principi del governo rappresentativo e della «rule of law».

Proprio questa fortissima, compatta e onnipresente natura ideologica ha reso possibile la straordinaria capacità degli Usa di crescere assorbendo senza strappi ondate enormi di immigrazione. Non importava dove si fosse nati, quali memorie o quale lingua ci si portasse dietro. Per diventare ed essere americani bastava riconoscersi nella sua ideologia costitutiva, nei suoi principi e nella sua missione. Una bandiera a stelle e strisce piantata davanti casa attestava la fede del nuovo venuto nel destino americano. Una fede condivisa praticamente dalla generalità dei cittadini: ci si poteva dividere tra sostenitori di una sua versione più conservatrice o più progressista, ma l’identità ideologica — e dunque alla fine anche culturale dell’insieme — restava intatta e saldamente comune.
E quando è suonata l’ora fatale — è bene non dimenticarlo — quell’idea e quella saldezza hanno salvato il mondo. Senza gli Stati Uniti, oggi a Pechino siederebbe un proconsole nipponico, le terre da Vladivostok agli Urali costituirebbero una grande riserva di manodopera schiavistica per l’Impero hitleriano esteso dal Dniepr all’Atlantico, e l’islamo-fascismo dominerebbe la Mezzaluna Fertile.

Ma dopo due secoli, a cominciare dalla seconda metà del ‘900, la fede condivisa nell’idea americana di cui dicevo ha cominciato a sgretolarsi. La guerra scatenata dalle minoranze in cerca di riconoscimento (neri, donne, omosessuali, gender) contro il passato nazionale — dipinto da Cristoforo Colombo in poi come un ammasso di nequizie, di razzismo, sessismo ed oppressione — è stata fatta propria, divulgata e amplificata dai settori cruciali dell’intellettualità, dell’istruzione, dei media e dello spettacolo (spesso per pura pavidità conformistica). Tutto ciò che sapeva del passato suddetto è divenuto quasi segno di colpa e di vergogna, senza che si levasse con forza alcuna voce potente e autorevole a porre un freno. Perfino la statua di Lincoln ha fatto le spese di una tale furia iconoclasta: di cui è immaginabile l’effetto devastante sulla parte più conservatrice del Paese ma insieme anche sui più larghi strati dei «semplici» e degli incolti (cioè della maggioranza degli elettori) educati al più tradizionale patriottismo. Una parte di americani si è trovata ad abitare in un Paese irriconoscibile che non era più quello in cui erano nati.

Non basta. Sempre a cominciare dalla seconda metà del ‘900 le grandi trasformazioni culturali della modernità, insieme all’incalzare travolgente delle novità sia tecnologiche che della struttura capitalistica, hanno provveduto a svuotare e distruggere gli antichi valori del legame comunitario, dell’individualismo benevolo e intraprendente, del «self help», fin dall’inizio cuore e sangue della società americana. Al tempo stesso la secolarizzazione minava inesorabilmente quella presenza del «sacro», del suo pathos unificante, che da sempre aveva costituito una gigantesca risorsa simbolica sulla quale il Paese aveva costruito la sua identità e il suo destino. Pezzo per pezzo, insomma, l’idea americana è andata perdendo la propria essenza vivente. L’idea americana è diventata un involucro vuoto.

Ma una volta priva di quell’idea l’Unione — la quale è nata proprio muovendo da essa e facendone la sua ragione d’essere — l’Unione che è nata per l’appunto come «Stato ideologico» e tutto politico, fatica a reggersi in piedi. E infatti sotto i nostri occhi lo Stato e le sue istituzioni minacciano di dissolversi nel caos feroce dei partiti, delle fazioni e delle culture contrapposte che non riescono a riconoscersi più in nulla capace di tenerli realmente insieme. Se è consentito un paragone ardito e da prendere con beneficio d’inventario viene da pensare che così come la progressiva inagibilità storica del comunismo ha voluto dire la fine dello Stato sovietico, cresciuto con esso e grazie ad esso, altrettanto, pur con le ovvie differenze, possa accadere in futuro a quello americano. Ma se così fosse, allora l’augurio migliore che per quel giorno noi, spettatori lontani ma in realtà vicinissimi, potremmo farci sarebbe io credo uno solo: quello di non esserci.


Noi contro loro


(di Massimo Gramellini – corriere.it) – Quando durante il concerto di Wembley il cantante dei Coldplay ha invitato il pubblico ad alzare le mani per mandare un abbraccio di amore alla famiglia del trumpiano assassinato Charlie Kirk, lo stadio lo ha sommerso di «buu» e i social di insulti. 

In fondo gli è andata bene. Qualcun Altro ci aveva provato duemila anni fa ed è stato messo in croce. Forse Â«ama il tuo nemico» non è mai stato lo spirito di nessun tempo, ma certamente non lo è di questo, consacrato alla rabbia e alla frustrazione, più ancora che all’odio. Si tratti di armi o di parole, la regola è sempre la stessa: reagire colpo su colpo. Offendere, minacciare, infangare sono diventati sintomi di vitalità, elogiati anche da illustri opinionisti. Se ti astieni dal praticarli, passi per un ipocrita, un privilegiato, un venduto. Per un debole, se proprio ti va bene.

Non c’è più spazio (ma c’è mai stato?) per chi vuole ascoltare le ragioni degli altri, perché la scena è occupata dagli ultrà del derby permanente: Noi contro Loro. Dove tutti – compresi certi Capi di Stato o di governo che in teoria dovrebbero parlare a nome della collettività – si sentono di una parte sola, quella giusta, quella dei buoni e delle vittime. Lo ha ribadito ieri il generale Vannacci (e prima di lui tanti altri di entrambe le curve): la violenza non riguarda mai Noi, è soltanto opera Loro. Senza rendersi conto che già questa affermazione è una forma di pregiudizio, quindi di violenza.


Cacciari: “Una balla dire che la violenza sta a sinistra. I toni causati dai conflitti”


Il filosofo: “Negli Usa male endemico: lì uccisi presidenti e leader politici. Qui solito anticomunismo incendiario della premier

Massimo Cacciari

(di Annalisa Cuzzocrea – repubblica.it) – Massimo Cacciari non è sorpreso dalle invettive di Giorgia Meloni contro la sinistra, sulla base di un inesistente legame con la violenza politica americana. Né dell’avviso del vicepremier Antonio Tajani che evoca il terrorismo e l’omicidio Calabresi. «I toni incendiari di certi settori dell’ideologia o della politica di destra in Europa e negli Stati Uniti nei confronti delle cosiddette sinistre è storia vecchia come tutto il ‘900».

Non crede che un attacco del genere, preparato a Palazzo Chigi e su basi inesistenti, sia inaudito?

«Si tratta del solito anticomunismo violento e incendiario. Forse i settori della destra di cui le dicevo sono diventati preponderanti».

È una possibilità, ma possiamo paragonare quel che accade oggi nel nostro Paese con quanto sta accadendo in America in quanto a violenza politica?

«No perché dovremmo sapere bene che negli Stati Uniti si tratta di un male endemico: hanno ucciso presidenti come John Fitzgerald Kennedy, candidati presidenti come Robert Kennedy, hanno ucciso Martin Luther King e Malcolm X, hanno tentato di uccidere Reagan, poi Trump».

Tutto questo, secondo la presidente del Consiglio, viene da sinistra.

«Che sia a sinistra sono balle, è pura ideologia. Io credo non si possa in questo caso parlare di destra e sinistra, perché il problema è la situazione politica generale. È quel che accade nel mondo che fa sì che queste manifestazioni d’odio, e anche questo linguaggio d’odio, deflagrino».

Si riferisce alle guerre in corso e all’inerzia con la quale vanno avanti?

«In una dimensione di eterno conflitto le parole d’odio diventano particolarmente pericolose e sintomatiche. Il linguaggio è il sintomo di una situazione più generale in cui è venuta meno perfino la deterrenza atomica. Tutti parlano di guerra come fosse qualcosa che è nella fisiologia dell’agire politico, e questo rende particolarmente significative le esternazioni d’odio».

Che sarebbero il sintomo di quale malattia?

«Di una politica che ormai si concentra esclusivamente sulla soluzione militare».

Non è fuori misura evocare il delitto Calabresi sulla base di qualche fischio alla festa dell’Unità di Torino contro il ministro Zangrillo?

«A essere esagerata è la situazione generale, parliamo di cose serie non di Tajani!».

Che è comunque il ministro degli Esteri e dovrebbe forse per primo stare attento alle dichiarazioni incendiarie, o no?

«Nella situazione di cui io le parlo, il moltiplicarsi di voci alla Tajani o alla Meloni è segno che il grave sta diventando sempre più grave».

Come si risponde?

«Bisogna cominciare a fare un discorso di ragionevolezza, costruire dei percorsi di pace per i conflitti in corso. Prima di tutto, fermare l’eterna guerra civile europea perché prima o poi capita una Sarajevo, il patatrac che nessuno vuole, ma che sarà inevitabile se non cerchiamo di ragionare. Ha mai visto, in una situazione di guerra, dilagare un linguaggio diverso da quello dell’odio?».

No, ma probabilmente negli Stati Uniti c’è un elemento in più che è il culto delle armi proprio della destra e soprattutto della destra Maga trumpiana.

«Anche quello è un aspetto caratteristico della cultura americana che riguarda grandi aree del Paese, a meno che non continuiamo a pensare che gli Stati Uniti siano New York e Hollywood».

Quando parla di guerra civile europea, si riferisce all’Ucraina?

«Più guerra civile di quella».

Una guerra cominciata con l’aggressione della Russia contro uno Stato sovrano.

«Certo che è stata un’aggressione perché i due Paesi erano divisi, ma le guerre europee sono state tutte guerre civili. Ed è ora che l’Europa finisca di prepararle, perché sono sempre state preparate dalle potenze europee».

In questo caso la guerra a Kiev l’ha preparata Vladimir Putin.

«Basta andarsi a leggere come si è arrivati fin qui».

Proviamo a cambiare punto di vista. Crede che l’Europa che parla di riarmo stia tradendo le promesse della sua fondazione?

«Certo. Ha tradito tutti i discorsi dei padri fondatori fuorché quello della libertà di mercato e della moneta unica. Ma i principi di solidarietà, di sussidiarietà sono falliti nel mancato adempimento delle riforme democratiche necessarie, lasciando tutto al dominio dei Paesi più grandi. Così come sono fallite la politica mediterranea, quella medio-orientale e non sono state impedite né le guerre civili nei Balcani né la guerra in Ucraina».

Cosa poteva fare l’Europa?

«La politica come la medicina è per metà prevenzione. Vedere il bubbone, agire in tempo perché non scoppi».

Tra gli scontri dialettici più accesi, c’è quello che riguarda il Medio Oriente. Forse l’assenza dell’Europa si è sentita soprattutto nei confronti di Gaza, non crede?

«Su Gaza le élite politiche europee hanno segnato il punto di massima vergogna della loro storia. Non sono riuscite a fare nulla, neanche una sanzioncina nei confronti di Netanyahu. Non hanno più niente da dire».

Neanche il governo italiano ha preso le distanze con una qualsiasi azione concreta.

«No certo, di fronte a tragedie di questo genere ci ricordiamo della vituperata Prima Repubblica, quando l’Italia – pur restando dentro l’Alleanza atlantica – aveva una politica estera».


L’estremismo al potere


(di Michele Serra – repubblica.it) – Bisognerà aggiungere anche il giallista americano Scott Turow all’elenco dei “moralisti furbastri” (la definizione è di Giuliano Ferrara, da sempre maestro dell’invettiva) che, inorriditi dall’esecuzione di Charlie Kirk, non considerano vera, né utile per capire l’accaduto, l’attribuzione della violenza ideologica in parti uguali a dem e Maga.

Dice Turow: “l’omicidio di Kirk può essere ricondotto al contesto di estremismo che il presidente Trump e il suo movimento Maga hanno sempre aizzato. È lo stesso contesto di cui godono e gioiscono, dopo aver utilizzato il loro attuale potere per demonizzare e punire coloro che hanno idee diverse dalle loro”. Di peggio, aggiunge: “Il fatto che la vedova di Charlie Kirk abbia predetto e addirittura stia già assaporando la vendetta dei suoi dimostra come non abbia imparato nulla dal dolore suo e dei suoi figli”.

Il mio punto di vista è molto simile a quello (ben più americano del mio) di Turow, e non vedo perché manifestarlo valga l’accusa, piuttosto infamante, di non dolersi abbastanza per un delitto politico al tempo stesso efferato e stupido, come tutti i delitti politici. Penso che il lugubre spirito censorio e l’intolleranza ideologica dell’estremismo woke, per altro criticato da anni e in tutte le salse da scrittori e intellettuali europei e americani, sia un pretesto gonfiato a dismisura dall’odio suprematista (bianco, maschile, “cristiano”) che ha portato Trump alla Casa Bianca. E penso che il vero moralismo, in questo momento, sia il tartufismo di circostanza, che suggerisce di spalmare l’odio politico in parti uguali. Ma almeno negli Stati Uniti no, non è così. Se lo fosse, la recente esecuzione in casa della deputata dem Melissa Hortman e del marito avrebbe sconvolto e acceso l’America quanto quella di Kirk. E così non è stato: o mi sbaglio?