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Al mondo ci sono 300 nuovi miliardari: ecco dove investono


Nel complesso, il numero di miliardari è di 2.919. Nel 2025 hanno puntato soprattutto al Nord America, l’anno prossimo guardano a private equity, fondi speculativi e oro

Al mondo ci sono 300 nuovi miliardari: ecco dove investono

(Sara Tirrito – lastampa.it) – Nel 2025 i miliardari nel mondo sono stati 2.919, in aumento dell’8,8% rispetto al 2024, quando erano 2.682. Con loro cresce anche il patrimonio complessivo, pari a 15.800 miliardi di dollari, in rialzo del 13% rispetto ai 13.969 miliardi dell’anno precedente. Lo registra l’undicesimo UBS Billionaire Ambitions Report, secondo cui 196 imprenditori “self-made hanno” aggiunto 386,5 miliardi di dollari, mentre 91 eredi hanno ricevuto 297,8 miliardi di dollari in eredità.

I settori in cui si investe

Il comparto tecnologico è cresciuto del 23,8%, portando il patrimonio dei miliardari del comparto a 3.000 miliardi di dollari. Il consumer e retail rimane il più grande con 3.100 miliardi, pur crescendo solo del 5,3%. L’industriale segna +27,1% a 1.700 miliardi, mentre i servizi finanziari raggiungono 2.300 miliardi (+17%).

Nei prossimi 12 mesi il 49% intende aumentare l’esposizione al private equity, il 43% agli hedge fund, il 35% alle infrastrutture e il 32% all’oro. Le preoccupazioni principali riguardano i dazi (66%), i conflitti geopolitici (63%) e l’incertezza politica (59%). Entro il 2040 si stima un trasferimento “intergenerazionale” di 6.900 miliardi di dollari, di cui almeno 2.800 verso eredi statunitensi.

La geografia della ricchezza

Le Americhe concentrano 1.052 miliardari con un patrimonio di 7.464 miliardi di dollari (+15,5%). Gli Stati Uniti da soli contano 924 miliardari con 6.889 miliardi. L’area Asia-Pacifico ne conta 1.036 con 4.227 miliardi (+11,1%), di cui 470 in Cina continentale con 1.766 miliardi e 188 in India con 888 miliardi. La regione EMEA registra 831 miliardari con 4.100 miliardi (+10,4%), con concentrazioni significative in Germania (156 miliardari, 692 miliardi) e Svizzera (84 miliardari, 518 miliardi).

Il 63% dei miliardari identifica il Nord America come area di maggiore opportunità per i prossimi 12 mesi, in calo però dall’80% del 2024. L’Europa occidentale sale al 40%, la Grande Cina al 34% e l’Asia-Pacifico al 33%. Il 42% prevede di aumentare l’esposizione alle azioni dei mercati emergenti, il 43% a quelle dei mercati sviluppati.


Barbero, tu quoque?


(Alessio Mannino – lafionda.org) – Avendo il vantaggio di non essere liberale, chi scrive non la menerà qui con la dottrina della libertà d’espressione che uno stuolo di firmaioli voleva negare alla casa editrice di destra radicale Passaggio al Bosco, ricevendo un pacato ma fermo no dalla fiera “Più libri più liberi”. Da questo punto di vista, la questione è liquidabile in poche righe: se un editore è legalmente in attività, significa che i libri del suo catalogo non violano nessuna legge e perciò non incorrono nel reato di apologia di fascismo, basato su una norma transitoria della Costituzione che vieta non il pensiero, ma il pericolo concreto di un partito fascista (divieto, sia detto di passata, disatteso per cinquant’anni, nella folie à deux di Democrazia Cristiana e Partito Comunista, dall’esistenza del Movimento Sociale Italiano). Se invece il problema è politico, come infatti è, bisognerebbe evitare di cadere nel vicolo cieco del paradosso di Popper, sopravvalutatissimo beniamino del pensiero unico che invitava a essere intolleranti con gli intolleranti. Esattamente come il giacobino Saint-Just, fanatico della ghigliottina (“nessuna libertà per i nemici della libertà”). Con il risultato che, alla fine, dal boia ci finì anche lui.

Purtroppo, colonizzati dall’ideologia e forma mentis anglosassone come siamo, la vulgata corrente confonde liberalismo e democrazia. Quest’ultima, storicamente e concettualmente, non solo pre-esiste alla concezione più o meno a fisarmonica dei diritti liberali ma, se intesa nella sua forma moderna più coerente e vitale, implica una visione della società, e forse anche uno stile di vita, che vedono nel conflitto regolato ma aperto, nell’agone, il presupposto stesso della dimensione politica. Anzi del Politico in quanto tale. Una democrazia esige il contrasto più aspro fra le tesi più opposte. Con un solo limite: il ricorso alla coercizione violenta (altrimenti, va da sé, si finisce in guerra civile, a scannarsi per le strade).

Ora, che la conoscenza storica e l’esattezza di ragionamento non siano proprio il forte di un Antonio Scurati o di uno Zerocalcare, piuttosto che di un Ascanio Celestini o un Christian Raimo, per tacere di un Caparezza o un Massimo Giannini, è cosa che non stupisce. Già più fatica si fa ad accettare che le metta fra parentesi un’Anna Foa. Il meno comprensibile di tutti è però Alessandro Barbero. Lo storiografo più in voga del momento, è noto, è uomo di sinistra vecchio stampo. Ma nel suo immenso archivio di conferenze e interviste reperibili online si era distinto più volte per lo sforzo, in realtà il minimo per chi fa il suo mestiere, di storicizzare, vale a dire di contestualizzare il fenomeno “fascismo”. Sostenendo, ad esempio, che il brodo antropologico da cui germinò va situata in una temperie culturale precisa (l’alba dei partiti di massa, l’adesione trasversale a un’idea, di origine marxiana, della violenza come “levatrice della storia”, l’affermarsi di imperialismi e colonialismi) e in una mentalità violenta, quella dei reduci e dei familiari dei caduti, esplosa all’indomani della Grande Guerra, avvenimento epocale senza precedenti (che non a caso si chiama primo conflitto mondiale). Ma lasciando perdere questa diatriba che in Italia non ha mai fine, Barbero pare, o almeno pareva, essere consapevole che espellere soggetti sgraditi dai luoghi di circolazione d’idee non ottiene altro effetto che rafforzare l’odio reciproco, alimentando fra l’altro l’aura di perseguitati che, come il passato insegna, regala pubblicità gratis alle vittime di censura. Tanto più di questi tempi, che sono tempi di un vittimismo imperante e dilagante, cifra psicologica di una società di rammolliti che svicolano in tutti i modi da quel misterioso attributo che va sotto il nome di responsabilità.

Detto questo, è sempre comodo firmare appelli. Il punto è un altro, sempre che si voglia parlare di editoria, cultura e libertà intellettuale. L’orrore non sta in letture “pericolose”, perché nel pericolo, almeno, c’è tensione, c’è vita, ci si schiera, ci si scontra, si controbatte, magari scegliendo pure di non discutere nemmeno, ma lasciando che le differenze, incluse le più radicali e le più feroci, si misurino sul terreno pubblico dell’analisi, dell’opinione e della critica. Il vero orrore si manifesta da fungo velenoso nei libercoli di autori che godono di campagne promozionali e strombazzamenti a reti unificate non avendo assolutamente alcun contenuto autentico. Il degrado del libro, in un’Italia che di suo ne ha già un’atavica allergia, è nelle intere paginate dedicate da certi quotidiani al primo, imperdibile romanzo di Alfonso Signorini, là dove il giorno prima, per dire, c’era una dissertazione di Luciano Canfora. È nell’ubiquità sugli scaffali dell’ultimo parto dei ghost writer di Oscar Farinetti.

È nella condanna che, all’approssimarsi del Natale, ci viene inflitta con l’uscita di rito, cascasse il cielo, dell’annuale fatica libraria di quell’azienda di marketing ambulante che di nome fa Bruno Vespa. È nella produzione in serie di opere che rimasticano cose già masticate e digerite, attività in cui eccelle quel rivenditore di bignami con annessa video-grancassa di Aldo Cazzullo. È anche, sissignori, nel traino dei volumi dello stesso Barbero, divulgatore superlativo quando parla, ma molto, molto meno efficace quando scrive (caratteristica che vale anche all’inverso: in genere, e salvo eccezioni, chi ha una bella penna non brilla nell’eloquio). Insomma: è nella soffocante occupazione dello spazio mainstream – che poi è quello che dà le coordinate all’intero mercato – da parte di un’instancabile industria del vuoto o, quando va bene, della volgarizzazione spicciola (che se ben fatta non è da buttare, ma che ha il difetto di esaurire quel poco ed episodico interesse dell’italiano statisticamente medio per leggere qualcos’altro, rispetto ai titoli raccomandati o alla manciata di lettere stampicchiate sui video che scorrono sul feed social).

Immagino la difesa identitaria dei piccoli editori: noi coltiviamo un segmento minoritario ma arabile, i lettori cosiddetti “forti”. Quelli, per intenderci, che acquistano un libro al mese. Arabile fino a un certo punto, visto che la nicchia è satura e senza un’adeguata promozione le copie restano, come si dice, in casa. Invendute. La maggior parte delle uscite non valica la soglia del migliaio di esemplari, e un buon terzo non intercetta neppure un acquirente. Per carità, in un Paese di santi, navigatori e poeti, soprattutto poeti ovvero, in senso lato, scrittori, molti di questi non hanno un pubblico per il banale motivo che meritano di non averlo, data l’improvvisazione con cui certuni, in combutta con editori in realtà poco più che tipografi, sfornano e lanciano pappette immangiabili, elucubrazioni inutili, escrescenze di ego ipertrofici. Ma in tutta questa fanghiglia, qualche pepita d’oro indubbiamente c’è. E si dà il caso che l’oro non abbia a priori la possibilità di essere setacciato e messo in luce, perché a coprire l’orizzonte c’è quell’himalaya di fuffa che schiaccia sotto il peso di una tragicomica iniquità ciò che spinge dal basso.

Prego notare che non si sta trattando il tema puramente commerciale, che grazie alle praterie algoritmiche della Rete può essere in parte affrontato, posto che si abbia un minimo di abilità nell’uso del mezzo. È l’impatto culturale in senso stretto, il nodo da districare. La capacità di incidere, per quanto fattibile, sul dibattito di idee. Un ambito minoritarissimo, ma non ininfluente se pensiamo che la politica, le grandi aziende e soprattutto, oggi, la tecnocrazia digitale ai suoi massimi livelli si premurano di addobbare i loro propositi di potere con discorsi sull’egemonia, affiancandoli da dispositivi di manipolazione del consenso e dell’immaginario. Ecco perché è importante preoccuparsi non dell’eventuale rifrittura di testi risalenti agli anni ’20 e ’30, ma del fatto che, se la visuale comune è sovraccaricata da un fluire infinito di prodotti superflui (a rigore: di rifiuti buoni per il letame, meno gentilmente detto merda), l’occhio non potrà individuare i proverbiali fiori che nascono, come da canzone di De Andrè, in mezzo alla suddetta materia. Cento, mille volte meglio ripubblicare un proibitissimo “Bagatelle per un massacro” di Céline (e sarebbe ora, in italiano girano versioni tradotte coi piedi), piuttosto che sorbirsi le passerelle moleste degli autori da vetrina. Oscuriamo le vetrine, piuttosto. Non le case editrici. Tu quoque, Barbero?


Putin ribadisce: “Kiev si ritiri o prenderemo i nostri territori con forza”


Il presidente russo: “Trump è sincero cerca soluzione, ma non è facile”. Macron in visita a Pechino. Dopo i colloqui di Mosca, i due delegati Usa Witkoff e Kushner ricevono il negoziatore di Kiev. Trump assicura: il leader russo “vuole finire la guerra”

Guerra Ucraina - Russia. Putin ribadisce: “Kiev si ritiri o prenderemo i nostri territori con forza”

(repubblica.it) – La Russia libererà i “territori contesi”. “Tutto si riduce a questo: o libereremo questi territori con la forza, oppure le truppe ucraine lasceranno questi territori e smetteranno di combattervi”, ha detto il presidente russo Vladimir Putin in un’intervista al canale televisivo India Today in vista dell’incontro in india con Modi. “Non è facile far sì che le parti in conflitto raggiungano un qualche tipo di consenso”, ha aggiunto, “ma il presidente Trump sta davvero, ne sono certo, cercando sinceramente di farlo”.

Dopo il colloquio di Mosca conPutin, l’inviato Usa Steve Witkoff, e il genero del presidente Trump, Jared Kushner, incontreranno in Florida il negoziatore ucraino Rustem Umerov. Non ci sarà invece il leader di Kiev, Volodymyr Zelensky. Il presidente francese Macron è arrivato intanto a Pechino dove proverà a far pressioni su Xi Jinping per sostenere il cessate il fuoco.


Attacchi preventivi? Il gioco pericoloso della NATO (e la reazione prevedibile di Mosca)


(Giuseppe Gagliano – lafionda.org) – Siamo ormai all’ennesimo giro della giostra geopolitica, quella in cui tutti fingono sorpresa per dichiarazioni che, in realtà, non sorprendono nessuno. L’ammiraglio Giuseppe Cavo Dragone, il più alto ufficiale militare della NATO, ha spiegato al Financial Times che l’Alleanza potrebbe persino considerare un “attacco preventivo”. Preventivo, sì: come il mal di testa che ti viene appena senti qualcuno pronunciare certe parole. Un modo elegante per dire che, forse, sarebbe il caso di colpire prima che l’altro colpisca. E qui già si intravede il capolavoro della diplomazia: se tutti si sentono “preventivi”, prima o poi qualcuno schiaccia il pulsante.

La Russia, prevedibilmente, ha risposto come fa da mesi: parlando di “provocazioni irresponsabili”, “escalation” e tentativi deliberati di mandare all’aria la possibilità (già flebile) di una gestione negoziale della crisi ucraina. Maria Zakharova, la portavoce del ministero degli Esteri russo, ha pronunciato il suo solito rosario: chi parla così gioca col fuoco, mette a rischio la sicurezza europea, eccetera eccetera. Ritornello noto, ma non per questo meno utile a Mosca, che con ogni dichiarazione NATO ottiene nuove munizioni retoriche.

Il problema, però, non è la reazione russa, che è prevedibile quanto una telenovela. Il problema è ciò che sta dietro il ragionamento dell’ammiraglio Dragone. Quando dice che la NATO subisce “attacchi tutti i giorni”, dai virus informatici alle interferenze sulle infrastrutture, dalle campagne di disinformazione fino alle solite accuse sugli immigrati “armati”, usa l’intero catalogo della “guerra ibrida”. Ed è un catalogo comodo: puoi infilarci dentro tutto. Alla fine, qualunque cosa può diventare pretesto per “essere più aggressivi”, come dice lui.

Resta un ostacolo banale: la legge. Dragone stesso lo ammette: tra giurisdizioni, responsabilità e vuoti normativi, nessuno sa bene chi dovrebbe fare cosa. La NATO vuole essere aggressiva, ma senza sapere chi deve tirare il primo colpo. Un capolavoro di chiarezza strategica.

Intanto, mentre si discute di “attacchi preventivi”, succede qualcosa che, guarda caso, non entra nei titoli dei telegiornali. Per esempio, i cavi sottomarini danneggiati nel Baltico e nel Mare del Nord. Tutti sospettano, nessuno può dimostrare. Una petroliera trascina l’ancora per 56 miglia e trancia linee dati. Che sia goffaggine, sabotaggio o geopolitica marinara, un tribunale finlandese ha deciso che il diritto penale non si può applicare. Perfetto: se non ci sono colpevoli, non ci sono problemi. Intanto la NATO si congratula con sé stessa per l’operazione “Baltic Sentry”: “Da quando siamo qui, non è successo più niente”. Forse perché nessuno può più muovere un’ancora senza finire sul giornale.

Poi ci sono i droni entrati in Polonia. Una ventina, dicono. Mosca sostiene che non era intenzionale, Tusk parla del momento più vicino alla guerra dalla seconda guerra mondiale. Il solito copione: un episodio di confine diventa un trampolino per attivare l’articolo 4 dell’Alleanza, riunioni su riunioni, propositi di “rafforzare le difese”. E così si alimenta una tensione che nessuno ha interesse a spegnere davvero.

Alla fine, quello che resta è la solita fotografia: dichiarazioni sopra le righe, reazioni indignate, accuse reciproche e una guerra che continua a consumare risorse, uomini, governi e credibilità. La NATO cerca un ruolo di potenza reattiva e, se possibile, proattiva. La Russia usa tutto questo come carburante per accusare l’Occidente di voler portare il mondo verso l’abisso. Una danza che ormai conosciamo bene: passi di lato, passi indietro, minacce, smentite, rivendicazioni. E, sotto il rumore, un conflitto che non si ferma mai.

E chissà: magari, un giorno, qualcuno spiegherà ai signori dell’Alleanza che le parole “attacco preventivo” non sono proprio l’ideale quando si pretende di rappresentare un blocco difensivo. Anche perché la difesa, per definizione, arriva dopo. Ma evidentemente non è più tempo di definizioni. È tempo di mostrarsi aggressivi, anche se non si sa bene come, quando e contro chi. L’importante è parlarne. E sperare che nessuno prenda troppo alla lettera quello che ascolta.


Rassegnati alle ragioni della forza e alla demagogia, ci avvolgiamo nella corruzione. E allora, viva la corruzione


Diventata una piccola risorsa politica usata da cosche e combriccole per attaccare il nemico squalificandolo, la rincorsa alla corruzione si sta trasformando in corruttela: l’idea che tutti agiscano sempre e solo per il proprio interesse personale, ed è molto più pericolosa

(Giuliano Ferrara – ilfoglio.it) – Devo essere malato, idiosincratico certamente, ma la corruzione mi ha stufato. Viviamo di corruzione come denuncia, come delazione, come cattiva amministrazione della giustizia. Da trent’anni l’Italia è sottosopra per questo motivo. Poi va sottosopra Bruxelles, cuore d’Europa, ma in un lampo tanto chiasso sbocca in un far niente, un dolce far niente. Da atto materiale di tutti i tempi, come l’amore e la prostituzione, la corruzione è diventata una piccola risorsa politica usata da cosche e combriccole, un modo strumentale e piccino di darsele, di attaccare il nemico squalificandolo, di mettere etichette infamanti, spesso senza alcun riferimento a fatti accertati, a inchieste concluse da sentenze imparziali, spesso in stretta colleganza etica con il peggio della famosa e declamata onestà, e questa sì che mi sta antipatica o almeno sospetta. In Spagna marce e adunate contro un premier socialista che fa il belloccio e meriterebbe severe punizioni per la sua politica estera e le sue intemerate antisioniste e antigenocidio, e invece è dannato dalla destra arrembante come corrotto morale, corrotto materiale, corrotto sociale. Lo stesso premier è salito al potere su accuse di corruzione contro il predecessore identiche a quelle ora rivolte contro di lui. In Brasile il profeta della lotta alla povertà, il mitico Lula, ha generato il fenomeno osceno di un Bolsonaro, questo scazzottatore e golpista, incastrando la politica dentro il tema della corruzione, in questo caso la corruzione degli onesti e dei difensori dei poveri e degli ultimi. Non esisterebbe il populismo senza la resa all’idea che la corruzione sia il fattore dominante della vita pubblica. Il senso comune ordinario, quello più spregevole e puerile, si alimenta del mito della corruzione da sempre, e non sa distinguere e capire, scambia fischi per fiaschi, onesti e corrotti veri, si esercita in una falsa critica del potere con argomenti pallidi, malaticci, sempre uguali a sé stessi. L’Ucraina è travolta da una spirale di accuse dorate o placcate in oro, messa in ginocchio con tutta la sua eccezionale resistenza a un nemico spietato, un regime in cui è sovrana la corruttela.

Sì perché la corruttela, la universale disposizione al vantaggio particolare, il meccanismo che copre le nostre miserie emozionali, le tutela, le rivolta come un guanto di sfida contro l’avversario del momento è infinitamente più pericolosa della corruzione. E in questo la Russia è stata largamente raggiunta dal potere americano, proiettato sul mondo intero, intrinseca e insanabile cleptocrazia, dilagando il conflitto degli interessi, con la corruzione divenuta un algoritmo, un bitcoin, un saliscendi del mercato degli strongmen. Siamo in una situazione perfettamente descritta da Francesco de Sanctis molti anni fa, parlando di Francesco Guicciardini e della sua apologia del particulare: “Nel Guicciardini comparisce una generazione già rassegnata. Non ha illusioni. E perché non vede rimedio a quella corruttela, vi si avvolge egli pure e ne fa la sua saviezza e la sua aureola. I suoi Ricordi sono la corruttela italiana codificata e innalzata a regola della vita”. E forse aveva torto sul Guicciardini, moralista a modo suo, ma certo aveva ragione sulla rassegnazione dei tempi nostri, sull’incapacità di segnare a dito con sicurezza la vera disonestà, che in politica spesso è associata in modo sghembo e citrullo alla corruzione. Siamo rassegnati alle ragioni della forza, al parlar chiaro della demagogia, al tradimento della decenza, e così ci avvolgiamo nella corruzione, e ne facciamo la nostra saviezza e la nostra aureola, la codifichiamo e la innalziamo a regola delle vite degli altri. Se la corruzione è questo ultimo rifugio delle canaglie, viva la corruzione.


Manovra coi pieni poteri: blitz sull’autonomia e parlamento azzerato


Il governo sfila altri 100 milioni per gli emendamenti dei senatori. Stop Bce all’emendamento di Fratelli d’Italia sull’oro della Banca d’Italia. E il Pd annuncia: «Ostruzionismo sui Lep» 

(Stefano Iannaccone – editorialedomani.it) – Comunque vada i deputati potranno giusto votare, senza nemmeno il tempo di leggerla fino in fondo. Perché, se proprio tutto andasse per il meglio, il testo non arriverebbe a Montecitorio prima del 20 dicembre per l’avvio dell’iter. E il testo deve essere approvato entro il 31 dicembre per evitare l’esercizio provvisorio.

palazzo Madama non va tanto meglio. I senatori dovevano giocare la parte del leone, visto che a loro spettava la prima lettura, ma sono stati esautorati dai vertici tra leader. E tanti saluti al lavoro delle commissioni e dell’aula.

È una legge di Bilancio “extraparlamentare”. Nella sostanza una manovra da premierato, se non da presidenzialismo sudamericano. E questo nonostante la «madre di tutte riforme», che dopo mesi fuori dai radar è riapparsa nel calendario di gennaio della Camera, non abbia nemmeno affrontato la seconda lettura.

Blitz differenziata

Lo strapotere del governo è inarrestabile. Il colpo di mano prevede addirittura l’inserimento, alla chetichella, di disposizioni a favore dell’autonomia differenziata, aggirando i rilievi della Corte costituzionale un ampio dibattito parlamentare. «Deve essere chiaro che con i Lep dentro la manovra (presenti nel ddl del governo, ndr) la legge non si approva. Se vogliono un duro ostruzionismo siamo qui», ha puntualizzato il capogruppo del Pd al Senato, Francesco Boccia.

La famelicità della destra ha travolto e divorato finanche la possibilità di spendere le risorse a disposizione, nel piano triennale della manovra, degli emendamenti parlamentari. Il cosiddetto fondino da 100 milioni di euro già drasticamente ridotto rispetto agli anni scorsi.

«L’unica comunicazione al parlamento è il taglio di 100 milioni di euro nel 2028. Sono 100 milioni in meno per poter individuare misure utili», ha sottolineato il senatore del Pd, Daniele Manca. Così, tanto per fare un esempio, vengono azzoppati stanziamenti per fondi pluriennali, come quelli per la scuola o per supportare la morosità incolpevole sugli affitti.

Appena i senatori hanno provato a modificare il provvedimento, l’esecutivo ha stoppato tutto e avviato trattative secretate, rigorosamente fuori dai luoghi istituzionali.

È successo con le banche: l’idea di un’aliquota aggiuntiva, proposta dalla Lega, è stata affidata a summit sotto chiave tra esecutivo e Abi. Il confronto in parlamento? Da sale della democrazia a chimera.

Il Senato resta spettatore di una partita che si gioca su altri campi, collocati tra palazzo Chigi e via XX Settembre, sede del Mef. Mentre, come accennato, alla Camera non c’è alcuna speranza di sfiorare il provvedimento. Andrà ingoiato già impacchettato.

Parole di facciata

Eppure il ministro dell’Economia, Giancarlo Giorgetti, di fronte alle questioni più delicate della legge di Bilancio, ha sempre usato la formula «decide il parlamento». Belle parole, cariche di fiducia nell’iter istituzionale, ma smentite dai fatti; che portano dritti al premierato.

Giorgia Meloni, da presidente del Consiglio, ha inferto un altro colpo al parlamentarismo in questa manovra, ricalcando i passi di quanto avvenuto negli anni scorsi. Nel 2023 aveva lanciato l’incredibile modello di finanziaria a “emendamenti zero” (all’epoca premier e ministro dell’Economia avevano imposto il silenzio ai parlamentari della maggioranza). E dire che, da leader dell’opposizione, Meloni attaccava duramente i governi che comprimevano gli spazi di confronto in parlamento.

Certo, rispetto a due anni fa le proposte parlamentari sono state depositate dalla maggioranza, solo che il livello di incidenza dei senatori è prossimo allo zero. Un ulteriore scivolamento verso la mortificazione del parlamento con gli eletti ridotti a schiaccia-bottoni agli ordini del governo. Un altro pezzo del puzzle del premierato di fatto dopo i cento voti di fiducia chiesti dall’inizio della legislatura. Un dato che aumenterà nei prossimi giorni.

I tempi di esame del provvedimento, infatti, rischiano seriamente di comprimersi. Il presidente della commissione Bilancio di palazzo Madama, Nicola Calandrini (Fratelli d’Italia), ha confermato che l’obiettivo resta quello di far approdare il testo in aula il 15 dicembre.

La sfrontatezza di Fratelli d’Italia arriva a sfidare le istituzioni europee. Il partito di Meloni insiste sull’oro della Banca d’Italia che appartiene al popolo, come recita l’emendamento firmato da Lucio Malan, presidente dei senatori meloniani.

Opzione scartata dalla Banca centrale europea. «La detenzione e la gestione delle riserve auree spettano esclusivamente alle banche centrali nazionali, e la Banca d’Italia non fa eccezione. Non è una questione banale», ha detto la presidente della Bce, Christine Lagarde.

Un ragionamento approvato dall’eurodeputato del Movimento 5 stelle, Pasquale Tridico: «Questo tesoro dell’Italia appartiene a tutti ed è garanzia di benessere e stabilità per il nostro paese».

I meloniani non hanno intenzione di arretrare su una loro bandiera ideologica. «Si fa fatica a comprendere la polemica», ha detto il deputato di FdI, Francesco Filini, che ha rilanciato: «L’emendamento è chiaro, non mette in alcun modo in discussione l’autonomia della Banca d’Italia».

Un premierato fortissimo che non teme nemmeno l’Eurotower.


La dottrina del condono


Arriva un nuovo condono: la riforma che introduce un silenzio-assenso potenziato e una sanatoria per gli abusi realizzati prima del 1967.

La dottrina del condono

(di Giulio Cavalli – lanotiziagiornale.it) – Matteo Salvini governa come se il Paese fosse un cantiere lasciato aperto dagli amici del mattone. E ogni volta che torna sulla scena, porta con sé la stessa idea fissa: non correggere le distorsioni dell’edilizia italiana, ma assolverle. Prima il “Salva Casa” del 2024, trasformato in una sanatoria strutturale delle difformità interne, delle verande chiuse, dei frazionamenti spuntati senza titolo. Poi la spinta, nella Manovra 2026, a riaprire i vecchi condoni del 1985 e del 2003: una promessa implicita di clemenza verso chi ha costruito fuori dalle regole e per anni ha aspettato l’occasione buona.

Ora arriva il capitolo finale: la riforma dell’edilizia che introduce un silenzio-assenso potenziato e una sanatoria per gli abusi realizzati prima del 1° settembre 1967. Un confine che permette di regolarizzare ampliamenti, volumi, trasformazioni nati senza alcun controllo. Se il Comune non risponde, l’abuso diventa legittimo. Non una scorciatoia burocratica: una strategia politica.

Salvini racconta tutto come “libertà”, “semplificazione”, “rilancio dell’economia”. Ma la semplificazione, qui, è la cancellazione della legalità urbanistica. Lo Stato rinuncia a verificare, a controllare, a difendere il territorio: è l’irresponsabilità come architettura normativa. Un Paese fragile — segnato da frane, alluvioni, dissesti — dovrebbe pretendere più prudenza, non un colpo di spugna permanente.

È questo il vero progetto: trasformare l’abuso in normalità e la normalità in un ostacolo. Chi ha rispettato le regole resta il fesso della storia; chi le ha violate trova sempre una porta aperta. Governare diventa condonare, e il condono diventa dottrina: una pedagogia del favore che premia chi ha osato di più, che perdona retroattivamente, che considera il territorio una quota di scambio politico.

La domanda non è più cosa si costruirà, ma cosa lo Stato sarà disposto a perdonare. E in questa risposta c’è già tutto il fallimento di un’idea di governo che ha scambiato il Paese per un eterno cantiere abusivo in cerca di assoluzione.


I “monopolisti della violenza”


(Andrea Zhok) – In questi giorni tre petroliere ed un cargo con esportazioni dalla Russia sono stati colpiti in acque internazionali.

Qualche settimana fa l’ammiraglio Cavo Dragone ha affermato che la Nato sta prendendo in considerazione l’idea di essere “più proattiva” contro la Russia:

“Stiamo studiando tutto… Sulla cybersicurezza, siamo un po’ reattivi. Essere più aggressivi, o essere proattivi invece che reattivi, è una cosa a cui stiamo pensando.”

Lo stesso ammiraglio ha lamentato che “abbiamo molti più limiti delle nostre controparti, per ragioni etiche, legali e di giurisdizione. È un problema. Non voglio dire che è una posizione perdente, ma è una posizione più difficile di quella delle nostre controparti”.

Il punto sarebbe che la posizione della Nato è troppo passiva. Servirebbe invece più deterrenza, e “Come si ottiene la deterrenza – con la rappresaglia, con un attacco preventivo – è qualcosa che dobbiamo analizzare in profondità, perché in futuro ci potrebbe essere ancora più pressione su questo”.

Ora, la guerra ibrida a molti sembra una trovata per farci su un film di spionaggio, ma è l’orizzonte primario della guerra moderna, soprattutto tra avversari dotati di armamenti nucleari, dove una guerra frontale genera una prospettiva di Mutually Assured Destruction.

Il problema della guerra ibrida è che essa è raramente discernibile con certezza come “aggressione”. Eventi come Maidan nel 2014 a Kiev, descritti dall’Occidente come rivoluzioni spontanee, sono state identificate da Mosca come eventi di guerra ibrida, volte a mettere l’Ucraina in rotta di collisione con la Russia. Eventi come la pandemia Covid è stata letta inizialmente dalla Cina come un attacco di guerra ibrida.

Oggi abbiamo molte prove che la “Rivoluzione di Maidan” era teleguidata e che il Covid è nato in laboratorio, ma ciò che conta capire va al di là dell’interpretazione della realtà delle responsabilità.

Il punto è che in una dimensione di guerra ibrida cresce esponenzialmente la paranoia. Eventi accidentali o irrelati possono essere letti come attacchi di guerra ibrida e possono condurre a “risposte” che dalla controparte vengono lette come “attacchi immotivati”.

La dinamica dell’escalation è strutturalmente implicita nella guerra ibrida. E la sue prime conseguenze sono sul piano interno di ciascun paese, dove ogni parola o pensiero non allineato inizia ad essere percepito come “al soldo del nemico”. La fase di restrizione censoria che stiamo esperendo in Europa da 5 anni a questa parte è già parte di un’allerta legata alla percezione di una guerra ibrida in corso.

Io sono abbastanza tranquillo intorno al fatto che pochi italiani andranno a offrire il petto alle baionette russe per difendere la cofana laccata della von der Leyen e il SUV di Calenda.

Ma non basta, non basta perché comunque questo orizzonte di guerra non dichiarata può metterci tutti letteralmente in catene, può depredare ciò che resta del nostro stato sociale, può confiscare i nostri beni e diritti, può metterci a tacere, può incarcerarci con una scusa, può piegarci e distruggerci con molteplici forme di minaccia.

Tutto ciò, beninteso, sta già accadendo.

Le capacità di autodifesa democratica e di autoorganizzazione sono minate con una molteplicità di processi dall’alto, processi di controllo centralizzato, di creazione di ostacoli burocratici, e soprattutto di disgregazione orizzontale della società, che si vuole ridotta ad una sommatoria di atomi o guppetti lobbistici in perenne lotta intestina.

Bisogna cominciare a pensare ad un utilizzo degli scampoli di democrazia formale che ancora ci restano almeno per cacciare l’attuale classe politica, di destra come di sinistra, integralmente compromessa.

In quest’ottica anche iniziative populiste devono essere accolte con favore, perché la priorità al momento non è “rivoluzionaria”, non è la sostituzione di una classe dirigente con una nuova classe dirigente capace di fornire una rotta coerentemente alternativa. Questo è un ideale normativo da perseguire, ma l’attuale urgenza è rimuovere dalle stanze dei bottoni gli attuali “monopolisti della violenza” che si alternano al governo.

In questo momento, di fronte ad una minaccia terminale per la democrazia, il ricambio della classe politica, la rimozione dell’attuale ceto politico asserragliato nelle istituzioni e che tiene in ostaggio il paese senza rappresentare più nessuno, questo è più importante di ogni cosa.

Unirsi per rimuoverli dev’essere la priorità.


Il clown Trump e l’apoteosi capitalista


(Tommaso Merlo) – Trump ha superato Biden anche nei pisolini e nelle svalvolate. Prima convoca riunioni alla Kim Jong Hun a favore di telecamere, poi si appisola e quando apre la bocca farfuglia frasi senza senso. Ovviamente giura di fare controlli medici regolari e che è il più sano ottuagenario del pianeta, ma la salute presidenziale comincia ad essere un problema serio e in particolare quella celebrale. Si tratta ancora di uno degli uomini più potenti al mondo e che non ci sia più con la testa, non è uno scherzo. Basta guardare al Venezuela, senza uno straccio di motivo ha sguinzagliato i Marines ed intimato per telefono a Maduro di levarsi dai piedi. Vuole davvero il Nobel per la Pace ad ogni costo. Nel frattempo si son messi a bombardare barche alla sionista, e cioè fregandosene di ogni legge ed umanità. Palesi crimini di guerra con l’unico vero obiettivo di mettere le mani sui giacimenti venezuelani e accontentare gli appetiti dei petrolieri che hanno generosamente sponsorizzato il ritorno di Trump alla Casa Bianca. Apoteosi capitalista, soldi al di sopra della politica anche internazionale. Con l’Ucraina invece Trump ha preso l’ennesimo palo. Ogni volta si precipita per prendersi i meriti della pace, ma non ha le palle per fare l’unica cosa sensata. Mandare il corrotto regime di Zelensky ed i suoi penosi fans europei, a quel paese. Non si capisce se non ci arriva o se è lo stato profondo che abusa della sua scarsa lucidità. Altre lezioncine da mettere da parte. Un conto è la diplomazia, un conto gli affari immobiliari e se i ricchi fossero anche i migliori, questo mondo funzionerebbe come un orologio svizzero. A Trump dei morti ucraini non è mai fregato nulla come del resto di quelli palestinesi e venezuelani e di chissà dove, al di là del suo ego tossico, è nebbia fitta. A maggior ragione oggi che ha altre priorità, tipo stare al mondo e possibilmente a piede libero. Tra criptovalute, affaracci di famiglia e strappi costituzionali, se molla la poltrona rischia il pigiama arancione a vita. E lo sa benissimo anche perché è questo il piano dell’opposizione. Se non riescono ad ottenere prima i voti al Congresso per l’impeachment, i sondaggi dicono che i democratici vinceranno a valanga alle elezioni di medio termine e a quel punto potranno internare quel vecchio scorbutico una volta per tutte. Già, la demenza senile di Biden era più serena, quella di Trump è irruenta e cafona. Si è messo ad insultare le giornaliste che cercano di fare chiarezza nei suoi deliri e perde le staffe di continuo. Il suo problema è che il bunker immaginario in cui si è rinchiuso, non riesce più a difenderlo dai suoi palesi fallimenti. Nega perfino che per fare la spesa serva un mutuo, ma a differenza sua gli americani ci vanno al supermercato. Wall Street regge, il problema è il mondo reale con cui lui ha perso ogni contatto da mo’. Apoteosi capitalista, miliardari e grafici economici sorridono, la gente comune piange. Ma Trump nega tutto e dormicchia sognando i bei tempi del suo amicone Epstein quando viveva tra ragazzine e festini proibiti. Bei tempi davvero, non come oggi che costretto ad appendere il pisello al chiodo, passa da una riunione nauseabonda all’atra circondato da meschini leccapiedi. Non resta che attendere di sapere se riuscirà o meno ad insabbiare il più imponente scandalo di pedofilia della storia o perlomeno salvare se stesso ed i sionisti che lo tengono per le palle. I sondaggi intanto continuano a precipitare a livelli siderali, per gli americani è il presidente peggiore mai apparso sulla faccia della terra. Eppure Trump continua a ripetersi da solo di essere il migliore di sempre e che gli Stati Uniti stanno volando grazie a lui. Davvero peggio di Biden, perché la demenza senile di Trump è aggravata da un narcisismo patologico cronico che lo rende sempre più come una sorta di inquietante clown con la cravatta rossa fosforescente ed il cerone arancione in faccia. Un clown maligno che vuole vincere il Nobel per la Pace insanguinando il mondo e che dopo aver truffato milioni di elettori promettendo fregnacce, sta servendo senza vergogna gli affaracci della sua famiglia e quella dei miliardari che lo tengono per le palle. Più che oligarchia, mafia lobbistica. Più che un presidente americano, un vecchio e scorbutico clown. Più che capitalismo, apoteosi egoistica e narcisistica.


Meloni, sgambetto a Cgil e campo largo


Meloni, sgambetto a Cgil e campo largo

(Flavia Perina – lastampa.it) – Atreju 2025: non una festa, non un raduno, non solo un evento pop per l’elettorato e per i romani che amano pattinare sul ghiaccio, ma soprattutto un salto di qualità nella guerra ibrida di Fratelli d’Italia contro i suoi avversari. Il campo largo, innanzitutto, che esce tramortito dal duello Giorgia Meloni-Elly Schlein, negato con il puntello di Giuseppe Conte e in nome dell’obiezione: prima diteci chi è il capo dell’opposizione, poi la premier accetterà la sfida. Ma il programma della manifestazione sconquassa anche l’unità sindacale, visto che alla vigilia dello sciopero generale del 12 dicembre Atreju accoglierà sul palco i numeri uno di Cisl e Uil, le Confederazioni che hanno rifiutato la mobilitazione, isolando Maurizio Landini e derubricando la sua chiamata a protesta ideologica, estranea ai veri interessi del mondo dei lavoratori rappresentati da quelli che con il governo parlano, si rapportano, ottengono risultati.

Il racconto politico che Giorgia Meloni punta a costruire per accompagnare gli italiani prima al referendum e poi al voto del 2027, è molto chiaro. “Dall’altra parte”, la parte della sinistra, la parte di chi racconta in giro che la guida dell’Italia è contendibile o addirittura che le piazze possano dare una spallata a Palazzo Chigi, non c’è uno schieramento ma solo un insieme di ambizioni personali incapaci di mettersi d’accordo, divise sulla leadership, immerse in ostilità viscerali verso la destra, poco credibili nella loro pretesa di governare insieme il Paese o di fare il bene di chi ci abita. Non si arriva all’estremo dei “poveri comunisti” inciso sui braccialetti di qualcuno, ma poco ci manca.

Resta un mistero perché Elly Schlein non abbia intravisto l’agguato. Ma assai più incomprensibile è il motivo per cui l’altro protagonista della storia, Maurizio Landini, abbia facilitato la disgregazione del fronte sindacale, che pure capeggiava per numeri e presenza, con una serie di scioperi politici e da ultimo con la battuta sulla “cortigiana di Trump” che lo ha messo in difficoltà persino nel suo campo. La sensazione è che anche lui, come gran parte della cultura progressista, si sia affidato ad analisi datate secondo cui la destra non sarebbe stata in grado di fare breccia nei corpi intermedi a causa della sua lontananza dai valori di riferimento di quei mondi, uguaglianza, diritti, non-violenza, civismo, solidarietà.

Meloni ha aggredito quello stereotipo e l’ha spezzato con la logica del divide et impera che vale fin dai tempi degli antichi romani. Mentre Landini si dava da fare per diventare il nemico perfetto, la premier ha irrobustito il rapporto con la Cisl, portato nella squadra di governo il suo ex segretario Luigi Sbarra, appoggiato la legge sulla partecipazione dei lavoratori agli utili di impresa su cui la Cisl aveva raccolto 400mila firme, conquistato la Uil con le concessioni in manovra sulla contrattazione. Risultato: la Cgil è rimasta sola non solo nello sciopero generale, esposta al sarcasmo governativo sul “weekend lungo”, ma ora dovrà spiegare ai suoi perché Daniela Fumarola e Pierpaolo Bombardieri ottengono risultati, dialogano in diretta con la ministra Marina Calderone sul palco, mentre lui è fermo sul suo Aventino.

Diviso il sindacato, divisa l’opposizione, divisa ogni forza che normalmente esercita il controcanto all’esecutivo. Il programma di Atreju 2025, per molti versi, ha già portato a casa il risultato più utile alle strategie del governo, cioè seminare rancori e divisioni nel campo avverso, sentimenti che non sarà facile superare perché è ovvio che ciascun soggetto di questa storia – per primi Elly Schlein e Maurizio Landini – si sente già tradito dai suoi potenziali alleati o dai suoi vecchi compagni di strada. No, non è solo una festa, non solo un raduno per i simpatizzanti, non solo una pista per pattinatori.


Avanti, c’è posto


(di Michele Serra – repubblica.it) – La lista dei partecipanti ad Atreju (secondo me da pronunciarsi al vocativo, alla romanesca: a’ Trejuuu!) è poderosa e palesemente apolitica, nel senso che raduna, a mazzi come gli asparagi, italiane e italiani di ogni risma, cultura, professione, indole.

In questo senso Atreju, nata come adunata di irriducibili arditi, pochi ma tosti, pochi ma neri, è il segno più evidente della vocazione consociativa del potere italiano. Un po’ come il Meeting di Rimini, ma con minore focalizzazione sul business e la produttività (cielle è pur sempre nordica per radici e cultura, il fatturato conta almeno quanto lo Spirito Santo) e con un evidente viraggio romano, non in senso littorio, ma in senso viale Mazzini, e trattorie dei dintorni: c’è Carlo Conti, non sorprende l’assenza di Fiorello, troppo scafato per caderci.

Inspiegabile la mancanza di Bocelli che canta «Vinceròooooooo!» e di Totti, Ilary, Chiara Ferragni e Fedez che sviscerano le complesse problematiche della famiglia tradizionale. Forse si tratta solo di disguidi, forse saranno presenze last minute.

Ci si domanda se sia un bene o un male, questa ammucchiata pacifica, anzi paciosa. Un bene perché saper convivere è pur sempre un buon segno, mica puoi passare la vita intera a prendere le distanze. Un male perché i famosi “no che aiutano a crescere”, come recita la pedagogia meno rammollita, diventano sempre più rari. Prevalgono i “sì che aiutano a campare”.

In fin dei conti, si chiamano Fratelli d’Italia e Forza Italia i due terzi del potere nazionale. Il terzo terzo, la Lega, è comunque nel programma, insieme a porzioni notevoli dell’opposizione.


M5S, Saiello: “Ex Whirlpool, subito proroga della CIG e certezze sulla reindustrializzazione”


Il consigliere regionale: “Il Sud abbandonato dal governo Meloni”

“Nonostante l’accordo firmato lo scorso 3 ottobre al Ministero del Lavoro, la proroga della cassa integrazione per i lavoratori dell’ex Whirlpool di Napoli resta bloccata. È l’ennesima, inaccettabile conferma dell’abbandono del Sud e delle sue imprese da parte del governo Meloni. L’esecutivo garantisca subito l’operatività della proroga della Cig fino al 2026, tutelando un percorso di reindustrializzazione avviato nel 2018, che prevede l’ingresso strategico di Invitalia. Ogni giorno di ritardo pesa sulle famiglie e sul futuro produttivo della città e della regione”. Dichiara il consigliere regionale del Movimento 5 Stelle, Gennaro Saiello.

“Chiediamo al governo un triplice impegno. Innanzitutto, sbloccare immediatamente la vicenda Whirlpool, garantendo continuità al progetto industriale di TeaTek. In secondo luogo, adottare un Piano Straordinario per il Sud, con misure concrete, risorse certe e reale semplificazione burocratica, per attrarre investimenti e creare occupazione stabile. Infine, superare una visione centralista dello sviluppo, assicurando pari opportunità a tutte le regioni. Le criticità che colpiscono gli ex lavoratori Whirlpool, infatti, non sono un caso isolato: riflettono una visione miope e sbilanciata del Paese. Sembra che il governo voglia sostenere lo sviluppo solo al Nord – continua Saiello – dimenticando che la vera forza del Made in Italy risiede nella sua capacità di esprimere eccellenze in tutto il territorio nazionale”.

“Sulla vicenda, la nostra parlamentare Gilda Sportiello ha presentato un’interpellanza per sollecitare i ministri Calderone e Urso. Il Movimento 5 Stelle, in Regione e in Parlamento, continuerà a difendere i diritti dei lavoratori e a promuovere uno sviluppo equo e sostenibile per tutto il Mezzogiorno. Il Sud è la più grande riserva di futuro del Paese. È tempo che il governo lo riconosca”.


Melonandia, il Paese fantastico di Giorgia


(Dott. Paolo Caruso) – Il Presidente del ” Gran Consiglio d’ Italia “, la Giorgia Nazional Patriottica, intervenendo su fatti marginali della vita del Paese come il rifiuto dell’ Università di Bologna a trasferire a Modena un corso di filosofia per i militari dell’Accademia, cerca ancor una volta di spostare l’attenzione dai problemi reali della gente. La stessa ” favola ” dei bambini del bosco in Abruzzo e il lupo cattivo  ( il magistrato ) ha riempito intere pagine di giornali, e ha caratterizzato dibattiti infiniti occupando a reti unificate Tele Meloni e i canali Mediaset, spostando il problema serio dei bambini e della loro famiglia su un terreno scivoloso come quello dei Magistrati. La Premier anche in questa occasione si è lasciata andare a considerazioni che esulano dal suo ruolo istituzionale, e approfittando del fatto emotivo ha cercato di offuscare l’operato dei Magistrati. Un continuo attacco nei loro confronti a pochi mesi dal referendum divisivo della carriera dei Giudici, spacciato per riforma della giustizia, che in effetti rappresenta solo un intervento punitivo da parte del Governo. Nessun interesse a migliorare la Giustizia affossata dalla “Schiforma Cartabia” e dall’attuale Ministro Nordio, nulla che sia necessario al funzionamento degli Organi Giudiziari capace di imprimere una svolta nell’ accelerazione dei processi  così da rispondere alle attese dei cittadini. Un conflitto tra i due Poteri dello Stato, esecutivo e giudiziario, che rende evidente quanto sia forte la volontà di questa destra di governo a voler sottomettere la Magistratura. E’ così che la “fascio caciottara”, poco propensa al confronto con certo giornalismo, continua a raccontarci a distanza di tre anni, con le sue menzogne, del magico mondo dorato di ” Melonandia “, il Paese fantastico dove tutti vivono felici e contenti, lontani da storture e dalla tragicità della guerra. Un paese in ripresa, almeno per Giorgia e per la propaganda, dove però agli occhi dei più, la povertà falcia un numero crescente di persone e le famiglie non trovano risposte alle tante difficoltà del momento. Ancora un risveglio amaro in questo Natale 2025 per le famiglie e per i tanti giovani emigrati alla ricerca di un lavoro. Si assiste così allo spopolamento di interi territori che porta inesorabilmente al calo demografico della Nazione. La narcosi meloniana non potrà durare ancora a lungo, e il Paese reale dovrà scontrarsi per forza con ” Melonandia “. E’ proprio allora che emergeranno i veri squilibri del Paese, la grave crisi economica attenuata in parte dal PNrr, l’inflazione, il divario crescente tra ricchi e poveri, la scarsa produttività, il pesante fardello debitorio della Nazione, il lavoro povero, mentre i venti di guerra renderanno ancora più incerto il domani. Sarà la volontà di un Popolo a portarci fuori dalle secche meloniane oppure sarà la fine della democrazia e il consolidarsi della democratura.   


Nel M5S monta l’insofferenza verso il Pd dopo la sparata di Elly Schlein


(Emanuele Buzzi per corriere.it) – «Prima o poi la corda si spezza». «Che fretta c’è?». 

Nel Movimento cresce l’insofferenza verso il Pd. Anche Giuseppe Conte interviene: «Per noi vengono prima i temi, poi i nomi». Il malessere nasce dopo l’uscita di Elly Schlein sul rifiuto a partecipare ad Atreju, quella frase rivolta a Giorgia Meloni («Se deve venire Conte, allora porti Salvini») che è stata letta come uno sgarbo in casa stellata. «I toni e i modi non sono piaciuti», ammettono dalle parti di Campo Marzio. A bissare le frasi di Schlein, poi, è arrivato il pressing dem alla kermesse di Montepulciano per rivendicare la leadership della coalizione.

Un pressing a cui i Cinque Stelle si vogliono sottrarre. 

«Loro hanno tutto il diritto di fare il proprio percorso e di indicare Schlein come leader», dicono nel M5S. E aggiungono però: «Noi faremo il nostro percorso che parte dai temi e dal programma e che è coerente con quello che abbiamo già messo in atto con successo alle Regionali». 

Ognuno per la sua strada, per ora e poi «una volta definiti i contenuti ci incontreremo». 

Nessuna fretta, anzi. La strategia dei Cinque Stelle è quella di frenare le smanie dem. Un’attesa che, da un lato, rischia di accrescere le tensioni tra i due partiti, ma dall’altro permette anche di seguire le evoluzioni che riguardano la riforma della legge elettorale, il vero jolly nelle mani del Movimento.

I Cinque Stelle da tempo si sono espressi favorevolmente per un proporzionale (che «garantisce rappresentatività e governabilità»), una formula che lascerebbe agio per uno smarcamento dai dem. Non a caso, in queste ore, tra i vertici stellati c’è chi sottolinea: «È presto per aprire certi discorsi, tutto è condizionato dalla legge elettorale». 


Le ville di Salvini e Meloni, le dimore di Durigon e Renzi: tutti gli affari immobiliari di chi va al governo


Dal sottosegretario leghista al suo leader e ministro fino alla presidente del Consiglio e all’ex premier. Senza dimenticare la moglie di La Russa e il compagno di Santanchè. Chi va al governo investe nel mattone puntando a dimore da mille e una notte. Tra sconti, prestiti da amici e conflitti di interessi

(Nello Trocchia – editorialedomani.it) – Sulla politica estera e sul fisco sono talvolta in disaccordo, ma sugli affari immobiliari viaggiano all’unisono. Entrambi contrari alla revisione del catasto e ora entrambi proprietari di ville, classificate come villini. Così hanno pagato meno tasse all’atto dell’acquisto. Ma non per responsabilità loro, sia chiaro. Il risparmio fiscale dipende dalle classificazioni decise da tecnici, professionisti e da censimenti desueti. Un fatto è certo: ora la presidente del Consiglio, Giorgia Meloni, e il vicepremier, ministro delle Infrastrutture, Matteo Salvini, hanno in comune l’acquisto di una bella casa di un certo livello. Mentre le italiane e gli italiani aspettano il piano per l’edilizia residenziale, i rappresentanti del governo hanno investito nel mattone di lusso.

Così ha fatto la prima ministra, così il numero due dell’esecutivo. Ma ancora prima (tra il governo Draghi e Meloni) anche il potente sottosegretario leghista Claudio Durigon ha concluso un ottimo colpo, così come la moglie di Ignazio La Russa, con il compagno dell’amica ministra, Daniela Santanchè.

L’aria di governo arricchisce anche il portafoglio immobiliare. Sconti, affari e interessi che questo giornale ha rivelato e che, a tre anni dall’insediamento del governo, compongono una mappa di potere e mattone.

Salvini, reggia senza piscina

Salvini e la compagna Verdini hanno fatto un affare. Hanno trovato – ha spiegato lo staff del ministro – l’annuncio su un sito e comprato alla cifra fissata dai venditori: 1,35 milioni di euro per quasi 700 metri quadrati. La villa si compone di un seminterrato abitabile, un piano terra, un primo e secondo piano, in tutto 28 vani. Lì Francesca Verdini, figlia dell’ex senatore pluricondannato Denis, ha spostato anche la sede legale della sua creatura societaria, Casa Rossa srl. Nell’atto di acquisto, firmato dal notaio Alfredo Maria Becchetti (leghista doc), viene indicata la classificazione dell’immobile: A7. Formalmente non si tratta quindi di una villa, e così la normativa prevede un risparmio. Vantaggi inaccessibili per chi abita un immobile di tipo A/8. Ma questo è dovuto alla classificazione che prescinde dalla volontà dei compratori. Certamente una revisione del catasto porterebbe a una redistribuzione delle risorse e dei carichi fiscali, revisione alla quale sia Salvini che Meloni si oppongono.

Anche la presidente del Consiglio ha comprato casa pagandola 1 milione e 250mila euro. Meloni, però, si ferma a 433 metri quadri totali, 18 vani, una scala interna, una piscina (che il vicepremier non ha) e tre corti di pertinenza esclusiva, di cui una al piano terra e due al piano seminterrato. Anche la zona è diversa.

La presidente del Consiglio ha comprato a pochi passi dal quartiere Spinaceto, nella zona residenziale di Mostacciano. Non proprio esclusiva e rinomata come quella scelta dal leghista: zona Camilluccia, Roma nord.

L’affare del sottosegretario

Prima di lui era arrivato in quel quadrante di lusso e riservatezza un altro leghista, il potente sottosegretario, Claudio Durigon. Già uomo di governo nel governo Conte I e in quello del premier Mario Draghi, poi dimissionario. Niente villa per lui, ma un appartamento principesco. Immobile comprato a un prezzo scontatissimo all’interno di un complesso residenziale di proprietà dell’Enpaia, ente previdenziale del settore agricolo. L’atto d’acquisto è del 23 giugno 2022. Durigon e la moglie Alessia Botta hanno acquistato per appena 469mila euro un appartamento di otto vani, di 170 metri quadri catastali complessivi, con terrazzo angolare e balcone. Compreso nel prezzo anche un box auto: solo quest’ultimo, a prezzi attuali di mercato, vale oltre 50mila euro.

Nell’atto di vendita si leggeva: «Il prezzo di vendita è stato determinato con le riduzioni di sconto previste nelle linee guida rispetto al valore determinato», dalle stime di una società terza, la Arc Re, che ha fatto la valutazione del patrimonio che Enpaia ha messo sul mercato. Durigon conosceva benissimo quell’immobile perché dal novembre 2017 ne era affittuario. All’epoca il politico era vicesegretario del sindacato di destra Ugl e si avvicinava alla Lega. Sconti, lavori e affari che proprio Domani aveva svelato, così come il colpo grosso messo a segno dai coniugi di La Russa e Santanchè, coppia indivisibile.

La Russa-Santanchè

Si è trattato di un acquisto mordi e fuggi: la villa, in zona Forte dei Marmi, è una residenza di lusso immersa nel verde del Parco della Versiliana, 350 metri quadrati su tre livelli, con giardino e piscina.

La consorte del presidente del Senato, Laura Di Cicco, e il compagno della ministra, Dimitri Kunz, hanno comprato e hanno rivenduto in meno di un’ora guadagnando un milione di euro. L’affare si è chiuso il 12 gennaio 2023. Il compratore è l’imprenditore Antonio Rapisarda, che acquistava a 3,45 milioni. Kunz e Di Cicco avevano comprato quello stesso immobile per 2,45 milioni. E lo avevano fatto solo 58 minuti prima di cedere quello stesso immobile a Rapisarda. Un fiuto per gli affari da Guinness dei primati. Sull’operazione la procura di Milano aveva aperto un fascicolo, non sono mai stati iscritti i politici e i loro familiari, ma ora i pm hanno chiesto l’archiviazione. Sempre in Toscana l’ex primo ministro Matteo Renzi aveva comprato la sua magione, da 1,3 milioni di euro, grazie a un prestito da 700mila euro ricevuto dalla madre di un imprenditore già finanziatore della fondazione Open, soldi poi tutti restituiti. Tutto regolare, ovviamente. Il piano casa per chi va al governo è sempre pronto.