Selezione Quotidiana di Articoli Vari

Caso Report, caccia alle talpe nell’ufficio del Garante della Privacy: si dimette il segretario Fanizza


Avviata un’indagine su chi avrebbe rivelato i movimenti dei membri ai giornalisti della trasmissione condotta da Sigfrido Ranucci

Sigfrido Ranucci: «Cos'è cambiato dopo la bomba? Facevo una vita di m... prima, continuo a farla adesso»

(di Antonella Baccaro – roma.corriere.it) – Dimissioni al Garante della Privacy. Ma a lasciare non è il collegio, finito nel mirino di Report, bensì il segretario generale Angelo Fanizza. Il comunicato dell’Autorità, diramato stasera, non dà spiegazioni ma quello che s’intuisce è che potrebbe essere ricaduta sul dirigente la responsabilità di un’indagine interna troppo invasiva sui dipendenti, esperita dopo l’inchiesta di Report per cercare eventuali “talpe”.

Ma riavvolgiamo il nastro. La notizia di un’assemblea dei lavoratori del Garante della Privacy che all’unanimità avrebbe sfiduciato l’intero collegio guidato da Pasquale Stanzione, comincia a circolare oggi in tarda mattinata, lanciata dal sito di Wired. A riprenderla, sostenendo la richiesta di dimissioni, Dario Carotenuto, membro M5S in commissione di Vigilanza Rai e Elisabetta Piccolotti per Alleanza Verdi Sinistra. Ma anche Sigfrido Ranucci, il conduttore di Report, che è stato multato dal Garante per aver diffuso una telefonata tra l’ex ministro Gennaro Sangiuliano e la moglie e che, all’attività del Collegio, ha dedicato tre puntate di fuoco.

Tuttavia, man mano che le ore passano, dell’ammutinamento di piazza Venezia si fatica a saperne di più. Tra i sindacati, che pure hanno preso l’iniziativa, pare Fisac Cgil e Uilca, c’è chi si tira indietro circa ulteriori spiegazioni perché â€œla questione è troppo delicata”. E chi parla, ma a mezza bocca, ricostruendo una vicenda in effetti intricata.

Questo il sunto di fonte sindacale: già ieri ci sarebbe stata un’assemblea del personale dell’Autorità, circa 200 dipendenti, che avrebbe discusso soprattutto del mandato di cui il Collegio avrebbe investito il segretario generale Angelo Fanizza (nominato lo scorso mese): indagare sulla fuga di notizie che ha alimentato le puntate di Report. Chiamata al voto sulla richiesta di dimissioni del collegio, l’assemblea si sarebbe spaccata. Si sarebbe così deciso di chiedere un confronto con i membri del Garante, una richiesta che oggi sarebbe stata accettata da Stanzione che, in un primo momento, avrebbe preferito incontrare i dipendenti senza i sindacati. Ma alla fine anche questi sono stati ammessi. E qui la versione si fa molto delicata, perché dal botta e risposta sarebbe emerso che in effetti un’indagine interna sarebbe stata avviata e che riguarderebbe anche un controllo della corrispondenza dei dipendenti che risalirebbe indietro fino al 2001.

La circostanza sarebbe apparsa così inaccettabile da provocare una sollevazione e un nuovo voto dell’assemblea, convinta a quel punto all’unanimità a chiedere le dimissioni dei quattro membri del collegio. Per ore la versione non ha trovato conferma da parte del Garante fino al comunicato serale in cui sono state annunciate le dimissioni. Ma quelle del segretario generale Fanizza. Ma in serata è arrivata una nota con cui «il Collegio del Garante per la protezione dei dati personali afferma la propria totale estraneità alla comunicazione a firma dell’ex Segretario Generale – alla quale, peraltro, non è mai stato dato seguito – riguardante una richiesta di dati dei dipendenti relativi all’uso dei sistemi informatici.

Il Garante ricorda che come da suo costante orientamento giurisprudenziale l’accesso da parte del datore di lavoro a taluni dati personali dei dipendenti relativi all’utilizzo dei sistemi informatici può costituire violazione della privacy».


“Non dire male del re…”, il peccato del consigliere Garofani


Una polemica montata ad arte per disincentivare resistenze ai propri progetti sulla legge elettorale e per l’ennesimo diversivo di massa dai reali problemi del governo con un Paese in difficoltà. Se non fosse grave, una querelle che meriterebbe solo di essere riportata in trattoria, dove è nata

(Eugenio Mazzarella – editorialedomani.it) – Accusato di un piano contro Meloni, il consigliere Garofani, cattolico, ancorché di sinistra, non ha purtroppo tenuto a mente, a tavola, l’ammonimento di Qohèlet, 10,20: «Non dire male del re neppure con il pensiero/ e nella tua stanza da letto non dire male del potente, / perché un uccello del cielo potrebbe trasportare la tua voce/ e un volatile riferire la tua parola».

Roma è piena di uccellacci ed uccellini, e di uccellati di conseguenza. Peccato, perché un peccato di imprudenza a tavola si è trasformato in un tramestio sgangherato ai danni delle istituzioni da parte dei soliti noti a Palazzo Chigi. Cui non è sembrato vero di tornare a proporsi come vittime dell’ennesimo complotto, e di poterci offrire un saggio della Premierada alla Sgarbatella che ci ammanniranno da qui alle elezioni del ’27 dove arrivare con una nuova legge elettorale con il premier eletto, nei fatti, direttamente dal popolo con maggioranza assicurata al seguito.

«Complotto e rivoluzione» – complotto loro e rivoluzione nostra – sembra essere per Fratelli d’Italia la strategia per rivoltare, a favor di popolo ovviamente, il paese come un calzino. Dopo che le scatolette di tonno delle Camere sono state largamente svuotate, ora pare essere arrivato il turno del Quirinale. È la nuova scatola da svuotare. E da intimidire, imputandogli un inesistente complotto dei Consiglieri di cui, «là dove si puote», «non si poteva non sapere». Ma la scatola si è confermata fortunatamente, come è stata pensata dai Costituenti, uno Scatolone, e bello pieno. E che, capita l’antifona, in modo inusuale ha reagito facendo intendere che lo Scatolone è ben abitato, e che tutta la verità de La Verità ricamata da Belpietro e sventolata da Bignami come un drappo rosso per infilzare le banderillas dell’indignazione istituzionale sulle terga del povero Garofani (ma in realtà il toro da cominciare a sfiancare nell’arena era un altro), era una stupidaggine ai limiti del ridicolo.

Il resto va da sé: incontro quirinalizio, «non ce l’ho con Lei», «piena sintonia», «ma quello lì deve scusarsi, io sono una tosta».

Poco conta che l’imprudente Garofani, facendosi riprendere da ex Pd dalle sirene delle questioni interne del suo vecchio partito con amici della sua vecchia squadra, il buon De Bartolomei compreso, lo “scossone” pare non lo intendesse rivolto da dare al governo, ma al Pd perché attrezzasse una candidatura più performativa di Schlein contro Meloni alla prossima tornata elettorale.

Si deve scusare, questa è la richiesta. Forse proprio del goffo tentativo di togliere a Meloni la sparring partner dalla premier ritenuta ideale per vincere la prossima volta. E non parlasse di un impossibile scossone al governo in carica per cui nessuno ravvede i termini politici, tra cui la limpida correttezza istituzionale di Mattarella. Che a chi scrive appare essere ben disponibile all’ascolto, ma sulle questioni essenziali benissimo in grado di consigliare ai suoi consiglieri cosa consigliargli, se proprio vogliono.

Insomma, una polemica montata ad arte per disincentivare resistenze ai propri progetti sulla legge elettorale e per l’ennesimo diversivo di massa dai reali problemi del governo con un Paese in difficoltà. Se non fosse grave, una querelle che meriterebbe solo di essere riportata in trattoria dove è nata, con Garofani che dichiara che non stava affatto chiedendo uno scossone alle istituzioni o al Pd ma semplicemente lo scorzone sull’amatriciana, visto che non è ancora tempo di tartufi, che non si trovano.

Credo che questo Paese più che di Amazzoni, Medee e Zarine – un machismo al femminile – comincia ad avvertire il bisogno di una “paternità” responsabile, serena, consapevole, in cui tutti possano riconoscersi. Inclusiva, non divisiva. Mattarella ne è un’icona, non andrà bene a scalmanati e scalmanate, ma va bene, a stare ai sondaggi, a moltissima Italia, quella di tutti.


Ma quale “complotto del Colle contro Giorgia Meloni”


(dagospia.com) – Il Garofani-gate, nonostante le polemiche politiche e i tanti articoli dedicati al caso dalla stampa nazionale, è ben lontano dal chiudersi.

Il tentativo di Fratelli d’Italia di gettare acqua sul fuoco, con la nota distensiva verso il Quirinale dei capigruppo, Lucio Malan e Galeazzo Bignami, non dissipa i tanti dubbi alimentati dagli articoli de “La Verità”.

Innanzitutto, esiste o no un audio di Francesco Saverio Garofani, consigliere di Sergio Mattarella che a una cena si sarebbe lasciato andare a considerazioni politiche che il quotidiano di Belpietro ha tradotto in un roboante quanto inconsistente “piano del Quirinale per fermare la Meloni”?

Il condirettore del quotidiano, Massimo De Manzoni, ieri ha fatto il vago: “Potrebbe esserci una registrazione”. 

Oggi il vice di Belpietro, Martino Cervo, ospite di SkyTg24, ha ribadito: “Non è una cosa che posso né confermare né smentire. […] Non possiamo escludere che esista perché dato il luogo dove sono state pronunciate quelle frasi, confermate dal diretto interessato, nessuno di noi può escludere che questo audio ci sia’, ma allo stesso modo ‘non posso confermare in questa sede che questo audio esista né io l’ho ascoltato'”.

In realtà l’esistenza di un file appare, con il passare delle ore, sempre meno probabile. 

D’altronde se la registrazione esistesse, perché non pubblicarla e fare così  definitivamente chiarezza? 

Il sospetto è che l’esistenza dell’audio sia stata ventilata più come spauracchio, forse come “mind game” verso Garofani che, temendo di essere sbugiardato da una registrazione, non ha potuto né tacere né smentire gli articoli de “La Verità”. 

Mettetevi nei suoi panni: era a una cena conviviale con amici, si è lasciato andare a qualche considerazione politica, ha dialogato sullo stato di salute del Pd. Non poteva avere, giorni dopo, l’esatta contezza delle parole effettivamente utilizzate. 

Sapeva, questo sì, di non aver evocato alcun “provvidenziale scossone” né di aver tratteggiato chissà quale “piano” per abbattere Giorgia Meloni e il suo governo. Ma le parole usate per commentare lo stato di salute dei dem, queste no, non poteva ricordarle. E allora, nel dubbio, Garofani ha rilasciato qualche dichiarazione al “Corriere della Sera”. I più hanno voluto leggere le sue parole come una conferma dello “scoop” di Belpietro. Ma in buona sostanza ha riconosciuto di aver preso parte alla conversazione politica, si è intestato i ragionamenti sul Pd, ma ha smentito qualunque trama complottista. E tanto basterebbe per ritenere chiarito lo “scandalo”. 

E invece no. I giornali ci hanno ricamato su, si sono concentrati sui possibili risvolti fanta-politici della vicenda. Francesco Malfetano sulla “Stampa” evoca gli “apparati”, Monica Guerzoni sottotraccia fa capire che dietro allo “scandalo” ci sia un “duello” Crosetto-Meloni per il Quirinale, “mentre Stefano Folli ne fa una questione di scacchiere internazionale e di ombre russe:

“Non bisogna dimenticare […] che il Quirinale è oggetto degli strali del Cremlino con un’insistenza più che sospetta. Nel quadro della “guerra ibrida” a cui era dedicato il Consiglio di difesa dell’altro giorno, con i dati forniti dal ministro Crosetto, questa pressione putiniana rivela soprattutto un aspetto: a Mosca c’è chi ritiene che l’Italia sia il “ventre molle” […] dello schieramento occidentale. E tra le posizioni russofile di Salvini e quelle analoghe dei Cinque Stelle non è strano che qualcuno ritenga di poter ricavare qualche vantaggio a buon prezzo”.

Tocca ricorrere al solito rasoio di Occam: tra più spiegazioni valide, bisogna sempre scegliere la più semplice.

Questa volta dunque, più che una “guerra ibrida” o una trama di “apparati”, ad aver innescato il Garofani-gate potrebbe essere stata una “gola profonda”, anche un po’ pasticciona.

Per capire bene cosa sia avvenuto, occorre ripartire dai fatti. 

Giovedì 13 novembre, al Tempio di Adriano, in pieno centro a Roma, si tiene un evento organizzato da Luca Di Bartolomei per l’associazione intitolata a suo padre Agostino. Un convegno per promuovere le attività solidali dell’ente, che offre borse di studio ai giovani in difficoltà, per farli studiare e praticare sport.

Come racconta Lorenzo De Cicco su “Repubblica”: â€œDiversi ospiti, anche volti noti: il conduttore di Di Martedì Giovanni Floris, il prefetto di Roma, Lamberto Giannini, manager come Paolo Del Brocco, amministratore delegato di Rai Cinema […]. C’era anche Lando Maria Sileoni, che ieri è stato intervistato da Panorama, settimanale diretto sempre da Belpietro, descritto così: ‘Indiscusso leader della Fabi, il più potente sindacato dei bancari italiani’”.

A fine convegno, una piccolissima parte degli invitati, 16 persone e nessuno di quelli elencati sopra, va a cena alla Terrazza Borromini, con affaccio su piazza Navona, il cui titolare ha ottimi rapporti con Luca Di Bartolomei. La sala non era riservata, ciò significa che il ristorante era aperto anche ad altri clienti.

Al tavolo di Luca di Bartolomei, organizzatore della serata, sedeva un gruppo di amici. Era una cena ristretta, d’altronde.

Insieme a Francesco Saverio Garofani c’erano vari manager, consulenti, un amministratore delegato di una banca, due cronisti sportivi Rai (Carlo Paris e Fabrizio Failla) e…un giornalista che in passato ha lavorato in un quotidiano di destra, già diretto in passato da Belpietro.

Un dettaglio, quello del vecchio impiego del cronista, che ha attirato l’attenzione degli “addetti ai livori”. 

Va tenuto a mente, infatti, che la mail inviata dal misterioso “Mario Rossi” (dall’account stefanomarini@usa.com), con il resoconto della serata e le dichirazioni di Garofani,  è stata recapitata ad altri quotidiani. Sicuramente l’ha ricevuta “il Giornale” di Sallusti, che ha preferito non dar seguito alla segnalazione. A “Libero” non sarebbe arrivato nulla, almeno così dice il direttore Mario Sechi.

L’atmosfera della tavolata alla “Terrazza Borromini” era assolutamente conviviale: si parlava di calcio, di lavoro e a un certo punto il discorso è scivolato verso la politica. Tema caro a molti dei presenti: il futuro del centrosinistra e lo stato comatoso del Pd.

Francesco Saverio Garofani, assicurano a Dagospia alcuni presenti alla cena, non ha mai parlato né di Giorgia Meloni né ha mai pronunciato la parola “scossone”.

Del resto, nemmeno l’improvvido “Mario Rossi” attribuisce l’invocazione di un “provvidenziale scossone” al consigliere di Mattarella. Nella mail le due parole non erano virgolettate ma erano frutto di un ragionamento di chi ha vergato il racconto.

E’ stato Maurizio Belpietro, nel suo articolo di martedì, ad aggiungere le virgolette a quelle parole, affibbiandole di fatto a Garofani.

Una mossa da prestigiatore che ha così permesso a Belpietro, pur sempre cresciuto al magistero di Vittorio Feltri (uno che sapeva come creare scandali), di sparare in prima pagina il titolo evocativo e esagerato: “Piano del Quirinale per fermare Meloni”.

C’è anche un secondo “errore”, come ricorda ancora Lorenzo De Cicco su “Repubblica”:

“Non tornano le date. La conversazione, scrive Mario Rossi nella mail di domenica, risalirebbe al giorno prima: si legge infetti che ‘l’incontro conviviale è avvenuto ieri’. Dunque sabato. La Verità non ha nemmeno cambiato questa parte, nonostante sia andata in edicola martedì. Da quanto apprende Repubblica, invece, la cena in questione è avvenuta giovedì 13 novembre”.

Pasticcione, dunque, questo “Mario Rossi”. Ma anche a “La Verità” non scherzano.

In ogni caso, la misteriosa “gola profonda”, di ora in ora, è sempre meno misteriosa…

E’ facile immaginare come, su una tavolata di 16 persone, sfogliando la margherita dei  sospetti, sia stato possibile arrivare rapidamente a un nome. Tolti Garofani, Luca Di Bartolomei e qualche altro fidatissimo amico, lo spazio si è ristretto fino a individuare il maldestro spione…

DI BARTOLOMEI ‘COMPLOTTO? SOLO TAVOLATA TRA AMICI ROMANISTI’

(ANSA) –  “Ma quale complottone contro il governo… Io sono anni che lavoro in contesti prossimi alla politica e so riconoscere quando una discussione fa un salto di scala, diventa sensibile. Invece ho letto delle cose campate in aria, costruite in maniera totalmente artificiosa. Sono stati estrapolati pezzi di conversazione, anche di soggetti diversi”.

Lo afferma in una intervista a La Repubblica Luca Di Bartolomei, il figlio di Agostino, calciatore bandiera della Roma tragicamente scomparso. E’ stato Luca ad organizzare la cena alla quale ha partecipato Francesco Saverio Garofani, il consigliere del presidente della Repubblica, poi finito al centro delle polemiche.

Si trattava, spiega Di Bartolomei, della “cena annuale, lo scorso giovedì 13 novembre, che ha seguito la presentazione al Tempio di Adriano delle attività dell’associazione nata per ricordare Agostino con l’obiettivo di aiutare i giovani in difficoltà a studiare e praticare sport”.

“Sappiamo tutti – sottolinea – chi è Francesco, a cui sono legato da molti anni da affetto e stima. Quale sia il suo stile. E’ la persona più moderata e più istituzionale che abbia mai conosciuto. Uno cui non ho mai sentito dire una parolaccia in vita, per dare un’idea del tipo. Figuriamoci i complotti”.

“Era tutto tranne che un incontro carbonaro. Anche perché – ricostruisce Di Bartolomei – il locale era aperto al pubblico. C’era convivialità, qualche sfottò e anche la garanzia della massima riservatezza. Per questo sono amareggiato. Come si può accettare questo attacco volgare al capo dello Stato e a Francesco, finito in un tale tritacarne mediatico? La violazione di uno spazio amicale è inaccettabile”.

MARIO ROSSI INFORMATORE, GIALLO SULLA MAIL AI GIORNALI

(ANSA) – L’articolo lo ha pubblicato La Verità, firmato con uno pseudonimo, Ignazio Mangrano. Ma lo stesso identico testo è arrivato domenica all’ora di pranzo in almeno tre redazioni, di area di centrodestra, inclusa quella del Giornale, dalla casella mail stefanomarini@usa.com, e firmato Mario Rossi.

Questo elemento getta tinte di giallo sullo scontro politico istituzionale nato dal caso Garofani, anche perché è diventato un dato lampante quando le testate online di Repubblica e Stampa hanno fatto emergere questo retroscena poche ore dopo la conclusione dell’incontro al Quirinale fra Sergio Mattarella e Giorgia Meloni, pubblicando anche la foto della mail.

Di certo nessuno ha riportato quell’articolo lunedì, il giorno del Consiglio supremo di difesa, con Mattarella, Meloni e mezzo governo riuniti al Colle. L’edizione odierna del Giornale (di proprietà del deputato della Lega Antonio Angelucci e prima della famiglia Berlusconi), nel pezzo sulle “tensioni” fra FdI e Colle, ha riferito di aver ricevuto quella mail.

“Temo ci sia un po’ di invidia in quel pezzetto del Giornale – ha commentato Massimo De Manzoni, condirettore de La Verità, ospite di Un giorno da pecora, su Radio1 – Pensa che avremmo fatto tutto questo sulla base di una lettera anonima? E se fosse vero, come mai il Giornale non c’è andato dietro?”.

“Assolutamente”, ha garantito De Manzoni, conosciamo la fonte, “non è un Mario Rossi”. È “una fonte più che autorevole”, aveva messo nero su bianco il direttore Maurizio Belpietro nell’editoriale sul “piano del Quirinale per fermare la Meloni”. Ora ci si interroga sull’esistenza di un audio della conversazione che ha avuto come protagonista Francesco Saverio Garofani, consigliere del presidente della Repubblica. “È possibile” che esista, ha confermato De Manzoni senza escludere che il giornale abbia tenuto dell’altro materiale per nuove puntate nei prossimi giorni: “Top secret. Un po’ di casino lo abbiamo fatto già, intanto stiamo sfruttando le reazioni”.


Sudan, benvenuti all’inferno


Soldiers belonging to the South Sudanese Unified Forces sit on a track as they depart after a deployment ceremony at the Luri Military Training Centre in Juba on November 15, 2023. Hundreds of former rebels and government troops in South Sudan’s Unified Forces were deployed at a long-overdue ceremony on November 15, 2023, marking progress for the country’s lumbering peace process. (Photo by Peter Louis GUME / AFP)

(Matteo Parini – lafionda.org) – Se la corruzione degli oligarchi ucraini e il genocidio della Palestina sembrano oggi coinvolgere emotivamente una fetta crescente di opinione pubblica – verrebbe da dire che non è mai troppo tardi – non si può certo dire lo stesso dell’immane tragedia umanitaria che da anni fa del Sudan l’ennesimo angolo di inferno in Terra. Situazione complicata, per la verità, che si prova qui a raccontare a partire da un breve excursus storico.

All’inizio del nuovo millennio Omar al-Bashir è al governo già da una decade, da quando, alla testa di un colpo di Stato militare, rovescia il governo eletto di Sadiq al-Mahdi. Il suo è un sistema autoritario in un Paese segnato da profonde differenze etniche e culturali. Guerriglie e violenze, pertanto, sono la stretta attualità di quei giorni. Il neonato Consiglio di Comando Rivoluzionario per la Salvezza Nazionale – di fatto una giunta militare che concentra il potere nelle mani delle forze armate – insieme all’influenza ideologica di Hassan al-Turabi, l’ideologo del radicalismo religioso e del Fronte Islamico Nazionale, trasforma il regime in una dittatura a carattere islamista con una solida centralizzazione del potere. In quel lustro, dal 1991 al 1996, il Sudan ospita anche Osama bin Laden.

Il sodalizio tra al-Bashir e al-Turabi si spezza già alla fine degli anni Novanta: il primo teme la crescente popolarità del secondo che, come spesso accade in questi contesti, finisce incarcerato. Con l’epurazione dell’alleato divenuto scomodo, al-Bashir rimane il leader incontrastato di un Paese pronto ad esplodere. Inflazione alle stelle, pane che manca, così come medicinali e carburante, alimentano proteste popolari che nel Darfur diventano particolarmente agguerrite.

Il perché l’epicentro del malcontento sia proprio il Darfur è presto detto. Oltre alla drammatica situazione economica generale, la popolazione africana non araba della regione percepisce con buone ragioni di essere trattata come cittadina di seconda classe. Gruppi etnici come i Fur, i Masalit e gli Zaghawa sono esclusi dalle cariche di governo, quasi impossibilitati a ricoprire incarichi nell’esercito, privati del sostegno statale in materia di scuole, ospedali e infrastrutture. A tutto ciò si aggiunge la questione dell’acqua. Il Darfur è una regione arida e nei conflitti tra pastori nomadi arabi e agricoltori sedentari africani il governo di Khartoum finisce sempre per penalizzare questi ultimi.

Non sorprende, dunque, che le comunità autoctone si organizzino in movimenti di ribellione: nascono il Sudan Liberation Army e il Justice and Equality Movement, quest’ultimo vicino ad al-Turabi. Entrambi rivendicano i diritti negati dal regime di al-Bashir. Marginalizzazione politica, discriminazione etnica, conflitti per le risorse, assenza di mediazione tradizionale e diritti calpestati sfociano nell’attacco alla base governativa di El-Fasher. È la scintilla che fa esplodere la guerra.

L’esercito regolare risponde con una brutale repressione, appoggiandosi a milizie regionali occasionali che, dieci anni più tardi, confluiranno nelle RSF, le Rapid Support Forces. Mohamed Hamdan Dagalo, detto “Hemedti”, diventa il leader di una forza paramilitare leale all’establishment che si affianca all’esercito regolare, il SAF (Sudan Armed Forces). Fino al 2019, la presenza di al-Bashir funge da collante tra due anime destinate a divergere. Alle RSF spetta il controllo delle miniere d’oro e delle rotte commerciali, al SAF quello dell’apparato statale e delle frontiere.

La crisi economica, il malgoverno e la corruzione endemica spingono la popolazione stremata a scendere in piazza. Inoltre, dal 2011, con l’indipendenza del Sud Sudan, alle casse dello Stato viene sottratta la quasi totalità del petrolio, causando un ammanco enorme. Nel dicembre 2018, ad Atbara, la protesta per il prezzo del pane triplicato diventa simbolo del cambiamento imminente. Dalle rimostranze di piazza nasce il Consiglio Militare di Transizione guidato dal generale Abdel Fattah al-Burhan, con Hemedti come vice, che raccoglie effettivi sia delle RSF sia del SAF.

L’esercito, dunque, volta le spalle ad al-Bashir che viene arrestato con l’accusa di ostacolare la stabilità del Paese. Ma, nonostante la caduta del dittatore, le proteste non si placano e le due anime del CMT cominciano a mostrare insofferenza reciproca. La popolazione chiede un governo civile; al-Burhan vuole inglobare le RSF nel SAF entro due anni; Hemedti esige almeno una decade di autonomia, convinto di poter fare all-in sul Paese in quel periodo di transizione. Ambizioni inconciliabili.

Khartoum, centro dell’egemonia politica del Sudan, è teatro della frattura insanabile. Nel 2023 le RSF organizzano un’adunata militare non concordata intorno alla capitale con l’esercito che interpreta la mossa come un tentativo di colpo di Stato. Forte del controllo sulle risorse del sottosuolo, Hemedti punta alla capitale per estromettere al-Burhan dal potere. Inevitabilmente Khartoum diviene il campo di battaglia, la genesi della guerra civile sudanese.

I due eserciti fortificano le rispettive posizioni con il SAF nelle basi tradizionali e le RSF nelle regioni controllate, e il conflitto si estende a macchia d’olio al resto del Paese, intrappolando milioni di civili sotto il fuoco incrociato. Inizia la carneficina, una guerra di logoramento tra artiglieria pesante, mezzi blindati e droni. La carestia, secondo la definizione di FAO e FSNAU, colpisce oltre il 20% della popolazione con insicurezza alimentare grave, il 30% dei bambini sotto i 5 anni soffre di malnutrizione acuta e il tasso di mortalità supera le 2 persone ogni 10.000 al giorno per fame e malattie correlate.

Uno scontro che diventa progressivamente più asimmetrico e muta le sue dinamiche. Lo scorso marzo l’esercito di al-Burhan riconquista Khartoum e dichiara la capitale “liberata”, mentre le RSF mantengono il controllo delle aree periferiche e dei corridoi economici. È guerriglia urbana, la forma di guerra peggiore per la sopravvivenza dei civili. Secondo l’UNHCR, oltre undici milioni di persone sono sfollati interni e quattro milioni hanno cercato rifugio nei Paesi limitrofi. Metà della popolazione soffre fame acuta. Ondate di omicidi etnici fanno oggi della crisi sudanese, secondo l’ONU, la peggiore emergenza umanitaria del mondo.

Il SAF, in sintesi, controlla una capitale ridotta in macerie, con le RSF che si radicano nel Darfur e conquistano città strategiche come al-Mahla e al-Rahid per proteggere le aree ricche di risorse e instaurare una governance parallela. Il Sudan appare, così, spaccato in due, al netto del Sud Sudan che resta una fragile entità riconosciuta. Eppure al resto del mondo sembra importare poco che trenta milioni di sudanesi siano a rischio di morte per fame, nonostante le prime immagini terrificanti inizino a circolare sul web nell’epoca dei genocidi in diretta streaming.

La situazione nel Darfur è, se possibile, quella peggiore, dove le RSF hanno appena conquistato El-Fasher al termine di un assedio durato diciotto mesi. Testimoni fuggiti dalla città, ultima roccaforte del SAF nella regione, riferiscono di scene raccapriccianti: violenze sessuali, massacri, esecuzioni di civili mentre decine di migliaia di persone tentano invano di scappare.

Intanto cominciano a cristallizzarsi le posture degli attori esterni, con la prospettiva di una guerra di attrito a tempo indefinito e di una spartizione de facto del Sudan che appare sempre più concreta. Gli Emirati Arabi Uniti, i principali alleati di Israele nella regione, rafforzano il controllo delle RSF sul Darfur in cambio di accesso all’oro e alle rotte del Mar Rosso. Stati Uniti, lo stesso Israele, Regno Unito e Francia rincorrono le stesse ambizioni coloniali. La stessa piramide di potere e interessi globali che opera a Gaza, un sinistro filo rosso che collega idealmente i popoli martoriati di Palestina e Sudan. Armi occidentali e diplomazie conniventi, morti di serie A e di serie B, il tristemente consueto doppio standard del Nord globale quale colonna sonora dei genocidi in atto.

La disintegrazione del Sudan, inoltre, resta un obiettivo dichiarato del sionismo israeliano, che già nel 2011 si era adoperato con raid aerei tollerati dalla Comunità internazionale per raggiungere tale scopo. Conseguenza di quella ingerenza, come accennato poc’anzi, fu la nascita eterodiretta del Sud Sudan in chiave essenzialmente anti-iraniana. Da Israele, non deve stupire, arriva dunque il sostegno allo sforzo bellico delle RSF e agli annessi massacri in cambio della cessione di fatto della sovranità su un’area geograficamente strategica e di appetibili ricchezze.

Per Tel Aviv, ancora, il Sudan è tutt’altro che periferico: è un ponte geografico verso l’Africa e un’ancora strategica sul Mar Rosso, che protegge una delle arterie marittime più importanti del mondo, quella tra il Canale di Suez e lo Stretto di Bab el-Mandeb. Israele, in altri termini, utilizza la brutale guerra del Sudan per giustificare agli occhi dell’opinione pubblica la sua espansione militare nel Mar Rosso con il pretesto di proteggere le rotte di navigazione globali dalle minacce degli Houthi. Tradotto, la volontà di fare del Sudan una zona cuscinetto. 

Appare evidente come la situazione in atto non possa più essere interpretata soltanto come un conflitto civile o una crisi regionale. Si inserisce invece in un quadro geopolitico più ampio, che vede contrapporsi quello che viene definito l’Asse della Resistenza (Iran in testa, con Hezbollah, Hamas, Houthi e milizie sciite irachene) all’asse Stati Uniti–Israele. In questo contesto, cresce in questi ultimi la preoccupazione per una possibile saldatura tra i fronti yemenita e sudanese in un unico teatro di confronto, con il Mar Rosso al centro di una competizione strategica sempre più intensa. La contesa non riguarda più soltanto il controllo delle rotte marittime, ma la definizione degli equilibri strategici dei prossimi anni. Con Israele, già impegnata su più fronti bellici, che considera il controllo dell’area alla stregua di una questione di natura esistenziale con tutte le implicazioni del caso.

L’immagine odierna del Sudan restituisce, in definitiva, un Paese ormai sezionato in due in un contesto geopolitico più vasto che è campo di battaglia di ingombranti attori terzi. Per restare alla guerra intestina, da una parte l’esercito regolare, arroccato nel nord-est e determinato a preservare il proprio controllo; dall’altra le milizie paramilitari, radicate a ovest e sempre più autonome nelle loro catene di comando ed efferate contro i civili. Una geografia del potere interno fratturata che riflette la natura profonda del conflitto. Se il futuro del Sudan è avvolto nell’incertezza, l’unica realtà innegabile è l’emergere di un nuovo disastro umanitario; una crisi con poco appeal che sta lasciando una scia di morte e devastazione destinata a segnare ulteriormente questa fase terribile della storia contemporanea.


Vietato disturbare il governo Meloni nell’anno del referendum


Il Ppe chiede aiuto alle destre e blocca una missione dell’Ue in Italia su libertà di stampa e giustizia. Secondo quanto apprende Ilfattoquotidiano.it da fonti vicine al dossier, la pressione del partito europeo di cui fa parte anche Forza Italia è arrivata per far sì che i membri della commissione LIBE del Parlamento Ue non disturbassero l’esecutivo di Roma nell’anno del referendum sulla giustizia. Bloccata anche la missione della commissione per l’Occupazione e gli Affari Sociali

(di Gianni Rosini – ilfattoquotidiano.it) – Vietato disturbare Giorgia Meloni. Il messaggio è arrivato chiaro anche al Parlamento europeo, tanto che con un blitz in Conferenza dei presidenti il capogruppo e presidente del Partito Popolare Europeo, Manfred Weber, ha chiesto e ottenuto, con l’aiuto dell’estrema destra, il blocco di una missione in Italia dell’Eurocamera con focus sullo stato di diritto, la libertà di stampa e la giustizia. Lo stop ordinato, e ottenuto, dal Ppe non solo getta l’istituzione europea di nuovo nell’imbarazzo e fa gridare opposizioni, ma non solo, al servilismo dell’Ue nei confronti di alcuni governi, ma rappresenta il terzo punto di rottura all’interno della maggioranza Ursula, con i Popolari che per la terza volta usano le destre per far passare le proprie posizioni.

L’accordo sulla missione era stato trovato già due mesi fa e la Commissione per le libertà civili, la giustizia e gli affari interni del Parlamento europeo (LIBE) stava già lavorando ai preparativi del viaggio e degli incontri che si sarebbero dovuti tenere. Incontri che avrebbero trattato i temi dello Stato di diritto e, con particolare attenzione, della giustizia e libertà di stampa, anche alla luce delle pesanti dichiarazioni del conduttore di ReportSigfrido Ranucci, e del direttore di FanpageFrancesco Cancellato, in audizione a Bruxelles lo scorso maggio. Tutto è filato liscio fino al pomeriggio del 19 novembre, quando è stata convocata la conferenza dei presidenti che ha l’ultima parola anche sulle missioni organizzate dal Parlamento Ue. Secondo quanto appreso da Ilfattoquotidiano.itManfred Weber, alleato di Antonio Tajani in Europa e all’interno dello stesso Ppe, ha chiesto e ottenuto, col supporto dell’estrema destra di Ecr (partito europeo di Giorgia Meloni) e Patrioti (formazione nella quale milita la Lega), di annullare il viaggio della delegazione. La motivazione, da quanto riferito da fonti interne, è legata a possibili interferenze nel processo di voto in vista del referendum in Italia. Referendum che, fanno sapere da ambienti di governo, potrebbe tenersi il 22 marzo, tanto che la stessa missione era stata posticipata dopo le prime consultazioni a giugno 2026. Non è un caso, quindi, che questo stop irrituale, dopo settimane di preparativi e un accordo trovato ben due mesi fa, arrivi proprio nei giorni in cui la Corte di Cassazione ha accettato i quattro quesiti referendari. Segno che il vero intento di Weber e del suo partito era quello di non arrecare disturbo al governo italiano su temi al momento estremamente delicati come la giustizia e la libertà di stampa. Contemporaneamente è arrivata anche la decisione di annullare un’altra missione, quella della commissione per l’Occupazione e gli Affari Sociali che dal 30 marzo al 2 aprile si sarebbe dovuta recare a San PatrignanoFoggia e Caserta.

Il blitz del Ppe ha fatto infuriare sia le opposizioni che gli altri partiti che compongono la cosiddetta maggioranza Ursula in Parlamento Ue. Anche perché si tratta della terza volta in cui i Popolari abbandonano il gruppone centrista all’Eurocamera a sostegno della presidente della Commissione per allearsi con l’estrema destra. La prima si era registrata quando nella riunione dei coordinatori di luglio il Ppe appoggiò la richiesta delle destre di assegnare il ruolo di relatori sulle due proposte sulla definizione di Paesi terzi sicuri a Ecr. Infine, giovedì 13 novembre, nel corso della mini-plenaria, il Ppe ha votato insieme ai Conservatori e all’estrema destra sul pacchetto omnibus che mirava a ridurre la burocrazia a carico delle imprese sugli obblighi di rendicontazione e due diligence sul rispetto delle norme climatiche, ambientali e dei diritti umani lungo tutta la catena di approvvigionamento. Tanto che in quell’occasione, tra gli eurodeputati di Fratelli d’Italia, si diceva che in Ue si era passati “dalla maggioranza Ursula alla maggioranza Giorgia”.

Così la presidente dei Socialisti, Iratxe García Pérez, ha commentato a Politico la mossa del Ppe: “Dovremmo rispettare le competenze del Parlamento e la Conferenza dei Presidenti non dovrebbe contraddire il lavoro svolto a livello di commissione. Cosa nasconde l’Italia per rifiutare una delegazione al Parlamento europeo col sostegno del Ppe?”.

Dure anche le opposizioni, con il Movimento 5 Stelle che parla di episodio “gravissimo quello che è accaduto a Bruxelles. Secondo quanto si apprende la destra europea, con un blitz nella conferenza dei capigruppo, avrebbe cancellato la missione del Parlamento europeo in Italia che avrebbe dovuto monitorare lo stato di diritto, compresa la libertà di stampa – ha dichiarato la senatrice Barbara Floridia â€“ Proprio mentre nel nostro Paese si discute delle querele contro i giornalisti, delle pressioni politiche e dell’attentato contro Sigfrido Ranucci. Proprio mentre alla Camera viene esaminata una mozione che denuncia criticità sempre più evidenti. Proprio mentre si discute una riforma della Rai che non va minimamente incontro al Media Freedom Act europeo e con la commissione di vigilanza Rai bloccata dalla maggioranza. Censurare il monitoraggio europeo in un momento così delicato è un segnale politico intimidatorio. Se Giorgia Meloni non ha niente da nascondere dica ai suoi in Europa di evitare questa vera e propria censura, o magari invece le fa comodo?”.

X: @GianniRosini


Il gioco di prestigio di Maurizio Belpietro


(dagospia.com) – C’è un dettaglio importante nel Garofani-gate, poco valorizzato oggi dai giornali. In pochi hanno notato una discrepanza di non poco conto tra la mail di Mario Rossi (partita dall’account stefanomarini@usa.com) e l’articolo di martedì sulla “Verità”, firmato da Maurizio Belpietro.

Occhio, non stiamo parlando del pezzo con la firma del nom de plum Ignazio Mangrano, che è un copia incolla pressoché integrale della lettera elettronica, ma di quello firmato dal direttore. Quello che in prima pagina è stato titolato, a caratteri cubitali, “PIANO DEL COLLE PER FERMARE LA MELONI”.

Nell’articolo, Belpietro a un certo punto scrive: “A quanto pare si ragiona di una ‘grande lista civica nazionale’, una specie di riedizione dell’Ulivo, con dentro tutti. Un’ammucchiata centrista per togliere voti alla Meloni.

Ma forse questo potrebbe non essere sufficiente e allora il consigliere di Mattarella, Francesco Saverio Garofani, tre legislature come parlamentare del Pd, invoca la provvidenza. ‘Un anno e mezzo di tempo forse non basta per trovare qualcuno che batta il centrodestra: ci vorrebbe un provvidenziale scossone’, sussurra l’uomo del Colle”.

“Provvidenziale scossone”, due paroline che però non sarebbero mai state pronunciate da Garofani. La prova è nella stessa mail di Mario Rossi, dove si legge:

“Garofani dipinge un quadro chiaro. Se il contesto politico restasse quello attuale, Giorgia Meloni sarebbe destinata al Quirinale. Lo dice quasi sorridendo, sì, ma come chi sta dicendo una cosa che lo preoccupa parecchio.

E soprattutto aggiunge un dettaglio non irrilevante: ‘In quell’area non c’è nessuno adeguato’.

Tradotto: Meloni è l’unica. E questa unicità, secondo il consigliere del Colle, sarebbe un problema. Poi c’è il calendario, già definito. Si voterà nella tarda primavera del 2027, probabilmente maggio.

Manca un anno e mezzo. Un’era geologica per la politica. Ma al Colle — è questo il punto — non sembrano così convinti che il tempo basti a cambiare gli equilibri, se non interviene qualche provvidenziale scossone.

Non a caso Garofani si lascia scappare un commento che racconta un mondo: ‘Speriamo che cambi qualcosa prima delle prossime elezioni, io credo nella provvidenza. Basterebbe una grande lista civica nazionale’. Non proprio una dichiarazione di neutralità istituzionale”.

Le parole “provvidenziale scossone”, nella mail, non sono attribuite a Garofani. Sono un ragionamento di chi scrive, ma con un gioco di prestigio da vecchio mestierante, vengono virgolettate da Belpietro per scatenare la polemica.

Perché Belpietro l’abbia fatto, se sia stata una sua iniziativa o se ci sia una regia politica, poco importa: l’effetto è stato deflagrante, e Fratelli d’Italia si è buttata a pesce sulla vicenda, con l’ormai celebre comunicato con cui il capogruppo alla Camera, Galeazzo Bignami, ha chiesto a Garofani di smentire, scatenando l’ira del Quirinale, che ha reagito con una nota di inusuale durezza (“Stupore, confina nel ridicolo”).

Più importante è notare, come fa Francesco Cundari su “Linkiesta”, il rapporto osmotico tra “Verità” e Giorgia Meloni: “Da tempo ripeto che per capire cosa pensi Meloni bisogna leggere la Verità, esattamente come per capire cosa pensi Giuseppe Conte bisogna leggere il Fatto. Anche Conte, quando era ancora fresco della sua gratificante esperienza a Palazzo Chigi, manteneva una posizione assai più atlantista, europeista e responsabile di quella che poi sarebbe andato via via assumendo.

Ma se allora, quando per fare un solo esempio votava a favore dell’invio di armi all’Ucraina, si fosse guardato a cosa scriveva in proposito il Fatto quotidiano, anziché i cantori della grande svolta progressista dell’Avvocato del popolo, si sarebbe capito con largo anticipo dove sarebbe andato a parare (cioè esattamente al punto di partenza […]).

Allo stesso modo, quanti si bevono oggi la favola della svolta liberale, atlantista ed europeista di Meloni, farebbero bene a leggere piuttosto la Verità, quotidiano smaccatamente filo-putiniano, no vax e no euro. La verità del governo Meloni, e della presunta evoluzione di Fratelli d’Italia, sta tutta lì”.


Perchè Infantino fa da ancella a Trump?


(Paolo Tomaselli – il Corriere della Sera) – Sono trascorsi tre anni da quel monologo di 61 minuti, alla vigilia del Mondiale in Qatar, con il quale Gianni Infantino entrò sulla scena della politica internazionale: «Oggi mi sento qatarino, arabo, africano, gay, disabile, mi sento un lavoratore migrante». Eppure la sua raccomandazione più accorata, in quel discorso che spaziava dal bullismo subito da bambino figlio d’immigrati in Svizzera fino all’ipocrisia dell’Europa neocolonialista, era di segno opposto: «Pensate solo al calcio, please, please, please ».

Anche oggi, quando viene invitato a Sharm el-Sheikh nel vertice sul futuro di Gaza e marca a uomo Donald Trump nello Studio Ovale, il presidente della Fifa non deroga del tutto a questo principio: il calcio, a partire dal trionfo dell’Italia al Mundial ‘82, per lui è riscatto sociale. E la sua passione, anche quella per l’Inter, è intatta.

Ma il problema, a sette mesi da un altro torneo che per la federazione del calcio mondiale vale oltre 10 miliardi di euro, è semplice: pensare solo al calcio è impossibile.

Tra le continue ironie della stampa anglosassone e gli strali di chi ha dimenticato quale era la credibilità della Fifa quando è diventato presidente nel 2016 dopo Blatter, Infantino ha scelto di cavalcare una sorta di pericoloso gigantismo, del quale il nuovo Mondiale a 48 è l’emblema, con il suo motto mostrato ai 3,5 milioni di follower su Instagram: «Vivere il calcio, unire il mondo attraverso il calcio e rendere il calcio davvero globale».

Del resto è stato lui, in vista dei possibili accordi di Abramo, a tratteggiare (prima del 7 ottobre 2023) la possibilità di un Mondiale organizzato da Arabia e Israele, con l’obiettivo di vincere il Nobel per la pace.

Per adesso, Infantino ha istituito un premio per la pace, che il 5 dicembre nel sorteggio mondiale a Washington avrà il suo primo vincitore, Donald Trump, attirandosi un surplus di sarcasmo: «Solo la Fifa, che è una organizzazione non profit e ha reinvestito dal 2016 5 miliardi di dollari per la crescita del calcio, può essere criticata perché vuole la pace — recita la risposta del capo della comunicazione Bryan Swanson al Guardian — . La Fifa deve essere riconosciuta per ciò che è: un organismo di governo globale che vuole rendere il futuro del mondo più luminoso».

Un manifesto, dove calcio e politica si fondono. E pazienza se per perseguire l’obiettivo è servito l’ endorsement della politica di Trump, non consentito dallo statuto della Fifa. Ma quel che conta per Infantino è il risultato. E ogni partita ha la sua storia: solo grazie alla sua insistenza nel 2018 entrarono 1.500 donne allo stadio di Teheran per una partita del Persepolis dove lui era l’ospite d’onore.

Trump ha voluto Infantino a Sharm el-Sheikh, ufficialmente per mostrare «quello che il calcio può fare nella ricostruzione di Gaza», anche se per la morte del calcio nella Striscia, la Fifa per due anni non ha preso posizione.

La vera peculiarità di Infantino utile a Trump, in un mondo nel quale lo sportwashing è la prassi (nella speranza che le sue ricadute siano sociali e non solo economiche), è il rapporto col mondo arabo. E la sua presenza, un po’ offuscata da quella di Ronaldo, all’incontro e poi alla cena alla Casa Bianca tra Trump e il principe saudita Bin Salman è la chiusura del cerchio.

All’interno del quale c’è l’opera più ambiziosa: l’assegnazione all’Arabia (per acclamazione e senza avversari) del Mondiale 2034.

L’assegnazione a Usa-Canada-Messico è arrivata invece durante il primo mandato di Trump e otto anni dopo Infantino non avrebbe mai pensato di ritrovarsi The Donald come interlocutore. Per la riuscita del torneo gli deve stare accanto ogni minuto: sorridendo a denti stretti alle sue sparate sugli altri Paesi organizzatori («Allora per il narcotraffico bombardiamo il Messico?») o sulle sedi delle partite, con Seattle messa in discussione dopo l’elezione di una sindaca democratica.

La Fifa ha il suo quartier generale nella Trump Tower, ha appena organizzato il primo Mondiale per club negli Usa grazie ai soldi sauditi, ha accettato Washington come sede del sorteggio. E in cambio nelle ultime ore ha ottenuto la soluzione del problema dei visti veloci per chi compra i biglietti per il Mondiale.


Mamma li russi!


Mamma li russi!

(di Antonio Pitoni – lanotiziagiornale.it) – Ora che il Piano segreto in 28 punti tra Mosca e Washington per la pace in Ucraina è stato svelato dal sito Axios, la corsa al riarmo dell’Unione europea appare ancora più insensata. Cosa che dovrebbe indurre i cosiddetti leader Ue a riflettere sulla fallimentare gestione del conflitto.

Tanto sul piano militare, visto che i miliardi in armi e denaro inviati a Kiev a spese dei contribuenti non sono bastati a ribaltare le sorti di una guerra segnata fin dall’inizio. Quanto su quello politico-diplomatico che, qualora il Piano Usa-Russia dovesse andare in porto, vedrebbe l’Europa tagliata ancora una volta fuori da un negoziato che, d’altra parte, ha fatto di tutto per sabotare e niente per favorire. Ma il vero psicodramma sarebbe spiegare ai cittadini europei, semmai il conflitto in Ucraina dovesse chiudersi, da quale nemico dovremmo difenderci buttando nel cesso – a parte quelli d’oro della tangentopoli che ha travolto il governo di Kiev – 800 miliardi del Piano di Riarmo targato Ursula bomb der Leyen. A cui sommare pure il conto della ricostruzione di un Paese distrutto dalla guerra per procura fomentata dagli Usa (di Biden) e che hanno già chiarito (con Trump) che dovremo saldare noi.

Così per non perdere la faccia, ai leader europei non resta che sperare nella prosecuzione della guerra. Magari usando, come arma di distrazione di massa, la stessa propaganda che imputano al Cremlino. Martedì abbiamo appreso del dossier del ministro della Difesa Crosetto sui rischi della guerra ibrida da parte della Russia con tanto di capitolo dedicato all’Italia esposta, secondo Repubblica, su tre fronti: “Energia, infrastrutture critiche ed ecosistema politico e sociale”. Ora si dà il caso che in questi quasi quattro anni di guerra, l’unica infrastruttura (energetica) critica europea colpita sia stato il gasdotto Nord Stream, sabotato dai nostri alleati ucraini e non dai presunti nemici russi.

Quanto alle “campagne di disinformazione” per influenzare l’opinione pubblica, gli hacker del Cremlino devono aver fatto un pessimo lavoro se, ormai dal suo insediamento a Palazzo Chigi, i sondaggi danno il partito della premier Meloni – tra le più strenue sostenitrici dell’Ucraina al punto da scommettere sulla sua vittoria – stabilmente intorno al 30% dei consensi. Non sappiamo chi abbia scritto il dossier, ma se questo è il livello, qualche domanda al posto di Crosetto inizieremmo a porcela.


Centri in Albania, i nodi alla fine vengono al pettine


(di Silvia Truzzi – ilfattoquotidiano.it) – Tra involtini di spigola e fragoline di bosco, circondati da una nutrita schiera di ministri, Edi Rama e Giorgia Meloni hanno siglato una serie di accordi bilaterali a Villa Pamphilj. Cultura, cybersicurezza, narcotraffico e un sacco di altre materie sulle quali non ci dilungheremo (16 in tutto) perché il centro di tutto erano, sono e saranno gli ormai famigerati centri per i migranti a Shengjin e Gjadër, al di là dell’Adriatico, costati quasi 700 milioni di euro più altri 70 previsti dalla nuova Finanziaria. Giorgia Meloni abbassa la voce ma non cambia i verbi a un anno di distanza da quella minacciosa cantilena di Atreju, sillabata con toni da balcone di Piazza Venezia: funzionare e funzioneranno. Sostiene la premier che quando entrerà in vigore il nuovo Patto Ue su migrazione e asilo, i centri “funzioneranno come dovevano dall’inizio. Avremo perso due anni per finire esattamente com’era all’inizio”. La responsabilità, te pareva, “non è mia, ciascuno si assumerà le sue” (attenti magistrati). E, sempre rivolta alle toghe, spiega: “Molti hanno lavorato per frenare o bloccare il progetto, ma noi siamo determinati ad andare avanti”. Il tempo non è servito a nulla, e nemmeno l’ossessiva modifica della materia a colpi di decreti: nei due dispendiosi centri ci sono una ventina di migranti, a dispetto delle magniloquenti cifre che snocciolavano all’indomani dell’intesa (tremila al mese).

Dopo questo show condito dalle solite lusinghe del premier albanese, due notizie in apparenza piccole mettono in dubbio le certezze della premier. Il 5 novembre la Corte d’Appello di Roma ha firmato un’ordinanza di rinvio alla Corte di Giustizia Ue che chiede lumi sulla competenza dell’Italia a siglare accordi come quello con Tirana. I giudici romani domandano se – tenuto conto del Trattato dell’Unione europea e del Trattato sul funzionamento dell’Unione europea, “in base ai quali l’Ue ha competenza esclusiva per la conclusione di accordi internazionali allorché tale conclusione può incidere su norme comuni o modificarne la portata” – l’intesa Italia-Albania sia stata legittimamente siglata: se la Corte darà ancora ragione ai giudici italiani, il Protocollo sarà nullo. C’è poi un altro ricorso che invece riguarda la competenza delle Corti d’Appello a decidere in prima istanza sui richiedenti asilo. Come si sa, il governo ha fatto di tutto per aggirare le ordinanze dei Tribunali che avevano disapplicato i decreti “Cutro” e “Paesi sicuri” (confortati anche da una sentenza della Corte di Giustizia europea dell’agosto scorso): uno dei tanti decreti aveva spostato la competenza dai Tribunali (che giudicano in primo grado) alle Corti d’Appello (che giudicano in secondo grado). Ora la Corte d’Appello di Lecce si rivolge alla Consulta perché i migranti oggetto dei provvedimenti non possono impugnare la decisione davanti a un giudice d’Appello, quindi a un giudice di merito, ma solo davanti alla Cassazione, quindi solo per motivi di legittimità formale. Il diritto alla difesa – che sappiamo essere molto importante per Fratelli d’Italia e parenti vari – risulta “compresso” in maniera “irragionevole”. L’impugnazione è possibile in tempi “estremamente ridotti”, cinque giorni, e appunto “solo per violazione di legge”.

Tutto questo – dicono giornalisti e commentatori – è troppo tecnico e complicato da capire per i cittadini. Si può riassumere in una semplice frase: questo governo non riconosce l’autorità giudiziaria quando intralcia le sue decisioni e prova ad aggirare le decisioni della magistratura, che applica le leggi fatte dal Parlamento, con decreti che non hanno mai i requisiti straordinari di urgenza e necessità prescritti dalla Costituzione. Ma visto che nemmeno le forzature funzionano, arrivano le varie riforme per imbrigliare la magistratura: e addio Stato di diritto. Più semplice di così…


Quei putiniani italici chiamati pacifisti


Ci sono molte sfumature tra il collaborazionista e chi non aderisce al principio di Nato o barbarie. La guerra in Ucraina chiamata dal Cremlino “Operazione militare speciale” è iniziata il 24 febbraio del 2022 In quasi 4 anni la Russia continua ad avanzare ma molto lentamente a costo di perdite in vite umane molto elevate 

La guerra in Ucraina chiamata dal Cremlino “Operazione militare speciale” è iniziata il 24 febbraio del 2022 In quasi 4 anni la Russia continua ad avanzare ma molto lentamente a costo di perdite in vite umane molto elevate

(Domenico Quirico – lastampa.it) – Ma insomma: dove sono i putiniani? È forse una razza portentosamente impagliata a grandezza naturale? Anzi: esistono i putiniani, i filorussi, reincarnazione aggiornata degli antichi supporter di Baffone, di Cruscev perfino di Breznev, ovvero gente che al momento buono, quello del passare dalle chiacchiere agli atti, tirerebbe fuori le bandiere della Federazione russa accuratamente nascoste in cantina in attesa della epifania del Piccolo Padre delle autocrazie, del Vento dell’est versione riveduta e corretta, e maniacalmente coatto lo piazzerebbe sul personale balcone? Pronto a obbedire e a credere, se non proprio a combattere.

Se usciamo dalla semantica degli eufemismi e dalle arzigogolate manovre dei politici nostrani a cui di quello che accade tragicamente tra Odessa e il Donbass importa meno che una elezione amministrativa nel triveneto, perché mai in Italia anno domini 2025 terzo millennio qualcuno dovrebbe esser putiniano? In nome di che cosa? Il presunto putiniano italico mi sembra un Innominato matusalennamente ridestato da utilitaristiche rivisitazioni dell’allarmi, nemico alle porte! Si può ragionevolmente credere che ci sia qualcuno disposto a cadaverizzarsi su quell’abborracciato patchwork che sarebbe il putinismo: Borodino a braccetto con Stalingrado, Santa Russia e l’Internazionale, capitalismo oligarchico e soprattutto galere? Una sgangherata ricapitolazione storica davvero poco raccomandabile in cui perfino i russi sghignazzano e fanno fatica a inventariarla: figuriamoci eventuali virgulti e apostoli di Chivasso o Catanzaro disposti a immergersi nella stessa pece. Le ideologie, forse, tentano e sviano. Ma a Mosca dove è la ideologia?

Ammiratori della Forza autocratica come categoria dello Spirito forse? Ma quale? Una forza che non riesce neppur ad aver ragione in quattro anni degli scalcagnati ex sudditi ucraini? E che dovrebbe entro cinque anni! avanzare verso di noi simile a una inondazione.

Eppure… Più gli anni passano (quelli della ormai eternizzata guerra nelle pianure del centro Europa, quello sì il vero problema), più si acclimata, dalle nostre parti soprattutto, un maccartismo un po’ goffo, sbilenco, un maccartismo da cucina che denucia: spie… infiltrati… seduttori subdoli… doppiogiochisti! voci ahimè autorevoli annunciano il dilagare di ibride intromissioni e predicano ferree cautele, versione aggiornata del vecchio, primitivo taci il nemico ci ascolta. Si moltiplicano le rivelazioni: infiltrazioni russe attraverso prezzolati dal titolo accademico e quinte colonne di più bassa lega “social”, in attesa che arrivino anche qui i misteriosi droni e chissà quali altre avvenieristiche diavolerie. Indagini lombrosianamente antropometriche misurano i tiepidi e gli esitanti nelle maledizioni antirusse, sarebbero già elementi patogeni della famiglia autoritaria.

Domanda. Non si rischia in questo modo di rendere reale ciò che reale non è, ovvero moltiplicare in modo contagiosamente tracotante i pochi grulli che trovan simpatico il sorrisino di Putin o fanno e rifanno i conti in tasca di quanto ci costa resistere (è vero, con scarsi risultati) a fianco di Kiev? Non si dà credito perfino al manipolo di “esperti” che hanno accettato il ruolo di controcampo all’Occidente uguale al Bene, sospettati, misericordia! di esser devoti ai rubli di Mosca?

Allora per definire i putiniani si è costretti ad operare “a contrario”. Secondo molti lo sarebbero tutti quelli che non sono dichiarati, sottoscritti, entusiasti “perinde ac cadaver” dell’Occidente, semplificato in Nato, Unione europea e Stati uniti. Ma qui la ingombrante presenza di Trump consente alcuni sostanziosi distinguo. Che non si uniscono al polifonico coro della necessità del riarmo.

È un concetto pericolosamente sviluppabile proprio per la sua indeterminatezza. Putiniani quindi diventano tutti i cosiddetti pacifisti che ormai è nebbiosa e smunta categoria assimilabile all’insulto. Un tempo la “gauche” anche nostrana li trovava carini, un piccolo mondo antico come si deve. Oggi equivale a vigliacchi pantofolai, disposti a tutto pur di dormir sonni tranquilli, o a utili idioti che non si accorgono di sognare ad occhi aperti mentre alle loro spalle scatta la tagliola dell’uomo del Cremlino. Manovali pronti al soccorso sarebbero anche coloro che, pur considerando nefasta e orribile la vittoria di Putin, ricordano che le strategie messe in piedi a Bruxelles finora non hanno prodotto alcun risultato; e che render permanente la guerra, riproponendo blocchi e cortine di ferro o porcospini di acciaio, fa il gioco proprio di Putin. Lui che nel torbido brodo della guerra permanente nuota benissimo e si rafforza. Tra il collaborazionista e chi non aderisce al predicatorio: Nato o barbarie, forse ci sono larghi spazi di pensiero. Critico, non putiniano.


Manovra, Fratelli d’Italia propone ben sei condoni per sanare gli abusi edilizi


Le modifiche prioritarie. A 3 giorni dal voto Meloni e soci chiedono di riaprire le sanatorie dall’85 in poi e ne vogliono di nuove

(di Marco Palombi – ilfattoquotidiano.it) – Ne era atteso uno e invece dalle parti di Fratelli d’Italia hanno deciso di fare le cose in grande: tra i 400 emendamenti segnalati alla Manovra, quelli che andranno al voto in commissione in Senato fra le migliaia presentati dai gruppi, il partito di Giorgia Meloni ha presentato ben sei proposte di condono o sanatoria edilizia. Una cornucopia perdonista che arriva a tre giorni dal voto in Campania, la Regione che secondo gli ultimi dati disponibili, purtroppo non recentissimi, ha il maggior numero di domande inevase, oltre 650 mila: roba da vincerci le elezioni in carrozza. Sarà che la premier ha cambiato idea da quando, era appena arrivata al governo, discettava col direttore del Corriere della Sera Luciano Fontana di questa “Italia dei condoni”, rivendicava che FdI fu “molto critico” con quello per Ischia deciso dal governo Conte-1 nel 2018 (in realtà era un tentativo di accelerare la definizione delle pratiche inevase nell’isola) e parlava di “approccio culturale diverso” e di “cura del territorio”: ora siamo arrivati ai Fratelli dell’Italia dei condoni.

Torniamo al florilegio di proposte edilizie che i meloniani hanno “segnalato” come fondamentali per l’iter della manovra. Un paio riguardano il condono del 2003, il secondo e ultimo targato Berlusconi, e sono pensate proprio per la Campania, che all’epoca provò a opporsi (senza successo) alla legge del fu Cavaliere: il primo emendamento affida la riapertura dei termini per fare domanda a leggi regionali da varare entro fine febbraio, il secondo garantisce – in una manovra a tenaglia – che per sanare gli abusi non sia richiesta (com’è oggi) la doppia conformità normativa, ma solo quella alle norme edilizie precedenti il 2003. Il perdono vale per tutti, esclusi – com’è ovvio – gli abusi in zone vincolate o a rischio.

Gli altri sono pure peggio. Un emendamento riapre i termini dei condoni dal primo, quello di Bettino Craxi del 1985, per gli abusi terminati entro il 30 settembre 2025 (avete letto bene): l’obiettivo è sanare balconi, terrazze, logge, ristrutturazioni e quant’altro sia stato realizzato “in difformità dal titolo abilitativo edilizio”, purché non siano aumentate le volumetrie. Ma si torna anche più indietro: per le “difformità parziali” precedenti il 1977 – abusetti antichi – ci si mette a posto con 1.032 euro. Il quinto emendamento meloniano, invece, prova a connettere tutta questa meraviglia ai piani casa regionali: una modifica ingegnosa che consentirebbe ai condonati e condonanti secondo le leggi del 1985, 1994 e 2003 – in via di resurrezione – di partecipare ai regali di volumetrie per chi ristruttura un immobile inserite nei piani casa regionali.

Vi dobbiamo, infine, il sesto emendamento condonista di FdI, non si sa se il più pericoloso o il più inutile: prescrive che i Comuni debbano rispondere entro il 31 marzo 2026 a tutte le richieste inevase dal 1985 in poi. Non c’è scritto cosa succede in caso contrario, essendo escluso per ora che a una materia del genere possa applicarsi il silenzio-assenso (ma mai dire mai). La cosa è particolarmente assurda, specie in assenza di personale aggiuntivo dedicato (lo chiedono da anni le associazioni ambientaliste), perché le domande inevase sono milioni: come Il Fatto ha già scritto più volte, quelle totali per i tre condoni furono 15 milioni e spiccioli, quelle pendenti al 2019 erano oltre 4 milioni; la Campania, come detto, guidava questa speciale classifica con 656 mila domande davanti a Lazio e Sicilia (dati del centro studi Sogeea).

Tutto questo in un Paese che, a stare bassi, produce circa 20 mila edifici abusivi ogni anno e una miriade di piccole e grandi infrazioni su quelli vecchi: anche loro aspettano i nuovi condoni, come pure gli abusi che verranno finiti in questi mesi e quelli ancora in mente dei (sì, succede spesso che si chieda la sanatoria per un abuso ancora da fare). Ci sarebbe almeno da ricordare, di fronte alla valanga meloniana, che i condoni costano e non solo in termini ambientali ed estetici: in media lo Stato mette circa 24 mila euro ad abuso. L’erario dal 1985 ha incassato 15 miliardi dai condoni edilizi (invece dei 30 previsti) e ne ha spesi tre volte tanti in oneri di urbanizzazione (trasporti, fognature, illuminazione, etc.). Poco importa, “bisogna uscire dall’ipocrisia”, raccomanda Matteo Piantedosi: “L’alternativa al condono è l’abbattimento delle case e lo sgombero di migliaia di persone che nessuno fa”. E buon voto dal ministro dell’Interno.


Zelensky sotto assedio


Ucraina, nuovo piano Usa-Russia: addio a Zelensky, Crimea e Donbass. In 28 punti. Negoziata in segreto da Mosca e Washington la pace, con la liquidazione della leadership ucraina

(di Cosimo Caridi – ilfattoquotidiano.it) – Berlino. L’amministrazione statunitense ha messo a punto un piano segreto per l’Ucraina, articolato in 28 punti, negoziato direttamente con la Russia. Secondo Axios e il Wall Street Journal, il documento prende spunto dal cessate il fuoco nella Striscia di Gaza e punta a definire condizioni di pace, garanzie di sicurezza per Kiev e rapporti futuri tra Washington e Mosca. L’iniziativa nasce anche dalla frustrazione per i molteplici tentativi di negoziato falliti e dalla convinzione che la Russia possa essere più ricettiva a interlocutori militari di alto livello. Secondo fonti Usa, il presidente Volodymyr Zelensky non sarebbe stato incluso nella stesura del piano. Washington ha inviato a Kiev una missione del Pentagono: il segretario dell’Esercito Dan Driscoll, il capo di Stato maggiore Randy George e il generale Chris Donahue. Driscoll, amico del vicepresidente Jd Vance, è stato nominato segretario dell’Esercito da Trump nel febbraio 2025 è considerato un ponte tra il Pentagono e il mondo politico. Il generale George, dal settembre 2023 capo di Stato maggiore dell’Esercito, ha servito in Italia nel 2001 come ufficiale esecutivo e oggi guida una riforma interna delle forze armate. Il generale Chris Donahue, a quattro stelle, ha assunto a dicembre 2024 il comando dell’Us Army Europe and Africa: veterano con oltre 20 missioni, tra cui Iraq e Afghanistan, ha avuto contatti diretti con le forze ucraine e ha coordinato operazioni anche sul territorio europeo, comprese attività congiunte in Italia.

Secondo il Wsj, l’obiettivo della delegazione è valutare la situazione sul campo e riferire direttamente alla Casa Bianca. Lo stesso gruppo dovrebbe poi andare a Mosca, per incontrare dei funzionari russi. Dietro le quinte, la stesura del piano è guidata dall’inviato speciale di Trump, Steve Witkoff. Secondo un funzionario Usa, Witkoff ha discusso il piano con l’inviato russo Kirill Dmitriev, a capo del fondo sovrano russo. Dmitriev ha trascorso tre giorni a Miami, dal 24 al 26 ottobre, a confronto diretto con Witkoff e il suo team. Axios riporta che Dmitriev ha espresso ottimismo sulle possibilità di successo dell’intesa, sottolineando la differenza rispetto ai precedenti tentativi: “Sentiamo che la posizione russa è davvero ascoltata”. L’incontro mostra come gli Usa stiano cercando un approccio più pragmatico, affidandosi a interlocutori militari di alto livello per ottenere risultati concreti sul terreno.

La Casa Bianca ha iniziato a informare funzionari europei e ucraini, ma sembra che il piano sia stato elaborato senza il coinvolgimento diretto del presidente Zelensky. Secondo Axios, il segretario del Consiglio di sicurezza nazionale ucraino, Rustem Umerov, ha discusso il piano con Witkoff, ma Zelensky non è stato parte della stesura. La dinamica dei negoziati lascia emergere una crescente pressione statunitense sul presidente ucraino affinché accetti un accordo già definito, con indicazioni di compromessi poco vantaggiosi per Kiev. Politico e altri media Usa riportano che la Casa Bianca sembra voler accelerare il processo di pace, riducendo il peso politico di Zelensky nel definire i termini dell’intesa. Non ci sono dichiarazioni ufficiali di un tentativo di escludere il presidente, ma la gestione delle trattative e la distanza tra la sua posizione politica e l’approccio pratico degli Usa e della Russia suggeriscono un certo grado di marginalizzazione. Parallelamente, ieri si sono svolti in Turchia i colloqui tra Zelensky e il presidente Recep Tayyip Erdogan. “Confidiamo nella forza della diplomazia turca e nella sua comprensibilità a Mosca”, ha detto Zelensky, auspicando la ripresa degli scambi di prigionieri entro fine anno. Il presidente ucraino tenta di rimanere protagonista con incontri diplomatici, ma il quadro generale evidenzia uno scollamento tra la sua leadership interna e le manovre internazionali per la definizione di un accordo di pace.

Il piano di pace di 28 punti, ancora in fase di definizione, si concentra su quattro aree principali: pace in Ucraina, garanzie di sicurezza (ma truppe dimezzate), sicurezza Ue e rapporti Usa-Russia-Ucraina, addio Crimea e Donbass, restano però incertezze sul controllo territoriale nell’Ucraina orientale. Witkoff, dopo gli incontri con Dmitriev, ha posticipato l’incontro con Zelensky previsto ieri a Istanbul. La Casa Bianca sostiene che l’obiettivo rimane fermare il conflitto con “flessibilità” da entrambe le parti.


L’ideologia e la grammatica


(di Michele Serra – repubblica.it) – È totalmente inutile cercare di far notare alla presidente del Consiglio Meloni suoi eventuali errori, perché quanto a presunzione di infallibilità fa impallidire il più narciso dei maschi; e almeno in questo senso può ben vantare la raggiunta parità di genere.

Ma quanto detto in un comizio ad altissima voce (uno dei suoi infiniti comizi ad altissima voce, perché Meloni non discute, non risponde, non si esprime argomentando: comiziare a volume alto è la sua sola maniera di esprimersi in pubblico), quanto detto, dicevamo, merita una risposta che lei non terrà in alcun conto; ma noi sì, ed è quanto ci basta.

“Parità non vuol dire chiamarsi presidenta”, ha detto scimmiottando il politicamente corretto. Peccato che nessuno abbia mai preteso di chiamarla “presidenta”, non essendo così cretini, così caricaturali, le sue oppositrici e i suoi oppositori. Le è semplicemente stato detto da molte e da molti, ai tempi, che farsi chiamare “il presidente del Consiglio” è un errore di grammatica che nemmeno la più disinvolta delle forzature politiche può consentire. Presidente è participio presente tal quale reggente, partecipante, assistente, eccetera. Si dirà dunque il o la reggente, il o la partecipante, lo o la assistente (con elisione della vocale), il o la presidente, a seconda che sia maschio o femmina la persona in questione.

Altro da dire non c’è, se non che una donna che pretende di farsi chiamare il presidente ha deciso di deviare dalle regole della lingua italiana per ragioni ideologiche: ed è precisamente quanto le destre rimproverano alla cultura woke, stortare la realtà per adattarla al proprio sentimento.


Attenti al labiale


(di Massimo Gramellini – corriere.it) – In un mondo dove ormai persino il calciatore più sprovveduto mette una mano davanti alla bocca anche solo per dire «ciao», si rimane stupiti dalla nonchalance con cui i potenti di ogni disordine e grado esternano il loro pensiero in pubblico senza prendere la benché minima precauzione. L’ultimo caso riguarda quel Garofani consigliere del Quirinale che si augurava, pare, uno scossone politico in grado di arginare Giorgia Meloni. E se lo augurava non a casa sua, tra commensali fidati, ma al tavolo di un ristorante del centro di Roma, luogo che ha lo stesso livello di riservatezza di una portineria.

Le cronache descrivono Garofani come uomo schivo e riservato, addirittura ermetico. Che cosa lo avrà spinto ad aprire la scatola dei suoi pensieri davanti a persone che conosceva a malapena e ad altre che non conosceva affatto? L’atmosfera del posto, il vino, il bucatino, l’involtino? O più banalmente i potenti sono meno furbi e avveduti di come ce li immaginiamo? È la stessa domanda che mi faccio sempre davanti alla trascrizione di certe telefonate tra indagati illustri: ma perché avranno parlato così a ruota libera? Possibile non coltivassero il sospetto di essere ascoltati, intercettati, registrati? Lì almeno c’è l’attenuante del contesto: al telefono sei spesso da solo e finisci per illuderti che lo sia anche il tuo interlocutore. Invece in un locale pubblico è consigliabile, specie per un consigliere, mettersi una mano davanti alla bocca, e magari l’altra sulla coscienza.


Garofani ha servito ai melones un bell’assist per il premierato


Finanziaria-laccio emostatico per i poveri e manna per i ricconi; Sanità pubblica da Paese sottosviluppato; 70 miliardi in più all’anno per le armi; salari fermi da 30 anni. […]

(di Daniela Ranieri – ilfattoquotidiano.it) – Finanziaria-laccio emostatico per i poveri e manna per i ricconi; Sanità pubblica da Paese sottosviluppato; 70 miliardi in più all’anno per le armi; salari fermi da 30 anni. Per fortuna i funzionari del Quirinale straparlano del governo in luoghi pubblici facendosi registrare dal primo che passa (e che riferisce a La Verità), consegnando al governo un mega-regalo di Natale.

Facendo evocare dal suo capogruppo alla Camera Bignami il complotto contro di lei, Meloni non intende attaccare il Quirinale, che semmai, nella persona di un suo alto funzionario, ha attaccato un partito votato dagli italiani, ma seminare dubbi sulla terzietà della figura del presidente della Repubblica così come prevista dal nostro ordinamento. Nel quadro persecutorio compulsivo che sostiene la narrazione meloniana, non sfigura un Quirinale infestato da agenti dell’opposizione, peraltro in un contesto in cui l’opposizione reale sembra farle il solletico. Il promesso presidenzialismo – poi diventato premierato perché il fondamentale appoggio di Renzi e frattaglie è vincolato al sogno del “sindaco d’Italia”, cioè un premier votato direttamente dai cittadini – darebbe al nuovo presidente della Repubblica il potere di sciogliere le Camere come “atto dovuto”, una facoltà che a un partito inspiegabilmente altissimo nei sondaggi farebbe comodo adesso, senza aspettare la fine della legislatura, quando le rovine saranno troppe.

Il consigliere per la Difesa del Quirinale Garofani, che a pranzo esprime l’auspicio di uno “scossone” per impedire alla Meloni di ri-vincere le elezioni (laddove lo scossone sarebbe la vittoria di Ernesto Maria Ruffini a capo di un partito catto-dem: praticamente un golpe armato coi passamontagna), non viene indicato come un funzionario a dir poco incauto, ma subito reclutato da FdI come attore del suo teatro ansiogeno, in cui non passa giorno senza che il governo sventi un attentato contro la Meloni. La quale Meloni ha preso i voti promettendo di far “finire la pacchia” per le Ã©lite economiche e politiche, schiave dei poteri forti sovranazionali che negli ultimi anni hanno succhiato sovranità al popolo. Non che questo sia falso: i governi tecnici e di larghe intese sono serviti precisamente a ignorare o a ribaltare la volontà popolare (infatti le ultime elezioni le ha vinte l’unico partito che non faceva parte del governo Draghi) e fare la volontà dell’Ue e dei mercati. Peccato che Giorgia si sia rivelata una draghetta anche fuori dal mondo fantasy che ama, una che viene baciata in testa da Biden, abbracciata dalla Von der Leyen, elogiata da Trump, benvista da Netanyahu (che Tajani ospiterebbe volentieri in Italia con garanzia di non essere arrestato) e ringraziata da Zelensky per le armi che continuiamo a mandargli su ordine della Nato, a cui lei (e non solo lei) ha allegramente acconsentito di dare il 5% del Pil sottraendolo allo Stato sociale. A bilancio: è quasi fatta per la cosiddetta riforma della Giustizia, che dopo l’abolizione dell’abuso di ufficio, il depotenziamento del traffico di influenze, il bavaglio alla stampa, il limite alle intercettazioni e altre volgarità si completerà con la inutilissima e dannosa separazione delle carriere. Resta l’iniqua e per niente nazionalista Autonomia differenziata, su cui i leghisti pressano per avere la loro scodella di cibo, ma non si mette bene. Forse rileva troppo che nel giorno del casino sul Quirinale Meloni in un comizio a Padova abbia detto: “Vogliamo una riforma che dica basta agli inciuci, ai giochi di palazzo, ai governi che passano sopra la testa dei cittadini”. È il presidenzialismo (o premierato che sia: basta che si elegga qualcuno), dove l’arbitro lo scelgono i cittadini (fosse pure La Russa o Pino Insegno) e i suoi consiglieri non vanno nelle osterie ad augurarsi che a fermare la destra sia un exploit elettorale dell’ex capo dell’Agenzia delle entrate (come no: con 100 miliardi di evasione totale in Italia).