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L’Italia non può stare in mezzo al guado


Tra la sfida di Trump all’Unione e la pressione interna di Salvini, che si propone come l’Orban italiano, le leader di FdI prende tempo e pattina sul ghiaccio

L’Italia non può stare in mezzo al guado

(Flavia Perina – lastampa.it) – Il cortocircuito si manifesta mentre Volodymyr Zelensky entra a Palazzo Chigi e in contemporanea le agenzie segnalano l’ultima intervista di Donald Trump a Politico. Il presidente Usa paragona il leader di Kiev al P. T. Barnum, il re degli spettacoli da circo, un venditore di fumo ineguagliabile che «ha convinto il disonesto Joe Biden a dargli 350 miliardi di dollari» finiti in cenere, visto «che il 25 per cento del suo Paese è scomparso». Insomma, Zelensky come un piazzista e chi lo ha ascoltato (e lo ascolta) come un illuso o peggio il complice di una guerra inutile. E tuttavia mai come adesso Meloni e il presidente ucraino avevano bisogno di una pubblica stretta di mano. Zelensky deve tenere Meloni nel fronte degli alleati europei, gli serve che faccia massa critica anche perché è consapevole che Washington la giudica un’amica.

Per Meloni è importante ribadire un ruolo di primo piano, ma anche confermare la vicinanza a Kiev nonostante gli evidenti problemi di questa fase. Le serve per motivi internazionali, per mantenere un ruolo nella frenetica azione diplomatica dell’Unione, ma soprattutto per rilucidare un valore che nelle ultime settimane è apparso un po’ appannato: la coerenza, elemento fondante del racconto della destra di governo.

Mai come adesso quel valore e quel racconto appaiono a rischio, perché lacerati da due scelte entrate all’improvviso in conflitto: l’amicizia assoluta con l’America e il sostegno alla resistenza di Kiev. Per tutta la presidenza Biden le due linee di condotta sono andate di pari passo, l’una ha generato e rafforzato l’altra. Essere amici di Kiev, dare armi a Kiev, sanzionare la Russia, denunciarne i crimini di guerra, equivaleva a ribadire ogni giorno la relazione speciale con gli Usa. Oggi lo schema è rovesciato. Armare, nutrire, sostenere l’Ucraina nella ricerca di una pace giusta significa scontentare la Casa Bianca, al punto che la premier si è tenuta lontana da ogni giudizio sulla revisione europea del piano del presidente Trump, che ha tagliato i capitoli più palesemente punitivi per l’Ucraina. Come reagirà Trump alla controproposta? Nel dubbio, meglio prendere tempo.

Il problema è anche interno, perché Matteo Salvini stavolta potrebbe fare sul serio. La pubblicazione della nuova strategia di Sicurezza messa a punto da Washington lo ha ringalluzzito. Le critiche degli Usa all’Europa, la pioggia di dichiarazioni contro i suoi leader deboli e irresoluti, la dichiarata intenzione di sostenere i partiti sovranisti del Vecchio Continente e gli entusiasti applausi di Mosca al cambio di passo hanno riacceso le aspirazioni leaderistiche del Capitano. Proporsi come il Viktor Orban italiano, rispolverare il sovranismo muscolare dei bei tempi, presentarsi come l’uomo che, in virtù delle sue antiche relazioni, meglio può interpretare l’avvicinamento Usa alle istanze russe. Un’occasione fantastica per lui, un guaio di prima grandezza per il governo.

Così, le dichiarazioni assai sorvegliate del dopo-vertice confermano la sensazione che la premier italiana stia pattinando sul ghiaccio, esercizio nel quale peraltro è campionessa. Il presidente ucraino ringrazia per il «ruolo attivo dell’Italia nel processo di pace», esprime «gratitudine per il pacchetto di assistenza energetica», esalta il sostegno «alle famiglie ucraine, al nostro popolo, ai bambini», e insomma: nessun cenno ai temi-tabù, alle armi, alle speranze di una svolta per l’utilizzo dei 210 miliardi di beni russi bloccati dall’Europa. Sono argomenti che il governo italiano non può affrontare, non in questo momento. E anche la correzione del piano di pace americano è rimasta appesa a una frase alquanto generica: Meloni, dice Zelensky, è stata informata, «coordiniamo gli sforzi», ma niente di più.

La giornata del cortocircuito, così, si conclude con un flash della premier che ribadisce l’importanza «dell’unità di vedute tra i partner di Usa ed Europa». È la formula che definiva l’Occidente di una volta, bene-rifugio di una destra che spera ancora di poter restare in equilibrio tra due Continenti sempre più lontani.

Può durare ancora un po’, ma entro dicembre si dovrà definire il decreto Ucraina (quello sulle forniture militari), e in tempi brevi decidere se utilizzare il pacchetto di 14 miliardi del pacchetto europeo Safe, e prima o poi si dovrà pur dare un giudizio sulla veemenza antieuropea dell’amministrazione Usa (siamo d’accordo o no? ), sull’esistenza di una guerra ibrida russa contro l’Unione (ci crediamo o no? ), sulla difesa comune dei Ventisette (la vogliamo costruire o no?). Restare in mezzo al guado diventa ogni giorno più difficile, e forse anche rischioso per il castello di relazioni e credibilità messo insieme con tanta fatica


Pace o libertà, dilemma europeo


Il flashmob davanti a Palazzo Chigi prima dell'arrivo di Zelensky

(di Michele Serra – relupplica.it) – Sei per la pace o sei per la libertà? In un continente che, negli ultimi ottant’anni, ha avuto entrambe, ha goduto di entrambe, la domanda sembra abbastanza bizzarra. Penalizzante, oltre che illogica: da quando pace e libertà sono alternative l’una all’altra? Perché mai dovrei scegliere? Me le tengo tutte e due.

Eppure, con le dovute sfumature intermedie, è proprio questa la domanda che paralizza, soprattutto in Italia, il “che fare” riguardo al futuro dell’Europa: come se difendere la democrazia, con le sue garanzie, fosse un impiccio ideologico sulla strada della pace, e lavorare per la pace, con i suoi compromessi, fosse un cedimento alla doppia e incombente minaccia autocratica che, da Est e da Ovest, dichiara inimicizia e disprezzo per l’Unione.

Quella domanda è ricattatoria. Sottintende che rispondere “libertà” voglia dire alimentare la guerra quasi per un capriccio ideologico, e rispondere “pace” significhi rivelarsi imbelli e svendere al nemico, insieme alle porzioni di Ucraina già addentate, anche la democrazia. Ma il fatto che il campo progressista italiano (o come lo vogliamo chiamare), da quando l’elezione di Trump e i suoi successivi atti politici hanno reso lampante, tranne che ai più ottusi e ai più illusi, la fine dell’atlantismo, non sia in grado di fare dell’Europa e dell’europeismo una bandiera comune; non sia in grado di dire che pace e libertà sono entrambe condizioni costitutive del progetto europeo; non sia in grado di convocare una piazza unitaria; non sia in grado di dire quattro parole in croce che, a nome di tutti, stabiliscano che il sovra-nazionalismo europeista è per sua natura l’alternativa democratica al nazionalismo russo, al nazionalismo americano e al nazionalismo dei sovranisti europei: dimostra che quel ricatto, almeno fino a qui, funziona. È insuperato. Irrisolto. Con l’aggravante, micidiale, che è un ricatto auto-generato dall’opposizione stessa. Nessuno come la sinistra è in grado di sconfiggere la sinistra.

E dire che il dilemma tra riarmo e disarmo è una trappola ideologica da rifiutare ab ovo: l’Europa è già armata fino ai denti, in quella sproporzionata, abnorme quantità distruttiva che è conseguenza del duello atomico tra americani e russi e della Guerra Fredda; ma lo è con armi non sue, irta di missili in massima parte non suoi. Lo è in quanto, militarmente parlando, ex territorio d’oltremare degli Stati Uniti d’America. Beh, non è più così, e anzi è stato così ben oltre il necessario, fuori tempo massimo, nel senso che appare perfino comprensibile che l’America, ottant’anni dopo la Seconda Guerra e trentacinque dopo la caduta del Muro, non voglia più pagare l’ombrello atomico per noi europei. Mettersi nei panni degli altri è sempre la più difficile delle operazioni: ma voi paghereste per generazioni la tranquillità e la sicurezza di altri popoli?

Quanto tempo deve ancora passare prima che non solamente i governanti europei, anche le forze politiche e le opinioni pubbliche dei diversi Paesi ne prendano atto e comincino a discutere seriamente, operativamente sul da farsi? Perché, per esempio, i nipotini di quelli che volevano buttare a mare le basi americane non capiscono che questo, finalmente, è il momento, e che per farlo non serve “riarmo”, serve una difesa comune che sarebbe, probabilmente, meno costosa di quanto i singoli Stati già spendono oggi, adesso, ora, secondo la regola del massimo sforzo e minimo rendimento?

Al governo siedono tre partiti che, sulla politica internazionale, sono ben più divisi di quelli all’opposizione. Grosso modo: un terzo (Meloni e i suoi) è con Trump, un terzo (Salvini e i suoi) con Putin, solo un terzo, Forza Italia, si professa europeista. Ma il potere, evidentemente, è un collante formidabile, e la destra non sembra versata per l’introspezione. Si accontenta di vivere e possibilmente di comandare. Ed ecco il miracolo di un campo governativo che in caso di guerra non saprebbe che pesci pigliare, ma si guarda bene dal dirlo, perché dicendolo si dissolverebbe in un lampo, Salvini con il colbacco, Meloni con il cappello da cowboy e Tajani che bussa a Strasburgo sperando che gli aprano; e un’opposizione che anche tacendo resta divisa su un tema, quello del futuro europeo, che è con tutta probabilità il più importante non solo per le nuove generazioni, anche per quelle oggi sulla scena. Noi, insomma.

Parecchi lettori e anche qualche esponente politico mi ha scritto, in queste ore: perché non proviamo a replicare la manifestazione europeista del 15 marzo scorso a Roma, nella quale pace e libertà erano fianco a fianco, e fu un successo nonostante la sua composizione molto plurale (o forse: proprio per la sua composizione molto plurale, da Calenda a Fratoianni)? La risposta è semplice: perché tocca alla politica, oggi più di ieri, organizzarla. Come fu evidente allora, e ancora più evidente oggi, l’opinione pubblica europeista esiste, esistono gli europei (che sono un passo avanti rispetto agli europeisti: sono l’applicazione pratica dell’idea di Europa Unita). Ma la loro rappresentanza politica, a livello di massa (il solo che conta, che pesa, che cambia il corso delle cose) non è ancora riuscita a mettere insieme pace e libertà in modo che siano la stessa speranza e lo stesso progetto.


L’incazzatura di Trump e le colonie europee


(Tommaso Merlo) – Trump prende a pesci in faccia le colonie europee. Si è arrabbiato perché non fanno quello che vuole lui e cioè ammettere la sconfitta ucraina e metterci una pietra sopra. Narcisismo, ma nono solo. America first, tradotto significa farsi gli affari propri. Un concetto che non vale per il Venezuela, per il Medio Oriente e un domani non varrà nemmeno per la Cina, ma vale per le parassitarie colonie del vecchio continente. Già, il vento sovranista o neofascista che dir si voglia, si è trasformato in una brezza ma ancora soffia tra i palazzi di Washington. E l’ideona di Trump e compagnia bella, è quella di far saltare l’ordine emerso con la fine della Seconda Guerra Mondiale e rimpiazzarlo con gli amichetti ideologici del quartierino. Rimanere cioè amici solo dei paesi che la pensano come loro. Davvero una ideona. Faziosità istituzionale e quindi internazionale e dato che i governi cambiano di continuo, caos. Ora, se Trump fosse una persona sana e saggia ed il suo movimento politico fosse ancora vivo e vegeto, ci sarebbe da preoccuparsi, ma visto che cambia idea alla frequenza dei calzini ed è detestato perfino dagli assalitori a Capitol Hill con la pelle di bisonte in testa, possiamo stare tranquilli. I sondaggi dicono che alle prossime elezioni i democratici vincono a valanga anche se candidano un labrador retriever. E questo vuol dire che tutti i deliri di Trump finiranno insieme a lui in una bara in oro 24 carati sooner than later. Nel frattempo a noi sudditi dell’impero più demente e narciso della storia dell’umanità, non resta che sperare che il vento giri a favore. Trump ha tradito gran parte delle sue promesse elettorali, ma quella di voler la pace con la Russia ancora no. Non vuole buttar via soldi per una guerra persa e al contrario vuole guadagnarne a palate con Putin, un suo idolo da sempre. Ma per riuscirci, Trump deve piegare alla sua volontà le colonie europee infestate di russofobi e tecnocrati di vario genere e specie. E su questo ha ragione da vendere. In Europa siamo al trionfo della mediocrazia con classi dirigenti che hanno superato di slancio il limite del ridicolo. Basta vedere il trio comico Macron-Starmer-Merz che ha indici di gradimento peggiori delle emorroidi urticanti. Continuano ad esibirsi in spettacoli lampo sempre più patetici ed inutili, con pacche reciproche e frasette strafatte circondati da un disprezzo di dimensioni ormai continentali. Hanno buttato nell’umido miliardi di soldi pubblici mentre i loro paesi sono in piena crisi economica, e questo con l’unico risultato di aver spinto il popolo ucraino al suicidio di massa e tutti noi verso la terza guerra mondiale nucleare. Roba da gogna perpetua. E adesso, rimasti al verde e odiati anche dai parenti più stretti, vogliono pure rubare i soldi russi. Davvero senza vergogna. Ma del resto per ogni poltronaro che si rispetti, l’unico vero cruccio è l’exit strategy per il suo deretano. Prima di congedarsi cioè, devono trovare scuse e capri espiatori per i disastri commessi, altrimenti non vedranno più una poltrona vellutata nemmeno col telescopio astronomico. Trump su questo è stato furbo, ha sempre dato tutta la colpa della guerra a Biden anche mentre inviava soldi ed armi a Kiev ed ha sempre giurato sul Padreterno che di secondo nome fa Madre Teresa. Quanto a paesi come l’Italia, contiamo meno del due di picche quando briscola è bastoni. Molto meno. È il destino dei leccapiedi a prescindere dagli inquilini della Casa Bianca e con pure la reputazione da voltagabbana cronici. Una tradizione nazionale che i sovranisti nostrani al governo stanno portando avanti con assoluto rigore. L’unica speranza è che Trump questa volta si sia incazzato per davvero e invece di rimangiarsi tutto, mandi definitivamente in quel posto il trio comico Macron-Starmer-Merz e di conseguenza il loro idolo e collega di scena Zelensky. A Kiev serve un governo con un minimo di sale in zucca, in grado di ingoiare la perdita del sud-est del paese e la neutralità. L’unica garanzia di sicurezza dell’Ucraina è ristabilire rapporti solidi con la Russia. Nel frattempo, a noi sudditi dell’impero più demente e narciso della storia dell’umanità, non resta che sperare che il vento non solo giri a favore ma generi una tempesta politica che porti ad un cambiamento radicale in modo da liberarci per sempre da una mediocrazia imbarazzante e da classi dirigenti che hanno superato di slancio il limite del ridicolo.


Telemeloni esiste? Esiste come sono esistite, a suo tempo, Telerenzi e Teledraghi…


(Federico Rocca – Vanity Fair) – Programmi riesumati dalla naftalina, cult nazionalpopolari che resistono indenni da decenni, l’usato garantito come unica alternativa: la tv generalista italiana sembra avere smarrito la voglia di sperimentare, innovare, stupire. O sarà solo una sensazione?

Chi meglio di Carlo Freccero, il dirigente televisivo passato dal Canale 5 degli anni Ottanta alla leggendaria Rai a cavallo del millennio, quella di Chiambretti e dei Guzzanti, di Santoro e Luttazzi, può leggere in controluce l’attuale radiografia di una televisione – secondo alcuni – moribonda? 

Lo è davvero? 

«Tutt’altro. Vede, per capire la tv bisogna prima capire il pubblico di oggi: sballottato tra pandemia e guerra, lavora per due terzi della giornata e vive una vita dura, pesante, faticosa, piena di angosce.

La tv generalista rappresenta la nostra fase di relax quotidiano, è l’unico medium completamente passivo che richiede il grado zero dell’attenzione. È un tranquillante, un calmante, se vuole un palliativo. Sarà anche malata, ma paradossalmente la tv è anche una medicina». 

Qual è la malattia più grave che l’affligge? 

«La prevalenza dell’access-prime time sulla prima serata vera e propria, che dovrebbe essere al centro dei palinsesti e che invece è stata ormai declassata a seconda serata.

Le punte di diamante della tv, oggi, sono due videogiochi per adulti: La ruota della fortuna, da una parte, e Affari tuoi dall’altra.  

La prima appassiona come la Settimana enigmistica, il secondo rappresenta uno sfogo all’inclinazione ludopatica degli italiani. Un’accoppiata così forte da aver, di fatto, cancellato una trasmissione iconica come Striscia la notizia.  

La tv generalista è diventata puro intrattenimento, abdicando da qualsiasi ruolo di influencer dell’opinione pubblica: i due giochi in questione fanno, assieme, più del 50% di share. Che è un po’ la stessa percentuale dell’astensionismo alle ultime regionali. E non è un caso». 

Lei, da telespettatore, cosa vorrebbe vedere in prima serata? 

«Purtroppo sono deformato professionalmente, il mio sguardo non è più vergine: guardo la televisione come i pensionati guardano i lavori pubblici. Però, quando posso scegliere, vado sulla fiction.  

Ma se esaminiamo l’attuale prima serata di Canale 5, per esempio, vedremo che si appoggia su due pilastri che si mixano in modo straordinariamente fluido e intercambiabile: i programmi prodotti dalla Fascino di Maria De Filippi e le soap opera turche, suggerite dalla signora Carla Dall’Oglio, madre di Pier Silvio Berlusconi». 

Maria De Filippi è la donna – o diciamo pure il personaggio – più potente della tv italiana? 

«È una numero uno, le riconosco il grande merito di avere rinnovato completamente il reality. Ma non so se sia la più potente». 

Credevo che l’epoca dei reality fosse definitivamente tramontata. 

«Bisogna fare dei distinguo. Arrancano quelli tradizionali, come il Grande fratello, mentre macinano ascolti record quelli alla Temptation Island.

Non siamo più in un contesto statico, a camera fissa, dove tutto procede lentamente. De Filippi ha trasformato il reality in una telenovela piena di colpi di scena, capace di saziare la fame di storie del pubblico». 

Chi è, allora, il più potente della tv generalista di oggi? 

«Scotti, un’icona di Mediaset, e De Martino, che ho portato io in Rai. Lui fa la televisione esattamente come seduce le ragazze». 

Direi bene, quindi. Si parla molto del ritorno di Ok, il prezzo è giusto! Perché la tv ripropone solo format già ampiamente testati decenni fa, e che molti davano per morti e sepolti? 

«Viviamo nella dimensione della postmodernità, che si fonda sul concetto di eterno presente: una dimensione temporale dove non ci sono più un prima o un dopo, una storicità che possa rendere un prodotto datato.  

Ogni prodotto diventa un prototipo riproponibile all’infinito, purché venga reinterpretato ogni volta con una nuova chiave di lettura.

Un po’ come succede con la moda, che nasce per rendere obsoleti i vecchi prodotti e costringerci a rinnovare di continuo il nostro guardaroba.  

Ma con la postmodernità non è più così: ogni creazione si trasforma in icona atemporale, dalla giacca bar di Dior alla petite robe noir di Chanel, che non passano mai di moda. Gli stilisti che si succedono alla guida delle varie maison li riscoprono e li rieditano periodicamente. Se penso a Chanel non ricordo tanto le creazioni di Coco, quanto l’iperchanelizzazione operata nella maison da Karl Lagerfeld». 

Cosa c’è di attuale nella Ruota della fortuna, soprattutto nella dinamica dei ruoli del conduttore e dell’assistente? 

«Guardi, il meccanismo della Ruota è un po’ quello della musica degli anni ’60: ci ritrovi la tua giovinezza, la tua adolescenza, il mondo perfetto di Berlusconi.

Ci ritrovi il conduttore che vuole rianimare Mike Bongiorno, e in qualche modo anche la valletta, che si era persa col femminismo. Samira Lui è “perfetta”, anche nelle fattezze, è una di quelle donne delle copertine di Grand Hotel: una che sta al suo posto, una figura tradizionale». 

Ballando con le stelle, Amici, C’è posta per te: tutti i successi che riescono a restare tali hanno almeno 20 anni. Perché? 

«La televisione generalista si basa sull’audience, e l’audience è sostanzialmente ripetizione. Grazie a format consolidati le emittenti possono fare affidamento su investimenti pubblicitari certi: il marketing lavora sull’esistente, non sul nuovo ancora da realizzare.  

Ma l’eccessiva ripetizione può logorare i format, e così la sperimentazione non può essere del tutto cancellata. Piuttosto, viene esiliata su reti minori, complementari, digitali». 

Quando la tv italiana ha saputo innovare davvero per l’ultima volta? 

«Negli anni ’80, quando nacque la tv commerciale, presa poi come prototipo in molti Paesi: diede il via a una vera e propria rivoluzione culturale in tutt’Europa. Mi tocca fare un po’ di storia. Negli anni ’50 la tv nasce con due modelli antitetici: quella americana divenne subito espressione della cultura del Paese, che ha sempre privilegiato il valore del capitale economico.  

Al contrario, in Europa antepose il suo valore culturale, quasi “disprezzandone” quello commerciale.

Gli Stati europei conservarono a lungo il monopolio televisivo per fare di quel nuovo mezzo un uso pedagogico, un complemento della pubblica istruzione. La tv commerciale italiana ha scardinato tutto». 

Ha detto che la tv italiana non influenza più l’opinione pubblica. Nemmeno i talk show politici? 

«L’epoca mitica in cui il talk forma l’opinione pubblica coincide con Mani pulite, quando il genere esplode nelle sue forme più celebri, da Samarcanda di Santoro a Profondo Nord di Gad Lerner, e viene vissuto come uno spazio comune in cui dibattere l’eccezionalità politica del momento.  

Rappresentava la ricerca condivisa della verità: perché quel miracolo si verificasse era necessaria l’eterogeneità degli ospiti, e il conseguente scontro tra opinioni diverse.

Oggi nei talk c’è un cast fisso che recita un copione già scritto, in funzione di una normalità politicamente corretta che non prevede differenze ideologiche, ma solo piccole divergenze su temi marginali. Ecco perché qualcuno dice che ora la tv è solo propaganda». 

La cronaca nera imperversa, nei podcast e nelle trasmissioni pomeridiane della tv. Perché? 

«Il crime funziona sempre, perché è una sorta di matrice narrativa, implicita nella meccanica stessa degli eventi.

Ogni caso giudiziario, e ogni sua narrazione, si apre con un omicidio: e che cos’è l’omicidio se non quella “rottura dell’equilibrio” che per lo strutturalismo e la critica formalista dà il via all’azione, costituendo la prima di una serie di tappe obbligate che rendono il racconto efficace?». 

Da dove arriva la vera minaccia alla tv generalista, oggi: dai social o dalle piattaforme di streaming? 

«Dobbiamo cominciare a riflettere davvero nell’ottica dell’integrazione dei media portata dall’avvento del digitale.

Prima, quando un medium si imponeva, cancellava la centralità di quello precedente.  

A un certo punto cambia tutto. Che cos’è oggi la televisione: quello che vediamo sullo schermo fisso del salotto, o anche ciò che fruiamo su altri device come pc, tablet, smartphone?

È difficile stabilire chi contenga cosa, oggi, e di conseguenza rispondere alla sua domanda». 

Da dirigente è stato promotore di una tv – parole sue – «provocatoria e scomoda». Oggi che cosa lo è? 

«Niente. Sono aggettivi che, per acquisire senso, presupporrebbero differenze, o stonature, tra i contenuti programmati, rispetto al contesto e all’identità della rete in cui un certo programma viene trasmesso.  

La verità è che non esistono più reti autonome e indipendenti, i direttori non sono più nelle condizioni di dare loro un’identità editoriale. Da tempo la realizzazione dei programmi è stata sottratta alle singole reti, per essere affidata a strutture produttive che fanno capo ai diversi generi: informazione, fiction, intrattenimento…  

Una volta un canale era come una boutique monomarca – per esempio di Hermès – e i suoi prodotti dovevano differire da tutti gli altri per essere identificabili. Oggi i palinsesti generalisti sono piuttosto un grande magazzino che vende gli stessi identici prodotti della concorrenza. L’obiettivo è l’omologazione: ogni secondo di televisione deve avere un valore commerciale». 

Telemeloni esiste? 

«Esiste come sono esistite, a suo tempo, Telerenzi e Teledraghi. È stata la riforma Renzi a far dipendere le nomine del Consiglio di amministrazione della Rai dal governo in carica. I direttori di rete non devono dimostrare competenze mediatiche, ma piuttosto fedeltà all’esecutivo.  

Quello che, in qualche modo, è riuscito a sopravvivere fino a oggi delle reti concepite con indipendenza editoriale viene ora espulso, o appena tollerato, come per esempio Report.  Il risultato? Un appiattimento totale e assoluto. 

L’unico elemento che sembrava poter giustificare un servizio pubblico che grava economicamente sulle tasche dei contribuenti era l’informazione indipendente. Cancellata quella, la televisione pubblica non è più in grado di giustificare la sua esistenza». 

Deduco che sia contrario al canone. 

«A questo punto sì, considerato come la Rai non faccia più quell’informazione libera che, oggi, è invece appannaggio della rete: solo lì vengono trattati quegli argomenti considerati tabù dai mezzi mainstream, rompendo certi dogmi. Internet non è più l’osceno, non è più il complottismo: è il luogo della controinformazione». 

Se la chiamassero oggi per un ruolo dirigenziale in una tv, a cosa direbbe di sì? 

«Ma no, adesso basta. Un po’ di umiltà, su. Certo, io mi sento in una forma magnifica a livello televisivo, ma è il caso di lasciare spazio agli altri». 

Qual è il miglior programma nuovo che ha visto in tv negli ultimi anni? 

«La fiction: L’arte della gioia di Valeria Golino, per esempio, ma anche Dostoevskij dei fratelli D’Innocenzo: sono bravissimi, e sanno vedere nella realtà esattamente quello che io vedo nella tv». 

E cioè? 

«La miseria del mondo». 


Se gli attuali indecisi votassero, la sinistra potrebbe vincere


Il centro-destra è avanti nelle dichiarazioni di voto, ma se la quota di indecisi alla fine andasse a votare, qualcosa potrebbe cambiare…

(di Paolo Natale – glistatigenerali.com) – I sondaggisti lo sanno bene, il loro perenne cruccio è la presenza di intervistati che non rispondono oppure che sono indecisi; se poi l’indagine demoscopica riguarda il comportamento di voto, a queste due categorie si aggiungono i sedicenti astensionisti, per complicare le loro stime dei risultati più probabili.

La quota di indecisi e di non rispondenti, è evidente, non permette di presentare le dichiarazioni di chi è disposto ad esprimere la propria idea come sufficientemente rappresentative della totalità della popolazione di riferimento. Per il semplice motivo che non è dato sapere cosa pensano o cosa farà realmente chi se ne sta zitto.

Facciamo un esempio semplicissimo: se interrogo gli italiani sul prossimo referendum sulla giustizia e mi risponde solo il 60% degli intervistati dichiarando che voteranno 55 a 45 per il Sì, come posso sapere quanto questo risultato sia attendibile? Cosa farà il resto degli italiani? Potrebbe votare in maggioranza per il No e ribaltare completamente il risultato, oppure votare Sì confermandone la vittoria, oppure ancora astenersi del tutto e lasciare il risultato così com’è. Il dubbio ovviamente resta. E questo dubbio diventa sempre più grande tanto più grande sarà la percentuale degli intervistati che si dichiara incerto o che non vuole rispondere.

Il caso del comportamento di voto politico è ancora più chiaro. Siamo come tutti sanno in un’epoca di problematica partecipazione elettorale; l’astensionismo ha raggiunto vertici mai visti; nell’ultima consultazione del 2022 è andato a votare solamente il 64% degli elettori; in tutti i sondaggi odierni è evidente l’incapacità di una quota elevata di intervistati di fare una scelta decisa; la cosiddetta “area grigia” (la somma cioè di chi non vuole votare, di chi si rifiuta di rispondere e di chi si dichiara indeciso) arriva spesso sopra al 40%, sfiorando a volte il 45% del campione di italiani.

Ora, le preferenze di voto del 55-60% che dichiara qualcosa vedono, come noto, il centro-destra avanti di qualche punto percentuale, grazie soprattutto a Fratelli d’Italia che sfiora il 30% dei consensi, seguito dal Partito Democratico intorno al 21-22% e via via da tutte le altre forze politiche. C’è dunque anche in questo caso un piccolo grande punto interrogativo: cosa farà quella quota di elettori che si dichiarano indecisi? La loro scelta finale potrebbe ribaltare o confermare le scelte di coloro che hanno dichiarato le proprie preferenze.

In alcune indagini si chiede anche, a quel piccolo popolo di indecisi (stimabile intorno al 10-15% della popolazione), quale partito è più probabile che voterebbero, nel caso uscissero dall’indecisione. E le loro risposte ci forniscono un quadro previsionale che cambia in qualche modo quello oggi esistente. Gli indecisi, infatti, hanno in generale una prevalenza di voto vicina ai partiti dell’opposizione rispetto a quelli di governo, facendo avvicinare il divario oggi esistente tra le due potenziali coalizioni, se non addirittura permettendo all’area progressista di superare quella di attuale maggioranza parlamentare.

Uno scenario che vedrebbe dunque una possibile vittoria, sebbene “di corto muso”, della coalizione di centro-sinistra rispetto a quella di centro-destra. Con una ovvia postilla: che quegli attuali indecisi non decidessero alla fine di disertare le urne pure loro.


Italia: nel 2025 ci sono state quasi 100 inchieste e mille indagati per corruzione


(Enrica Perucchietti – lindipendente.online) – Nel corso del 2025 la mappa giudiziaria italiana è stata attraversata da un’intensa sequenza di inchieste per corruzione, che tocca numeri da record. Tra il 1° gennaio e il 1° dicembre sono state registrate 96 nuove indagini per corruzione e concussione – in media otto al mese – con un totale di 1.028 persone indagate. Un dato che quasi raddoppia quello dell’anno precedente, quando le indagini erano 48 e gli indagati 588. A fotografare questa crescita è Italia sotto mazzetta, il dossier diffuso da Libera in occasione della Giornata internazionale per la lotta alla corruzione del 9 dicembre. L’analisi delinea una corruzione ormai sistemica e strutturata, inserita in meccanismi stabili, che finisce per minare la fiducia nelle istituzioni, degradare la qualità della democrazia e dei servizi pubblici e favorire una pericolosa assuefazione sociale al fenomeno.

L’associazione fondata da don Luigi Ciotti ha censito le inchieste sulla corruzione dal primo gennaio al primo dicembre 2025, basandosi sulle notizie di stampa. Il quadro restituisce l’estensione e la pervasività della corruzione in Italia, un fenomeno che nel 2025 emerge con continuità su tutto il territorio nazionale. Da Torino a Milano, da Bari a Palermo, da Genova a Roma, passando per numerosi centri di provincia come Latina, Prato e Avellino, fino ad aree del Salernitano, l’anno è stato segnato da un susseguirsi di inchieste per mazzette che hanno coinvolto circa mille tra amministratori, politici, funzionari pubblici, manager, imprenditori, professionisti e soggetti legati alla criminalità organizzata. Sono ben 53 i politici indagati (sindaci, consiglieri regionali, comunale, assessori) pari al 5,5% del totale delle persone indagate. Di questi 24 sono sindaci, quasi la metà. Il maggior numero di politici indagati riguarda la Campania e Puglia con 13 politici, seguita da Sicilia con 8 e Lombardia con 6. Il report evidenzia una distribuzione geografica non omogenea: il Sud e le isole risultano le aree più coinvolte. Di tutte le inchieste del 2025, 48 riguardano regioni meridionali o insulari, contro 25 del Centro e 23 del Nord. La “maglia nera” spetta alla Campania, con ben 219 indagati, seguita da Calabria (141) e Puglia (110). Tra le regioni del Nord, la prima per numero di indagati è la Liguria con 82, seguita dal Piemonte con 80. Si tratta di una istantanea che smentisce la narrazione di una corruzione confinata a poche “zone calde”: la mappa coinvolge l’intero Paese, dalle periferie del Sud ai borghi del Nord, con una forte presenza di territori del Mezzogiorno in cima alla classifica.

Nel commentare i dati, Libera sottolinea come le inchieste di quest’anno fotografino una corruzione che non è più soltanto episodica o marginale, ma sembra animata da logiche consolidate. Ne emerge una “corruzione regolata”, spesso sistemica, organizzata in rete, con ruoli riconoscibili: dirigenti pubblici, imprenditori, faccendieri, talvolta con collegamenti alla criminalità organizzata. Le aree di intervento suggeriscono quanto il fenomeno tocchi la qualità della vita quotidiana: le mazzette servono a ottenere appalti sanitari, licenze, concessioni edilizie, servizi pubblici o vantaggi per la cittadinanza. Da segnalare anche la presenza del reato di voto di scambio politico-mafioso, concorsi pubblici e universitari truccati, tangenti per certificati di morte o residenze false: segni di un sistema che normalizza l’illegalità come strada per accedere a risorse, diritti o servizi.

Ed è proprio su quest’ultimo aspetto che si sofferma Libera: «Oggi il ricorso alla corruzione sembra diventare sempre più una componente “normale” e accettabile della carriera politica e imprenditoriale». Il processo di progressiva normalizzazione finisce per rendere la corruzione socialmente tollerata, percepita come un elemento ordinario e quasi inevitabile, alimentando rassegnazione e indifferenza. Questo terreno culturale, avverte l’associazione, rischia di consolidarsi in un sistema di potere sempre più irresponsabile, fondato su relazioni opache, conflitti di interesse tollerati e regole piegate agli interessi di pochi. La risposta non può limitarsi all’azione giudiziaria o all’inasprimento delle pene, ma deve puntare su un rafforzamento reale dei presidi anticorruzione, oggi indeboliti, e su un rinnovato patto tra istituzioni e cittadinanza. Il percorso è «lungo» osserva Francesca Rispoli, copresidente nazionale di Libera, «ma necessario» per riaffermare integrità, trasparenza e giustizia sociale come basi dell’interesse pubblico.


Inflazione, emergenza casa, cure per pochi: l’Italia ha un esercito di poveri


Durante la conferenza della Comunità di Sant’Egidio, “Non dimentichiamo gli ultimi”, è emersa una crisi profonda che interessa quasi il 10 per cento dei cittadini. «Lamentarsi e basta però non serve», afferma il presidente Marco Impagliazzo presentando alcune soluzioni praticabili

(Lorenzo Santucci – editorialedomani.it) – Cinque milioni e settecentomila italiani, quasi il 10 per cento della popolazione. È il numero di coloro che vivono sotto la soglia della povertà assoluta, in leggero aumento rispetto a un anno fa. Tra di loro, un milione e duecentottantamila minori. A scriverlo è l’Istat nel rapporto dello scorso ottobre, ma a ricordarlo è il presidente della Comunità di Sant’Egidio, Marco Impagliazzo, durante la conferenza stampa “Non dimentichiamo gli ultimi” organizzata a Roma. Dalla fotografia mostrata, la situazione sembra non migliorare.

Nonostante i dati, però, Impagliazzo vuole lanciare un messaggio di positività: «Lamentarsi e basta non serve». Piuttosto, è necessario prendere atto della crisi e partorire proposte per far fronte alle emergenze. Sant’Egidio ne individua tre: l’aumento del costo della vita, l’emergenza abitativa e la difficoltà a curarsi. Sommati, sono i tre elementi che qualificano l’indigenza moderna.

Costo della vita

L’essere poveri si constata davanti agli scaffali di un supermercato. Dal 2021 a oggi i prezzi dei generi alimentari sono cresciuti del 25 per cento, a differenza degli stipendi. «Il reddito reale è un’anomalia italiana», afferma Impagliazzo sottolineando che «sono diminuiti del 5 per cento. Insieme alla Grecia, siamo l’unico paese con il reddito in diminuzione». Per tale ragione, «sentiamo il bisogno di avanzare un’ulteriore proposta, quella di allargare i criteri per l’assegno di inclusione», per ora destinato a una platea troppo ristretta rispetto al vero bisogno.

Crisi abitativa

La casa è un argomento centrale quando si parla di povertà. Ci sono sempre meno abitazioni che costano sempre di più. «Gli affitti sono insostenibili, i canoni di locazione sono aumentati di oltre il 7 per cento annuo e arrivano a superare il 40 per cento del reddito familiare», constata Impagliazzo. Tutto questo mentre ci sono 650mila famiglie che attendono di avere un tetto sopra la testa, a fronte di 800mila alloggi che potrebbero essere utilizzati. Anzi, 700mila visto che 100mila abitazioni restano inabitabili, nonostante l’Unione europea abbia investito dei fondi per renderle di nuovo agibili.

Ecco perché, prosegue il presidente di Sant’Egidio, «bisogna tornare a lavorare per trovare altri fondi e ristrutturare le fatiscenti case popolari, che sono degli anni Sessanta». Un appello rivolto a enti locali e governo, che starebbe pensando a un Piano Casa da inserire nella legge di bilancio. Nell’attesa, suggerisce Impagliazzo, «andrebbe allargato il fondo affitti per chi si trova provvisoriamente in difficoltà. Il 90 per cento degli sfratti avviene per inadempienza». Un consiglio che arriva da chi va per strada per comprendere quei problemi che «forse l’istituzione non ascolta».

Mancanza di cure

L’impossibilità di curarsi è una situazione che coinvolge sempre più persone, che aspettano mesi prima di una visita specialistica. Le difficoltà più grandi si riscontrano soprattutto per le visite odontoiatriche e oculistiche. L’attesa porta a desistere. «L’anno scorso, 5,8 milioni di italiani hanno rinunciato a curarsi». Chi lo fa, e soprattutto chi può permetterselo, preferisce rivolgersi al privato. Oltre all’allargamento delle coperture sanitarie, Sant’Egidio chiede l’attuazione della legge 33 del 2023, che prevede l’assistenza domiciliare integrata.

«Se i decreti attuativi fossero finanziati», lamenta Impagliazzo, «potremmo visitare gli anziani a casa senza che vadano in ospedale anche per piccoli problemi». La Comunità chiede inoltre di non disperdere quanto fatto di buono negli ultimi mesi durante il Giubileo, con il rafforzamento dei presidi. «Bisogna moltiplicare i centri sanitari di prossimità e tenere le strutture anche dopo la fine dell’Anno Santo. Il Giubileo lascia segni. Abbiamo visto tante ristrutturazioni per Roma ed è positivo. Ma che resti anche un segno per gli esclusi dal contesto cittadino».

Solidarietà tutto l’anno

La conferenza è l’occasione per presentare la nuova guida della solidarietà, «una bussola da tenere in tasca per orientarsi nella città». Prima indicava i punti dove bere, mangiare e dormire, adesso si allarga e offre più servizi ai tanti che hanno bisogno. «Abbiamo distribuito 250mila pacchi alimentari nell’ultimo anno», dice Impagliazzo nel lanciare la raccolta fondi per l’annuale pranzo di Natale in Comunità. «Ci prepariamo ad accogliere 80mila persone. Vogliamo ricreare il senso di famiglia, di calore e affetto. Perché c’è la povertà, ma anche la solitudine».


All’ennesimo furto del governo a danno del Sud, ora si aggiunge l’umiliazione parlamentare


(Luca Antonio Pepe – Economista, legislativo parlamentare, scrittore) – Ci risiamo, il Governo Meloni ha eseguito l’ennesimo furto con scasso a danno del popolo meridionale. A firmare l’ennesima misura ‘scippa Sud’ è il ministro dell’Economia e delle finanze Giancarlo Giorgetti e, per competenza, il ministro della Cultura Alessandro Giuli.

Sostanzialmente, lo scorso 25 novembre è stato pubblicato il decreto ministeriale 383, recante ‘misure urgenti in materia di cultura’, provvedimento attuativo del D.L. 201 del 2024, disciplinato per ripartire una dotazione di oltre 34 milioni di euro stanziati sul capitolo 2570 del Dipartimento per le attività culturali. L’assegnazione, però, segue una logica che calpesta, ancora una volta, una legge dello Stato, ovvero la cosiddetta clausola del 40%, secondo cui le amministrazioni centrali devono destinare alle regioni del Mezzogiorno il 40% delle risorse ordinarie (dei provvedimenti adottati).

Secondo voi, qual è la percentuale individuata per il Meridione? Il 40%, come previsto dal nostro ordinamento? Macchè! Quasi tutte le sedi degli enti beneficiari sono localizzate nel Centro-Nord e solo alcuni riparti non sono ‘territorializzabili’ (cioè, localizzabili geograficamente, come ad esempio i contributi per i convegni e le pubblicazioni di rilevante interesse culturale). Tuttavia, solo 2,2 milioni di euro sono stati attribuiti ad enti ‘non territorializzabili’, mentre i restanti 31,8 milioni sono stati erogati per intero ad enti centrosettentrionali. Che significa tutto questo?

Che nelle tabelle ministeriali non si intravede alcun ente del Sud, quindi la percentuale effettivamente individuata per il Mezzogiorno è dello 0%. Il tutto, mentre – tanto per fare qualche esempio – alla Fondazione Festival dei Due Mondi di Spoleto sono stati attribuiti 2,1 milioni di euro, alla fondazione Ferrara Musica 705 mila euro, alla Fondazione Rossini Opera Festival di Pesaro di euro 2.4 milioni di euro, alla Fondazione Ravenna Manifestazioni 705.3, alla Fondazione Scuola di musica di Fiesole di euro 704mila euro. E così via discorrendo.

A questa tela a tinte fosche, che cristallizza per il Meridione una perdita integrale delle risorse, si aggiunge l’umiliazione parlamentare. Capiamo in che senso. Come si deduce approfondendo il suddetto decreto, il provvedimento è stato adottato “visti i pareri favorevoli già espressi” dalla commissione VII del Senato, poi ratificata anche nella VII della Camera dei Deputati. Ciò significa che il testo ha ricevuto il nullaosta dei parlamentari. Così, sono andato ad analizzare il rapporto stenografico della Commissione competente al Senato, per capire quali forze politiche hanno remato contro questo provvedimento.

Ebbene, l’unico partito ad opporsi è stato il Movimento 5 Stelle, il cui capogruppo (attuale Vicepresidente) Sen. Luca Pirondini ha ribadito il dissenso della sua forza politica rispetto alle previsioni dello schema e rispetto alle modalità di erogazione delle risorse in ambito culturale da parte del Governo, preannunciando un voto contrario, reputando “non convincente il metodo sulla base del quale, a fronte di ripetuti tagli lineari al settore culturale, vengono poi destinati specifici finanziamenti, senza una previa determinazione di criteri e princìpi di assegnazione, a particolari iniziative, che, a suo parere, non sono più meritorie rispetto a quelle”.

Colpisce come tutti gli altri parlamentari meridionali della Commissione (eccezion fatta per le Senatrici Vincenza Aloisio e Barbara Floridia, in quota M5S) abbiano votato a favore di un provvedimento che priva di finanziamenti la propria terra d’origine, probabilmente per compiacere il proprio ‘padrone politico’. Una circostanza, l’ennesima, che fa venire in mente uno stralcio di un celebre discorso del leggendario Malcom X, in cui si scagliava contro gli afroamericani che ‘amavano compiacere’ il proprio padrone bianco e razzista: Il negro da cortile viveva insieme al padrone, lo vestivano bene e gli davano da mangiare cibo buono, quello che restava nel piatto del padrone e si identificava col padrone più di quanto questi non s’identificasse con se stesso. Abbiamo ancora fra i piedi parecchi di questi nigger da cortile. Pur di far ciò è disposto a pagare affitti tre volte superiori per poi andare in giro a vantarsi: ‘Sono l’unico negro in questa scuola!’. Ma non era altro che un negro da cortile!


Le terre rare sono rare. Ma dove si trovano? La mappa


(infodata.ilsole24ore.com) – Quando si parla di terre rare l’aggettivo inganna ma solo fino a un certo punto: non sono poi così rare. Sono 17 elementi — dal lantanio al lutezio più scandio e ittrio — ampiamente presenti nella crosta terrestre. Il problema non è trovarli, ma estrarli e soprattutto raffinarli. È qui che l’infografica di Visual Capitalist (fonte: USGS, Mineral Commodity Summaries 2024) diventa una mappa geopolitica più che geologica.

L’infografica distribuisce oltre 130 milioni di tonnellate di riserve globali di terre rare come se fossero quote di un portafoglio planetario. La Cina domina con circa 44 milioni di tonnellate, pari a un terzo del totale. Seguono Vietnam e Brasile con oltre 20 milioni ciascuno, poi Russia e India. La vera assente è l’Europa, che non figura tra i grandi detentori e si affida quasi interamente a importazioni esterne. La fotografia delle riserve però è solo una parte della storia: la quasi totalità della raffinazione continua a essere concentrata in Cina, che controlla tra l’85 e il 90% della capacità globale. È qui che la geologia diventa geopolitica.

Le terre rare sono 17 elementi, dal lantanio al lutenzio più scandio e ittrio. Sono presenti nella crosta terrestre più o meno quanto rame o zinco, ma è molto difficile isolarle. Una buona metafora è quella del lievito nella panificazione: bastano piccole quantità per far crescere interi settori industriali. Il neodimio e il praseodimio alimentano magneti permanenti per motori elettrici e turbine eoliche. Una sola turbina offshore può utilizzare fino a 600 chilogrammi di magneti. Terbio e disprosio ne aumentano la resistenza termica, mentre europio e itterbio finiscono nei display e nei sensori ottici. In ogni smartphone convivono pochi grammi di terre rare, ma senza quei grammi non esisterebbero fotocamere, vibrazione, schermi ad alta luminosità. La loro economia è simile a quella dei semiconduttori: volumi minimi, valore strategico massimo.

La geopolitica della raffinazione

Il vero potere non sta nella miniera ma nella raffineria. Paesi come Vietnam, Brasile e Russia possono vantare riserve paragonabili a quelle cinesi, ma non dispongono di una filiera industriale capace di trasformare il minerale in ossidi e metalli ad alta purezza. La Cina questa filiera l’ha costruita con il metodo della pazienza industriale: investimenti costanti dagli anni Novanta, standard ambientali più permissivi, economie di scala che hanno schiacciato la concorrenza. Nel 2010 un contenzioso tra Cina e Giappone trasformò questa posizione dominante in una leva geopolitica. Le esportazioni vennero ridotte, i prezzi del disprosio e del neodimio salirono anche di dieci volte nel giro di poche settimane. È stato il primo shock delle terre rare della storia industriale moderna e ha rivelato a molte economie avanzate la fragilità della propria catena di approvvigionamento.

Il tentativo globale di diversificazione

Dopo lo shock, Stati Uniti ed Europa hanno iniziato a investire in una controfiliera. Mountain Pass, in California, è tornata operativa sotto MP Materials. L’Unione Europea ha introdotto il Critical Raw Materials Act, fissando l’obiettivo di estrarre entro il 2030 almeno il 10% del fabbisogno interno di materie prime critiche. Australia e Canada stanno spingendo su partnership pubblico–private per costruire impianti di separazione. Ma la distanza tecnologica rimane ampia. Raffinare terre rare significa gestire processi complessi, costosi e ad alto impatto ambientale. È una competenza che non si improvvisa. Avere la miniera è come avere una libreria piena di volumi antichi; saperli restaurare è un’altra cosa. Oggi la Cina possiede entrambe le capacità.

Riciclo, l’opzione che ancora non incide

Si parla molto di riciclo come soluzione strutturale, soprattutto con la crescita dell’economia elettrica. I magneti delle auto elettriche, per esempio, potrebbero teoricamente essere recuperati e reimmessi nella filiera. Ma oggi il riciclo copre meno dell’1% del fabbisogno globale. Mancano standard, impianti e soprattutto una massa critica di prodotti a fine vita. Potrebbe diventare una componente importante tra dieci o vent’anni, quando le generazioni attuali di auto e dispositivi entreranno nella fase di smaltimento.

Una materia prima che determina gli equilibri industriali

Le terre rare non sono rare, ma lo è la capacità di trasformarle. Per questo la mappa di Visual Capitalist non rappresenta solo la distribuzione delle risorse: anticipa gli equilibri della transizione energetica, della difesa, dell’elettronica e dell’intelligenza artificiale. Avere accesso a questi materiali significa poter progettare turbine, batterie e sensori. Non averlo significa dover negoziare ogni passaggio della filiera globale. In un mondo che corre verso l’elettrificazione, la partita delle terre rare è una delle poche in cui la geologia incontra direttamente la potenza economica.


Meloni ci trascina in zona Orbán: anche sulle libertà civili l’Italia è declassata


Il Civicus Monitor certifica lo stato delle libertà civili. Nel nuovo report il paese è declassato. Era già successo con la libertà dei media: Meloni ci trascina su livelli ungheresi. Anche Francia e Germania in caduta, mentre le destre a Bruxelles attaccano le ong: una “melonizzazione” dell’Ue

(La premier

(Francesca De Benedetti – editorialedomani.it) – Era già successo con la libertà di informazione sotto attacco: nella primavera del 2024, l’Italia a guida Meloni era retrocessa nel World Press Freedom Index di Reporters sans frontières finendo così nelle «zone problematiche» assieme all’Ungheria. Lo schema si ripete ora con la libertà dello spazio civico: anche su questo versante, l’Italia finisce in zona Orbán. Il report People Power Under Attack 2025 che Domani ha potuto visionare in anteprima e che viene pubblicato questo martedì dal Civicus Monitor, la piattaforma che attesta le condizioni delle libertà civiche su scala globale, segnala lo scivolamento illiberale del nostro paese. L’Italia risulta infatti declassata (il paese passa dalla categoria con spazio civico «limitato» a «ostruito»), e finisce così nella stessa fascia in cui si trova l’Ungheria dell’autocrate Viktor Orbán.

Ma questa – allargando il quadro – non è l’unica novità: il fatto che anche altre grandi democrazie europee, come la Francia e la Germania, vedano le proprie libertà civili contrarsi, riflette la “melonizzazione” dell’Ue. I recenti sviluppi in Europarlamento, con il centrodestra popolare europeo alleato delle destre estreme nell’attacco alle ong, mostrano che la retorica delle destre ungherese e italiana, impegnate da tempo nell’affondo contro le organizzazioni della società civile, sta a tutti gli effetti assumendo scala europea. Insomma, non è nei guai solo l’Italia, ma per molti versi tutta l’Unione europea.

L’Italia in zona Orbán

Il Civicus Monitor traccia tutte le limitazioni imposte alla società civile, come l’arresto di attivisti o la censura. Nell’indice, che si basa sull’apertura dello spazio civico, dunque sulle libertà civili, ogni paese riceve un punteggio da zero a cento, collocandosi così in cinque possibili fasce che riflettono le condizioni dello spazio civico: «aperto», «limitato», «ostruito», «represso» e «chiuso». Scendendo giù nella classifica – perché passa da spazio civico «limitato» a «ostruito» – l’Italia finisce in compagnia di paesi come Brasile e Ungheria.

Tra le motivazioni del downgrade c’è il decreto sicurezza, noto a livello internazionale come “legge anti Gandhi”: «Ignorando le proteste contro questa legge, il governo Meloni ha fatto sì che a giugno venisse promulgato il pacchetto di misure che inaspriscono le pene per la disobbedienza civile non violenta». Ma non si tratta di un caso isolato, come sottolinea la ricercatrice Tara Petrović, che cura il versante europeo del Monitor: «La legge sulla sicurezza è un grave attacco ai diritti in Italia, ma è solo un passo di una serie di crescenti restrizioni al dissenso e di una più ampia offensiva contro chi protesta. L’Italia avrebbe potuto sostenere gli anticorpi della sua democrazia, invece ha scelto di prenderli di mira. Ogni giorno, giornalisti, difensori dei diritti e attivisti si svegliano in un paese meno aperto».

Petrović snocciola un lungo elenco di fatti allarmanti: si va dalle pene più severe per i difensori del clima al fatto che la premier «abbia liquidato come estremiste le mobilitazioni per Gaza», passando per «le vessazioni» subite da chi soccorre vite in mare, fino alle querele bavaglio contro i giornalisti, lo spionaggio con Paragon, le «campagne diffamatorie» contro i giudici. Non casi isolati ma «l’espressione di un governo sempre più intollerante verso chi osi mettere sotto scrutinio il suo operato».

La melonizzazione dell’Ue

Il passo indietro sui diritti riguarda anche altri paesi europei, tanto che pure la Francia e la Germania risultano declassate in questa nuova edizione del report. Non solo Roma ma anche Parigi e Berlino passano da uno spazio civico «limitato» a uno «ostruito». Nel caso della Francia, l’argomento principale del Monitor è «il crescente attacco alla libertà di associazione», mentre la Germania sconta «la repressione della solidarietà verso la Palestina».

C’è poi una capitale che il Monitor non considera, ma che pure sta sferrando attacchi crescenti alla società civile. Si tratta di Bruxelles in quanto sede delle istituzioni Ue. Già da anni, il Ppe guidato da Manfred Weber – lo stesso che dal 2021 ha avviato l’alleanza tattica con Fratelli d’Italia – prende di mira le ong. A novembre i Popolari, alleati con le destre estreme, hanno inaugurato uno «scrutiny working group» che è incardinato nella commissione Controllo bilancio dell’Europarlamento e ha come bersagli ong e think tank attivi su clima e migranti, temi sui quali le destre esercitano la loro saldatura.


Ue, Trump torna alla carica: “Paesi decadenti e leader deboli, non sanno cosa fare”. Bruxelles replica: “Orgogliosi di loro”


Il presidente ha ribadito la sua intenzione di sostenere candidati politici in Europa che condividano la sua visione: “Ho già appoggiato persone che molti europei non amano. Ho appoggiato Orban”. Sull’Ucraina: “Devono tenere elezioni o non è più democrazia”

(adnkronos.com) – Donald Trump torna alla carica. Mentre non si arresta l’eco delle polemiche suscitate dalla nuova Strategia per la sicurezza nazionale Usa, con le pesanti critiche all’Ue e conseguenti accesi botta e risposta, il presidente americano lancia un nuovo affondo all’Europa.

In un’intervista a Politico Trump ha definito “deboli” i leader dei Paesi europei, di cui ha denunciato la gestione dell’immigrazione e del conflitto ucraino. “Penso che siano deboli, e vogliono essere così politicamente corretti – ha detto – Non sanno cosa fare. L’Europa non sa cosa fare“. Il presidente Usa ha liquidato così gli sforzi europei per una soluzione al conflitto in Ucraina. “La Russia è ovviamente in una posizione di forza“, ha dichiarato il tycoon, aggiungendo che “i leader europei parlano ma non producono, e la guerra continua all’infinito”. Trump ha ribadito di aver proposto un nuovo piano di pace che “alcuni funzionari ucraini apprezzano”, ma di cui “Zelensky ancora non ha letto la bozza”.

Il presidente ha definito “decadenti” i Paesi europei e criticato capitali come Londra e Parigi, “sovraccariche” a causa della migrazione dal Medio Oriente e dall’Africa, aggiungendo che senza un cambio di rotta “alcuni Stati europei non saranno più Paesi sostenibili”. Ha inoltre attaccato il sindaco di Londra Sadiq Khan, definendolo “un disastro” che “viene eletto perché sono arrivate così tante persone. Ora votano per lui”.

Trump ha ribadito la sua intenzione di sostenere candidati politici in Europa che condividano la sua visione, anche a costo di alimentare tensioni diplomatiche con i governi attuali. “Ho già appoggiato persone che molti europei non amano. Ho appoggiato Viktor Orbán“, ha ricordato.

Quanto all’Ucraina, “penso che debba tenere delle elezioni – ha affermato – Stanno usando la guerra per non tenere le elezioni, ma penso che il popolo ucraino debba avere questa possibilità”.

“Forse Zelensky vincerebbe, non so chi vincerebbe, ma non tengono elezioni da molto tempo, parlano di democrazia, ma si arriva a un punto in cui non è più una democrazia“, ha aggiunto il presidente americano.

La replica: “Orgogliosi dei nostri leader”

“Lasciatemi cogliere l’occasione per ribadire quello che credo sia il sentimento di molti dei milioni di cittadini dell’Ue: siamo orgogliosi dei nostri leader”, ha dichiarato la portavoce-capo dell’esecutivo europeo, Paula Pinho, nel corso del briefing giornaliero con la stampa, astenendosi dal commentare direttamente le dichiarazioni di Trump.

Mi asterrò dal commentare, se non per confermare che siamo molto soddisfatti e grati di avere leader eccellenti“, a partire dalla presidente della Commissione europea Ursula von der Leyen, “di cui siamo davvero orgogliosi, che può guidarci nelle molte sfide che il mondo deve affrontare”, ha affermato Pinho. “Abbiamo molti altri leader alla guida dei ventisette Stati membri che fanno parte di questo progetto europeo, di questo progetto di pace, che stanno guidando l’Ue in tutte le sfide che essa deve affrontare, dal commercio alla guerra nel nostro vicinato”, e di fronte a esse “stanno dimostrando di sapersi mostrare uniti in ventisette”, ha concluso.


Dai tumori ai parti agli infarti alle fratture: ecco i 15 ospedali «top» dove andare a curarsi


I 15 ospedali italiani d’eccellenza: performance, divari regionali e sfide per la sanità pubblica. Il programma nazionale Esiti di Agenas certifica le strutture con livelli alti di standard e di performance in almeno sei aree terapeutiche ma dà conto della frattura tra Nord e Sud del paese con regioni ancora al palo su indicatori strategici

(di Barbara Gobbi – ilsole24ore.com) – Dai tumori agli infarti, dalla gestione di gravidanza e parto alla frattura del collo del femore: sono 15 gli ospedali su 1.117 strutture di ricovero per acuti pubbliche e private valutate, che raggiungono il top in Italia, rispettando gli standard fissati con legge nel 2015 e mostrando performance buone o ottime in 8 aree della sanità pubblica o privata. “Rimandati” cioè da sottoporre ad audit (volontari) mirati per il miglioramento, 198 ospedali (il 22% delle 871 strutture valutate con un meccanismo di analisi definito treemap) che presentano in tutto 333 punti critici soprattutto in ambito gravidanza e parto e cardiocircolatorio. Con i centri da “verificare” per lo più concentrati al Sud anche se pure il Meridione è in miglioramento come tutto il Paese: 51 centri in Campania, 43 in Sicilia, 19 in Puglia, 12 della Calabria ma anche 14 della Lombardia.

A tracciare il quadro, che per l’ennesima volta certifica il gap nelle cure tra Nord e Sud del Paese con il Meridione in recupero ma ancora drammaticamente lontano dalla media nazionale per alcuni indicatori come la gestione del cancro del pancreas e del retto, la tempestività di accesso a procedure salvavita e il ricorso eccessivo al cesareo, è il Programma nazionale Esiti dell’Agenzia per i servizi sanitari regionali (Agenas), che da 12 anni monitora le performance della Sanità italiana. Questa volta, con l’intento di tracciare un bilancio sull’attuazione del Dm 70 del 2015, che a 10 anni dall’entrata in vigore necessita di un tagliando a cui sta lavorando il ministero della Salute. Era stata proprio quella norma a introdurre a livello nazionale standard quantitativi per la riorganizzazione delle cure in ospedale, nel segno della qualità e della sicurezza delle cure. E se i risultati si vedono, molta strada verso un’omogenea appropriatezza ed efficienza delle prestazioni in tutto il Paese resta da fare.

L’identikit

Oggi il Pne dà il polso della sanità italiana grazie a 218 indicatori (dai 146 del 2015) di cui 189 relativi all’assistenza ospedaliera e 29 relativi a quella territoriale, valutata per il momento ancora indirettamente in termini di ospedalizzazioni evitabili, esiti a lungo termine e accessi impropri in Pronto soccorso. Ma il territorio è un’area ancora in grande parte da esplorare ed è questa una delle prossime sfide di Agenas, chiamata nei prossimi anni a verificare l’attuazione del “gemello diverso” del Dm 70: quel Dm 77 del 2022 che in attuazione del Pnrr ha riscritto l’organizzazione delle cure primarie.

Gli ospedali top

Ma quali sono gli ospedali che secondo l’edizione 2025 del Programma nazionale Esiti presentano un livello “alto” o “molto alto in almeno sei aree tra le otto valutate? Per la Lombardia, l’Ospedale Bolognini, l’Ospedale Maggiore Di Lodi, Fondazione Poliambulanza, l’Ospedale Papa Giovanni XXIII, l’Istituto Humanitas. Per l’Emilia Romagna, l’Ospedale Bentivoglio e l’Ospedale di Fidenza. Per il Veneto, l’Ospedale di Montebelluna, quello di Cittadella e quello di Mestre. Per l’Umbria, l’Ospedale di Città di Castello. Per la Toscana, il Presidio ospedaliero Lotti Stabilimento di Pontedera. Per le Marche, lo Stabilimento Umberto I – G.M. Lancisi. Per la Campania, unica regione del Sud a comparire in questa lista, l’Azienda ospedaliero universitaria Federico II di Napoli.

Schillaci: così migliora il Ssn

Intanto, a sintetizzare i principali dati del Programma nazionale esiti sui dati 2024 è intervenuto il ministro della Salute Orazio Schillaci, che ha ospitato la presentazione nella sede del dicastero a Roma: «L’edizione 2025 – ha ricordato – coincide con i dieci anni dall’entrata in vigore del DM 70/2015 e ci dà l’opportunità di fare un bilancio dell’evoluzione del Servizio sanitario nazionale. I dati di questa edizione confermano un principio fondamentale: quando il sistema opera con standard nazionali basati su riferimenti normativi precisi e con strumenti efficaci di monitoraggio, il sistema globalmente migliora. La concentrazione della casistica complessa in centri che garantiscono alti volumi di attività – correlati a maggiore efficacia – ha registrato miglioramenti notevoli: tra gli altri vorrei ricordare la chirurgia della mammella che è passata in quasi 10 anni dal 72% nel 2015 al 90% nel 2024, così come il tumore del polmone (da 69% a 83%) e della prostata (da 63% a 82%)», ha precisato il ministro.

Cosa ci dicono questi dati? Che in questi anni – ha commentato ancora Schillaci – «sono state garantite una maggiore qualità e sicurezza delle cure per quanto riguarda l’area oncologica, e ciò grazie proprio alla capacità propulsiva del Dm 70 che ha portato alla concentrazione degli interventi a maggiore complessità in strutture qualificate e, quindi, nelle mani di operatori più esperti. Riguardo all’area materno-infantile, c’è stata una graduale riduzione di parti cesarei che sono scesi dal 25% nel 2015 al 22% nel 2024 ed è lentamente cresciuta la percentuale di parti vaginali dopo taglio cesareo. Quindi si tratta di passi in avanti, ma dobbiamo e possiamo fare meglio per aumentare l’appropriatezza clinica in questo ambito». Anche gli esiti migliorano: ad esempio la mortalità per bypass aortocoronarico isolato scende all’1,5%, e quella a seguito di interventi sulle valvole cardiache al 2%.

«Non mancano tuttavia alcune criticità – ha avvisato il ministro -. Permane infatti, come in altri ambiti sanitari, un significativo divario Nord-Sud. Penso alla concentrazione di interventi oncologici complessi che al Sud fatica ancora a raggiungere gli standard previsti, specialmente per il tumore del pancreas (solo 28% in centri ad alto volume) e il tumore del retto. Anche la tempestività di accesso alle procedure salvavita varia considerevolmente tra il Nord e il Sud, come pure l’appropriatezza clinica in ambito materno-infantile, con particolare riferimento ai parti cesarei primari e ripetuti».

Il bilancio a 10 anni

«La novità di quest’anno – ha sottolineato Giovanni Baglìo, direttore scientifico del Programma nazionale Esiti di Agenas – sono i 10 anni dall’emanazione del Dm 70 e la riflessione si concentra su quanto questo strumento sia riuscito a condizionare le processualità e gli esiti rispetto alle soglie e la considerazione in generale che emerge è che il sistema è in grado di evolvere quando vi siano dei riferimenti chiari a livello nazionale e quando i sistemi di monitoraggio riescono a fotografare e a sostenere il cambiamento. Laddove questo non avviene o non è avvenuto, il sistema fa fatica a evolvere o addirittura va indietro». Tradotto: dove il Dm 70 ha prodotto soglie cioè ha fissato gli standard ed è stato recepito i miglioramenti ci sono. Ma le soglie non sono state fissate su tutto e il miglioramento è avvenuto dove i sistemi di monitoraggio hanno funzionato: ci sono casi in questo è avvenuto e altri in cui qualcosa è andato storto.

Tumori: retto e pancreas attenzionati

Emblematico il caso della chirurgia oncologica, Giano bifronte dal punto di vista di vista degli Esiti: da una parte, c’è il caso virtuoso del tumore maligno della mammella dove oggi si riesce a concentrare in centri ad alto volume quasi il 90% della casistica. Non a caso: per questa tipologia di cancro il Dm 70 aveva prodotto delle soglie e dispositivi di valutazione nazionale come il Pne ma anche regionali consentendo di monitorare l’andamento del fenomeno e c’è stata un’ampia mobilitazione delle regioni e dei professionisti. Tutt’altro discorso per il tumore del retto: qui in assenza di soglie nazionali i sistemi di monitoraggio hanno agito con difficoltà perché spesso questo tumore è stato confuso e accorpato con quello del colon, che è tutt’altro tipo di patologia e richiede una chirurgia con differente complessità. Addirittura per il tumore del retto si registra un peggioramento: le strutture ad alto volume diminuiscono e la capacità di concentrare gli interventi è diminuita dal 30% al 22 per cento. Ma perché per alcune patologie le soglie non sono state prodotte? «Perché per alcune patologie la letteratura nel frattempo è aumentata, vi è una maggiore documentazione rispetto all’esistenza di relazione tra volumi ed esiti e dunque il Dm 70 va aggiornato per ridefinire le soglie che ci sono e inserirne di nuove. Dieci anni fa il tumore della mammella rappresentava una priorità su cui ci si è giustamente concentrati ma altre patologie importanti sono rimaste in ombra», spiega Baglìo.

Cuore tra luci e ombre

Un discorso che non vale solo per l’oncologia: per l’area cardiovascolare, in 10 anni si è ottenuta una diminuzione del 21% degli infarti ma soprattutto la casistica si è concentrata in strutture grazie alle reti dell’emergenza cardiologica dove sono presenti centri hub e spoke. Una persona con infarto quindi oggi ha un’alta probabilità di finire in strutture qualificate. Diverso il caso del bypass aortocoronarico: qui si fa fatica a concentrare gli interventi perché ci sono troppe cardiochirurgie e perché la casistica si sta riducendo a fronte della difficoltà di concentrare i pazienti in strutture ad alta qualificazione. Anche qui servirebbe uno sforzo maggiore dal punto di vista della programmazione regionale e delle reti e i dati dovrebbero servire proprio a questo.

Cruciale quindi il tema della governance: i dati del Pne srevono per governare il sistema ma bisogna farne tesoro, così come va aggiornata la bussola del Dm 70/2015. Un tema su cui il ministero ha formalmente avviato un tavolo da anni ma siamo ancora in attesa di un decreto con nuove soglie – che vanno manutenute esattamente come gli indicatori – su aspetti problematici della gestione delle cure.

Cesarei sempre sopra-soglia

Sul fronte cesarei, siamo in netta risalita rispetto agli anni in cui l’Italia viaggiava sul 40% e se negli ultimi anni vediamo una riduzione minima – spiegano da Agenas – è perché il grosso calo negli interventi c’era già stato. L’Italia resta comunque nettamente al di sopra dello standard del 15% fissato dall’Organizzazione mondiale della sanità (Oms): i tagli cesarei sono in lieve calo dal 25% del 2015 al 22% del 2024 ma con forti differenze tra Nord e Sud con valori mediani al Meridione spesso al di sopra del 25% con punte del 30 e del 35%. Inoltre, ci sono aree del Paese in cui si continua a mantenere aperti i punti nascita al di sotto dei 500 parti l’anno, malgrado la legge ne disponga la chiusura. Più in generale, il ricorso alla chirurgia per un evento che dovrebbe essere naturale come il parto è minore negli ospedali pubblici e nei centri ad alto volume generando una forte inappropriatezza.

La frattura Nord-Sud

A tracciare plasticamente la frattura che permane tra Nord e Sud del Paese con il Meridione in svantaggio è l’elenco delle eccellenze: solo l’Aou Federico II di Napoli in Campania rientra nella rosa delle 15 strutture valutate su almeno 6 aree che hanno raggiunto un livello “alto” o “molto alto”. Le altre sono ripartite tra Lombardia (5 centri), Veneto (3 centri), Emilia-Romagna (2 centri), poi Toscana, Marche e Umbria ciascuna con un centro. Questo significa che le grosse strutture sono quasi tutte al Nord e questo resta un problema, anche se il Sud nel tempo mostra dei passi avanti. Il nodo per il 2024 resta la grande frammentazione in ambito oncologico, ad esempio, con i centri per il pancreas in condizioni ancora drammatiche, e il gap permane anche nell’area materno-infantile.

Le novità in arrivo

La Chirurgia mininvasiva è tra la novità di quest’anno: aumenta l’approccio mininvasivo che espone il paziente a minori complicanze come le infezioni. Idem per la robotica, che va monitorata perché per alcuni ambiti mancano le evidenze. Sono soddisfacenti i dati relativi all’approccio mininvasivo e all’utilizzo della robotica che mostrano un utilizzo sempre più diffuso di queste tecniche, soprattutto in ambito urologico, anche con il superamento dell’approccio open (con percentuali anche superiori all’80%).
Sul territorio siamo ancora ai dati delle Sdo: si misura la qualità in modo indiretto, utilizzando indicatori di ospedalizzazione evitabile cioè ricoveri che sarebbero evitabili qualora l’assistenza territoriale fosse di buon livello.
Sullo scompenso cardiaco non c’è stato miglioramento e soprattutto c’è un’ampia variabilità all’interno dei territori, il che probabilmente è una misura indiretta del fatto che l’assistenza territoriale non è uniforme. Ancora più eclatante è questo dato per il diabete: le complicanze a medio e lungo termine e la più impattante come l’amputazione degli arti mostra un tasso di ospedalizzazione ancora doppio rispetto alla mediana nazionale.


L’Ue indaga su Google per uso contenuti editori per l’IA


(ANSA) – La Commissione europea ha avviato un’indagine antitrust per verificare se Google abbia violato le norme Ue sulla concorrenza utilizzando, per lo sviluppo dell’intelligenza artificiale, i contenuti degli editori online e i video caricati su YouTube.

Bruxelles punta ad accertare se Google abbia falsato la concorrenza imponendo condizioni contrattuali ingiuste a editori e creatori di contenuti, oppure garantendosi un accesso privilegiato a questi contenuti, con possibili effetti negativi sugli sviluppatori di modelli di IA concorrenti.

La Commissione europea teme che Google abbia utilizzato in modo improprio i contenuti degli editori online per alimentare i propri servizi di intelligenza artificiale generativa (‘AI Overviews’ e ‘AI Mode’) mostrati nelle pagine dei risultati di ricerca, senza offrire agli editori un’adeguata remunerazione e senza consentire loro di rifiutare l’uso dei propri contenuti senza perdere l’accesso al traffico proveniente da Google Search, da cui molti dipendono.

Timori Ue analoghi riguardano anche i video e gli altri contenuti caricati su YouTube per addestrare i modelli di IA generativa di Google, anche in questo caso senza compensare i creatori né permettere loro di opporsi. Chi carica contenuti su YouTube, evidenzia Bruxelles, è obbligato a concedere a Google il permesso di usarli anche per l’addestramento dell’IA senza tuttavia ricevere un corrispettivo.

“Una società libera e democratica si fonda su media diversificati, libero accesso all’informazione e un panorama creativo dinamico. Questi valori sono centrali per la nostra identità di europei”, ha evidenziato la vicepresidente dell’esecutivo Ue, Teresa Ribera, ammonendo che “l’IA sta portando innovazioni straordinarie e molti benefici per cittadini e imprese in tutta Europa, ma questo progresso non può avvenire a scapito dei principi alla base delle nostre società”.

L’indagine antitrust sarà condotta con procedura prioritaria: se confermate, le pratiche sleali si configurerebbero come abuso di posizione dominante.


Sondaggi politici: cresce il Movimento 5 stelle, migliora la Lega


La rilevazione settimanale di Swg per il Tg La7 sulle intenzioni di voto degli italiani

Sondaggi politici: cresce il Movimento 5 stelle, migliora la Lega

(repubblica.it) – Fratelli d’Italia resta saldamente primo partito, pur con una lieve flessione dello 0,1%, e si colloca al 31,2%. È quanto emerge dal sondaggio settimanale di Swg per il Tg La7. Una variazione minima, ma che conferma la fase di stabilizzazione dopo mesi di sondaggi oscillanti.

Restando nel campo della maggioranza, la Lega segna invece un miglioramento: +0,2%, salendo all’8,1%. Il partito sembra recuperare terreno, anche se resta lontano dai livelli del passato. Forza Italia rimane invariata al 7,9%, mostrando una tenuta costante

Sul versante progressista, il Partito democratico arretra dello 0,2% e scende al 22%. Una flessione contenuta, ma significativa se confrontata con la crescita di altre formazioni di opposizione. I Verdi e Sinistra perdono anch’essi 0,2%, scendendo al 6,7%.

Il Movimento 5 Stelle è invece il partito che registra la miglior performance della settimana: sale al 13,0%, con un incremento dello 0,3%. Un segnale positivo che conferma un trend di lieve recupero.

Tra i partiti minori calano Azione e +Europa -0,1%. Stabili Italia Viva e Noi Moderati, in risalita Altre Liste +0,2%. Aumenta del 2% la percentuale di chi non si esprime.


L’hobby preferito di Trump, prendere a sberle l’Europa


Trump, l’Europa sta andando in alcune direzioni sbagliate

(ANSA) –  Donald Trump ha accusato l’Europa di andare in “direzioni sbagliate”. “L’Europa deve stare molto attenta in molte cose. Vogliamo mantenere l’Europa com’è, sta andando in alcune direzioni sbagliate”, ha detto il tycoon rispondendo alle domande dei giornalisti durante un evento economico. “È molto negativo per la gente. Non vogliamo che l’Europa cambi così tanto. State andando in direzioni molto sbagliate”, ha aggiunto.

Oggi l’Ucraina è diventata vittima sacrificale di un’Europa che è fallita

(di Alessandro Orsini) – L’Europa, che avrebbe dovuto isolare la Russia, si ritrova isolata. La guerra in Ucraina spiega un fenomeno che Wilhelm Wundt ha chiamato “legge dell’eterogenesi dei fini”. Secondo Wundt, può capitare che gli uomini si dirigano verso fini diversi da quelli che perseguono consapevolmente, a causa degli effetti secondari o delle conseguenze non previste delle loro azioni. In altre parole, gli uomini si uniscono per raggiungere un obiettivo, ma poi devono fare i conti con il contrasto delle volontà umane (quella di Putin) e con le condizioni oggettive (mancanza di armi). La conseguenza è che le istituzioni deviano spesso dai loro scopi originari, sviluppando nuove motivazioni che, talvolta, rappresentano un tradimento degli ideali di partenza. Robert Michels ha messo a fuoco questo fenomeno, studiando il Partito socialdemocratico tedesco che, nato per difendere la democrazia, diventa un’oligarchia.

Secondo Michels, la forza dei lavoratori è nell’organizzazione. I deboli possono sperare di battere i forti soltanto unendosi. I forti possono combattere in pochi perché hanno le risorse, mentre i deboli devono combattere in tanti perché hanno il numero. Dunque, i lavoratori hanno bisogno di un apparato di funzionari che coordini le proteste contro i capitalisti in virtù delle sue competenze tecniche. Il risultato è che tutti i poteri decisori della massa vengono trasferiti ai dirigenti, rendendo illusorio l’esercizio democratico. Si verifica così un fenomeno paradossale: se aumenta il potere dell’organizzazione, aumenta anche il potere dei capi sindacali e di partito, i quali si distaccano dai luoghi produttivi e dalle masse, abituandosi a una vita di privilegi. Michels ha riassunto la sua “legge ferrea dell’oligarchia” nel suo capolavoro, La sociologia del partito politico nella democrazia moderna (1911): “Chi dice organizzazione dice tendenza all’oligarchia. È insito nella natura stessa dell’organizzazione un elemento profondamente aristocratico. Il meccanismo dell’organizzazione, mentre crea una solida struttura, provoca nella massa organizzata mutamenti notevoli, quali il totale capovolgimento del rapporto del dirigente con la massa e la divisione di ogni partito o sindacato in due parti: una minoranza che ha il compito di dirigere ed una maggioranza diretta dalla prima”. Simmel ha messo a fuoco lo stesso fenomeno, citando il caso del diritto. I bisogni della vita creano il diritto per codificare certi comportamenti, ma poi il diritto sviluppa una logica interna indipendente dai bisogni della vita, secondo il motto fiat iustitia, pereat mundus (sia fatta la giustizia e perisca pure il mondo).

Parlare di eterogenesi dei fini per chiarire il fallimento dell’Unione europea è un po’ assolutorio giacché ciò che sta accadendo in Ucraina era prevedibile. Scoppiata la guerra, questa rubrica invocava una trattativa con Putin sulla base di tre previsioni: 1) La Russia sovrasterà l’Ucraina; 2) gli Stati Uniti e la Russia si metteranno d’accordo scavalcando l’Europa; 3) L’Italia riceverà soltanto danni. Davanti a questo fallimento smisurato, la strategia annunciata da Kaja Kallas nel discorso del 22 gennaio 2025 assume un senso: operare affinché l’Ucraina combatta il più a lungo possibile così da dare all’Unione europea il tempo di riarmarsi. Gli effetti secondari dell’agire hanno modificato gli scopi originari: l’Unione europea si era lanciata nella guerra per salvare l’Ucraina, ma adesso lavora alla sua distruzione prolungando la guerra a tutti i costi, anche per non ammettere la sconfitta. Povera Ucraina, vittima sacrificale di un’Europa fallita.