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Un’altra poltrona per Renzi: entra nel Cda di una società israeliana di blockchain e criptovalute


Nuovo incarico privato per l’ex premier

(di Lorenzo Giarelli – ilfattoquotidiano.it) – Per tracciare le attività private del senatore Matteo Renzi occorre ormai un gps. L’ultima novità è di ieri e arriva da Tel Aviv: l’ex premier entra nel consiglio di amministrazione di Enlivex, società israeliana di biofarmaceutica in cui però non si occuperà di molecole e foglietti illustrativi, ma di blockchain e dei cosiddetti mercati predittivi. Come? Attraverso un nuovo progetto della società, i cui passaggi sono piuttosto tecnici.

In sintesi, Enlivex (quotata al Nasdaq) sta raccogliendo capitali per 212 milioni di dollari per entrare nel mercato dei token Rain, sistemi online in cui si scommette sull’esito di qualsiasi cosa, in maniera svincolata dalle classiche agenzie di betting. Da Enlivex dipende quindi un’altra “scatola”, Rain Treasury, che appunto si specializzerà in questo settore in cui le transazioni – spesso consentite in criptovalute – sono garantite dal sistema blockchain.

Argomenti da tecnico informatico o forse da economista, ma Renzi – come si può immaginare – avrà soprattutto il compito di assicurare buone relazioni all’azienda e di fare da “garante” dell’operazione, perché avere un ex presidente del Consiglio nel Cda è un buon modo per attirare investitori e convincerli che il progetto non sia campato in aria. Nella nota della società, Renzi si mostra entusiasta: “Una buona leadership dipende dalla capacità di capire cosa sta per arrivare. Sono felice di unirmi al board di Enlivex, una compagnia di biotecnologie con una visione strategica per il futuro. Vedo un potenziale reale nelle tecnologie della blockchain e nell’emergere dei modelli predittivi che incoraggiano chiarezza, partecipazione e trasparenza”.

A differenza dei lauti contratti arabi stipulati negli anni scorsi, stavolta l’incarico sarà gratuito. D’altra parte le nuove norme sugli affari privati di deputati e senatori sono stringenti e Renzi ha chiarito che accetterà o contratti con aziende europee (sempre consentiti) o consulenze non retribuite, come in questo caso. Va da sé che, al di là dell’indennità, resta il vantaggio di inserirsi in mercati floridi in cui poter instaurare relazioni ad alto livello. Per dire: in Rain Treasury compare come senior strategy advisor Ofer Malka, imprenditore israeliano e già dirigente del ministero dei Trasporti di Tel Aviv. Il nome di Malka compare ben 104 volte in un’informativa che la Guardia di Finanza inviò al Parlamento nel 2022, quando il Copasir voleva capire se qualcosa degli incarichi privati di Renzi avesse rilevanza per la sicurezza nazionale. Come scrisse il Fatto all’epoca, Malka era socio di Marco Carrai, vecchio amico di Renzi, nella società di cybersicurezza Cys4, ma l’obiettivo di Malka era entrare in affari direttamente con l’ex premier, a cui fece diverse proposte mai arrivate a meta. Pochi mesi fa, il Fatto aveva scoperto che Malka aveva lanciato la società di criptovalute Elio Capital, offrendo a Renzi la presidenza. Il senatore assicurò di aver rifiutato, nonostante sul sito dell’azienda comparisse con nome e foto. Ora Renzi e Malka si ritrovano. Tra biotecnologie, cripto e blockchain.


Guasti e incidenti: sui treni continuano i maxi ritardi


Caos ferrovie. Finiti i cantieri, i ritardi di ore continuano: oltre ai problemi strutturali impatta la saturazione di linee e stazioni dell’Alta velocità. E con il 2026 andrà peggio

(di Nicola Borzi – ilfattoquotidiano.it) – Mentre, more solito, il ministro delle Infrastrutture e dei Trasporti Matteo Salvini si occupa di tutto lo scibile umano o quasi, compreso il caso della “famiglia del bosco”, tranne che del dicastero di sua competenza, gli utenti delle ferrovie italiane sono alle prese con un’altra stagione di passione. Finita l’estate, chiusi i cantieri del Pnrr lungo le principali direttrici di traffico, molti credevano che l’incubo dei ritardi sarebbe terminato. Errore: sebbene non più al picco, come durante i periodi degli interventi straordinari sulla Roma-Firenze, con l’autunno sono arrivati nuovi disagi. Tra guasti alla rete e investimenti mortali (molti dei quali ahimè volontari), gli ultimi due mesi hanno riportato il calvario sulle linee ad alta e bassa velocità. E i dati delle ricerche indipendenti sono lì a dimostrarlo.

La cronaca delle ultime settimane è una via Crucis.

– Domenica 26 ottobre, stazione di Villastellone, in provincia di Torino: un uomo viene travolto da un treno della linea Cuneo-Torino Porta Nuova che viaggiava verso il capoluogo piemontese, morendo sul colpo. Linea bloccata, 200 passeggeri trasferiti sui pullman.

– Martedì 4 novembre, un uomo finisce sotto il Frecciarossa Venezia-Napoli all’altezza di Pontelagoscuro (Ferrara), mandando in tilt il traffico ferroviario locale e sulla direttrice Bologna-Padova, con ritardi accumulati che toccano anche i 170 minuti.

– Martedì 13 novembre: una donna viene falciata da un convoglio nella stazione di Praia a Mare (Cosenza). Le linee ferroviarie di tutta Italia finiscono nel caos, ritardi sino a 7 ore sull’Alta velocità Reggio Calabria-Torino, in molte stazioni viaggiatori bloccati fino all’1 di notte.

– Mercoledì 19 novembre: guasto alle linee in prossimità della stazione di Milano Certosa, il problema inizia intorno alle 14.30 e viene risolto solo dopo le 16.30, i treni Alta velocità, Eurocity e Regionali accumulano ritardi fino a 50 minuti, alcuni Regionali vengono cancellati o subiscono limitazioni di percorso.

– Domenica 23 novembre: un uomo muore sotto un treno alle 11 nella stazione di Firenze Rifredi, ritardi fino a 120 minuti inclusa la linea Alta velocità.

L’autunno e il periodo prenatalizio, purtroppo, portano con sé un incremento degli incidenti lungo le linee ferroviarie, quasi sempre mortali. Quando le vittime sono ferite la situazione è più semplice, perché i servizi sanitari di emergenza portano via rapidamente la persona, la polizia scientifica e il magistrato di turno intervengono ma i tempi tecnici dei rilievi sono più rapidi, solitamente tra l’ora e l’ora e mezza. Ma se di mezzo c’è un cadavere, come nella maggioranza dei casi, tra rilievi e recupero possono passare dalle 3 alle 6 ore.

Questo però non spiega tutto quanto sta accadendo sulle linee ferroviarie italiane. Secondo una analisi di Altroconsumo, che ha monitorato i dati di puntualità registrati da Rete Ferroviaria Italiana (Rfi), considerando i tempi di percorrenza dell’Alta velocità (sia Frecciarossa che Italo) e degli Intercity registrati tra il 25 luglio e il 5 settembre sui soli collegamenti diretti lungo 54 tratte diurne tra le principali città italiane, i Frecciarossa di Trenitalia ritardano nel 31% dei casi, Italo nel 20%. Ma i tempi di percorrenza dell’Alta velocità sono comunque più lunghi rispetto al passato e il “mito” delle tre ore sulla tratta Milano-Roma è ormai solo una leggenda: la media dei tempi attuali è di 3 ore e 20 minuti, ma in caso di cantieri e di lavori il viaggio supera le 4 ore e può arrivare anche a 5. Gli Intercity invece accumulano ritardi nel 41% delle tratte analizzate. Alcune tratte poi sono peggio di altre: in particolare la Bari Centrale-Milano Centrale, la Salerno-Torino Porta Nuova e la Napoli Centrale-Venezia Mestre. Tra le cause ci sono i lavori di potenziamento della rete, i guasti e i problemi alla rete elettrica, ma anche il sovraffollamento dei convogli. Dati rilevati anche dalle analisi di Trainstats, che a novembre hanno segnalato picchi di ritardi per i treni Av.

Ferrovie dello Stato ribatte con dati diversi e sostiene che la situazione starebbe migliorando. Secondo Fs, nella prima metà di novembre i treni Alta velocità hanno registrato una puntualità pari all’80%: quattro treni su cinque, sia Frecciarossa sia Italo, sono arrivati in orario o entro 10 minuti di ritardo, mentre nello stesso periodo del 2024 la puntualità era stata del 71,8%. Ma basta un investimento e cambia tutto: nelle giornate in cui una persona finisce sotto un treno l’indice di puntualità cala dal 30 al 50%. Discorso simile per un guasto in snodi nevralgici.

Un altro fattore che impatta, però, è quello della saturazione di linee e stazioni ad Alta velocità. Secondo dati di Fs, in 15 anni le linee Av italiane sono passate dai 188 treni al giorno del 2009 ai 400 del 2024. E dal 2026 in Italia con la liberalizzazione arriveranno anche i treni Av francesi di Sncf, in concorrenza con Trenitalia e Italo. Con un investimento di 800 milioni, Sncf vuole coprire le tratte Torino-Milano-Napoli-Reggio Calabria e Torino-Milano-Venezia. Ulteriore traffico significa linee e stazioni sotto maggiore stress, specie nei centri di punta quali Milano Centrale, Firenze Santa Maria Novella e Roma Termini. Significa meno minuti tra una corsa e l’altra, “tracce” orarie più ravvicinate. Se per qualsiasi motivo un convoglio rallenta, quelli successivi devono fare lo stesso o fermarsi. Su alcune percorrenze, come Roma-Firenze, esiste il bypass della vecchia linea a bassa velocità sulla quale sono già dirottati Intercity e interregionali. Ma non dappertutto è possibile dispacciare i convogli su altre linee. L’ingolfamento aumenterà ancora e la via Crucis quotidiana si farà ancora più probabile.


Se rimanere al potere è l’unico fine delle destre


Dalla regola di maggioranza, come procedura per prendere decisioni in un clima di pluralismo, si passa al dominio della maggioranza in un clima in cui il pluralismo è trattato come un ostacolo al processo decisionale rapido

(Nadia Urbinati – editorialedomani.it) – Non ci si rende conto di quanto rischiosa sia l’attuale congiuntura politica. Forse perché l’intero Occidente sembra muoversi all’unisono (con qualche eccezione) verso regimi autoritari e società ineguali e gerarchiche. Come i pesci non si accorgono dell’acqua in cui nuotano, così noi non ci accorgiamo delle trasformazioni quotidiane.

Gramsci parlava di trasformazione egemonica. Tanti tasselli sono stati collocati e lasciano intravedere, poco a poco, il puzzle. Alcuni esempi. Il linguaggio, da anni diventato una fucina di assalti violenti contro le persone, spesso vuoto di idee. La scuola, luogo di formazione all’obbedienza. L’università che, in una bozza di riforma in discussione, verrebbe controllata in ogni ateneo da un funzionario nominato dal governo. La vita civile, che fa apparire ogni contestazione come violenza o insubordinazione, e spinge i cittadini a farsi i fatti loro. Conformismo civile.Ricettecontrole disuguaglianze

È opinione diffusa nei nostri paesi che le regole democratiche siano in grado di addomesticare gli eversori. Un realismo utopistico. In Germania, dove pure non si è creduto molto nel potere trasformativo delle istituzioni, lo Stato democratico è intervenuto a vari livelli: attraverso la politica culturale della memoria e l’esclusione, più decisa della nostra, delle forze politiche antidemocratiche dalla competizione elettorale.

Eppure, i movimenti nazifascisti tornano ad avere seggi nel Bundestag, competendo con nomi camuffati per idee estreme che circolano da anni nell’Europa democratica, come la sottrazione dalla nazione delle componenti dichiarate estranee per ragioni etniche e religiose. L’immigrazione è stata la fucina della destra nell’era democratica. Una destra che è fascista nelle sue radici ideologiche, anche quando si conforma alle regole della democrazia elettorale. Fino a quando?

Vincere con regole democratiche non fa la democrazia. Questa banale norma non sembra transitare nelle menti né negli scritti di tanti opinionisti e cittadini. Non solo si diffondono menzogne, come quella secondo cui Mussolini avrebbe vinto le elezioni. Ma, quel che è peggio, si identifica la democrazia con la vittoria elettorale.

Ci hanno spiegato non i radicali democratici, ma i minimalisti democratici, che la democrazia è un sistema politico e istituzionale legittimato da regole di libera competizione per la determinazione della maggioranza e dell’opposizione. La democrazia non la si riconosce dalla vittoria, ma dall’accettazione della sconfitta. La stabilità della democrazia sta nel fatto che chi perde non rovescia il tavolo e chi vince non cambia le regole per restare al potere. Non voler andarsene è la molla del potere che le costituzioni democratiche hanno cercato di depotenziare. La nuova destra è questa molla.

Ci sono diversi modi per restare in sella. In passato abbiamo avuto violente marce di fanatici e colpi di Stato. Da qualche decennio, nei paesi occidentali si stanno sperimentando altre strategie. La più gettonata è la riforma della costituzione vigente. La destra vuole costituzionalizzarsi. E lo fa non scrivendo ex novo la costituzione (per cui servirebbe una rivolta eversiva), ma tosando quella democratica, con regole e norme che rendono più difficile l’alternanza. Ridisegnare la giustizia, eleggere direttamente il capo del governo e, magari, riscrivere la legge elettorale con un premio di maggioranza che imiti la Legge Acerbo del 1925.

Il caso ungherese mostra bene il collasso della distinzione tra politica “ordinaria” e politica “costituzionale”. La costituzionalizzazione della destra ha lo scopo di congelare la sua maggioranza. La destra al potere vuole rendere la democrazia, e a volte ci riesce, in un estremo maggioritarismo. Per vincere il più a lungo possibile.

Dalla regola di maggioranza, come procedura per prendere decisioni in un clima di pluralismo, si passa al dominio della maggioranza in un clima in cui il pluralismo è trattato come un ostacolo al processo decisionale rapido: questa è la radicale trasformazione di mentalità, ancor prima che istituzionale, che la nuova destra mette in atto.

Non basta vincere le elezioni per essere democratici. Alla base di ciò sta il fatto, banale ma, a quanto pare, dimenticato, che nella democrazia costituzionale il popolo (e i suoi rappresentanti) non sta sopra la legge, mentre nell’ordine ipermaggioritario il leader che conquista il consenso elettorale dichiara di essere la volontà del popolo.

Gli scienziati politici lo definiscono “legalismo discriminatorio”, secondo la massima “tutto per i miei amici; il rigore della legge per i nemici”. È per perseguire questo progetto che la destra sfodera un attivismo riormatore così intenso. Tutte le sue riforme sono inanellate e interdipendenti, tenute insieme dallo stravolgimento della democrazia in un regime della maggioranza.


Fairplay Meloni, il pareggio elettorale conferma gli equilibri


La sinistra favoleggiava di un possibile 4 a 1 Resta la delusione per il risultato di FdI in Campania

Giorgia Meloni con il nuovo governatore del Veneto, Alberto Stefani

(Flavia Perina – lastampa.it) – Giorgia Meloni, il giorno del fairplay. Prima ancora che venissero consacrati i risultati definitivi, complimenti a Alberto Stefani ( «una vittoria frutto del lavoro di coalizione») ma anche a Roberto Fico e Antonio Decaro. La pagina “Regionali” per lei è già archiviata, e preferisce vedere il bicchiere mezzo pieno: fino alle dimissioni di Roberto Occhiuto in Calabria la sinistra favoleggiava di un possibile 4 a 1. È finita tre a tre, equilibri confermati, il che va abbastanza bene a una leader convinta che sia il suo nome a fare la differenza e quando in gioco ci saranno i destini nazionali le percentuali del voto saranno totalmente riscritte. Persino il consistente sorpasso delle liste leghiste in Veneto è inquadrato con questo spirito: aiuta la stabilità dell’alleato, evita un dirompente processo del Nord a Matteo Salvini, e siccome che non si è ancora trovato il modo di sostituirlo meglio così, si può andare avanti tranquilli.

Arrivare senza scossoni interni o esterni agli appuntamenti del 2026, il referendum sulla giustizia e l’avvio della campagna per le Politiche prossime venture, era l’obbiettivo di Palazzo Chigi. È stato raggiunto, anche se con qualche sofferenza. Brucia soprattutto il pessimo risultato della Campania, l’unica piazza dove Fratelli d’Italia esprimeva il candidato. Lì, dopo aver creduto a una rimonta in extremis, si attendeva almeno un exploit del voto di lista. E invece Edmondo Cirielli è stato doppiato da Roberto Fico mentre la lista di FdI è finita in un deludente testa a testa con Forza Italia. Ma anche qui: Meloni lo aveva detto. Fino all’ultimo ha cercato un nome civico per la competizione, consapevole della difficoltà di tenere i numeri in una regione che da trent’anni non premia più la destra. Ha ceduto alle insistenze dei suoi che ritenevano l’alleanza Pd-M5S un gigante dai piedi d’argilla, scommettendo sulla diserzione elettorale di deluchiani e grillini. Hanno perso i teorici della “Campania contendibile”, non lei.

Poi certo c’è il tema del campo largo che ha trovato il suo assetto e il “teorema Taruffi” (Igor, stratega dei numeri per Elly Schlein) sulla potenziale frana della coalizione di centrodestra alle Politiche, nei collegi uninominali, dove l’alleanza Pd-M5S rende competitiva l’opposizione. Prospettiva: maggioranze diverse alla Camera e al Senato, ritorno allo stallo di dieci anni fa. Ma pure quello alla fine fa brodo. La destra meloniana trova nei calcoli di Taruffi argomenti a sostegno della proposta che ha avanzato da un pezzo: si deve cambiare la legge elettorale per sventare il rischio di paralisi. Â«Se dovessimo votare oggi – dice Giovanni Donzelli – non ci sarebbe stabilità politica né in caso di vittoria del centrodestra né in caso di vittoria del centrosinistra». La prospettiva che coltiva FdI è nota: proporzionale e indicazione del candidato premier sulla scheda. Due nomi, due scelte politiche alternative. E chiunque sarà “l’altro” – Elly Schlein, Giuseppe Conte, una figura terza, un professore, un outsider tirato fuori dal cilindro dei moderati di sinistra – sarà un gotterdammerung che chiamerà ai seggi l’intero popolo meloniano. O noi o loro, e allora altro che affluenza sotto il 50 per cento, altro che ricamini sui campi larghi o stretti: sarà una sfida tra facce, e a destra si è convinti di avere quella perfetta per questo tipo di battaglia.


Problemi di traduzione


(di Michele Serra – repubblica.it) – Non si sa se definirlo eccesso di sicurezza o stupidità (due concetti che spesso si toccano). Ma la faccenda del “piano Trump” per l’Ucraina che potrebbe sembrare o addirittura essere stato scritto in russo e poi tradotto un poco alla carlona dagli americani; e così goffamente presentato ai suoi (e al mondo) dal ministro degli Esteri Rubio, che l’ispirazione putiniana di quel piano ne esce rafforzata: è al tempo stesso una cosa da ridere e da piangere.

Va bene che gli americani, in politica estera, non hanno mai avuto fama di essere avveduti o astuti: sono certi di non averne bisogno, male che vada si manda qualche portaerei e si incarica la Cia di rovesciare il governo che intralcia. Ma qui sarebbero bastati, per non farsi scoprire, un buon traduttore dal russo; qualche sapiente ritocco a mo’ di maquillage per far sembrare — almeno sembrare — che quel piano, come tutti i piani di pace, punti a un minimo di equanimità di facciata; e una riunione di un’oretta (bene anche su Zoom o Teams) per mettersi d’accordo su cosa dire in pubblico: lo chiamiamo “piano americano” o diciamo che è la lista delle priorità dei russi?

Niente di tutto questo, come se non ci fosse più nessuna forma da salvare, nessuno scrupolo da osservare. Fare e dire la prima cosa che salta in mente — fosse anche una fesseria o una volgarità — è la regola di Trump, e in genere è la qualità che il populismo esalta nei suoi boss. Lo ha ribadito la portavoce di Trump dopo che il presidente ha definito «porcellina» una giornalista che lo importunava con le sue domande. Si sa che il presidente è molto schietto, ha detto. Ma non è dimostrato che la schiettezza generi intelligenza.


L’ennesima genialata di Tajani: se attaccati, scappiamo sul Ponte


Fatte salve rarissime eccezioni, questo – lungi dall’essere un “governo” – è un’armata Brancaleone di comici involontari di scarsissimo livello. Ogni giorno c’è tra loro una sorta di […]

(di Andrea Scanzi – ilfattoquotidiano.it) – Fatte salve rarissime eccezioni, questo – lungi dall’essere un “governo” – è un’armata Brancaleone di comici involontari di scarsissimo livello. Ogni giorno c’è tra loro una sorta di gara su chi fa ridere (sempre involontariamente) di più. È una sfida diversamente avvincente all’ultima gaffe, senza esclusione di colpi. A lungo il leader indiscusso di tale esaltante contesa è stato Lollobrigida, che era e resta un fuoriclasse nel non saper fare politicamente nulla e al tempo stesso nel “saperlo” comunicare sempre malissimo. Grandi prestazioni si sono poi avute, in rapida sequenza, da statisti autentici come Nordio e Valditara, il primo non si sa mai a quale giro di spritz (con rispetto parlando) e l’altro encomiabile nel ruolo di preside retrogrado in una scuola italica qualsiasi del 1925. Risulta poi sontuosa la capacità rabdomantica, quasi alla Dario Fo, che ha il ministro (sic) Urso nell’inventare ogni volta una lingua astrusa e aliena, creando un Grammelot esondante e magmatico che non poteva non ammaliare Crozza. Nella top ten figurano poi anche Roccella e Montaruli, l’una esemplare nel ruolo della oscurantista ferale e l’altra in quello della saltimbanca avulsa da ogni logica e/o senso. Scegliere tra simili professionisti del disastro comunicativo (e non solo comunicativo) non è facile. Oltretutto, giusto nelle scorse ore, pure Musumeci ha voluto calare l’asso, confondendo il terremoto dell’Irpinia con quello di Amatrice (e che sarà mai? In fondo è solo il ministro della Protezione civile).

Vi confesso però che, ultimamente, il campione dei campioni mi sembra essere un altro: Antonio “Tajani”. Con quel carisma da betulla lessa, quel passato da leader dei giovani monarchici (eh?) e quello sguardo profondo di chi ha spesso in canna un peto in ascensore, ma non sa mai se sganciarlo o no, Tajani sta sbaragliando la concorrenza. E per questo va applaudito. Nelle ultime settimane ha disegnato e sciorinato capolavori. Ha detto che in effetti Israele stava esagerando un po’ con Gaza, e quindi gli avrebbe telefonato lui di persona per dirgli “ora però basta, eh!”. Se l’è presa con Enzo Iacchetti, reo di dire bugie (non si sa ancora quali). Ha sostenuto testualmente, ospite di Bruno “onore ad Alvarez” Vespa, che “il diritto internazionale conta, sì, ma fino a un certo punto”, roba che se lo dice uno studente di Giurisprudenza lo impalano (invece, se lo dice il ministro degli Esteri, in tanti lo applaudono). Ha detto che votava per confermare l’immunità parlamentare alla Salis e poi il giorno dopo – alla faccia del “garantismo” – ha votato per togliergliela, e tutto questo solo perché Lega e Fratelli d’Italia gli avevano nel frattempo tirato un po’ le orecchie. Si è esibito nel mitologico “Tajani jumping” durante la campagna elettorale in Campania (che poi come noto è andata per Tajani benissimo), sfidando in un colpo solo ernie, sciatiche e decoro.

Infine (per ora), il colpo da funambolo. La giocata definitiva. La locura pura. Ascoltiamolo: “(Il ponte sullo Stretto servirà) anche per l’evacuazione, per garantire la sicurezza in caso di un attacco da Sud. Perché esiste anche il fianco Sud della Nato”. Tutti in piedi! Siamo di fronte alla Gioconda delle boiate: il ponte lo vogliono costruire perché servirà anche come fuga laddove qualcuno ci attaccasse da Sud. Sì, ma chi? Gli alieni? I russi? I comunisti? O forse i mori, i lanzichenecchi, i visigoti? O magari i Gremlins coi Gormiti? E se ci attaccassero, perché poi dovrebbero lasciare intatto il ponte invece di bombardarlo in un amen? Non si sa. Si sa però che Tajani, in uno dei suoi molteplici trip da sobrio, ha immaginato i siciliani correre su e giù per il ponte di Salvini – ultimo rifugio del pianeta Terra – mentre tutt’attorno c’è l’Armageddon. Un uomo, una leggenda. Io mi sforzo anche di fare satira, ma questi ormai fanno tutto da soli.


La brigata Azov dei Parioli sta per arruolarsi


Sono giorni complicati per il filo-ucraino immaginario, quello che ama declamare il proprio incondizionato appoggio a Zelensky restandosene […]

(di Antonio Padellaro – ilfattoquotidiano.it) – Sono giorni complicati per il filo-ucraino immaginario, quello che ama declamare il proprio incondizionato appoggio a Zelensky restandosene prudentemente a 2125 km da Kiev. Le cronache segnalano che domenica in piazza a Roma erano pochi, ma fermamente determinati a sostenere l’Ucraina “anche se dovesse mancare l’apporto americano”. Parole di Paolo Gentiloni, non un cuore di leone, che hanno tuttavia spiazzato il battaglione Azov dei Parioli guidato da Carlo Calenda e dal suo ferocissimo tridente, simbolo nazionale ucraino, che il leader di Azione si è temerariamente tatuato sotto il polsino. Sì, le certezze di un tempo quando bastava enunciare la formula dell’aggredito e dell’aggressore per mettere in fuga il nemico ibrido putiniano hanno subìto uno scossone dopo la pubblicazione del piano di pace preso in considerazione a Washington.

Dopo averli sputtanati come merce avariata del Cremlino i 28 punti, a cui se ne sono aggiunti altri 28 con le proposte migliorative della Ue, al reparto incursori dell’Esquilino si pone adesso il non piccolo problema di leggerseli tutti e 56 e di ricavarne uno slogan efficace da sventagliare nei talk-show. Ai tempi della Guerra civile spagnola, gli antifascisti non di maniera per dare un senso alle parole e agli ideali, si arruolarono nelle Brigate internazionali: 42 mila coraggiosi provenienti da 52 paesi che si batterono eroicamente contro le preponderanti truppe franchiste. A Guadalajara quegli eroi, tra essi anche politici e intellettuali, scrissero una pagina indimenticabile. Nessuno pretende che i nostri combattenti in piazza ripetano quelle gesta. Ma evitarci la solita solfa dell’armiamoci e partite sarebbe il minimo.


Salta che ti passa


(di Marco Travaglio – il Fatto Quotidiano) – La lunga partita delle sei Regionali del 2025 si chiude col 2-1 per il centrosinistra in Campania, Puglia e Veneto. Che, col precedente 2-1 per il centrodestra in Calabria, Marche e Toscana, porta il risultato finale sul 3-3 (l’autonomista Val d’Aosta fa storia a sé). Ogni schieramento mantiene le posizioni. Con una novità e una sorpresa: il centrosinistra in Campania vince con un candidato 5Stelle, Fico, dopo il lungo regno del pidino […]


Per la ‘remuntada’ della sinistra serve una scarica: qualcosa si muove, ma ancora non basta


I problemi della sinistra italiana secondo un lettore: distinguo, manfrine e punzecchiature che allontanano gli elettori

(di Carmelo Zaccaria – ilfattoquotidiano.it) – Una lezione che si può apprendere dalla politica è che non basta essere ottimisti per vincere, bisogna anche meritarselo. Trovare il modo per restare in connessione con le persone, innescare i loro desideri, accendere nuovi pensieri, essere certi della coerenza con gli impegni presi. Come diceva Stefano Benni: bisogna somigliare a quello che si dice.

Nel tentare la “remuntada” la sinistra, nel suo insieme, deve essere non solo convincente ma soprattutto “conveniente”. L’elettore deve avere la percezione che il suo voto è davvero essenziale, decisivo e che la sua scelta lo farà stare meglio. E dovrà sentire nell’intimo il privilegio di trovarsi in buona compagnia, di appartenere ad un unico e promettente destino, alla visione di un futuro più fecondo e coinvolgente. Al di là della qualità dei singoli candidati sarebbe necessaria una scossa o, come la chiama Elias Canetti, una â€œscarica”, che colpisce allo stesso modo i componenti della massa che, all’unisono, si liberano delle loro differenze sentendosi eguali.

La sinistra dopo tre anni di opposizione sarà capace di suscitare una scarica? Meriterà di essere votata? Ad ascoltare i mugugni e i sussurri smozzicati qualcosa si muove, ma ancora non basta. L’impressione è che non sono i temi o i programmi che disuniscono e tengono distanti i partiti di sinistra, quanto i continui distinguo, le titubanze linguistiche, le esacerbanti manfrine e punzecchiature che animano il dibattito del campo largo che, strano che non si capisca, non suscitano particolare interesse nel proprio elettorato. E questo nonostante della sinistra ci sia un gran bisogno in un mondo così diseguale, per retribuzioni e patrimonio.

La metà più povera della popolazione mondiale possiede una ricchezza irrisoria, mentre il 10% più ricco ne possiede quasi l’80%. Che altro serve alla sinistra per compattarsi di fronte al dilagare di ricchezze “smodate”, alla prepotente ascesa di un sistema finanziario profondamente ingiusto fondato sul profitto e l’accumulazione di capitale che lascia poco spazio al welfare, e continua a prosperare a scapito di una riduzione degli spazi democratici? La sinistra si accorge di non rappresentare più gli ultimi ma neanche più i penultimi, quelli smarriti e umiliati dalla storia, quelli privi di caratura sociale, deprezzati e messi forzatamente ai margini a cui la convenienza ad andare a votare è vicina allo zero.

Essere convenienti non significa voler “solo” tassare i superprofitti, ma fare proposte concrete di revisione per arginare lo strapotere di un neoliberalismo avido di rendite e nemico giurato di una più equa distribuzione del reddito. Ed è pur vero che il costo dell’energia è la più alta del mondo, questo lo sa benissimo chi paga le bollette, ma l’elettore vuole essere certo che saranno adottate misure pubbliche stringenti per evitare rialzi ingiustificati, a costo di dover intervenire sulle lobby dell’energia intente a cavalcare qualsiasi evenienza pur di arraffare corposi e arbitrari dividendi.

E’ sicuro che la sinistra al governo farà pagare ai balneari un prezzo giusto per delle concessioni acquisite e conservate quasi a titolo gratuito? Riuscirà a tutelare le spiagge libere e la semplice fruizione del mare diventato quasi inaccessibile anche alla vista? E tanto ancora, naturalmente. Per avere un rimbalzo elettorale bisogna farsi percepire come una forza che risolve i problemi e non li perpetui, e neanche li tollera o li nasconde. E non si tratta di avere più centro o più radicalità nella coalizione, come appare inutile concionare su chi debba guidare le truppe all’assalto della destra, se prima non si arruolano armigeri e si sventolano nuovi vessilli su territori abbandonati da tempo.

Più che un campo largo servirebbe recuperare unitariamente più persone per costruire un blocco sociale più largo e compatto. Ma per farlo bisogna fermarsi a capire assumendo una postura politica che richiede sacrificio, passione e intransigenza, oltre che sapienza tattica.


Questa volta più che mai ha vinto il “partito dell’astensione”


Regionali: l’affluenza in Campania al 44,05%

(ANSA) – Quando mancano sette sezioni su 5.825 totali, l’affluenza alle elezioni regionali in Campania è del 44,05% con un calo di circa 11 punti rispetto alle regionali del 2020, quando alle urne si era recato il 55,52%.

Regionali, affluenza Puglia al 41,8% in calo di 14 punti 

(ANSA) – L’affluenza in Puglia per le Regionali è al 41,83%. Il dato definitivo delle 4.032 sezioni nella regione è inferiore di oltre 14 punti percentuali rispetto alle elezioni del 20 e 21 settembre 2020 quando fu il 56,43%.

La provincia con la maggiore partecipazione al voto è quella di Lecce con il 44,50% dei votanti. Seguono Bari con il 42,31%; Brindisi col 41,94%; Bat arriva al 41,22% e Taranto 40,60%. Ultima è la provincia di Foggia con una percentuale che si ferma al 38,61%.


“Non sono un martire”. Intervista a Sigfrido Ranucci


“Fazzolari? Mi critichino pure, è fisiologico. Io grillino? L’unica tessera che ho avuto era quella della Dc. Mi sento cattocomunista. Ma non entrerò mai in politica. Se resto in Rai? Finché sarò libero. Ho visto Cairo, La7 è un’ipotesi”

(Salvatore Merlo – ilfoglio.it) – Sigfrido Ranucci non ha l’aria da martire. Eppure, è ciò che ha suggerito il braccio quasi destro di Giorgia Meloni, Giovambattista Fazzolari, al Corriere della Sera: dopo l’attentato davanti casa sua “Ranucci gode di totale impunità”. Un martire “de sinistra”. 


Gli chiediamo: per chi hai votato? “Io ho avuto una sola tessera di partito, quella della Dc. Corrente sbardelliana”.

 
Bum. Ranucci sbardelliano. Proprio così. La corrente di Vittorio Sbardella: andreottiana, romana, muscolare, più nota per le ombre che per le liturgie cattolico-democristiane. E lo dice come uno che rilegge la propria biografia in diretta. Poi si scusa ridendo: “Me la fecero loro quando ero ragazzo, neanche lo sapevo”.

   
Parla di politica e torna su di sé, non sulle etichette. Gli domandiamo ancora: sei di sinistra? “Penso di essere un cattocomunista, se proprio vuoi saperlo. Ma sono anche figlio di un brigadiere della Finanza, e su alcune cose ho idee vicine alla destra legalitaria”.

Non ha proprio l’aria da martire, Ranucci. Quello che lo infastidisce – ci dice – non è la critica, semmai la leggenda che lo vorrebbe intoccabile dopo la bomba. “Non sono mica un’entità morale intangibile che parla da un pulpito. Ma che mi critichino pure, che mi attacchino. Non voglio immunità. E’ giusto così. E’ fisiologico. I giornali del gruppo Angelucci non perdono un giorno”. E di questi critici, nei giornali del centrodestra, c’è qualcuno che stimi? “Francesco Specchia”. 

 
Quando glielo ricordo – “martire…” – sorride appena. E, per un istante, si tendono le spalle: “A dire il vero continuano ad arrivare pure querele e diffide. Va avanti esattamente come prima. Forse è comodo dire che sono impunito per non entrare nel merito di quello che raccontiamo a ‘Report’”.


Continuando a parlargli di politica, colpisce il modo in cui lui resta seduto: rigido, ma non sulla difensiva, nello studio che usa per andare in onda. Un ambiente pieno di fogli, un tavolo troppo grande e disordinato, proiettori spenti. E un silenzio che stride con il caos che lo circonda da mesi.


Quindi non è vero che sei un grillino e che ti candiderai con il M5s? “Non entrerò mai in politica. Non mi interessa, e non mi identifico in nessuno dei partiti che adesso mi tirano per la giacchetta”. Pausa. Sorriso a filo d’erba: “Me l’hanno già chiesto tante volte. Di recente e in passato”. Ti hanno proposto di fare il sindaco, come è capitato a Bruno Vespa? “No, mi hanno proposto cose un po’ più importanti”. Il ministro? “Non esageriamo”.

  
Però ti difendono Pd e 5 stelle. Ranucci, brevilineo, con le mani sottili, fa una piccola smorfia. “Il Pd mi dà solidarietà ufficiale. Ma non è che mi amino particolarmente. Anzi”. Lo dice come si constata una pressione atmosferica.


E i 5 stelle? “Nel nostro pubblico ci sono sempre stati tanti ex dipietristi. E una parte dei 5 Stelle ha sempre pensato che noi fossimo roba loro, che dovessimo trattarli con riguardo. E invece no”. Pausa breve. “Questi attestati di stima sono sempre da prendere con le pinze”.

 
Ricorda l’episodio di quando il Movimento propose Milena Gabanelli al Quirinale. “Io e Milena ci scherzavamo sopra: era una cosa surreale. Ma la cosa più surreale è che poi, quando si è trattato di riconoscerle un ruolo in Rai, i 5 stelle sono spariti”.

  
Gli dico che però su di loro inchieste non ne fa. “Non è vero. Ci occupiamo sempre di più di chi governa. E ora governa la destra. Ma in assoluto il ministro più attenzionato negli ultimi anni è stato Roberto Speranza”. Speranza non è grillino. “Ma ci siamo occupati anche di Giuseppe Conte. La storia del finto piano pandemico l’abbiamo tirata fuori noi. E’ finita al tribunale dei ministri”.


Ranucci abbassa un attimo lo sguardo sui fogli sparsi, come per chiudere il capitolo politico. Poi cita Biagi: “Io sono amico di tutti ma la trasmissione non è amica di nessuno”.

  
E gli “aiuti dall’alto”? Le presunte soffiate dei servizi, i dossier, i segreti di stato. Ranucci ride. “Sì, certo, gli aiuti dall’alto… Sono credente: penso che quelli che ho perso mi diano una mano. Gli unici servizi che conosco sono quelli lì”. E probabilmente sta pensando anche alla mamma, professoressa di scuola, “che quando cominciai a condurre ‘Report’ mi diceva: ‘Mi raccomando non fare i nomi delle persone coinvolte nelle inchieste di cui ti occupi. Una cosa assurda e dolce, insieme. Lo diceva perché aveva paura”.

   
Lo studio di Sigfrido Ranucci, nella sede Rai di via Teulada 66, è la sua stanza redazionale e insieme un piccolo set: il logo di “Report” grande e rosso sulla parete, il nome di Milena Gabanelli ancora scritto sulla porta (“lo volevano cancellare ma mi sono opposto”), il pavimento di linoleum consumato, l’arredamento spento tipico degli uffici Rai, i proiettori da studio puntati verso il tavolo, la scrivania di copioni e di querele. “Ho due o tre processi aperti, su un totale di circa duecento atti di citazione e altre azioni legali. Ma finora non ho mai perso una causa”. Indica le luci, la valigetta che serve a inviare il segnale della messa in onda, il monitor di servizio. “Da qui posso andare in onda anche senza fonici e regìa”, dice. “Faccio tutto da solo”. E’ sorridente, garbato, più magro di come appare in televisione. “Sono le ottiche che mi ingrassano. Se ci fai caso cambio stazza di settimana in settimana”, dice. “E poi sono cortisonico”. In che senso? “Produco cortisone”. Pare sia una fortuna, abbassa la soglia del dolore. “Incasso i colpi”. Si tocca il petto con due dita, attraverso la camicia sempre molto sbottonata (“odio la cravatta”) come a dire che il corpo gli è sempre stato un alleato. Poi inclina la testa: “Sono sempre stato così, anche da ragazzo”. E allora gli chiedo dove è cresciuto. “A Roma, alla Garbatella, lo stesso quartiere di Giorgia Meloni. Ho fatto il liceo scientifico, il Borromini, una scuola dove, come il quartiere, c’erano persone di varie estrazioni sociali. La Garbatella era molto popolare, per così dire”. E com’era chiamarsi Sigfrido in un quartiere di case popolari? “Già il nome mi metteva nei guai. Il primo problema è che, preceduto da questo nome, ti aspetti uno alto due metri e con gli occhi azzurri. Invece poi arrivo io”. Perché ti chiamano Sigfrido? “Per via del nonno. In famiglia c’era una passione per Wagner”. E il secondo problema? “Beh, il secondo problema è che ti devi immaginare l’Anello dei Nibelunghi alla Garbatella… Infatti, mi chiamavano tutti Lello”. Lello? “Sì. Ma il paradosso è che un Lello vero, il famoso del quartiere, abitava nel mio stesso palazzo. Uno che spacciava. Tutti sapevano chi era. A scuola, dopo una settimana, ho cominciato a notare che i compagni non mi parlavano più. Non capivo”. I genitori avevano detto ai figli: state attenti, quello è Lello lo spacciatore. “Ci è voluto un po’ per chiarire. La Garbatella era così. Quando uscivo la sera scavalcavo le persone che si erano fatte di eroina sulle scale. C’era uno che, dalla finestra, tirava giù la droga dentro una pentola legata a una corda. Secondo me è lì che ho imparato a osservare”.


E in base alla tua capacità di osservare: hai idea di chi abbia messo un ordigno davanti casa tua? Chi è stato? “Non lo so”, dice. “E non riesco a collegare quella bomba a nessuna delle inchieste che abbiamo fatto”. Prima di quella notte c’erano stati undici episodi che non aveva mai reso pubblici: proiettili davanti casa, pedinamenti, persone che lo filmavano mentre incontrava fonti. “Tutte cose che riuscivo a collegare a determinate puntate. Questa no. Non so ancora se è legata a qualcosa che abbiamo fatto o a qualcosa che deve ancora andare in onda”.

  
I magistrati, racconta, hanno cominciato a convocare persone che ruotano intorno a un’inchiesta recente sul traffico di armi. “Il 15 settembre abbiamo scoperto mitragliatrici nascoste in un cantiere navale. Le abbiamo collegate a dei prestanome della camorra che trafficano armi verso la Libia”. E’ prudente: non fa equivalenze automatiche, non azzarda mandanti. “Sono scenari complicati”, dice. Punto. “L’unica cosa certa è che la politica non c’entra assolutamente nulla, e non ho mai pensato né detto il contrario”. Ma l’idea che l’ordigno fosse solo un “petardo”, come qualcuno ha scritto “sui giornali della destra”, lo infastidisce. Non tanto per le due macchine distrutte, quanto per la leggerezza di quella definizione. “Hanno messo un innesco. Una miccia che, se ti fossi avvicinato nel momento sbagliato, ti sarebbe saltata in faccia uccidendoti”.

Da qui la conclusione più inquietante: â€œChi ha confezionato quell’innesco ha fatto dei calcoli che solo una persona molto esperta può fare”. Criminalità organizzata? “Molto ben organizzata, quasi…” Quasi? “Quasi di competenza militare”. Ecco.


Lo dice come un dato tecnico, non come un’impennata drammatica. Ma c’è un altro dettaglio che gli pesa più di tutto: “Come facevano a sapere che io rientravo proprio a quell’ora? L’ho comunicato all’ultimo momento solo alla cerchia familiare e alla scorta”, dice. “E non era la prima volta che accadeva qualcosa del genere: quando erano comparsi i proiettili io mancavo da quattro giorni”. E’ la precisione a colpirlo: il sincronismo, non solo l’ordigno. Gli chiedo perché non avesse mai messo telecamere davanti casa, considerate le minacce. Non esiste una sola immagine di quella via, quella sera, in un mondo che è pieno di telecamere ovunque. “Non ho messo telecamere perché le telecamere ti possono proteggere, ma ti espongono anche. Abbiamo fatto a ‘Report’ un’inchiesta sulle intrusioni nei sistemi di videosorveglianza”.

 
Poi c’è la politica, che sull’attentato ha reagito anche in modo scomposto. Ranucci cita soprattutto il nervosismo di alcuni esponenti di Fratelli d’Italia: interrogazioni, comunicati, perfino un post del partito che sollecitava la procura a fare presto, sostenendo che l’inchiesta rischiasse di alimentare retropensieri sul coinvolgimento del governo. “Vogliono chiudere la partita in fretta, archiviandola come bassa criminalità”. E qui la sua valutazione diventa più netta: “Dicendo che è una sciocchezza e che se ne parliamo troppo sembra un attacco al governo, loro stessi fanno nascere l’idea che, se invece fosse una cosa seria, il governo potrebbe entrarci. E’ un clamoroso autogol, insomma si danno, ingenuamente, la zappa sui piedi”. Poi aggiunge soltanto: “E’ una cosa che richiederà tempo”.


C’è qualcosa di cui ti sei pentito? Qualcosa che a “Report” avete sbagliato, che avresti fatto diversamente? “A volte siamo andati un po’ sopra le righe”, dice Ranucci. “Nei toni, nella costruzione. Capita quando c’è competizione interna su chi trova lo scoop più forte. Capita che qualcuno forzi la mano. E quello può danneggiare la trasmissione. E’ accaduto”.


Gli faccio un esempio. Le musiche, le atmosfere, i testimoni girati come figuranti. “E’ una critica legittima”, ammette. “Quando arrivano pezzi all’ultimo non sempre riesci a vedere tutto insieme. Te ne accorgi solo quando sei in onda”. Poi c’è la telefonata della moglie di Gennaro Sangiuliano. Perché esporre una donna fragile, tradita, in uno stato visibilmente alterato? Sapevi che era malata? “No”, risponde. “Non sapevo nulla”. Anche se lo sapevano tutti. “Ma l’interesse giornalistico non stava nella sua fragilità o negli aspetti morbosi. Stava in quello che diceva. Era la moglie che indicava al ministro cosa fare sul contratto di un’altra persona. Quello era di interesse pubblico. Io ne ho mandato un pezzetto, ma ce ne avrei potute fare sei puntate”. L’audio però oggi su Raiplay non c’è più. E’ stato cancellato dal servizio originale. “Decisione superiore della Rai”, dice. E aggiunge soltanto: “Io non l’avrei tolto”.

 
Come sei entrato in Rai? “Con una raccomandazione”, ride Ranucci. “Non ho nessun problema a dirlo. Niente di eroico”. Poi abbassa appena la voce, come per mettere subito una pietra sopra ai moralismi: “Era il 1989 e la raccomandazione era di una signora, la segretaria di un alto dirigente di Viale Mazzini, che avevo conosciuto perché le davo lezioni di tennis. Mi facevo pagare in nero. E meno male che allora non c’era ‘Report’ perché mi avrebbero fatto il paiolo”. E che facevi all’inizio? “Venivo da un anno di supplenza in una scuola di Ostia dove insegnavo italiano e storia. Alla Rai mi fecero entrare come assistente ai programmi. Al Tg3”. Un ambiente in parte semideserto, in parte febbrile. “La trasmissione si chiamava ‘Domenica sul tre’ e andava in onda il lunedì dopo mezzanotte perché, diciamolo, non era proprio un capolavoro”.


Si ritrova così nella stagione che verrà ricordata come Telekabul: Sandro Curzi, Michele Santoro, Bianca Berlinguer, Corradino Mineo. “Era un’altra Rai”, dice senza nostalgia, solo per constatazione. “Io passavo le ore a guardare come si montava un pezzo”. Ricorda Franco Poggianti, caporedattore di Livorno: “Mi ha insegnato che la prima cosa è accettare che il tuo pezzo possa essere strappato senza nemmeno essere letto. Lo fece davvero”.


Il vero apprendistato non è ideologico: è tecnico. Palinsesti, montaggi, tempi televisivi. â€œPassavo le ore a leggere i dati d’ascolto”, dice. “Credo sia stata la mia fortuna. Li studio da allora. Sono maniacale su questo”. E qui il tono cambia appena, ma resta concreto: “E’ per questo che oggi conosco il palinsesto come una mappa interna. So esattamente da dove parto. Io parto dal 2 per cento, non ho traino ma salgo con gli ascolti. Altri partono dal 7 col traino, e perdono quasi tutto”. E qui accende il computer, mi fa federe lo share di due suoi colleghi di Raitre.

   
Oggi la Rai in cui Ranucci lavora non somiglia più a quella in cui è entrato, dice. Quando parla dell’azienda non alza mai la voce: la smonta. “La riforma Renzi è stata una iattura. E’ incompleta. E poi la divisione in generi ha devastato ogni cosa”. Lo dice con un tono quasi ingegneristico, come se spiegasse un guasto. “Una volta bussavi alla porta del direttore: Di Bella, Ruffini, Vianello, Di Mare. Uscivi in dieci minuti con una risposta. Ora no. Ora le decisioni passano in una catena infinita: amministratore delegato, coordinatore dei generi, capo del personale, palinsesto. Risultato: non decide più nessuno. E, lungo quella catena, ogni passaggio aggiunge un rinvio, una cautela, un rallentamento”. Che rapporto hai con la dirigenza che proviene dal centrodestra? Con Paolo Corsini, per esempio, il tuo direttore, il direttore dell’approfondimento? “Con lui parlo molto. Sa tutto giorni prima che io vada in onda. Vede le puntate, mi manda osservazioni. A volte le seguo”. Ma si ferma qui, Ranucci. C’è solo il dato che conta: “Con l’amministratore delegato Giampaolo Rossi, invece, non ho mai parlato. Oggi pomeriggio lo incontro per la prima volta”. Lo dice come chi segnala una stranezza ambientale, non un torto personale.

  
Poi c’è la questione che in Rai sussurra mezzo palinsesto: La7. Urbano Cairo. E’ vero che minacci di andartene a La7? Ranucci non nega, ma spiega. “Ho incontrato Cairo, e abbiamo parlato per oltre due ore. Un dialogo molto bello. Ero stato contattato per fare un libro con la sua casa editrice, ma poi abbiamo parlato anche di televisione”. Ed è chiaro che non la considera un’eresia, andarsene. â€œIo vorrei rimanere in Rai”, dice. “Ma dipenderà dalla Rai, non da me”. E aggiunge: “Il nome ‘Report’ non può andare su La7: è un marchio di proprietà della Rai. Ma un ‘New Report’ sì, ci può andare”. E con te viene tutta la squadra. “Se mi sposto io, qua non ci rimangono nemmeno i cassetti. Perché è un segnale. Significa che ‘Report’ non ha più la libertà di fare quello che ha fatto fino ad adesso”. Lo dice senza posa, senza finta modestia, come una possibilità concreta. Non è tanto l’ipotesi La7 che colpisce: è il modo in cui la racconta.

 
E a questo punto si ferma, come se rimettesse in ordine ciò che ha detto fin qua. Allora gli chiedo: una volta in Italia faceva paura “Striscia la notizia”. Oggi fa paura “Report”?  Stavolta Ranucci non finge distacco. Un’ombra di sorriso gli passa negli occhi, rapida, come uno che sa esattamente l’effetto che fa. “Io penso che faccia paura l’indipendenza”, dice. “Non la trasmissione. Non il potere mediatico. Il potere dura finché qualcuno lo teme. Poi svanisce. L’indipendenza no”. E alla fine torna secco al punto di partenza: “Io faccio il giornalista”.


L’ultimo atto del governatore della Campania De Luca: una querela a Ranucci per il servizio sulle liste d’attesa


Il comunicato dell’ufficio stampa della Regione Campania accusa Report di “dati falsi e scorrettezze reiterate”

(di Vincenzo Iurillo – ilfattoquotidiano.it) – L’ultimo atto del governatore della Campania Vincenzo De Luca prima di lasciare lo scranno è una querela a Sigfrido Ranucci e alla sua squadra di Report per il servizio sulle liste d’attesa della sanità campana. Non è un omonimo del Vincenzo De Luca che poche ore dopo la bomba davanti alla villetta di Ranucci gli espresse solidarietà, dichiarando che quell’attentato era “il segnale di un clima pesante del nostro paese”. È proprio lui.

Il comunicato dell’ufficio stampa della Regione Campania che informa l’avvio dell’azione legale arriva a mezzogiorno, ad urne ancora aperte per scegliere il successore. Pur di metterlo in rete subito, la prima versione conteneva un refuso sulla data della messa in onda del servizio, 23 gennaio 2025 e non ieri, 23 novembre 2025. “Siamo di fronte a una serie di falsi e a una scorrettezza reiterata. Già durante il Covid la stessa trasmissione, dopo una querela della Regione, fu costretta a pubblicare sul proprio sito una smentita rispetto ai dati falsi pubblicati”, si legge nel testo.

Anche il servizio di Report, ovviamente, è coinciso con la giornata di votazioni, ed è uno dei motivi dell’ira di De Luca. Secondo l’inchiesta andata in onda su Rai 3, il 89,2% delle visite in Campania è catalogato come “Programmabile”, cioè fissabile a 120 giorni, quasi il doppio della media nazionale del 45,7%, ed in questo modo si potrebbero spostare prestazioni urgenti, brevi o differibili, quelle che per intenderci dovrebbero essere smaltite entro 30 giorni, nella categoria “Programmabile”, con il risultato di guadagnare tempo e far apparire la Campania più virtuosa.

De Luca aveva preannunciato querela già venerdì scorso durante l’ultima diretta social, dopo le prime anticipazioni del servizio. Il governatore parlò di “dati falsi” sulla sanità “diffusi dalla Meloni come dal Governo“, e se la prese con Report e con chiunque ipotizzasse che le liste di attesa in Campania siano manipolate, affermando che nessuno era andato a parlare con qualcuno della Regione Campania (“un atto di cialtroneria“), e che in Campania “non è manipolabile nulla perché i dati vanno direttamente sul Cup. Da altre parti si fanno le truffe”.

Da qui l’annuncio: “Se noi troveremo un servizio” messo in onda “durante le elezioni e con condizioni di falsificazione e scorrettezza, procederemo serenamente e rispettosamente a querelare per diffamazione“. Promessa mantenuta. E tanti saluti alla solidarietà a Ranucci.


Fratelli d’Italia è ormai una guerra tra bande e Giorgia Meloni non controlla più il partito


LA RUSSA, ‘CRITICHE A GAROFANI? SE DI DESTRA SAREBBE CROCIFISSO’

(ANSA) – “Che Meloni non c’entrasse niente era del tutto evidente. Si parla di un Consigliere che in ambiente di tifosi, a ruota libera, si è lasciato andare improvvidamente a tutta una serie di valutazioni su governo, su Meloni”.

Lo ha detto il presidente del Senato, Ignazio La Russa, intervenendo all’evento Italia Direzione Nord in Triennale, a Milano, a proposito del caso del consigliere del Capo dello Stato Francesco Saverio Garofani.

“Se lo dice un consigliere del presidente della Repubblica non si può addossare questo pensiero al presidente, ma una critica a questo consigliere è assolutamente legittima, soprattutto se gli è stata chiesta una smentita e lui ha detto ‘si trattava di chiacchiere di amici’.

Fosse stato uno di destra oggi lo vedremo appeso ai lampioni di qualche città o cattolicamente crocifisso”, ha aggiunto. “Si tratta dei suoi personali desideri, che non sono degni di uno che fa il Consigliere del Presidente”, ha concluso.

LA RUSSA, ‘CREDO SIA MEGLIO CHE GAROFANI LASCI IL SUO INCARICO’

(ANSA) – Francesco Saverio Garofani “è il segretario del Consiglio supremo di Difesa, quello che si deve occupare della difesa nazionale.

Credo che forse è meglio che quel ruolo lo lasci a qualcun altro”. Così il presidente del Senato, Ignazio La Russa, intervenendo all’evento Italia Direzione Nord in Triennale, a Milano.


De Luca, l’ultimo giorno a Salerno da viceré campano: “Il capotavola è dove mi siedo io”


Le ultime 24 ore da inquilino di Palazzo Santa Lucia. Oggi in Campania si vota per la presidenza della Regione fino alle 15

De Luca e il concorso per Oss sospeso dalle Asl: «Voci di posti venduti a 10/15mila euro, basta porcherie»

(di Simona Brandolini – corriere.it) – «Il capotavola è dove mi siedo io». Quante volte l’ha ripetuto
Vincenzo De Luca. Lo ha fatto anche durante quest’ultima campagna
elettorale, per rimarcare che lui è sulla «linea De Mita-Napolitano» in
quanto a longevità politica. Ma guai a parlargli di Massimo D’Alema (che
ha fatto sua la citazione), perché le radici letterarie affondano nel
Don Chisciotte di Cervantes. E il governatore è laureato in Filosofia. Poi tra comunisti ci sono sempre vecchie ruggini.

A Salerno si consuma l’ultima domenica da viceré campano dopo più di
trent’anni di governo ininterrotto. Le ultime 24 ore da inquilino di
Palazzo Santa Lucia dell’(ex) cacicco più cacicco di tutti. Colui al
quale la segretaria dem Elly Schlein aveva giurato guerra e invece ora
lo ringrazia, anzi di più, dice pure che si riparte dai suoi dieci anni
di buon governo. 

È nella città che ha scelto (è nato a Ruvo del Monte, in Basilicata), di cui è stato per tre volte sindaco, che si chiude l’era deluchiana. Non l’ha mai tradita, non si è mai fatto ammaliare da Napoli. In due mandati non ha frequentato i salotti che contano in città. Il provincialismo politico è stata la sua cifra: l’inner circle Ã¨ tutto salernitano. Pranzo in famiglia, dunque. E poi, alle 15, di corsa verso il seggio elettorale. Che è cambiato nel tempo. Dal popolare quartiere Carmine si è spostato in centro. 

Chissà se nel chiuso del seggio elettorale si è sentito come «Ercole al bivio», in bilico tra l’amore paterno e il partito personale. Insomma se ha votato per il Pd, di cui il figlio Piero Ã¨ segretario regionale dopo l’accordo con la
leader Pd, o per i suoi della lista A testa alta, l’unica rimasta in
vita (e senza il cognome De Luca). Chi lo conosce non ha dubbi: sostiene
i suoi in questa competizione interna che appassiona quasi di più di
quella con il centrodestra a trazione meloniana. Il risultato peserà
nelle trattative successive, in caso di vittoria del campo largo.

VicepresidenzaAssessorato alla Sanità? Certo De Luca non vuole vedere
«il mio lavoro buttato alle ortiche». A chi lo ha incontrato in
queste ore ha ripetuto: «Fate i bravi, andate a votare». Lo ha ripetuto
anche durante l’ultima diretta social di venerdì scorso (di cui si
contano già orfani, Crozza in testa). Rivolto a tutti gli elettori.
Trasversale lo è sempre stato. E lo spettro di una forte astensione fa
il resto. Come quello del voto disgiunto. Dal centrodestra è da giorni
che fanno girare la voce. Illazioni? Speranze? I deluchiani smentiscono
categoricamente: «Votare per Cirielli? Quello del Principato di Salerno?

Ma neanche sotto tortura». Oggi si saprà. Certo è che Roberto Fico l’ha
dovuto sopportare. Poi, con il passare dei giorni, pare che abbia
cambiato idea. O meglio, raccontano i suoi, è Fico che ha cambiato
solfa: da avversario ad alleato. «I dieci anni deluchiani? Ripartiamo da lì», anche lui come Schlein. E così il clima si è disteso.

Tanto che l’ex presidente della Camera ha ricevuto anche una pacca
sulla spalla: «In bocca al lupo, guaglio’». Ma è comunque guardato a
vista. Mica De Luca ha intenzione di andare ai giardinetti. Un ritorno
da sindaco di Salerno? È ben più di un’eventualità. Una nuova vita
televisiva
? Molti talk lo stanno chiamando. Quel che è certo è che non
sparirà: «Ci vediamo presto, non vado in vacanza».


Sanità, quanti soldi servono davvero per farla funzionare?


Sanità, quanti soldi servono davvero per farla funzionare?

(di Milena Gabanelli e Simona Ravizza – corriere.it) – Dopo almeno 15 anni di sotto finanziamento della Sanità, nel 2026 il Servizio sanitario nazionale avrà a disposizione 6,3 miliardi in più. È la somma di due Leggi di bilancio: quella del 2025 per 3,9 miliardi e quella del 2026 per 2,4. Si tratta dell’aumento più alto mai registrato in valore assoluto (qui e qui pag. 57). Ma basterà? La domanda s’impone perché la situazione sta sfuggendo di mano. Il 10% di italiani oggi rinuncia alle cure per motivi economici, mentre le visite specialistiche (una su due) e gli esami diagnostici (uno su tre) vengono pagati di tasca nostra per oltre 10 miliardi l’anno, a causa delle inaffrontabili liste d’attesa. In un anno ci sono state le dimissioni di 2.000 medici e 2.750 infermieri (Corte dei Conti qui pag. 49 e 50). I medici di famiglia sono sempre meno, anche perché le loro borse di studio valgono meno della metà di quelle ospedaliere.
Prendiamo allora parametri oggettivi per vedere cosa serve e quanto stanzia la Legge di bilancio.

Regioni in rosso: un buco da 1 miliardo

Partiamo dai conti delle Regioni. Nel 2024 per mantenere gli attuali livelli di assistenza sanitaria le Regioni hanno speso 1,5 miliardi di euro in più rispetto a quanto hanno ricevuto dallo Stato: un buco quasi triplicato rispetto al 2023. Non sono rimaste indenni neanche le Regioni che tradizionalmente garantiscono una buona qualità delle cure mantenendo i conti in equilibrio, come la Toscana, che ha un buco di bilancio per 267,2 milioni, l’Emilia-Romagna per 194,2, il Piemonte per 180,6, la Liguria per 98,3 e l’Umbria per 33,9 (Corte dei Conti settembre 2025 qui pag. 14). La Legge di bilancio 2026 non prevede fondi dedicati, però la revisione al rialzo delle tariffe di rimborso per le prestazioni erogate dagli ospedali, una volta a regime, probabilmente ridurrà lo squilibrio di circa 500 milioni. Quindi all’appello manca ancora 1 miliardo.

Medici in fuga: stipendi troppo bassi

Passiamo ora al personale sanitario. Per capire se i soldi stanziati bastano davvero, non ha senso partire dagli stipendi che medici e infermieri mettono in tasca oggi perché scontano i ritardi dei rinnovi contrattuali. Il riferimento corretto sono i fondi già stanziati nelle ultime due Leggi di bilancio. È da lì che arriveranno gli aumenti previsti dai nuovi contratti: quello 2022-2024 per i medici è stato firmato il 19 novembre; e ora si apriranno le trattative per quello del 2025-2027 sia per i medici sia per gli infermieri. Tutti i calcoli si basano su stipendi lordi mensili (13 mensilità), con valori medi e arrotondati.
Con il contratto 2022-2024 lo stipendio di un medico con 5-15 anni di anzianità avrà un aumento di 461 euro portando la busta paga a 6.766 euro lordi al mese (vedi Dataroom qui). Un confronto con i Paesi che continuano ad attrarre professionisti italiani, mostra, a parità di potere d’acquisto che in Germania i medici guadagnano in media il 36% in più, in Belgio il 21%, nel Regno Unito il 18% (vedi Ocse novembre 2025 qui pag. 187 e Fnomceo qui pag. 58). Però la Legge di bilancio 2026 aggiunge altri incrementi mensili: 235 euro di indennità medica (vedi Corte dei conti qui pag. 68) più 385 euro legati al rinnovo del contratto 2025-2027 (stima Aran). Con questi aumenti lo stipendio previsto nel 2027 sale a 7.386 euro, circa il 9% in più rispetto a oggi. Ma non è ancora sufficiente a colmare il divario con gli altri Paesi. Basti pensare che solo un ulteriore aumento dell’1% — pari a 74 euro al mese per ciascuno dei 127.344 medici — costa 125 milioni l’anno.

Infermieri sottopagati: un miliardo per la dignità

Lo stipendio medio degli infermieri è di 2.500 euro lordi al mese. È uno dei più bassi fra i Paesi Ocse: il 22% in meno rispetto alla media internazionale (vedi Dataroom qui e Ocse novembre 2025 qui pag. 191). Per allinearsi servirebbero 557 euro in più ogni mese.
La Legge di bilancio 2026 copre solo una parte di questo gap:
– 123 euro al mese di indennità infermieristica (vedi Corte dei conti qui pag. 68);
– 138 euro al mese dal rinnovo del contratto 2025-2027 (sempre secondo le previsioni dell’Aran).
In totale fanno 261 euro, cioè meno della metà di quanto servirebbe. Restano scoperti 296 euro al mese per ciascuno dei 277.000 infermieri. L’ammanco complessivo supera il miliardo di euro.
Ma il problema non è solo lo stipendio. Per colmare la carenza di 60.000 infermieri, con un costo pro capite di 50.000 euro annui, sono necessari 3 miliardi di euro. Un piano di assunzioni quadriennale richiederebbe 750 milioni solo nel 2026. La Legge di bilancio stanzia 300 milioni per l’assunzione di 6.000 infermieri (vedi Corte dei Conti qui pag. 57). L’ammanco per il primo anno è di 450 milioni.

Il paradosso delle borse di studio

C’è poi il capitolo della formazione. Le borse di studio per formare i medici di Medicina generale valgono 11.600 euro l’anno, meno della metà di quelle per le specialità ospedaliere, che ammontano a 26.000. Uniformare le 2.600 borse previste richiede 37,4 milioni. 

(…) servirebbero anche più medici. La Legge di bilancio stanzia 150 milioni per assumere 900 professionisti (sui 450 totali destinati all’assunzione di personale…). È una quota troppo bassa (…)

La sanità a pagamento: una tassa occulta da 10 miliardi

Infine le prestazioni pagate dai cittadini: in un anno spendiamo di tasca nostra 6,9 miliardi per le visite specialistiche e 3,7 miliardi per gli esami diagnostici (rapporto Oasi 2024 qui pag. 254). Riportare nel Servizio sanitario nazionale anche solo la metà di queste prestazioni richiede 3,2 miliardi. Un costo calcolato applicando le tariffe pubbliche, che sono circa il 40% in meno di quelle private. Per aumentare l’attività dentro il Servizio sanitario, ovviamente, servirebbero anche più medici. La Legge di bilancio stanzia 150 milioni per assumere 900 professionisti (sui 450 totali destinati all’assunzione di personale, vedi Corte dei conti qui pag. 57). È una quota troppo bassa per sostenere un trasferimento così ampio dal privato al pubblico.

Un miliardo a rischio

Va poi considerato il Pnrr. Con la fine del Piano sarà necessario trovare un miliardo di euro per l’assistenza sanitaria domiciliare ai non autosufficienti, altrimenti si dovrà tagliare dalle risorse esistenti (qui pag. 4).
Sommando tutte le voci, in totale al Servizio sanitario nazionale mancano 6,8 miliardi, per colmare la distanza tra il fabbisogno stimato e le risorse effettivamente stanziate. In pratica, sarebbe servito il doppio dei soldi messi. Tutti questi conti sono stati elaborati da Dataroom a partire da dati ufficiali raccolti, anche in precedenti inchieste, confrontandosi con l’Aran, il sindacato Nursind, l’Osservatorio sui Consumi Privati in Sanità del Cergas-Bocconi e con esperti del settore come Nerina Dirindin (Università di Torino) e Angelo Mastrillo (Università di Bologna).
Sappiamo che trovare 6,8 miliardi da un anno all’altro è un’operazione difficile, ma nulla impedisce una programmazione pluriennale che, nell’arco di tre-quattro anni, porti a stanziare davvero le risorse necessarie, accompagnate dalle riforme indispensabili per spenderle bene. Una volontà che al momento non sembra all’orizzonte. E tantomeno quella di utilizzare almeno i soldi disponibili per migliorare l’assistenza ai cittadini. 

Dove vanno i soldi

L’Ufficio parlamentare di bilancio evidenzia come una parte importante delle risorse della manovra finisca a diversi «portatori di interessi» (qui la definizione di stakeholder qui a pag. 57 i finanziamenti). Tra cui:
– 630 milioni vanno alle aziende farmaceutiche e ai produttori di dispositivi medici per ridurre la quota che avrebbero dovuto restituire allo Stato quando la spesa supera i limiti fissati. In altre parole: Big Pharma deve restituirci dei soldi, ma gli scontiamo 630 milioni;
– oltre 1 miliardo in tre anni serve ad aumentare le tariffe riconosciute agli ospedali per ricoveri e riabilitazione, e una parte consistente — almeno 300-400 milioni — finirà al settore privato;
– 123 milioni l’anno vengono assegnati alle strutture private accreditate per aiutare gli ospedali pubblici a smaltire le liste d’attesa. Eppure i dati mostrano che i privati, negli anni, non hanno aumentato le prestazioni in convenzione, ma hanno invece continuato a privilegiare la ben più remunerativa attività a pagamento (Corte dei Conti qui pag. 18).

dataroom@corriere.it