
(Tommaso Merlo) – La tragicomica banda della Nato non sa vincere e neanche perdere, in guerra le condizioni le impongono i vincitori e cioè Putin. Quello che la Russia vuole in Ucraina si sa, ma la partita potrebbe essere più ampia e per questo Putin sta ancora trattando con gli americani. La Russia da sola ha demilitarizzato la Nato che oggi non ha né armi né eserciti per contrastarla. Un momento favorevole e da sfruttare prima che si riarmi. Gli unici che potrebbero dare dei grattacapi ai russi oggi sono gli americani che però hanno la Cina nel mirino e nessun interesse a rischiare la scontro nucleare per la palta ucraina. È vero che a Washington persistono sacche di russofobi che stanno sabotando Trump, ma oltre al mandare soldi ed armi a Kiev non vogliono spingersi neanche loro. A Putin non conviene fermarsi quindi, i barboncini europei sfrutterebbero il cessate il fuoco per riorganizzarsi e rilanciare. Piuttosto che ammettere la sconfitta sono disposti a sacrificare quel poco che rimane dell’Ucraina. La poltrona prima di tutto, anche della vita altrui. Alla Russia conviene conquistare gli ultimi brandelli di oblast rimasti ed imporre a Kiev la neutralità militare e poi passare alla firma delle scartoffie. Anche il mega scandalo di corruzione della banda Zelensky, gioca a favore di Putin che vuole giustamente un cambio di regime. A Kiev serve un governo in grado non solo di accettare la sconfitta militare ma anche quella politica e riallacciare relazioni sane col vicino russo. Ed è quello che vuole anche la maggioranza degli ucraini superstiti. Ma c’è di più. Se Putin ancora tratta con gli americani, è perché vorrebbe sfruttare Trump per uscire dall’isolamento, del resto un presidente americano non russofobo è una rarità. Non è che Putin ne abbia bisogno, con Cina ed India e gli altri Brics la luna di miele è solo all’inizio, ma normalizzare relazioni diplomatiche e commerciali con gli USA sarebbe comunque un traguardo storico e vantaggioso, dividerebbe poi ulteriormente il fronte occidentale ed umilierebbe ulteriormente quello che per la Russia è il nemico più efferato, quegli stramaledetti barboncini europei intossicati di delirante bellicismo russofobo. Una situazione non rosea per noi poveri cristi del vecchio continente. Se non reagiamo, la lobby della guerra o meglio della morte, ci trascinerà dritti verso la terza guerra mondiale. Siamo in balia di quel baraccone della Nato fondato per difenderci e finito per dissanguarci e trascinarci in guerre ridicole e perdenti una dopo l’altra. Coi governi nazionali ridotti a bancomat per produrre armamenti e a breve reclutatori di carne da macello. Stanno trasformando il mondo in un sanguinario videogioco e ormai questioni come la guerra e quindi di vita e di morte per i popoli, vengono decise da verminai lobbistici dietro le quinte e dai loro burattini politici e tecnocratici. La poltrona prima di tutto, anche della volontà popolare. Siamo sempre più vecchi, sempre più poveri, sempre di meno, mollati dagli americani e in guerra col nostro storico vicino russo, nonché fonte energetica primaria. Senza una visione né politica, né economica, in balia di una politica ridotta a poltronificio fine a se stesso. A marketing elettorale di vuoto esistenziale. Una situazione davvero poco rosea, al punto che quello che conviene a Putin conviene anche a noi. La storica e clamorosa sconfitta militare della Nato in Ucraina, potrebbe causare un terremoto istituzionale a Bruxelles di tale magnitudo da far crollare quell’insulso baraccone tecnocratico, e alimentare uno sdegno popolare tale da alimentare una svolta politica epocale in tutto il continente. Cestinando depravazioni lobbistiche e belliciste per ritrovare la strada della vera democrazia, della vera sovranità popolare e dalla pace bene assoluto che nessun politicante poltronaro si deve permettere di intaccare. Già, la speranza è che vinca Putin e puri in maniera netta e rapida in modo da girare pagina per sempre. Se invece non sarà così e prevarrà il sistema, la lobby della guerra o meglio della morte ed i suoi burattini, ci trascinerà dritti verso la terza guerra mondiale.
Emendamento di Fratelli d’Italia nella legge in esame alla Camera: esenzione ad hoc per Confindustria e sindacati. Così i gruppi di interessi più potenti saranno esclusi dal registro sulla trasparenza

(Stefano Iannaccone – editorialedomani.it) – Trasparenza, ma fino a un certo punto. Perché tutti lobbisti sono uguali, ma alcuni sono più uguali degli altri.
In caso di approvazione definitiva, la legge sulle lobby in esame alla Camera non sarà infatti applicata a varie categorie: dai balneari ai produttori di farmaci, fino ai rappresentanti dell’industria fossile. Eludendo la ratio della riforma che vuole tracciare l’attività dei legislatori, a qualsiasi livello, con i portatori di interessi.
Basta essere parte delle grandi confederazioni, come Confindustria e Confcommercio, per poter incontrare ministri, sottosegretari, parlamentari e assessori regionali senza lasciare segni. Stesso discorso varrà per i sindacati alla ricerca di interlocutori istituzionali.
Un colpo di biliardo magistrale: un’operazione di lobbying ha cambiato i connotati alla legge sulle lobby. Peraltro con il ripristino del vecchio difetto della norma sulla rappresentanza di interessi: prevedere deroghe specifiche.
Il contenuto del provvedimento, che nelle prossime settimane dovrebbe approdare in aula a Montecitorio (e poi essere trasmesso al Senato per l’eventuale via libera definitivo) è stato annacquato da due emendamenti approvati nel corso dell’esame in commissione Affari costituzionali alla Camera.
La destra si è presentata compatta con una proposta depositata dal deputato di Fratelli d’Italia, Alessandro Urzì, e sottoscritta da tutti i colleghi dei partiti di maggioranza. L’altro testo, uguale, è stato firmato dell’ex ministra Maria Elena Boschi (Italia viva). Il risultato è un allargamento delle maglie con l’inserimento di ampie zone grigie rispetto al principio di trasparenza più stringente introdotto nella prima formulazione del testo base.
La modifica prevede che un’ampia platea di organizzazioni di categoria non avrà l’obbligo di iscrizione nell’apposito registro unico, che sarà istituito al Cnel, soppiantando tutti i registri ora vigenti. Lo scopo è appunto quello di documentare e rendere consultabile gli incontri (e i relativi temi) tra portatori di interessi e legislatori, ponendo fine all’attuale far west.
Gli emendamenti fanno peraltro un riferimento generico alle «associazione datoriali e dei lavoratori». La vaghezza della definizione lascia intendere che praticamente tutte le realtà dei singoli settori – iscritte a Confindustria o altre confederazioni – possano aggirare l’obbligo di iscrizione al registro. E ai conseguenti adempimenti della normativa.
Tra le varie organizzazioni ci sono Assobalneari, “il sindacato” dei balneari, lobby amica del governo, l’Anpam, che unisce i produttori di armi, e l’Unione energie per la mobilità (Unem), che rappresenta anche le aziende operanti nella distribuzione dei prodotti petroliferi.
Ma sono solo alcune categorie inevitabilmente toccate dall’iter delle leggi in parlamento, perché per estensione la questione può riguardare anche Confcommercio, Confesercenti, Ance e tante altre.
Un’esenzione di massa, dunque, che fornisce un canale privilegiato. «L’emendamento sulle esclusioni renderebbe inservibile la legge», dice a Domani Federico Anghelé, direttore di The good lobby, che coordina la coalizione #Lobbying4Change, da anni in prima linea per arrivare a una legge nel settore.
Sono palesi gli squilibri innescati dalle modifiche votate in commissione Affari costituzionali a Montecitorio. Il direttore di The good lobby le spiega così: «Per fare un esempio, un’organizzazione ambientalista dovrebbe iscriversi al registro e rendere conto delle proprie attività di lobbying, mentre l’associazione di categoria dei petrolieri non dovrebbe farlo. Questo sarebbe giocare ad armi pari?».
Una falsa partenza nel percorso della proposta di legge, firmata da Nazario Pagano (Forza Italia), presidente della commissione Affari costituzionali alla Camera, che ha avviato un’indagine conoscitiva per raccogliere i pareri degli esperti e arrivare a un testo condiviso tra le forze politiche.
Dopo decine e decine di proposte finite nel vuoto nelle precedenti legislature, il deputato forzista ha cercato la strada del dialogo per evitare che la riforma finisse su un binario morto. Ora le modifiche parlamentari rischiano di provocare un cortocircuito o far approvare una legge svuotata, che presenta gli stessi problemi denunciati negli anni scorsi.
Ci sono stati poi altri interventi su misura di altre categorie: potranno esercitare il ruolo di lobbisti anche i giornalisti, alimentando la contaminazione tra portatori di interessi ed esperti di comunicazione.
Una sovrapposizione di ruoli sempre più pressante che aveva portato Pagano a evitare che gli iscritti all’ordine dei giornalisti potessero iscriversi al registro dei lobbisti. In questo caso emendamenti bipartisan, da FdI ai Cinque stelle, hanno cancellato la norma, salvando il ruolo del giornalista-lobbista.
Il punto resta comunque l’esenzione alle associazioni datoriali e ai sindacati. L’appello per il passo indietro sugli emendamenti Urzì e Boschi è stato lanciato anche da Ferpi e Una, altre due realtà a favore di una puntuale regolamentazione dei rapporti tra legislatori e portatori di interessi. «Riteniamo che il testo vada cambiato, in aula alla Camera o al Senato. Sappiamo benissimo che sindacati e associazioni datoriali contribuiscono massicciamente a influenzare i processi legislativi», sottolinea Anghelé.
Insomma, fatta la legge (o quasi), trovata la deroga.
Carriera. Prima il cemento poi l’editoria, adesso la finanza (col sogno Generali che durava da vent’anni): ascesa di Caltariccone tra le classifiche di Forbes e il buco nero del sequestro di moglie e guardia del corpo

(di Pino Corrias – ilfattoquotidiano.it) – Francesco Gaetano Caltagirone è personaggio imponente per spalle, cravatta, sguardo e naturalmente per il suo personale forziere di monete antiche e modernissime, sesterzi da collezione e euro da paperone, appena inciampato nell’inchiesta della Procura di Milano per avere scalato i forzieri di Mediobanca – dice l’accusa – ostacolando tutti gli organi di controllo. Lo ha fatto con i suoi soci, il numero uno di Luxottica, Francesco Milleri, e l’amministratore delegato di Monte dei Paschi di Siena, Luigi Lovaglio. Ma specialmente con l’accordo – “la complicità” dicono gli analisti – degli gnomi di Palazzo Chigi, rivestiti, profumati e pettinati da Giorgia Meloni che a forza di prendersi sul serio, s’è incapricciata dell’alta finanza, come suo personale upgrade dal complesso dell’under-dog. Dunque assecondando un nodo psichiatrico prima che politico. Rivelando smanie da potere assoluto, per fortuna affidate a strateghi di second’ordine, pasticciati e pasticcioni, anche loro per troppo entusiasmo nel servire e troppa bulimia nell’addentare.
Tutti difetti che neanche lontanamente sfiorano il poderoso Caltagirone, 82 anni saldamente compiuti, che guarda dall’alto il suo ultimissimo negozio – incamerare, proprio attraverso Mediobanca, Assicurazioni Generali, quasi 900 miliardi di patrimonio gestito, il principale arrosto dell’economia italiana – con la lentezza digestiva che gli consente il potere accumulato per dinastia, insignito, dal secolo scorso, del titolo di Ottavo Re di Roma, o meglio ancora Caltariccone, secondo la più efficace istantanea firmata Dagospia, visto che la rivista Forbes lo stima numero 7 per ricchezza in Italia, patrimonio di 9,6 miliardi, liquidità illimitata.
La sua famiglia viene dalla lontanissima Palermo, sbarcata nel Dopoguerra tra le macerie della Capitale con sabbia, piccone e calcestruzzo. Lui è terza generazione, la più ricca di sempre. Non più palazzinaro, come il nonno, il babbo, e l’altro ramo di famiglia, i Bellavista, che furono tutti quanti cari a Giulio Andreotti, all’intera Democrazia cristiana e pure al Vaticano, massimo esperto spirituale del do ut des terreno, artefici del sacco cementizio che ha trasformato i silenzi vegetali dell’Agro Romano negli ingorghi automobilistici della periferia che dalla Bufalotta a Tor Pagnotta, da Casal Boccone alla Romanina, assedia gli asfalti del Raccordo in un inferno di tangenziali, svincoli, palazzi da otto piani, ma con un albero a testa.
Il suo quartier generale si estende tra i marmi pregiati di Roma centro, via del Corso, piazza Barberini, via Nazionale. Da dove ha elaborato le notevoli stazioni della sua perpetua ascesa – prima cemento, poi carta stampata, ora finanza – in compagnia del suo factotum Fabio Corsico, 52 anni, un tizio capace d’alte raffinatezze lessicali, come alla sua ultima prolusione all’Università di Segovia dal titolo “Dante e la leadership: etica potere e umanità”, qualunque cosa voglia dire.
Dal tonfo sonante di Mani Pulite, anno 1992, Caltagirone ne esce con qualche ammaccatura, ma la piena assoluzione da tutte le accuse di nequizie o tangenti. Saluta senza rancori la Prima Repubblica democratico-cristiana per infilarsi nella Seconda ben più spregiudicata di Berlusconi e soci. Stavolta con la buona idea di proteggere gli interessi delle sue cento aziende, specialmente la prima, la Cementir che ha interessi in Italia, in Europa e pure negli Usa, nei fortini della carta stampata, dove si coltivano i piccoli poteri locali per farli diventare grandi. Nel 1996 compra il Messaggero, giornale leader di Roma Capitale. Negli anni successivi, il Gazzettino di Venezia, il Quotidiano di Puglia, il Corriere Adriatico e nel 1998 il Mattino di Napoli. Dove compra, costruisce. Dove costruisce, comanda. E qualche volta la fa franca, come nella guerra dichiarata al sindaco Luigi De Magistris che nel 2013 avrebbe voluto accollargli la bonifica dell’area di Bagnoli inquinata anche dalla Cementir, costo stimato 300 milioni di euro, tutti passati in cavalleria, dieci anni dopo, quando Caltariccone gratuitamente dona i suoi terreni a Invitalia, che pagherà quei danni ambientali con i soldi del Tesoro, cioè i nostri. Un capolavoro.
L’altra intuizione, visto che va diminuendo la spesa pubblica per le costruzioni, è quelle di diversificare gli investimenti in titoli e asset finanziari. Senza mai troppi clamori, fa shopping azionari in Banca Nazionale dell’Agricoltura, Montedison, Bnl, Rcs, Unicredit. Partecipa a Acea, azienda energetica di Roma e gestisce Fabrica, la holding che ha in pancia gli immobili delle casse previdenziali di avvocati, ingegneri, architetti, psicologi. Oltre che a 17 fondi di investimento che mettono palazzi in cascina per conto di investitori istituzionali, compreso l’Inps. Senza mai il fastidio di una intervista o quasi – al Financial Times una volta e a Lilli Gruber negli ultimi anni – Caltagirone mangia, scala, cresce. Ha piazzato i tre figli sulle torri di controllo del suo castello, compresa Azzurra, la preferita, che per qualche anno si è lasciata conquistare dal sempre in piedi Pierferdinando Casini, prima di accorgersi dell’errore. Ma il ponte levatoio dei Caltaricconi sale o scende solo al suo comando.
C’è un buco nero che illumina il suo indiscusso potere. Si spalanca nella notte tra il 3 e il 4 agosto dell’anno 2000, quando dalla villa con parco ai Parioli spariscono la moglie Luisa Farinon e la guardia del corpo Walter Scafati. Dopo l’allarme generale si scopre che li ha sequestrati il domestico filippino Leo Begasson, in fuga con i due ostaggi su una Golf rossa. È un maldestro rapimento per il riscatto? È una vendetta? Sembra il classico giallo destinato durare l’intera estate. Invece si chiude in una manciata d’ore. E in modo sorprendente: i due rapiti vengono rilasciati dalle parti di Trieste, se la cavano chiedendo aiuto. Il rapitore viene ritrovato morto stecchito in una camera d’albergo di Portorose, la 399 del Palace Hotel, pochi chilometri dopo il confine con la Slovenia. Abbastanza affinché nulla trapeli delle indagini che parlano di una irruzione della polizia slovena interrotta dal suicidio del fuggitivo. L’ambasciata filippina sospetta l’omicidio, protesta e chiede spiegazioni. La polizia italiana invece si accontenta del nulla. La Procura di Roma archivia. Proprio come i giornali che dedicano tre righe al giallo, prima di dimenticarsene per sempre. Calta incassa e neanche ringrazia. Anche lui, come il campione di Machiavelli, preferisce essere più temuto che amato. Oggi festeggia la conquista di Generali. È da vent’anni il suo sogno. Vedremo se dio o la procura, gli faranno il dispetto di esaudirlo.
L’Unione europea continua a investire nella guerra in Ucraina per alimentarla dall’esterno il più possibile. Eppure, è debolissima. Sul piano militare, l’Unione europea è una […]

(di Alessandro Orsini – ilfattoquotidiano.it) – L’Unione europea continua a investire nella guerra in Ucraina per alimentarla dall’esterno il più possibile. Eppure, è debolissima. Sul piano militare, l’Unione europea è una nullità rispetto alla Russia. Sul piano economico è un colosso, ma le mancano le risorse essenziali per una guerra esistenziale: gas e petrolio. Inoltre, l’Unione europea non può difendersi dai missili più avanzati della Russia. Di più: la Russia ha 5500 testate nucleari mentre l’Unione europea ne ha soltanto 290, quelle della Francia (che userebbe soltanto per se stessa). Come se non bastasse, i cittadini dell’Unione europea non vogliono combattere alcuna guerra. Gli ucraini, sebbene abbiano subito un’invasione, hanno perso la motivazione per la battaglia e scappano all’estero. Figuriamoci quale voglia di morire al fronte possano avere i 27 popoli dell’Unione europea invasi da nessuno.
La voglia di combattere una guerra tra i cittadini dell’Unione europea è pari a zero. Tutti i cittadini dell’Unione europea sanno che la guerra con la Russia è una guerra per l’ingresso dell’Ucraina nella Nato: non è una guerra nata dai bisogni dei popoli; è una guerra nata dagli errori delle élite politiche, alimentata dagli interessi dei corrotti che si arricchiscono sulla pelle dei caduti. Anche quando Bruxelles avrà terminato il piano di riarmo, le probabilità che l’Unione europea vinca una guerra contro la Russia sono bassissime, o forse inesistenti. Per causare una frattura insanabile tra il governo Meloni e gli italiani, alla Russia basterebbe lanciare cento missili su Roma. Meloni sarebbe politicamente morta al primo lampione fulminato sulla Tuscolana. Crosetto verrebbe odiato come Mussolini a San Lorenzo, il 19 luglio 1943. Di contro, se l’Unione europea lanciasse cento missili su Mosca, l’ardore dei russi aumenterebbe come quello dei romani contro i sanniti di Gaio Ponzio dopo le forche caudine.
Anziché disperarsi, i russi pretenderebbero da Putin una risposta nucleare definitiva. Le bombe dell’Unione europea contro la Russia aumenterebbero la voglia di combattere dei russi e il loro odio nei confronti di Bruxelles. I russi hanno paura di convivere con la Nato in Ucraina; gli europei non hanno alcuna paura di vivere con l’Ucraina fuori dalla Nato. In caso di guerra con la Russia, l’Unione europea sarebbe svantaggiata da un numero smisurato di fattori. Se le cose stanno così, com’è possibile che i principali leader dell’Unione europea siano così determinati a proseguire la guerra contro la Russia? Perché hanno eliminato la garanzia che l’Ucraina non entrerà nella Nato dal loro piano di pace? Le ragioni principali sono due.
La prima è che i leader europei, accettando le condizioni del vincitore, dovrebbero riconoscere la propria sconfitta e rimanere in carica, delegittimati. La seconda ragione è che la guerra in Ucraina serve all’Unione europea a rilanciare la propria economia attraverso l’industria militare. I principali governi europei, Meloni, Macron e Merz, possono accettare un cessate il fuoco in Ucraina, ma non possono accettare che la guerra in Ucraina sparisca dall’orizzonte umano come pericolo potenziale. Per questo motivo, hanno bisogno di un trattato di pace che lasci irrisolti i problemi principali. Hanno bisogno di lasciare aperte le porte della Nato all’Ucraina, affinché gli europei vivano sempre nella paura di una ripresa della guerra con la Russia. Meloni, Macron e Merz hanno legato le loro poltrone a una guerra che non potrebbero mai vincere.

(di MICHELE SERRA – repubblica.it) – Suscita polemiche accese una frase di Giuseppe Cavo Dragone, pezzo grosso della Nato, secondo il quale la stessa Nato starebbe valutando se essere “più aggressiva o proattiva invece che reattiva” di fronte al minaccioso attivismo militare di Putin – che ha appena elevato di un bel po’ le spese militari della Russia, ovviamente a scapito del Welfare, e senza dover fare i conti con opposizione alcuna, avendole cancellate tutte, le opposizioni. Sono i comfort delle tirannidi.
Al di là delle strategie militari, delle quali mi intendo come un capodoglio si intende di aviazione, il dibattito è appassionante: con i prepotenti bisogna essere più prepotenti? Con gli intolleranti, più intolleranti? Con gli aggressivi, più aggressivi? Oppure bisognerebbe sperimentate la via opposta, e dunque considerare utili e vincenti le buone maniere? E se le buone maniere fossero puro masochismo (guai a porgere l’altra guancia, quando già ti hanno sfregiato la prima)? E se invece il solo modo di disinnescare l’odio e la guerra fosse mettere in campo le pratiche contrarie e dissonanti, ovvero l’amicizia e la pace? E se la sola contrapposizione evidente al riarmo fosse il disarmo?
Confesso di essere quasi paralizzato dal dubbio. Con una leggera prevalenza, però, del sospetto che per distinguersi da Zacharova (per me l’emblema del nazionalismo energumeno e del bullismo politico), ovvero per essere civili ed europei, sia necessario pensare e agire in maniera differente da Zacharova. Non credo che “mettere dei fiori nei cannoni” sia risolutivo. Potrebbe essere, anzi, autolesionista. Ma sarebbe, almeno, diverso. Diverso rispetto ai millenni precedenti, molto monotoni quanto a egemonia dei cannoni a scapito dei fiori.
Il tormentone di fine d’anno, vedrete, sarà questo: Trump vuole la pace tra Russia e Ucraina perché agisce da cinico mercante e gli importa solo dei soldi, come da scoop […]

(di Daniela Ranieri – ilfattoquotidiano.it) – Il tormentone di fine d’anno, vedrete, sarà questo: Trump vuole la pace tra Russia e Ucraina perché agisce da cinico mercante e gli importa solo dei soldi, come da scoop del Wall Street Journal (e chi lo avrebbe mai detto?), mentre i governanti europei, insufflati degli ideali sull’autodeterminazione dei popoli (tranne che del Donbass, ovvio) e drogati dal Fentanyl Nato che induce allucinazioni sulla superiorità dei “nostri valori” e i “70 anni di pace” nel nostro Continente (a parte Belgrado, certo), tengono agli ucraini, al punto da voler continuare la guerra contro Putin (il quale è talmente messo male a livello militare che tra 3 anni potrebbe attaccarci da Marina di Ragusa, presumibilmente muovendo le sue milizie di stanza in Africa: l’ha detto Tajani; da qui l’urgenza del ponte sullo Stretto).
I tamburi battono guerra: Giuseppe Cavo Dragone, responsabile del Comitato Militare Nato, ha detto al Financial Times che la Nato sta valutando di intensificare la guerra ibrida alla Russia, proprio ora che c’è un piano di pace da cui partire. Ieri Repubblica ha intervistato Carl Bildt, ex premier svedese, oggi a capo di uno di quei think tank dove in comodi uffici climatizzati si decide per quanto ancora un popolo deve agonizzare per difendere i nostri valori: “Trump pensa innanzitutto agli affari che può fare, persino con la Russia, mentre sminuisce la questione della sicurezza in Europa”, denuncia, nel solco di quella narrazione che vuole il “piano Trump” interamente dettato dai russi, i quali in fondo hanno solo vinto la guerra. “La bozza di pace dei cosiddetti 28 punti era assolutamente scandalosa, con l’Europa che avrebbe dovuto finanziare la ricostruzione dell’Ucraina e l’America che si sarebbe presa il 50% dei profitti. Non avevo mai visto niente del genere dagli Stati Uniti. Questo è un nuovo colonialismo”. Veramente si era già visto: a Gaza, dove – con la connivenza di un’Europa inetta e vigliacca – Trump costituirà un protettorato sotto la guida del bugiardo guerrafondaio Tony Blair, pieno di resort di lusso costruiti col concorso dei petrodollari del Golfo sugli scheletri degli innocenti uccisi dalle forze militari israeliane anche con le nostre armi. Ma che importa dei palestinesi? Mica sono pedine da far entrare nella Nato al fine di occupare i confini con la Russia.
Quel che gli oltranzisti della guerra nascondono è che per Trump il gioco è comunque vantaggioso: il complesso militare-industriale Usa gode tanto della guerra che della pace; continuando a foraggiare la guerra Nato in Ucraina, rinnovando le bizzarre sanzioni che hanno fatto fare un balzo al Pil della Russia e hanno scavato un fossato nelle nostre casse e nei nostri arsenali, comprando gas da fonti alternative a un prezzo maggiore di quello russo, con un costo ulteriore per la rigassificazione, non solo dagli Stati Uniti, che quindi ci guadagnano eccome, ma anche da Paesi che non godono della fama di perfette democrazie (Algeria e Qatar su tutti), noi ci diamo la zappa sui piedi mentre permettiamo la decimazione della popolazione ucraina. Naturalmente la materia prima, cioè le armi, le compriamo principalmente dagli Stati Uniti, oppure le produce la nostra Leonardo in joint-venture con la tedesca Rheinmetall, che sta ingrassando il proprio fatturato in vista del grande riarmo della Germania (il Ceo di Leonardo Cingolani si è lavato la coscienza sul Corriere affermando di non avere responsabilità nel genocidio dei palestinesi, pure se una compagnia americana di cui Leonardo è socia di maggioranza possiede Rada, azienda israeliana che fa radar, utilissimi per la guerra ibrida che ci accingiamo a fare alla Russia).
In breve: mentre Trump, facendo un semplice calcolo costi-benefici, si sfila dagli aiuti a Zelensky e alla sua classe dirigente corrotta, noi compriamo armi da lui per mandarle all’Ucraina distrutta, in nome di ideali più alti di quelli che guidano Trump. Ma a ben vedere, sono esattamente gli stessi: non obbediamo da 4 anni agli ordini dei neocon americani perché altrimenti i mercati si agitano? Non badiamo ai nostri guadagni, ignorando la legge che vieta di esportare armi verso Paesi in guerra, quando vendiamo gli F-35 a Israele che li ha usati fino a ieri contro i civili palestinesi? Se non si fosse messo in mezzo Trump coi suoi mediatori immobiliaristi, glieli staremmo ancora mandando. L’ex premier svedese, in coro con le varie Kallas e Von der Leyen, l’ha detto chiaro e tondo: l’Europa “non ha altra scelta: continuare a dare il massimo sostegno all’Ucraina”. Si può essere più stupidi? Secondo le leggi fondamentali della stupidità umana di Carlo M. Cipolla, ricordiamo, lo stupido è colui che fa il male proprio e quello altrui simultaneamente, laddove il bandito fa il proprio bene a scapito degli altri. Trump è un bandito. I nostri governanti sono irrimediabilmente stupidi, ma a volte anche banditi.
Il capo del Comitato militare, pur usando nell’intervista termini tenui, intende dire: “Attaccare per primi”

(di Fabio Mini – ilfattoquotidiano.it) – Attenendomi alle dichiarazioni pubbliche del Comandante supremo della Nato, generale Cristopher Cavoli e sulla base della conoscenza della sintassi operativa, ho desunto che la Nato non solo in campo cyber, ma in tutti i sensi e domini, è già in guerra contro la Russia e attaccherà per prima. Sta già mobilitando le forze di tutti i Paesi per quella “difesa” che si dovrebbe realizzare con un attacco preventivo sulla Russia talmente devastante da impedirle perfino di rispondere. “Perché – dice Cavoli – se non ci riusciamo al primo colpo, ci aspetteranno 15 anni di guerra di logoramento”.
In quest’ottica è inutile farsi delle illusioni. Qualcuno per conto nostro ha deciso che siamo in guerra e anche contro chi. Perdono così di valore tutti i distinguo di casa nostra e tutte le dichiarazioni ufficiali dei russi che non si sognano nemmeno di attaccare la Nato. A meno che… una decisione già presa nel 2022 e da allora in piena fase di strutturazione delle forze, anche nucleari, perseguita in barba alla fondamentale correzione di rotta imposta dal presidente Trump all’Aja. Al termine del vertice Nato è stato ufficialmente dichiarato che non si considera la Russia una minaccia a breve termine (da ora a 3 anni), nemmeno a medio termine (da 3 a 10 anni) ma, proprio a volercela tirare, a lungo termine (oltre 10 anni). Tale dichiarazione è stata ignorata dai principali alleati e dalla Nato stessa che invece considerano la Russia come nemico permanente. A prescindere da cosa potrà succedere da qui a 3 o 10 anni e anche da ciò che accadrà all’Ucraina. Il Comitato militare è dominato dalle spinte antirusse e il nuovo chairman ha ricevuto dal predecessore il testimone nella staffetta pro armamenti e pro-guerra. Le osservazioni dell’ammiraglio Cavo Dragone, nuovo chairman del Comitato Militare sulla possibilità d’attacco preventivo alla Russia si devono inquadrare in tale contesto. Ovviamente l’ammiraglio non s’è messo la feluca e dichiarato guerra. Anzi s’è mosso molto cautamente su un terreno scivoloso sapendo benissimo che in ambito Comitato Militare, come nel Consiglio Atlantico, non c’è affatto quel consenso necessario a passare da una difesa e una deterrenza a una difesa “proattiva”, che nel linguaggio degli ignari suona bene ma che in quello militare e soprattutto popolare significa solo attaccare per primi, in ogni campo. Sa bene che la guerra ibrida è tale anche perché connette tutte le forme disponibili. L’ambito cyber, al quale si riferisce, non è isolato dagli altri e non è detto che la risposta dell’avversario debba essere dello stesso tipo. I pretesti di guerra sembrano essere scollegati dalla guerra ma finiscono sempre per scatenarla. Il comandante del Maddox (l’unità militare Usa protagonista dell’episodio del Golfo del Tonchino, ndr) che entra nel panico per qualcosa che non è successo non sembra avere l’intenzione di scatenare l’escalation della guerra in Vietnam, ma qualcun altro ci ha pensato da solo. Non aspettava altro. L’esplicitazione dell’Ammiraglio ancorché moderata diventa tuttavia funzionale alla guerra già in corso e alla postura militare che la Nato ha già assunto. “Dovremmo agire in modo più aggressivo del nostro avversario”. Anche se sul piatto ci sono “questioni di quadro giuridico, di giurisdizione: chi lo farà?”. Già, quale organizzazione o nazione s’incaricherà d’attaccare per prima? E in ragione di quale minaccia concreta? E se il nemico ce l’avessimo in casa? La Nato sta facendo un gran baccano per presunti attacchi russi cyber, droni e sabotaggi. Tutte cose uscite dal manuale delle giovani marmotte anglo-ucraine. Cavo Dragone cita il successo dell’operazione Baltic Sentry nel Mar Baltico, dall’inizio della quale “non è successo nulla. Quindi significa che tale deterrenza sta funzionando”. Oppure che non erano russi i responsabili come non lo erano stati negli anni precedenti? Rispetto alla Russia, dice l’ammiraglio, la Nato “ha molti più vincoli a causa di etica, leggi e giurisdizioni”. Sarebbe vero se li rispettassimo. Che dire delle operazioni nei Balcani e altrove, illegali, illegittime, non provocate condotte dal 1990 in poi? “Dobbiamo analizzare come si ottiene la deterrenza: attraverso azioni di ritorsione o attraverso un attacco preventivo?”, si chiede l’Ammiraglio. Ce lo chiediamo tutti, ma è proprio vero che non ci siano alternative al contrattacco e all’attacco? Rendiamo seria la difesa Nato a partire dalla politica e dall’individuazione del nemico. Quello vero.

(di Marco Travaglio – il Fatto Quotidiano) – Bene ha fatto Mattarella a esprimere “vicinanza e solidarietà” al capo della comunità ebraica romana, Victor Fadlun, per i muri della sinagoga di Monteverde imbrattati con insulti antisemiti. Meglio avrebbe fatto due mesi fa a chiamare anche gli studenti e i docenti del liceo artistico Caravillani lì vicino, menati e insultati il 2 ottobre da una ventina di picchiatori usciti dallo stesso tempio ebraico mentre erano riuniti in cortile per discutere dello sterminio a Gaza e intonare […]
Il rifiuto del Dipartimento di Filosofia diventa un caso nazionale: autonomia accademica contro la pressione politica

(di Giulio Cavalli – lanotiziagiornale.it) – 29 novembre 2025, Bologna. La scintilla arriva da un palco istituzionale, quando il generale Carmine Masiello racconta che il Dipartimento di Filosofia dell’Alma Mater ha detto no a un corso su misura per 15 ufficiali. Bastano poche frasi perché tutto cambi tono. Il ministro Guido Crosetto: «Hanno chiuso la porta a chi li difende». La ministra Bernini rincara. Il caso diventa un processo pubblico, diretto non a un dipartimento, ma all’idea stessa di autonomia accademica.
Per capire l’impatto di quelle ore bisogna tornare al 23 ottobre 2025, nella sala dove il Consiglio di Dipartimento vota. Il progetto dell’Esercito prevedeva un percorso riservato, parallelo ai corsi ordinari. Non un’iscrizione libera, ma una convenzione chiusa. I docenti la respingono: «non sussistono le condizioni materiali e formali».
La politica trasforma la frase in un’accusa. Parla di paura, di pregiudizio, di campus assediato dai collettivi. Ma negli atti non ci sono né assedi né proclami. C’è una valutazione tecnica, il principio che la filosofia vive nel confronto aperto, non nella separazione di gruppi scelti.
E soprattutto c’è un dato che a Roma ignorano: Bologna forma già ufficiali. La collaborazione con l’Esercito è consolidata, strutturale, ampia. L’Ateneo ospita una laurea magistrale in Scienze strategiche e militari, costruita insieme alla Difesa. È un flusso costante di studenti in divisa, integrati nei percorsi universitari. Il rifiuto di Filosofia è un’eccezione, non una frattura.
La narrazione politica ribalta tutto: non un no a un privilegio, ma un no ai militari. Un atto amministrativo diventa un dispetto ideologico. È qui che il caso smette di essere locale e diventa un test per misurare la pressione del governo sulle istituzioni culturali.
Crosetto sceglie un registro preciso quando non discute di norme ma di lealtà. Non risponde alla domanda giuridica — chi decide cosa si insegna? — ma a un’altra, implicita: chi sostiene chi? È un linguaggio che sposta il terreno. Se gli ufficiali «difendono» i professori, allora ogni rifiuto può essere presentato come un torto morale. La ministra Bernini segue lo stesso schema: il dipartimento avrebbe «tradito» la missione formativa.
La realtà è più banale e più robusta: l’università non è vincolata a erogare formazione su richiesta di un altro potere dello Stato. L’autonomia non è un privilegio, è una funzione costituzionale, nata proprio per impedire che il governo indirizzi la produzione del sapere.
Ma la polemica si accende perché è utile. Permette di presentare l’Alma Mater come un baluardo ideologico, mentre in parallelo i dipartimenti scientifici lavorano con Leonardo, partecipano al Tecnopolo e utilizzano il supercalcolatore Leonardo per applicazioni civili e militari.
È questo paradosso a rendere la vicenda così rivelatrice: l’università che viene accusata di chiudere la porta alla divisa è la stessa che contribuisce alla sua infrastruttura tecnologica.
C’è un altro livello, quello meno dichiarato. La Difesa ha già rapporti forti con l’Ateneo sulla ricerca, sull’ingegneria, sulla tecnologia. Ciò che manca è la legittimazione culturale. Un corso di filosofia riservato agli ufficiali avrebbe segnato un passaggio simbolico decisivo: portare la “cultura della difesa” dentro il luogo che produce pensiero critico sul potere.
Un dipartimento umanistico che apre la propria didattica a un corpo armato non offre soltanto formazione: offre un riconoscimento. Il rifiuto dei filosofi ha bloccato questa operazione. E la reazione politica mostra quanto quel sigillo fosse considerato strategico.
Intanto, fuori dall’università, cresce la tensione: protocolli scuola-Difesa, studenti portati in caserme e fiere militari, moduli paramilitari mascherati da educazione civica. I docenti e le associazioni che monitorano la militarizzazione del sistema educativo parlano di una normalizzazione che avanza per accumulo. In questo quadro, il voto del Dipartimento non è solo una scelta disciplinare: è una linea tracciata.
Il punto, alla fine, non sono i 15 ufficiali e non è un corso mancato. Il punto è se un’università pubblica possa ancora decidere che cosa insegnare, come e a chi, senza dover adeguare la propria identità culturale alle aspettative del ministro della Difesa. È questo che rende la vicenda di Bologna un caso politico, prima ancora che accademico.
Napoli, 1° dicembre 2025 – La prima decade di dicembre offre ai visitatori di Palazzo Reale e di Villa Pignatelli occasioni di visite e aperture speciali.
VISITE TATTILI
In occasione della Giornata internazionale delle persone con disabilità che si celebra il 3 dicembre, al Palazzo Reale di Napoli e il Museo Pignatelli si organizzano due visite tattili che si svolgeranno il 5 e 11 dicembre, vista la chiusura settimanale del mercoledì dei due siti.
Ogni anno il Ministero della Cultura aderisce all’iniziativa proclamata nel 1992 dall’ONU, con lo slogan “Un giorno all’anno tutto l’anno”, ne promuove i valori sottesi, impegnandosi ad assicurare le migliori condizioni di accesso al patrimonio culturale.
Venerdì 5 dicembre alle ore 10.30 e 12.30 è in programma a Villa Pignatelli un percorso tattile con una storica dell’arte che condurrà i visitatori negli ambienti del Museo che permetterà di conoscere il sito attraverso un apprendimento sensoriale dedicato.
Giovedì 11 dicembre, sempre alle ore 10.30 e alle ore 12.30, è invece previsto l’appuntamento al Palazzo Reale di Napoli per una visita tattile all’insegna dell’accessibilità, a cura del personale ministeriale del Museo.
Il costo della visita è incluso nel biglietto d’ingresso del Museo (agevolazioni e gratuità secondo legge) , ma è obbligatoria la prenotazione sul sito www.palazzorealedinapoli.org.
UN SABATO DA RE
Sabato 6 dicembre, nell’ambito dell’iniziativa “Un Sabato da Re” il Palazzo Reale di Napoli e il Museo Pignatelli propongono l’ultima apertura serale dell’anno per visitare gli spazi museali in orario serale a una tariffa ridotta.
Il Palazzo Reale di Napoli sarà straordinariamente aperto al pubblico dalle ore 20.00 alle ore 24.00 al costo di 5,00 euro, mentre l’orario del Museo Pignatelli è dalle 19.30 alle 23.30 al costo di 3,00 euro.
Ma per chi volesse visitare entrambi i siti, c’è la possibilità di acquistare il biglietto cumulativo serale “Un Sabato da Re – Palazzo Reale + Museo Diego Aragona Pignatelli Cortes”che consente l’accesso ad entrambi i Musei durante gli orari di apertura serale al costo di 6,00 euro.
Inoltre, dalle ore 21.00 alle ore 22.30, sarà organizza alla reggia napoletana una visita guidata a tema durante la quale una storica dell’arte e un restauratore di orologi antichi illustreranno al pubblico gli elementi più significativi preziosa collezione di orologi del XVIII e XIX secolo di manifattura francese e inglese, tra cui una rarissima macchina musicale realizzata da Charles Clay nel 1730.
Il costo della visita è di 3,00 euro oltre all’acquisto del biglietto d’ingresso al Palazzo mentre la prenotazione è obbligatoria fino al raggiungimento della capienza massima del gruppo sul sito di Palazzo Reale
DOMENICA AL MUSEO
Domenica 7 dicembre, il Palazzo Reale di Napoli e il Museo Pignatelli garantiranno l’accesso gratuito ai propri visitatori ai consueti orari di apertura, aderendo all’iniziativa ministeriale che prevede la gratuità di tutti i luoghi della cultura statali la prima domenica del mese.
Lunedì 8 dicembre, in occasione della festa dell’Immacolata Concezione, i due siti saranno regolarmente aperti al pubblico ai consueti costi e orari di apertura.–
DIANA KÜHNE
ufficio stampa

Su e giù per la Penisola. E non solo. Incrociando ovunque plauso e piena condivisione critica. Anche il 2025 è stato anno ricco di soddisfazioni e di riscontri per la pianista di Airola Giulia Falzarano, uno dei tanti talenti sbocciati in seno all’Accademia musicale “Mille e una Nota”, riferimento guidato dal Direttore artistico, Maestro Anna Izzo. Il recente concerto sviluppatosi presso l’Auditorium Nino Rota di Bari con l’Orchestra Sinfonica della locale Città Metropolitana, diretta dal Maestro Vahan Mardirossian, ha rappresentato il punto esclamativo posto su un anno scandito da tappe che hanno portato la pianista ad esibirsi in prestigiosi contesti su tutto il territorio nazionale. In ordine sparso, la rassegna “Dal Barocco all’Impressionismo” a Forte dei Marmi, “Un pianoforte virtuoso” a Potenza, i concerti di Acerra, Ascoli Piceno, l’apprezzatissima performance a Napoli presso la Sala Chopin a Palazzo Mastelloni. Ed ancora Castel di Sangro – presso il Teatro comunale Francesco Paolo Tosti – e San Leo, nella Sala Concerti del Palazzo Mediceo, dove la Falzarano si è esibita quale vincitrice della Categoria III e del Premio Classico al Concorso pianistico della Città di Minerbio.
Non poteva mancare la sua Benevento ed il concerto, nella cornice dell’Hortus conclusus, con la locale Orchestra Filarmonica.
Non solo Italia, come detto. Il 2025 di Giulia Falzarano ha fatto tappa anche all’Estero con la doppia sortita polacca. Dapprima a Wroclaw, il 30 Agosto, nell’aula leopoldina dell’Oratorium Marianum insieme all’Orchestra dell’Università di Breslavia ed al Maestro Bartosz Żurakowski; il 1 Settembre, poi, a Luban.
Tra tanti impegni, altresì, anche il tempo per cogliere un importante obiettivo accademico: qualche settimana addietro, infatti, la pianista caudina ha conseguito il Diploma accademico di I livello presso il Conservatorio Niccolò Piccinini di Bari riportando la votazione di 110 e lode con menzione d’onore, sempre accompagnata nel suo percorso il Maestro Pasquale Iannone.
All’età di cinque anni già capace di cogliere un primo successo in un Concorso internazionale, ora, quando gli anni sono appena venti, le prospettive si confermano e aprono sempre più importanti.
La premier attacca l’ateneo emiliano, che non aveva voluto creare un corso in filosofia per giovani ufficiali: “Atto incomprensibile e gravemente sbagliato”

(ilfattoquotidiano.it) – “Un atto incomprensibile e gravemente sbagliato“. Giorgia Meloni attacca così l’Università di Bologna, per la decisione del Dipartimento di Filosofia di negare la richiesta di avviare un corso di laurea in filosofia per i giovani ufficiali dell’esercito. La premier definisce quella dell’ateneo emiliano “non solo” come “una scelta inaccettabile”, ma anche “un gesto lesivo dei doveri costituzionali che fondano l’autonomia dell’Università. L’Ateneo in quanto centro di pluralismo e confronto, ha il dovere di accogliere e valorizzare ogni percorso di elevazione culturale, restando totalmente estraneo a pregiudizi ideologici. Questo rifiuto implica una messa in discussione del ruolo stesso delle Forze Armate, presidio fondamentale della difesa e della sicurezza della Repubblica, come previsto dalla Costituzione”.
Per la premier, “arricchire la formazione degli ufficiali con competenze umanistiche è un fattore strategico che qualifica ulteriormente il servizio che essi rendono allo Stato. È proprio in questa prospettiva di difesa e di impegno strategico, spesso in contesti internazionali complessi, che la preparazione non può essere solo tecnica”. “Avere personale formato anche in discipline umanistiche – continua la presidente del Consiglio – garantisce quella profondità di analisi, di visione e di pensiero laterale essenziale per affrontare le sfide che alle Forze Armate sono affidate. Una preparazione completa è garanzia di professionalità per l’intera Nazione. Ribadisco personalmente e a nome del Governo – conclude Meloni – il pieno e incondizionato sostegno all’Esercito e alle Forze Armate e condanno fermamente ogni tentativo di isolare, delegittimare o frapporre barriere ideologiche a un dialogo istituzionale così fondamentale per l’interesse nazionale”.
Il caso nasco dalla segnalazione del Capo di Stato Maggiore dell’Esercito Carmine Masiello di avviare un corso di laurea in filosofia per i giovani ufficiali (una quindicina) che nel suo intervento agli Stati Generali della Ripartenza tenutisi nei giorni scorsi a Bologna, ha raccontato di aver chiesto senza successo all’Alma Mater l’avvio di un CdL in filosofia apposito per i suoi pochi ufficiali. Il Capo dell’Esercito, pur non volendo “giudicare scelte che competono ad altre istituzioni” ha letto il rifiuto dell’Ateneo come una specie di discriminazione. “Rappresento che un’istituzione come l’esercito non è stata ammessa all’Università. Non è una polemica ma una cosa che mi ha sorpreso e deluso. Questo è sintomatico dei tempi che viviamo e di quanta strada ancora c’è da percorrere, perché la nostra opinione pubblica, in generale, e i giovani, in particolare, capiscano qual è la funzione delle forze armate nel mondo che stiamo vivendo”.
L’Università di Bologna, con una nota, replica di non avere “mai ‘negato’ né ‘rifiutato’ l’iscrizione a nessuna persona. Come per tutti gli Atenei italiani, chiunque sia in possesso dei necessari requisiti può iscriversi liberamente ai corsi di studio dell’Ateneo, comprese le donne e gli uomini delle Forze Armate”. L’Ateneo sottolinea che “il tema oggetto di discussione riguarda non l’accesso ai corsi, bensì una richiesta di attivazione proveniente dall’Accademia, anche in virtù delle collaborazioni pregresse, per un percorso triennale di studi in Filosofia strutturato in via esclusiva per i soli allievi ufficiali”: un percorso, spiega Unibo, che prevedeva 180 crediti formativi complessivi, “lo svolgimento delle attività interamente presso la sede dell’Accademia, secondo il relativo regolamento interno, e un significativo fabbisogno didattico”. In questo quadro, “l’Accademia si rendeva disponibile a sostenere i costi dei contratti di docenza”. “La proposta è pervenuta al Dipartimento di Filosofia, competente a valutare preliminarmente la sostenibilità didattica, la disponibilità di docenti, la coerenza con l’offerta formativa e l’insieme delle risorse necessarie, che vanno ben oltre il costo di eventuali contratti di docenza. Dopo un articolato confronto interno – si legge ancora nella nota – il Dipartimento ha ritenuto di non procedere, allo stato dei fatti, alla deliberazione sull’attivazione del nuovo percorso. L’Università di Bologna, nel pieno rispetto dell’autonomia dei Dipartimenti, ha comunicato tale decisione ai vertici dell’Accademia Militare già lo scorso ottobre, manifestando al tempo stesso la piena disponibilità a ogni futura interlocuzione“, conclude la nota.
“Grave attacco all’autonomia accademica. L’università resta un luogo libero, pubblico e aperto a tutte e tutti” commenta Alleanza Verdi-Sinistra Emilia-Romagna. “Le dichiarazioni dei ministri Crosetto, Bernini e Piantedosi destano sconcerto e preoccupazione – afferma Avs -. Siamo di fronte all’ennesimo tentativo di delegittimare l’autonomia degli atenei, principio fondamentale garantito dalla Costituzione”. Il nodo della vicenda, prosegue il gruppo, riguarda la richiesta dell’Esercito di istituire “un percorso triennale chiuso ed esclusivo. Quali altre categorie professionali hanno mai beneficiato di corsi universitari inaccessibili al resto della comunità studentesca?”. Secondo Avs, la missione pubblica dell’università “si fonda sulla libera ricerca, sulla formazione aperta e sulla piena indipendenza da interessi esterni, siano essi politici, economici o militari”. Un corso “su misura”, aggiungono, non sarebbe compatibile con questi principi né con il ruolo dell’università “come luogo finanziato dalle cittadine e dai cittadini e accessibile a tutte e tutti”. “Gli ufficiali delle forze armate, come chiunque altro, possono iscriversi ai corsi esistenti: nessuno ha mai negato loro questa possibilità”, prosegue la nota, che critica l’idea di un’università “come scaffale di esami o percorsi costruiti su commessa per specifiche organizzazioni. Difendere l’università pubblica significa difendere la libertà, la democrazia e lo spazio critico della conoscenza. Continueremo a farlo”.
L’intervento della premier arriva dopo le dichiarazioni di altri ministri del suo governo dei giorni scorsi. “Se fossi una facoltà di Filosofia e il capo di Stato maggiore mi chiedesse di formare i miei ufficiali, allargando la loro mente il più possibile, ne sarei onorato – aveva dichiarato ieri il ministro della Difesa, Guido Crosetto – Sarei onorato di contribuire al fatto di migliorare il più possibile la cultura, l’esperienza e la capacità di analisi delle persone a cui la Costituzione affida l’uso della forza per la mia difesa”, ha aggiunto. “Abbiamo bisogno di Forze Armate che siano il più preparate possibile. Il più colte e visionarie possibile. Perché a loro abbiamo affidato la nostra sicurezza. Più sono intelligenti e preparate e più sono in grado di capire i fenomeni che accadono nel mondo – e la facolta di filosofia li avrebbe aiutati in questo – meglio è per il nostro futuro”.
“Una decisione incomprensibile – aveva scritto il ministro dell’Interno, Matteo Piantedosi, su Facebook – quella di alcuni professori dell’università di Bologna che hanno negato a un gruppo selezionato di 15 giovani ufficiali dell’Esercito dell’Accademia di Modena la possibilità di frequentare un corso di laurea in Filosofia, nel timore di una presunta ‘militarizzazione dell’Ateneo’. Mi addolora ancora di più che tutto questo sia avvenuto proprio in una città colta e aperta come Bologna, nella più antica Università al mondo, che da sempre rappresenta un punto di riferimento internazionale dei valori di laicità, cultura e pensiero. Un ateneo deve per sua natura promuovere una cultura basata sulla libertà, sulla tolleranza, sul rispetto delle differenze e sull’uso critico e ragionato delle idee, senza che una sola visione domini sulle altre. Deve operare per il progresso intellettuale dell’uomo. Di qualsiasi uomo. E Bologna lo ha sempre fatto”. “D’altronde un’università non può essere gestita come una sezione di partito, chiudendosi rispetto all’esterno. Infine, a questi professori e ai sostenitori di tale scelta voglio ricordare che gli ufficiali a cui è stato negato il diritto allo studio hanno giurato sulla Costituzione per garantire la sicurezza dei cittadini, compresa la loro, e che questi militari si sono impegnati a farlo, ove necessario, a costo della loro stessa vita”.
Sabato dopo il colloquio con il rettore dell’Università di Bologna, Giovanni Molari, la ministra dell’Università e della Ricerca, Anna Maria Bernini, aveva avuto una conversazione telefonica anche con il generale Carmine Masiello, Capo di Stato Maggiore dell’Esercito per esprimere rammarico e delusione.

(dagospia.com) – Homo homini Lupi… Il moderatissimo ciellino Maurizio Lupi s’agita, scalpita, si barcamena. Sa di essere conteso tra Ignazio La Russa e Giorgia Meloni. Sembra incredibile ma, ormai, siamo in caduta libera…
Se il presidente del Senato l’ha indicato come candidato in pectore alla carica di sindaco di Milano, per il centrodestra, sfanculando il candidato della Ducetta, il fedelissimo Carlo Fidanza.
La premier della Sgarbatella a denti stretti ha capito che in Lombardia i Fratelli d’Italia non toccano palla, comandano solo i Fratelli La Russa, allora ha ripiegato su un Lupi in funzione anti-Salvini.
La “centralità” del sosia della figlia di Fantozzi non è tanto dovuta ai voti, che non ha (Noi moderati in Campania, regione di Mara Carfagna, ha preso appena l’1,27%), quanto piuttosto al suo essere una leva per scardinare i vecchi equilibri nella maggioranza. Lupi, infatti, si è spostato ormai sempre più a destra: se un tempo si parlava di un’opa di Forza Italia su Noi moderati, ormai la formazione, incardinata nel Partito popolare europeo, è una “costoletta” di Fratelli d’Italia
È per questo che Giorgia Meloni, presidente del Consiglio di un Paese del G7, con un’agenda fittissima di visite di stato, summit europei, video-call con intelligence e diplomazia, ha trovato il tempo di recarsi all’assemblea di Noi moderati, il nano-partito di Lupi, al Marriott Park Hotel di Roma.
Essì: serviva far sentire importante il Maurizio, il cui partitino che potrebbe tornare utile alla causa di de-salvinizzazione che ha in mente la Ducetta del Colle Oppio per infine affiancarsi ai democrisrìtiani del Partito Popolare Europeo, che detestano il “patriottismo” orbaniano anti-EU di Salvini .
Dal palcoscenico, non a caso, la Ducetta del Colle Oppio ha ribadito la necessità (secondo lei) di procedere spediti con premierato e nuova legge elettorale.
Le nuove regole immaginate dalla sora Giorgia sono kryptonite per Salvini: come scrivevamo su Dagospia la scorsa settimana: “la soglia del 40% permetterebbe alla “Giorgia dei Due Mondi” (Colle Oppio e Garbatella) di fare a meno della Lega. Il calcolo è presto fatto: con Fdi al 30-31%, Forza Italia al 9-10% e cespugli centristi tra l’1-2%, l’ex Truce del Papeete, ormai alleato rompicojoni, non serve più”.
E ‘Gnazio? La Russa questa volta ha avuto la buona creanza di non presentarsi: in quanto seconda carica dello Stato, riveste un ruolo super partes di cui spesso si dimentica. Inolte, lo stesso Lupi è dubbioso sulle avance del mai paludato ras siculo-lombardo di Fdi:
Certo, Lupi è stuzzicato dall’idea di diventare sindaco di Milano, ma le elezioni ci saranno solo nel 2027. Campa cavallo: “Lui mi candida, ma nel frattempo tutto può succedere…”. E allora mostrarsi disponibile alla Statista della Sgarbatella può sempre servire…
Tre volontari italiani picchiati e derubati da coloni israeliani, ma il governo italiano non prende posizione né chiama l’ambasciatore

(Beppe Giulietti – ilfattoquotidiano.it) – Prima gli italiani? Ma quali?
Come ha già raccontato il Fatto Quotidiano, in modo preciso e dettagliato, tre volontari italiani sono stati derubati e picchiati da un gruppo di coloni israeliani, picchiatori e squadristi, impegnati nel rubare acqua, terre, case, cibo ai legittimi proprietari palestinesi.
A Gaza si uccide, in Cisgiordania pure. Non da oggi, almeno dal 1948. Il governo italiano ha balbettato qualcosa di incomprensibile, non ha neppure chiamato l’ambasciatore israeliano a Roma; nella corte sovranista, ai comandi di Trump e Netanyahu, non c’è spazio per il dissenso di cortigiane e cortigiani. Gli italiani impegnati nella difesa dei diritti dei palestinesi non contano nulla, sono soggetti pericolosi, sgraditi agli oligarchi di ogni colore.
“Prima gli italiani” non vale neppure per Giulio Regeni, per Mario Paciolla, per Andrea Rocchelli, Ilaria Alpi, Miran Hrovatin, in tutti questi casi governo silente, incapace persino di far finta di chiedere spiegazioni formali a Egitto, Ucraina, Colombia, Né all’Onu – visto che Mario Paciolla lavorava per l’Onu. Per non parlare di Alberto Trentini sempre rinchiuso in un carcere venezuelano.
Camilo Castro, detenuto come Alberto, è già tornato a casa sua, perché la Francia si è limitata a dichiarare che non avrebbe partecipato a nessuna azione decisa in modo unilaterale da Trump contro il Venezuela di Maduro. L’Italia non ha voluto fare neppure questo, per non rischiare di inquietare il capo dei sovranisti. Altro che prima gli italiani!
Sei articoli aggirano la sentenza della Corte e cristallizzano le disuguaglianze per legge. L’opposizione: ostruzionismo

(di Marco Palombi – ilfattoquotidiano.it) – La scoppola è stata pesante e i parlamentari del Sud di FdI e FI, specie di Campania e Puglia, a mezza bocca la attribuiscono anche al ritorno di fiamma del governo Meloni per l’autonomia differenziata: sei contestati articoli ad hoc infilati nella manovra e, poco prima del voto, pure le pre-intese firmate da Roberto Calderoli con Veneto, Lombardia, Piemonte e Liguria per devolvere poteri in 4 ambiti (gestione delle risorse sanitarie, protezione civile, professioni non ordinistiche e previdenza complementare) in cui non vanno precedentemente definiti – a parere dell’esecutivo e dei suoi tecnici – i famosi Lep, cioè i Livelli essenziali delle prestazioni che vanno garantiti a tutti i cittadini.
Il problema di quegli eletti del Sud è che se loro hanno perso, e male, il vincitore delle Regionali a destra è Luca Zaia, il vero padre della cosiddetta “secessione dei ricchi”: scontentarlo ora sarà difficile, tanto più che Giorgia Meloni potrebbe volerlo usare in chiave anti-Salvini. Per questo la premier che pronuncia la parola “nazione” con la maiuscola sta per far votare in Parlamento che le disuguaglianze territoriali sono stabilite per legge, immutabili.
Per capire il livello della forzatura firmata Calderoli serve un piccolo riassunto. Come il lettore ricorderà, un anno fa la Corte costituzionale ha fatto a pezzi la legge per l’autonomia differenziata: ne ha cancellati sette punti e ha dato una lettura “costituzionalmente orientata” (e cioè contraria a quella di Calderoli) su tutto il resto. In particolare la Consulta ha ribadito che il Parlamento va coinvolto nelle intese e può emendarle, che il governo non può decidere i Lep a colpi di Dpcm, che la devoluzione non può avvenire in blocco per materie ma per singole funzioni, che vada sempre dimostrata la maggiore efficienza della gestione locale, che alcune materie non possano proprio essere trasferite anche se sono citate nella Costituzione versione 2001 (tutela dell’ambiente, energia, porti e aeroporti, etc.) e molto altro.
La prima reazione di Calderoli e soci è stata scrivere una nuova legge, che da settembre giace su un binario morto in Senato. La seconda è stata infilare nella legge di Bilancio, complice il collega di partito Giancarlo Giorgetti, sei articoli in cui si definiscono i Lep in alcune materie, il passo preliminare prima di devolverle alle Regioni: l’orizzonte del piano è il 2027, l’anno in cui si tornerà al voto. La scoperta di quei sei articoli ha irritato parecchi dentro Fratelli d’Italia e Forza Italia, ma prima del voto nelle Regioni non si poteva dir nulla: ora, però, è troppo tardi. Nel frattempo, come detto, Calderoli gli ha fatto ingoiare pure la firma di quattro “pre-intese” con le regioni ordinarie del Nord, tutte amministrate dal centrodestra. Questa settimana, infine, si inizia a votare la manovra in Senato e l’autonomia tornerà sulle prime pagine: le opposizioni chiedono lo stralcio di quegli articoli e hanno deciso di fare (un po’ di) ostruzionismo se non saranno accontentate.
Le proteste sono il minimo, perché il piattino preparato da Calderoli è decisamente indigesto: un irrispettoso surf tra le virgole della sentenza dalla Consulta per aggirarla, violarla in qualche caso, e stabilire che l’autonomia differenziata si fa a risorse vigenti, cioè perpetuando le diseguaglianze territoriali che tutti conoscono: per evitare problemi, politici e di bilancio, basta scrivere in una legge che i Lep sono quelli garantiti dai soldi che spendiamo ora. Siamo nel migliore dei mondi possibili e non lo sapevamo. In un articolo ad esempio, il 124 per la precisione, si stabilisce che i Lep nella sanità esistono già e sono i cosiddetti Lea, livelli essenziali di assistenza. Poco importa che i Lea non vengano rispettati in gran parte delle Regioni, quasi sempre per mancanza di personale, macchinari e risorse: “Al finanziamento dei Lea si provvede mediante le risorse disponibili a legislazione vigente”. Cioè non si provvede e dove la sanità non funziona pace. Intanto i Lep ci sono e si può regionalizzare quel poco che era rimasto allo Stato.
Lo schema viene ripetuto, e in maniera persino più esplicita, altre tre volte. In materia di assistenza si stabilisce, per dire, che i Lep sono un assistente sociale ogni 5mila abitanti e, nelle equipe multidisciplinari, uno psicologo ogni 30mila abitanti e un educatore socio-pedagogico ogni 20mila (a questo fine si stanziano 200 milioni dal 2027). Il Lep dell’assistenza domiciliare agli anziani non auto-sufficienti è invece dichiaratamente una presa in giro: un’ora a settimana, ma compatibilmente con le risorse esistenti… Contemporaneamente vengono però ribaditi tutti quei bei piani teorici per le Case di comunità, i Progetti di assistenza individuale, i servizi di supporto alle famiglie tanto notturni che diurni. Tutta roba che gran parte degli italiani non ha mai visto e mai vedrà: “La disposizione – dice la Relazione tecnica – non comporta nuovi oneri, ma valorizza le risorse esistenti”.
Il giochino si ripete per il sostegno ad alunni e studenti con disabilità: il Lep, dice la manovra, sono le ore dedicate a ciascun studente. In futuro si vedrà, intanto “in via transitoria” il Lep è fissato alle ore che si possono fare coi fondi già a disposizione: 50 ore all’anno per studente, calcola la Ragioneria generale, che specifica peraltro come si tratti di “un obiettivo” la cui “attuazione è subordinata alla disponibilità delle risorse”. Quanto alle borse di studio per studenti universitari, se non altro i fondi aumentano di 250 milioni l’anno: resta che saranno ripartiti come al solito sul costo storico, che è una fonte di riconosciuto squilibrio (dallo stesso ministero) a danno dei territori più poveri. L’orizzonte per la devoluzione di queste materie, come detto, è il 2027 delle prossime Politiche. E come si decide la distribuzione dei fondi? Niente paura, ci penserà il governo via Dpcm con tanti saluti alla Consulta.