Il bilancio dell’anno che sta finendo consegna una società che chiede meno annunci e più risposte concrete

(Alessandra Ghisleri – lastampa.it) – Un anno può essere raccontato in molti modi: attraverso i fatti, le decisioni, le crisi e anche attraverso i numeri, che non governano e non protestano, ma si limitano a registrare gli umori i giudizi e le percezioni della gente. I sondaggi di certo non spiegano tutto, tuttavia sono in grado di mostrare ciò che resta: opinioni, paure, fiducia e disincanto di un Paese che, mese dopo mese, ha risposto spesso alle stesse domande con diverse risposte. Nel corso del 2025, le preoccupazioni degli italiani sono rimaste sorprendentemente solide.
Questa stabilità delle preoccupazioni non è solo il riflesso di problemi irrisolti, ma anche di una fiducia che fatica a rigenerarsi, perché quando le priorità restano le stesse anno dopo anno, il rischio non è l’allarme, ma l’assuefazione. In cima alla classifica si conferma l’inflazione: il caro vita e l’aumento dei prezzi si attestano intorno al 39,7%, con un incremento di quasi un punto percentuale rispetto all’anno precedente. Un primato mai realmente messo in discussione, che ha conosciuto anche picchi significativi, come quello di aprile, quando la preoccupazione ha raggiunto il 45,8%; mentre la media annuale si è stabilizzata intorno al 40,5%, segno di un disagio costante e strutturale. Nel ranking al secondo posto si colloca la sanità, in particolare il tema delle lunghe attese per esami e prestazioni. Il dato medio annuo è del 35,8%, tuttavia nell’ultimo mese dell’anno il tema ha sfiorato la vetta, toccando il 39,0%. Per lunghi tratti del 2025, inflazione e salute si sono rincorse, pur marcando un netto distacco rispetto a tutte le altre priorità indicate dai cittadini. A completare il podio di fine anno troviamo il lavoro, al 26,0%, in lieve crescita (+0,4%) come domanda, che supera di poco il tema delle tasse e del fisco, giudicate ancora troppo elevate per famiglie e imprese (25,5%) da 1 italiano su 4. Queste priorità, pur condivise a livello nazionale, non pesano ovunque allo stesso modo: cambiano intensità tra territori, tra grandi città e aree interne, tra Nord e Sud, mostrando un’Italia che vive le stesse paure ma in condizioni molto diverse. Alcuni temi mostrano invece variazioni più marcate.

L’evasione fiscale, ad esempio, registra uno degli aumenti più consistenti: dal 16,9% di inizio anno sale al 18,8%, con un incremento di quasi 2 punti percentuali. Di segno opposto l’andamento del cambiamento climatico, che passa dal 18,8% di gennaio al 14,4% di fine anno (-4,1 punti). Su questo calo ha inciso -con ogni probabilità- il fallimento percepito delle politiche green europee, considerate inefficaci e penalizzanti: dalla spinta accelerata verso l’auto elettrica, che ha messo in difficoltà l’intero comparto automobilistico, fino agli interventi sulle caldaie domestiche. Misure che, più che convincere, hanno colpito direttamente il portafoglio delle famiglie, irrigidendo -e non poco- il giudizio degli italiani, soprattutto sulle politiche europee e i loro risultati. Tuttavia, il giudizio negativo non sembra rivolto tanto agli obiettivi, quanto ai mezzi: quando le politiche pubbliche incidono direttamente sul reddito disponibile delle persone senza offrire alternative credibili, anche le cause più condivise finiscono per perdere consenso. Nell’arco di un anno è cresciuta di 1,2 punti anche la preoccupazione per la gestione dell’immigrazione, probabilmente alimentata dal dibattito attorno al Centro di permanenza per il rimpatrio di Gjader, in Albania. Al contrario, arretra di un punto il tema della sicurezza legata alla microcriminalità. Un dato che va però letto con attenzione: la sicurezza non è oggi meno avvertita, ma semplicemente meno interrogata. È percepita come un problema cronico, apparentemente senza soluzione, raccontato quotidianamente nei suoi episodi di violenza, ma raramente attraverso storie di risposte efficaci o di risultati raggiunti. Il dato sulla sicurezza dunque scende, ma il senso di insicurezza resta elevato: segno che il problema non è più l’emergenza, bensì la consuetudine. Sullo sfondo rimane un’inquietudine più ampia e trasversale: i conflitti internazionali.
Nel corso dei dodici mesi, è aumentata infatti la paura che le crisi in atto possano degenerare in un conflitto globale (51.0%; +3.0% da gennaio 2025 a Dicembre 2025), dando corpo a quella che Papa Francesco ha definito una «guerra mondiale a pezzi». Un timore che non domina le classifiche, ma attraversa silenziosamente molte delle risposte, contribuendo a definire il clima di incertezza con cui il Paese chiude l’anno. Letti nel loro insieme, questi dati restituiscono un Paese meno volatile di quanto appaia nel dibattito politico, tuttavia più fragile di quanto ammettano le istituzioni. Le priorità non cambiano perché non cambiano le condizioni materiali che le generano: il costo della vita, l’accesso alla salute, la sicurezza economica restano il perimetro entro cui si misura la fiducia dei cittadini. E finché quel perimetro non si allarga, ogni nuova agenda rischia di apparire distante, se non estranea.
Il 2025 consegna dunque una società che chiede meno annunci e più risposte concrete, meno visioni calate dall’alto e più politiche capaci di reggere l’impatto con la vita quotidiana. Il calo di attenzione verso il cambiamento climatico, ad esempio, non segnala una negazione del problema, ma una frattura crescente tra obiettivi ambiziosi e strumenti percepiti come ingiusti o inefficaci. Allo stesso modo, la risalita di temi come evasione fiscale e immigrazione indica un’importante domanda di equità e di governo, più che di contrapposizione ideologica. Il rischio, guardando avanti, è che la stabilità delle preoccupazioni si possa tradurre in rassegnazione. Eppure, i numeri parlano chiaro: indicano priorità e non slogan, mostrano dove intervenire e con quale urgenza. Non misurano solo il consenso, ma le attese profonde del Paese. Se letti per ciò che sono, il 2026 potrebbe non segnare una svolta, ma almeno l’inizio di un diverso rapporto tra agenda pubblica e condizioni materiali del Paese.
Prima seduta dell’assemblea regionale. Battesimo a rischio per la squadra del governatore

(di Alessio Gemma – repubblica.it) – Al fotofinish. Confidando nella notte. Per arrivare stamane con i nomi dei dieci assessori da annunciare in consiglio regionale. Alle 11 inizia l’era di Roberto Fico in Regione Campania con la prima seduta del consiglio regionale. Fino a ieri sera la quadra sulla giunta non era stata trovata.
Il rischio concreto che il neo governatore 5S si presenti in aula con i banchi vuoti intorno. Gli assessori ci saranno? Un giallo, dopo 35 giorni dalla vittoria del campo largo in sala napoletana, con otto liste: da Pd, 5 stelle ai renziani con il figlio dell’ex berlusconiano Luigi Cesaro fino a Clemente Mastella. Presentarsi in aula con la giunta non è un obbligo, Fico avrebbe altri dieci giorni di tempo. Ma l’obiettivo c’è, segnale politico da passo falso.
«Ho fatto governi con De Mita, la prima Repubblica, ma questa è la situazione più incredibile a cui ho assistito», sbotta in serata Mastella che ha portato il figlio Pellegrino in consiglio: «Ho detto a Fico che deve decidere, se sei un leader ti tocca, che figura facciamo con l’opinione pubblica. Ma non è che possiamo imballarci tutti per i casini del Pd. Io gli ho fatto tre opzioni». Tra cui il cognato Pasquale Giuditta.
Il grande dilemma ruota intorno alla richiesta di Vincenzo De Luca: l’ex governatore dem che ha corso con la sua lista “A testa alta”, insiste per avere in giunta il suo ex vice Fulvio Bonavitacola. Un nome che suscita mal di pancia nel Pd, nei 5S e in Gaetano Manfredi, sindaco di Napoli e principale sponsor di Fico candidato. La risposta dei deluchiani è l’opposizione a Massimiliano Manfredi, fratello del sindaco, per il ruolo di presidente del consiglio regionale che spetta al Pd. E così va in scena al cospetto di Fico l’eterno scontro tra l’ex governatore De Luca e il sindaco Manfredi.
Oggi in aula si votano proprio il presidente del consiglio, i vice, i questori e i segretari. Cariche che si intrecciano con gli assetti della giunta. Senza assessori designati, si vota al buio?
È una domenica da psicodramma. Alle 14 Piero De Luca, segretario del Pd e figlio dell’ex presidente, convoca i consiglieri regionali per le 18. Sembra il segnale di trattative in fase avanzata. Ma dopo nemmeno un’ora arriva il rinvio: ci si vede due ore prima del consiglio. «Tutto in alto mare», è la voce che gira.
Scende in campo direttamente il Nazareno: filo diretto tra Igor Taruffi, braccio destro di Elly Schlein, e De Luca jr. Fico sente Manfredi. Eppure per comporre il puzzle della giunta una settimana fa, prima di Natale, Fico aveva incontrato i partiti: stile consultazioni da ex presidente della Camera. Lo schema: tre assessori al Pd, e uno a testa per le altre liste.
Ma i dem non avevano fino a ieri la terna: il bonacciniano Mario Casillo l’unico fisso, poi Vincenzo Cuomo, sindaco di Portici voluto dal deputato dell’area Schlein Marco Sarracino. E in extremis si ragionava su un terzo uomo: un nome di mediazione tra De Luca, Manfredi e l’area Schlein.
Tanto da costringere Fico a chiedere agli altri partiti, renziani e Mastella, nomi di donne per garantire in giunta la parità di genere. Intanto il centrodestra arriva in aula con l’accordo per vicepresidente, questore e segretario che spettano all’opposizione. «Sulla presidenza non ci è stato proposto nulla – dice in serata Fulvio Martusciello, coordinatore di Forza Italia in Campania – Francamente un po’ avvilente».
L’ex presidente Inps, ora europarlamentare del M5S: “Questo governo ha fatto solo cassa sulla previdenza. Abolire Opzione donna è un danno enorme per tante lavoratrici”

(di Valentina Conte – repubblica.it) – ROMA – «Non chiamiamola più legge Fornero. Ma legge Fornero-Meloni-Salvini». Da europarlamentare M5S ed ex presidente Inps nel governo gialloverde, Pasquale Tridico dice che «questo governo sulle pensioni ha fatto solo cassa» e la manovra è «senza crescita e senza Sud, condannato allo spopolamento e alla nuova migrazione».
Onorevole, un giudizio duro.
«Hanno peggiorato la legge Fornero, rendendola ancora più rigida con diverse strette che di fatto cancellano quella doverosa flessibilità per donne e fragili».
Si riferisce a Opzione donna?
«Un danno enorme averla abolita perché molte lavoratrici non riescono a raggiungere i requisiti per l’anticipata. Mi riferisco anche alla Quota 103, cancellata, e all’Ape sociale deteriorata».
Ma le Quote sono costate oltre 30 miliardi. Non si pente di aver spinto Quota 100 nel 2019?
«Ho sempre sostenuto che Quota 100 fosse ingiusta perché rigida e perché premiava uomini, del Nord, con carriere continue. Come M5S avevamo raggiunto il compromesso che durasse solo tre anni».
Non è andata così.
«Nel frattempo, sia con la ministra Catalfo che con il ministro Orlando, nei governi Conte II e Draghi, abbiamo provato a disegnare una nuova flessibilità in uscita per i mestieri gravosi e usuranti e anche per i lavoratori fragili».
Com’è andata a finire?
«Il governo Meloni ha cancellato le 13 nuove categorie individuate dalla commissione Damiano da ricomprendere nell’Ape sociale, aumentando anche l’età da 63 anni a 63 anni e 5 mesi».
Perché torna su questo punto?
«Perché se vale il criterio che chi vive di più lavora di più, deve valere anche il contrario. Chi vive di meno deve poter andare in pensione prima. E con requisiti non aggiornati alla speranza di vita. Non tutti i lavori sono uguali. Un operaio vive 4 anni meno di un dirigente».
Il governo Meloni ha puntato invece sulla sostenibilità dei conti e scoraggiato le uscite anticipate.
«Hanno promesso di tutto di più in campagna elettorale. E poi allungano le finestre, tagliano in modo retroattivo e quindi incostituzionale il riscatto di laurea, fanno cassa sulle rivalutazioni all’inflazione, sulle pensioni di maestre, dipendenti degli enti locali, medici. Persino sui fondi per usuranti e precoci. Il ministro Giorgetti, prima di richiamarsi al senso di responsabilità, dovrebbe chiedere scusa al Paese per le promesse tradite».
Cosa ne pensa del silenzio-assenso sul Tfr dei giovani?
«Un silenzio-obbligo. E un regalo ai fondi che investono soprattutto all’estero. Torno a proporre un fondo complementare pubblico che investa nel Paese. E il riscatto della laurea gratuito».
E per le donne?
«Una pensione di garanzia, utile per tutti i precari, gli intermittenti, i lavoratori poveri. Come Inps avevamo calcolato che la metà dei post-1996 non arriveranno da pensionati alla soglia di povertà. Servirebbe anche un congedo per i padri obbligatorio da 3-5 mesi».
Perché non le piace la manovra?
«Perché ha un impatto zero, priva di visione e investimenti. Il governo ha scelto l’austerità per preparare una manovra elettorale il prossimo anno. E anche per spendere di più in armi. Ma così non si aiuta il Paese».
Il ricordo del partito nato dai «fascisti della Rsi», come lo chiama Almirante. Ma anche le ricostruzioni abborracciate di alcuni giornalisti sul rapporto fra il fondatore e Berlinguer

(Davide Conti – editorialedomani.it) – Il Natale del 1946 era passato da un giorno e un gruppo di latitanti costretti a nascondersi per non essere arrestati dalle autorità della neonata Repubblica democratica trasformarono un organismo clandestino, che chiamavano in gergo «senato», nell’unico partito che in Europa fu erede diretto di uno stato collaborazionista filo-nazista ovvero la Repubblica Sociale Italiana di Salò.
Tra i principali latitanti figuravano il vero ideatore del Msi, Pino Romualdi (arrestato nel ‘48, scontò tre anni di carcere) e Giorgio Almirante. Quest’ultimo all’epoca era noto per essere fuggito dalla Prefettura di Milano, travestito da partigiano con tanto di fascia tricolore al braccio, il 25 aprile 1945.
Avrebbe dovuto aprire così, in ragione dei fatti della storia, il suo video-intervento il presidente del Senato Ignazio Benito La Russa, anziché evocare improbabili «resilienze» e ambigue «continuità» degli ex alleati di Hitler radunatisi sotto le insegne della fiamma tricolore del Msi.

Fino al giugno 1946 Almirante vive in clandestinità sotto falso nome. Nei giorni successivi alla Liberazione è nascosto (lui, ex caporedattore de «La difesa della razza») in casa di Emanuele Levi, ebreo e suo ex compagno di scuola. Il 22 giugno viene promulgata con la firma del ministro di Grazia e giustizia Palmiro Togliatti (l’unico per prestigio politico in grado di sopportare sulle spalle proprie e del suo partito un provvedimento così impopolare ma indispensabile per la Repubblica) l’amnistia che rende possibile ai fascisti l’uscita dalle carceri e la riemersione da latitanze e fughe. Non è vero – come afferma La Russa – che i missini «accettarono il sistema democratico». Semmai fu la Repubblica ad accettare loro, concedendo cittadinanza anche a chi aveva ucciso, torturato, stuprato e deportato donne e uomini della Resistenza e civili inermi. «Il 25 aprile è nata una puttana, le hanno dato nome Repubblica italiana» cantavano i missini dopo la fine della guerra. D’altronde inequivoche furono le parole di Almirante nel decennale del partito: «Dobbiamo presentarci per quelli che veramente siamo e cioè i fascisti della Rsi. L’equivoco, cari camerati, è uno, e si chiama essere fascisti in democrazia».
È questa anomalia che segnala fin dai suoi albori il carattere «difficile» della nostra democrazia, segnata dall’azione di un partito che annoverò come presidenti Junio Valerio Borghese e Rodolfo Graziani. Il primo, ex capo della X Mas e organizzatore, con il suo Fronte Nazionale, del golpe del 7-8 dicembre 1970. Il secondo, criminale di guerra in Africa e poi guida dell’esercito di Salò. Al segretario Augusto De Marsanich, già deputato fascista e membro del governo Mussolini, si deve invece il motto, caro a La Russa, «non rinnegare non restaurare».
Del Msi hanno fatto parte i senatori Francesco «Ciccio» Franco, capo dei «boia chi molla» nella Reggio Calabria del 1970 e Mario Tedeschi, uno dei depistatori della strage alla stazione di Bologna del 2 agosto 1980. Vi militarono Carlo Cicuttini, segretario della sezione Msi di Manzano al momento in cui partecipò alla strage di Peteano del 31 maggio 1972 e Massimo Abbatangelo, deputato assolto dall’accusa di strage per l’attentato sul treno Rapido 904 del 23 dicembre 1984 ma condannato a sei anni per detenzione di «armi a fini terroristici» nell’ambito della stessa inchiesta. Membro del Comitato Centrale del Msi, fu il condannato per la strage di Piazza della Loggia a Brescia del 28 maggio 1974 Carlo Maria Maggi ovvero il braccio destro di Pino Rauti alla guida di Ordine Nuovo dalla cui cellula veneta scaturì il gruppo di Franco Freda e Giovanni Ventura, responsabili della strage di Piazza Fontana del 12 dicembre 1969.
Della stessa «comunità» facevano parte i camerati di Piazza San Babila a Milano, protagonisti degli scontri che il 12 aprile 1973 portarono alla morte dell’agente di Ps Antonio Marino. Un evento che vide in piazza anche Ignazio La Russa (allora presidente del Fronte della Gioventù del Msi) e che seguì di soli cinque giorni la tentata strage del treno Torino-Roma ad opera del neofascista Nico Azzi. Ai funerali del quale, nel gennaio 2007, giunse a rendere omaggio proprio l’attuale seconda carica dello Stato.
In un’epoca di oblio e abborracciate ricostruzioni giornalistiche su «gesti», strumentalizzati come reciprocamente legittimanti, tra Berlinguer e Almirante (dal 1973 rincorso dall’autorizzazione a procedere per ricostituzione del partito fascista) restano vivide le parole di Piero Calamandrei dedicate nel 1953 ai caduti della Resistenza nel giorno della formazione del primo gruppo parlamentare missino alla Camera: «Non rammaricatevi dai vostri cimiteri di montagna se giù al piano, nell’aula dove fu giurata la Costituzione murata col vostro sangue, sono tornati, da remote caligini, i fantasmi della vergogna».
Le opposizioni hanno presentato in commissione 949 emendamenti – 790 quelli che arriveranno in Aula – senza alcuna chance di passare, perché il testo è blindato. Voto di fiducia previsto per lunedì alle 19, l’ok finale arriverà martedì 30 dicembre. Pd: “Il governo fa cassa per finanziare la prossima campagna elettorale”. M5s all’attacco per il rifiuto di ripristinare il reddito di cittadinanza. Avs: “Regali ai ricchi e corsa al riarmo”

(ilfattoquotidiano.it) – Il governo si prepara a porre la questione di fiducia sulla legge di Bilancio anche alla Camera. Che, visti i tempi strettissimi, dovrà votare il provvedimento più importante dell’anno senza poterlo modificare né esaminare in profondità. Un pessimo modus operandi che va avanti identico da anni, sempre censurato dalle opposizioni pro tempore e accettato come un dato di fatto dall’esecutivo in carica. Il Pd, durante l’esame in commissione Bilancio prima dell’approdo in Aula, ha messo in evidenza il cortocircuito: il deputato Claudio Mancini ha fatto partire un video del 2019 (vedi sotto) in cui Giorgia Meloni, ai tempi della sua militanza nei banchi dell’opposizione a Montecitorio, lamentava alzando la voce l’esame di fatto monocamerale del ddl di Bilancio per il 2020: “Dov’è la democrazia parlamentare se il Parlamento non può discutere la legge di Bilancio?”, diceva all’epoca la leader di FdI. “Pensiamo sia una vergogna il maxiemendamento su cui è stata posta la fiducia al Senato perché il governo doveva emendare se stesso (…) e una Camera in cui stiamo facendo una pantomima“.
Con lei a Chigi, è andata esattamente nello stesso modo. Con l’aggiunta dell’imbarazzante via crucis andata in scena al Senato, tra maxiemendamenti presentati e ritirati, vertici d’urgenza e misure espunte all’ultimo secondo dopo l’intervento del Colle. Alla Camera le opposizioni hanno presentato in commissione 949 emendamenti – 790 quelli che arriveranno in Aula – senza alcuna chance di passare, perché il testo viaggia appunto blindato verso il voto di fiducia previsto per lunedì alle 19. L’ok finale, salvo imprevisti, è fissato per le 13 di martedì 30 dicembre. La discussione in commissione si sta svolgendo una sala del Mappamondo semi-vuota, con diversi parlamentari collegati da remoto. I relatori sono Andrea Barabotti (Lega), Andrea Mascaretti (Fdi) e Roberto Pella (FI). A seguire la discussione c’è la sottosegretaria al ministero dell’Economia Sandra Savino.
La maggioranza sta ovviamente rivendicando la bontà del testo. Per Saverio Congedo, capogruppo di Fratelli d’Italia in Commissione Finanze “coniuga crescita, equità e stabilità dei conti pubblici, rafforzando la credibilità dell’Italia sui mercati internazionali e confermando gli impegni assunti con i cittadini”. “Questa manovra contiene interventi concreti e significativi a favore delle regioni e degli enti locali, giustizia e sicurezza, molti dei quali da tempo attesi dai presidenti, sindaci e amministratori e dagli operatori pubblici”, aggiunge Pella. Il leader di Noi Moderati, Maurizio Lupi, festeggia l’aumento della soglia di valore catastale della prima casa per l’esclusione dal calcolo Isee e il buono scuola fino a 1.500 euro per le famiglie he iscrivono i figli alle paritarie, oltre all’aumento a 610 milioni del tetto del 5 per mille.
Per le opposizioni il provvedimento è invece pessimo. Il capogruppo del Pd in commissione Bilancio della Camera, Ubaldo Pagano, accusa il governo di “fare cassa con un unico obiettivo: finanziare la prossima campagna elettorale. Un intervento miope e opportunistico, che finge rigore oggi solo per potersi liberare dai vincoli europei e tornare domani, in piena campagna elettorale, alla stagione delle spese pazze, senza una visione e senza una strategia”. Senza le risorse del Pnrr, aggiunge Pagano, “l’Italia sarebbe già in recessione. È un dato di fatto che smaschera il fallimento della cosiddetta ‘ricetta Meloni’, incapace di affrontare i nodi strutturali del Paese. La crescita è fragile, le crisi industriali aumentano, la pressione fiscale è ai massimi storici e il Governo risponde con nuove tasse: 600 milioni di euro in più solo dai carburanti, colpendo famiglie e lavoratori”.
Numerosi gli interventi del M5S in commissione Bilancio sull’emendamento a firma di Dario Carotenuto per il ripristino del Reddito di cittadinanza. “Da quando Meloni siede a Palazzo Chigi in Italia ci sono 70mila poveri in più, a riprova che Adi e Sfl sono un fallimento – ha affermato la capogruppo 5S in commissione Daniela Torto -. Questo parere contrario è una porta che viene sbattuta in faccia a milioni di cittadini in difficoltà, proprio mentre la povertà tocca il record storico”. Per il vicepresidente della V commissione, Gianmauro Dell’Olio, “con le misure del governo Meloni il numero di beneficiari di un sostegno economico è la metà rispetto al Reddito di cittadinanza, il tutto al solo fine di fare cassa. Quelle risorse, peraltro, finivano nell’economia, negli esercizi di vicinato: la riduzione ha rappresentato un danno anche per loro”. “È una manovra degli orrori che continua a tagliare sul sociale e il no al nostro emendamento per ripristinare il Rdc conferma la vera natura di questo esecutivo, forte con i deboli e debole con i forti” l’attacco del deputato pentastellato Davide Aiello. Dal canto suo Marco Pellegrini, pentastellato che siede in Commissione Difesa della Camera, parla di “manovra di guerra, una legge di bilancio che si prepara a un conflitto militare e a investire 23 miliardi in riarmo nei prossimi tre anni. Lo fa tagliando sui bisogni e sulla carne viva di milioni di italiani in difficoltà e in modo da ricevere il plauso delle agenzie di rating”.
Per il vicepresidente di Avs Marco Grimaldi “quella del governo Meloni non è una manovra ‘prudente’, come dice Giorgetti, ma una scelta di classe: tagli ai servizi, regali fiscali ai più ricchi e miliardi destinati alla corsa al riarmo. Noi di AVS rispondiamo con una contromanovra che redistribuisce risorse: 26 miliardi l’anno da un contributo dell’1,3% sull’1% più ricco, 3 miliardi dagli extraprofitti delle imprese fossili, 750 milioni da quelle belliche. Risorse per salvare sanità, scuola, trasporti, welfare e green. Proponiamo anche di cancellare il Ponte sullo Stretto e investire 5,87 miliardi in 60 km di metro, 140 km di tramvie, 4.500 autobus e treni regionali”.
Portate a termine la separazione delle carriere e ieri la Corte dei Conti. Il premierato perso nei meandri del Parlamento. Come anche l’autonomia

(di Gabriella Cerami – repubblica.it) – Giustizia e stretta securitaria. Il governo Meloni, superati i mille giorni di governo, ha portato a compimento la riforma sulla separazione delle carriere, a marzo ci sarà il referendum confermativo, l’abolizione dell’abuso d’ufficio e la riforma della Corte dei conti che prevede un tempo di trenta giorni a disposizione dei magistrati contabili per esaminare appalti complessi, opere strategiche, programmi di spesa che richiederebbero mesi di analisi tecnica, giuridica e finanziaria. E inoltre, prima dell’estate, il Parlamento ha approvato il decreto Sicurezza con il suo carico di nuovi reati, come l’inasprimento delle pene per chi aggredisce le forze dell’ordine. Insomma, ruota tutto intorno alla giustizia, cavallo di battaglia più di Forza Italia che dei partiti alleati, e intorno alla sicurezza, pallino invece della Lega.
La riforma del premierato, che Fratelli d’Italia ha sempre chiamato “la madre di tutte le battaglie”, si è invece persa nei meandri del Parlamento. Dopo una prima approvazione al Senato, il disegno di legge Meloni-Casellati staziona adesso a Montecitorio. Ma non è la sola proposta ferma al palo. C’è anche l’Autonomia differenziata, su cui si è sempre speso il partito di Matteo Salvini. Varata un anno fa dal Parlamento e poi smontata dalla Corte costituzionale, si è incagliata sui Lep, i livelli essenziali di prestazione, ovvero la soglia minima di servizi e prestazioni (sociali e civili) che lo Stato deve garantire uniformemente a tutti i cittadini su tutto il territorio nazionale. Per adesso solo rinvii, come quello dell’ultimo Consiglio dei ministri che ha prorogato al 31 dicembre 2026 l’attività istruttoria connessa ai Lep.
“Adesso avanti con la legge elettorale”, ha detto di recente il capogruppo dei deputati di Fratelli d’Italia Galeazzo Bignami. I dettagli sono tutti da definire, a gennaio dovrebbe esserci la prima riunione tra i referenti di tutti i partiti di maggioranza, già più volte rinviata. Sulla scia della riforma delle pensioni. La legge di bilancio, in discussione alla Camera, doveva cancellare la legge Fornero per consentire agli italiani di andare prima in pensione. E invece, con un blitz dell’ultimo minuto, si stava per allungare la permanenza al lavoro fino a quattro anni per una parte dei lavoratori. E infine la riforma del fisco. La Legge delega approvata nel 2023 affidava al governo il compito di riorganizzare il sistema fiscale entro il 2025, tramite decreti legislativi. Alcuni decreti attuativi sono stati emanati, ma l’applicazione dei Testi unici è stata prorogata. Anche questa.
Intervista alla giudice contabile e componente del direttivo Associazione magistrati Corte dei Conti (Amcc): “La riforma non è per i cittadini”

(di Conchita Sannino – repubblica.it) – Una riforma nell’interesse dei cittadini? I fatti dicono altro, purtroppo…».
Elena Papa, giudice contabile nella sezione della Toscana e componente del direttivo Associazione magistrati Corte dei Conti (Amcc): restate convinti degli effetti nefasti della riforma?
«In estrema sintesi le nuove norme riducono di molto la responsabilità di dirigenti e funzionari. E blindano i politici, rimarcando ancor più radicalmente per loro una clausola di presunzione di buona fede, per le scelte fondate su pareri di uffici tecnici».

Eppure, possiamo negare che ci fosse l’esigenza di sistematizzare il lavoro della Corte dei conti?
«Certo, c’era un’esigenza di risolvere delle difficoltà presenti nelle funzioni della Corte, ma questa riforma non le risolve, è un intervento estemporaneo».

Quindi, la legge Foti indebolirà i controlli su sprechi e inefficienze?
«Basta guardare alle serie di forti criticità che segnaliamo ormai da tempo. Innanzitutto una deresponsabilizzazione di chi è chiamato a gestire denaro pubblico: grazie alle norme che limitano grandemente l’importo del danno da restituire in caso di gestione imprudente».
Ad esempio, su un danno per la collettività di un milione di euro, saranno risarciti solo 300mila euro?
«Il 30 per cento, infatti. Oppure l’equivalente di due anni dello stipendio del pubblico dipendente. Il secondo elemento che preoccupa è una tale estensione del controllo preventivo degli atti o della richiesta di pareri, che con il meccanismo del silenzio-assenso allo scadere dei termini, si tradurrà in un esonero dalle responsabilità».
Vede il rischio di un aggravio strumentale di richieste di pareri?
«Sì, l’obiettivo non è più gestire correttamente il denaro pubblico e garantire i servizi ai cittadini, ma procurarsi dalla Corte dei conti una sorta di copertura giustificativa delle proprie condotte».
Perché vi preoccupa anche il superpotere al procuratore generale: potrebbe avocare a sé indagini sgradite?
«Certamente prevedere un visto del procuratore generale per ogni atto di rilievo delle Procure contabili regionali è in palese violazione dell’indipendenza del pm contabile sancita dall’articolo 108 della Costituzione».
Eppure il sottosegretario Mantovano ha spiegato che, dopo il confronto con le toghe, sono state introdotte modifiche importanti.
«Non è noto quali sarebbero le indicazioni accolte. È noto invece che non solo l’Amcc, ma soprattutto le nostre Sezioni Riunite della Corte dei Conti hanno più volte segnalato i rischi di una simile riforma».
La premier aveva parlato di «intollerabile invadenza» della Corte dei Conti. Questa riforma è una vendetta?
«Posso solo dire che vedo un serio difetto di prospettiva. Vedo la mancata percezione delle conseguenze negative, di come si tradurrà nella pratica».
Avete parlato di una riforma che è quasi un incentivo alla malagestio.
«Certo perde di incentivo, per i pubblici dipendenti, la ricerca della qualità, della competenza. Perde di mordente la spinta che ad oggi ha guidato la stragrande maggioranza di bravi dipendenti pubblici».
Perché stiamo dicendo che chi rompe non paga più?
«In effetti paga Pantalone: con i soldi che raccoglie dalla tassazione. E Pantalone siamo tutti noi, i cittadini».

(Tommaso Merlo) – Il principale responsabile della distruzione dell’Ucraina è l’Occidente che prima ha messo lì Zelensky perché in linea con certi rigurgiti da guerra fredda e poi lo ha telecomandato nello scontro suicida con la Russia. La Nato sognava da tempo di sfilare sulla Piazza Rossa per poi galoppare verso est per circondare di basi militari la Cina anche alle spalle e sguazzare in mari di petrolio e nuvole di gas. L’Ucraina è stata il posto in cui l’Occidente ha deciso di superare la linea rossa. Erano convinti che avrebbero prevalso facilmente ottenendo perlomeno un cambio di regime a Mosca, volevano piazzare un burattino pure lì in modo da rilanciare i sogni di egemonia mondiale. È la Cina l’unica vera superpotenza sulla scena che gli americani hanno messo da tempo nel mirino. Ed invece i geni strategici della Nato hanno ottenuto nell’ordine: la distruzione e lo smembramento dell’Ucraina con una mattanza da secolo scorso, il ricompattamento politico della Russia attorno a Putin e il rilancio della macchina bellica russa mai così potente e sul pezzo. Davvero un capolavoro strategico e che non finisce qui. Perché la pioggia di sanzioni economiche ha colpito noi, non i russi. E non solo. I geni strategici della Nato e tutti i loro inservienti politici sparsi tra Bruxelles e le cancellerie europee, hanno coronato gli incubi geopolitici del passato spingendo Mosca tra le braccia di Pechino. Oggi non solo la Russia, ma anche la Cina è più forte di prima e questo mentre l’Occidente è spaccato come non mai e l’Europa è in frantumi. Roba da dimissioni in massa per la vergogna e scuse pubbliche. Ed invece niente. Si nascondono dietro a post adolescenziali e si trascinano spaesati da un penoso summit all’altro. E dopo aver buttato miliardi ed interi arsenali, si sono messi a fare debiti e togliere risorse a cittadini che lottano contro la povertà, per produrre nuovi carrarmati e bombe in vista di una guerra mondiale nucleare senza sbocchi se non l’autodistruzione. E il tutto senza nemmeno uno straccio di motivo se non i deliri bellici infantili di qualche tragicomico napoleone da ufficio e la sempiterna bulimia lobbistica. E c’è pure una succulenta ciliegina, la gran parte dell’opinione pubblica occidentale non si è bevuta affatto la propaganda russofoba mainstream e vuole la pace. Già, davvero geniali, sono disprezzati perfino dai loro cittadini eppure niente. Insistono a mandare aiutini ad una Ucraina che sta scomparendo dalle mappe e quel che resta è travolto da scandali di corruzione che non riescono più a coprire. Come se temendo la catastrofe, il sistema si sia impallato. Il sistema della mega lobby della guerra che controlla la Nato e la UE e tratta i politicanti come marionette, i governi come bancomat ed i cittadini come inutili comparse e proprio se serve come carne da macello. Un sistema guerrafondaio che non avendo contemplato la sconfitta con la Russia, non ha un piano B e rimasto spiazzato spera in qualche accordo last minute che gli permetta di salvare la faccia e quindi riciclarsi. Per capire la politica occidentale bisogna guardare le carriere infinite dei tecnocrati e dei politicanti e gli immensi profitti delle lobby, lasciando stare ogni valore ed ogni logica. La potentissima lobby della guerra ci trascina da decenni in dispendiose e perdenti guerre a vanvera in giro per il mondo con la complicità dei politicanti di turno, ed oggi si ritrova incastrata nel pantano ucraino e non sa come uscirne anche grazie al demente che è tornato alla Casa Bianca. Se il potere appartenesse davvero al popolo, la guerra in Ucraina non sarebbe mai iniziata perché avrebbe prevalso il buonsenso e quindi la soluzione diplomatica. Ma a questo punto serve il piano B e se comandassero i cittadini sarebbe molto semplice e applicato da mo’. La resa immediata e incondizionata di Zelensky seguita dall’esilio in modo da aprire una nuova fase in cui si ricostruiscono al più presto nuovi legami di cooperazione strategica e di amicizia con la Russia, in nome del bene supremo della pace ma anche della convenienza reciproca ed in nome della sicurezza che si costruisce insieme agli altri e non contro. Una fase di distensione ma anche di ricostruzione democratica sia a Bruxelles che nelle cancellerie continentali per ristabilire la piena sovranità popolare e fermare l’autodistruzione fin che siamo in tempo.
Ogni volta che c’è stata l’opportunità storica di includere la Russia in una “casa comune” le scelte prese dal Vecchio Continente sono sempre andate in direzione opposta – il saggio integrale di Jeffrey Sachs
(di Jeffrey Sachs) – L’Europa ha ripetutamente rifiutato la pace con la Russia nei momenti in cui era possibile raggiungere un accordo negoziato, e tali rifiuti si sono rivelati profondamente controproducenti. Dal diciannovesimo secolo a oggi, le preoccupazioni della Russia in materia di sicurezza sono state trattate non come interessi legittimi da negoziare all’interno di un più ampio ordine europeo, ma come trasgressioni morali da contrastare, contenere o superare. Questo schema si è mantenuto in regimi russi radicalmente diversi – zarista, sovietico e post-sovietico – suggerendo che il problema non risiede principalmente nell’ideologia russa, ma nel persistente rifiuto dell’Europa di riconoscere la Russia come un attore legittimo e paritario in materia di sicurezza.
La mia tesi non è che la Russia si sia comportata in modo del tutto benigno o affidabile. Piuttosto, che l’Europa abbia costantemente applicato doppi standard nell’interpretazione della sicurezza. L’Europa considera normale e legittimo il proprio uso della forza, la costruzione di alleanze e l’influenza imperiale o post-imperiale, mentre interpreta un comportamento russo analogo – soprattutto in prossimità dei propri confini – come intrinsecamente destabilizzante e invalido. Questa asimmetria ha ristretto lo spazio diplomatico, delegittimato il compromesso e reso più probabile la guerra. Allo stesso modo, questo ciclo autolesionista rimane la caratteristica distintiva delle relazioni Europa-Russia nel XXI secolo.
Un fallimento ricorrente nel corso della storia è stata l’incapacità – o il rifiuto – dell’Europa di distinguere tra aggressione russa e comportamento russo volto alla sicurezza. In diversi periodi, le azioni interpretate in Europa come prova dell’intrinseco espansionismo russo erano, dal punto di vista di Mosca, tentativi di ridurre la vulnerabilità in un ambiente percepito come sempre più ostile. Nel frattempo, l’Europa ha costantemente interpretato la propria costruzione di alleanze, i propri schieramenti militari e la propria espansione istituzionale come benigni e difensivi, anche quando queste misure hanno ridotto direttamente la profondità strategica russa. Questa asimmetria è al centro del dilemma di sicurezza che si è ripetutamente trasformato in conflitto: la difesa di una parte è trattata come legittima, mentre la paura dell’altra parte è liquidata come paranoia o malafede.
La russofobia occidentale non dovrebbe essere intesa principalmente come ostilità emotiva nei confronti dei russi o della cultura russa. Piuttosto, opera come un pregiudizio strutturale radicato nel pensiero europeo in materia di sicurezza: il presupposto che la Russia sia l’eccezione alle normali regole diplomatiche. Mentre si presume che altre grandi potenze abbiano legittimi interessi di sicurezza che devono essere bilanciati e conciliati, gli interessi della Russia sono presunti illegittimi, salvo prova contraria. Questo presupposto sopravvive ai cambiamenti di regime, ideologia e leadership. Trasforma i disaccordi politici in assoluti morali e rende sospetto il compromesso. Di conseguenza, la russofobia funziona meno come un sentimento che come una distorsione sistemica, che mina ripetutamente la sicurezza stessa dell’Europa.
Traccio questo schema attraverso quattro principali archi storici. In primo luogo, esamino il XIX secolo, a partire dal ruolo centrale della Russia nel Concerto d’Europa dopo il 1815 e dalla sua successiva trasformazione in minaccia designata per l’Europa. La guerra di Crimea emerge come il trauma fondante della moderna russofobia: una guerra per scelta perseguita da Gran Bretagna e Francia nonostante la disponibilità di un compromesso diplomatico, guidata dall’ostilità moralizzata dell’Occidente e dall’ansia imperiale piuttosto che da una necessità inevitabile. Il memorandum di Pogodin del 1853 sul doppio standard dell’Occidente, con la famosa nota a margine dello zar Nicola I – “Questo è il punto” – funge non solo da aneddoto, ma da chiave analitica per comprendere i doppi standard dell’Europa e le comprensibili paure e risentimenti della Russia.
In secondo luogo, mi concentro sul periodo rivoluzionario e tra le due guerre, quando Europa e Stati Uniti passarono dalla rivalità con la Russia all’intervento diretto negli affari interni russi. Esamino in dettaglio gli interventi militari occidentali durante la Guerra Civile Russa, il rifiuto di integrare l’Unione Sovietica in un sistema di sicurezza collettiva duraturo negli anni Venti e Trenta e il catastrofico fallimento nell’allearsi contro il fascismo, basandomi in particolare sul lavoro d’archivio di Michael Jabara Carley. Il risultato non fu il contenimento del potere sovietico, ma il crollo della sicurezza europea e la devastazione del continente stesso durante la Seconda Guerra Mondiale.
In terzo luogo, l’inizio della Guerra Fredda rappresentò quello che avrebbe dovuto essere un momento correttivo decisivo; eppure, l’Europa rifiutò nuovamente la pace quando avrebbe potuto essere garantita. Sebbene la conferenza di Potsdam avesse raggiunto un accordo sulla smilitarizzazione tedesca, l’Occidente in seguito vi rinunciò. Sette anni dopo, l’Occidente respinse analogamente la Nota di Stalin, che offriva una riunificazione tedesca basata sulla neutralità. Il rifiuto della riunificazione da parte del Cancelliere Adenauer – nonostante le chiare prove della genuinità dell’offerta di Stalin – cementò la divisione postbellica della Germania, rafforzò il confronto tra i blocchi e conficcò l’Europa in decenni di militarizzazione.
Infine, analizzo il periodo successivo alla Guerra Fredda, quando all’Europa fu offerta la più chiara opportunità di sfuggire a questo ciclo distruttivo. La visione di Gorbaciov di una “Casa Comune Europea” e la Carta di Parigi articolavano un ordine di sicurezza basato sull’inclusione e l’indivisibilità. L’Europa scelse invece l’espansione della NATO, l’asimmetria istituzionale e un’architettura di sicurezza costruita attorno alla Russia anziché con essa. Questa scelta non fu casuale. Rifletteva una grande strategia anglo-americana – articolata in modo più esplicito da Zbigniew Brzezinski – che considerava l’Eurasia come l’arena centrale della competizione globale e la Russia come una potenza a cui impedire di consolidare la sicurezza o l’influenza.
Le conseguenze di questo lungo periodo di disprezzo per le preoccupazioni russe in materia di sicurezza sono ora visibili con brutale chiarezza. La guerra in Ucraina, il crollo del controllo degli armamenti nucleari, gli shock energetici e industriali dell’Europa, la nuova corsa agli armamenti europea, la frammentazione politica dell’UE e la perdita di autonomia strategica dell’Europa non sono aberrazioni. Sono i costi cumulativi di due secoli di rifiuto dell’Europa di prendere sul serio le preoccupazioni della Russia in materia di sicurezza.
La mia conclusione è che la pace con la Russia non richiede una fiducia ingenua. Richiede il riconoscimento che una sicurezza europea duratura non può essere costruita negando la legittimità degli interessi di sicurezza russi. Finché l’Europa non abbandonerà questo riflesso, rimarrà intrappolata in un circolo vizioso di rifiuto della pace quando è disponibile, e di pagamento di prezzi sempre più alti per farlo.
Le origini della russofobia strutturale
Il ricorrente fallimento europeo nel costruire la pace con la Russia non è principalmente un prodotto di Putin, del comunismo o persino dell’ideologia del XX secolo. È molto più antico, e strutturale. Le preoccupazioni della Russia in materia di sicurezza sono state trattate ripetutamente dall’Europa non come interessi legittimi soggetti a negoziazione, ma come trasgressioni morali. In questo senso, la storia inizia con la trasformazione della Russia, nel XIX secolo, da co-garante dell’equilibrio europeo a minaccia designata per il continente.
Dopo la sconfitta di Napoleone nel 1815, la Russia non era più periferica rispetto all’Europa; era centrale. La Russia sopportò un ruolo decisivo nella sconfitta di Napoleone, e lo Zar fu uno dei principali artefici dell’accordo post-napoleonico. Il Concerto d’Europa si basava su un’affermazione implicita: la pace richiede che le grandi potenze si accettino reciprocamente come legittimi interlocutori e gestiscano le crisi attraverso la consultazione piuttosto che con una demonologia moralizzata. Eppure, nel giro di una generazione, una controproposta si rafforzò nella cultura politica britannica e francese: che la Russia non fosse una normale grande potenza, ma un pericolo per la civiltà, le cui richieste, anche se locali e difensive, dovessero essere trattate come intrinsecamente espansionistiche e quindi inaccettabili.
Questo cambiamento è colto con straordinaria chiarezza in un documento evidenziato da Orlando Figes in The Crimean War: A History (2010) come scritto nel punto di svolta tra diplomazia e guerra: il memorandum di Mikhail Pogodin allo zar Nicola I nel 1853. Pogodin elenca episodi di coercizione occidentale e violenza imperiale – conquiste su vasta scala e guerre scelte – e li contrappone all’indignazione dell’Europa per le azioni russe nelle regioni adiacenti:
La Francia strappa l’Algeria alla Turchia e quasi ogni anno l’Inghilterra annette un altro principato indiano: nulla di tutto ciò turba l’equilibrio di potere; ma quando la Russia occupa la Moldavia e la Valacchia, anche se solo temporaneamente, ecco che l’equilibrio viene turbato. La Francia occupa Roma e vi rimane per diversi anni in tempo di pace: questo non è nulla; ma se la Russia pensa soltanto a occupare Costantinopoli, la pace dell’Europa è minacciata. Gli inglesi dichiarano guerra ai cinesi, che, a quanto pare, li hanno offesi: nessuno ha il diritto di intervenire; ma la Russia è obbligata a chiedere il permesso all’Europa se litiga con il suo vicino. L’Inghilterra minaccia la Grecia di sostenere le false pretese di un miserabile ebreo e ne brucia la flotta: questa è un’azione legittima; ma la Russia esige un trattato per proteggere milioni di cristiani, e ciò viene ritenuto un rafforzamento della sua posizione in Oriente a scapito dell’equilibrio di potere.
Pogodin conclude: “Non possiamo aspettarci altro dall’Occidente se non odio cieco e malizia”, a cui Nicola scrisse a margine: “Questo è il punto”.
Lo scambio Pogodin-Nicholas è importante perché inquadra la patologia ricorrente che si ripresenta in ogni importante episodio successivo. L’Europa insiste ripetutamente sulla legittimità universale delle proprie rivendicazioni di sicurezza, mentre tratta quelle della Russia come false o sospette. Questa posizione crea un particolare tipo di instabilità: rende il compromesso politicamente illegittimo nelle capitali occidentali, causando il collasso della diplomazia non perché un accordo sia impossibile, ma perché riconoscere gli interessi della Russia è considerato un errore morale.
La guerra di Crimea è la prima manifestazione decisiva di questa dinamica. Mentre la crisi immediata riguardava il declino dell’Impero Ottomano e le dispute sui siti religiosi, la questione più profonda era se alla Russia sarebbe stato consentito di assicurarsi una posizione riconosciuta nella sfera del Mar Nero e dei Balcani senza essere trattata come un predatore. Le moderne ricostruzioni diplomatiche sottolineano che la crisi di Crimea differì dalle precedenti “crisi orientali” perché le abitudini cooperative del Concerto si stavano già erodendo e l’opinione pubblica britannica aveva virato verso un atteggiamento estremamente anti-russo che riduceva lo spazio per una soluzione.
A rendere l’episodio così significativo è che un esito negoziato era disponibile. La Nota di Vienna aveva lo scopo di conciliare le preoccupazioni russe con la sovranità ottomana e preservare la pace. Tuttavia, fallì tra la sfiducia e gli incentivi politici all’escalation. Seguì la guerra di Crimea. Non era “necessaria” in senso strettamente strategico; fu resa probabile perché il compromesso britannico e francese con la Russia era diventato politicamente tossico. Le conseguenze furono controproducenti per l’Europa: ingenti perdite umane, nessuna architettura di sicurezza duratura e il radicamento di un riflesso ideologico che trattava la Russia come un’eccezione alla normale contrattazione tra grandi potenze. In altre parole, l’Europa non raggiunse la sicurezza respingendo le preoccupazioni della Russia. Piuttosto, creò un ciclo di ostilità più lungo che rese le crisi successive più difficili da gestire.
La campagna militare dell’Occidente contro il bolscevismo
Questo ciclo si protrasse fino alla rottura rivoluzionaria del 1917. Quando il cambiò la tipologia di regime russo, l’Occidente non passò dalla rivalità alla neutralità; al contrario, si mosse verso un intervento attivo, considerando intollerabile l’esistenza di uno Stato russo sovrano al di fuori della tutela occidentale.
La Rivoluzione bolscevica e la successiva Guerra Civile diedero vita a un conflitto complesso che coinvolse Rossi, Bianchi, movimenti nazionalisti ed eserciti stranieri. Fondamentalmente, le potenze occidentali non si limitarono a “stare a guardare” l’esito. Intervennero militarmente in Russia in vasti spazi – la Russia settentrionale, gli accessi al Baltico, il Mar Nero, la Siberia e l’Estremo Oriente – con giustificazioni che rapidamente passarono dalla fornitura di logistica bellica all’obiettivo del cambio di regime.
Si può riconoscere la classica logica “ufficiale” dell’intervento iniziale: il timore che i rifornimenti bellici cadessero in mani tedesche dopo l’uscita della Russia dalla Prima Guerra Mondiale e il desiderio di riaprire un fronte orientale. Eppure, dopo la resa della Germania nel novembre 1918, l’intervento non cessò; mutò. Questa trasformazione spiega perché l’episodio sia così importante: rivela la volontà, anche nel mezzo della devastazione della Prima Guerra Mondiale, di usare la forza per plasmare il futuro politico interno della Russia.
America’s Secret War against Bolshevism (1995) di David Foglesong, pubblicato da UNC Press e ancora oggi il riferimento accademico di riferimento per la politica statunitense, coglie esattamente questo concetto. Foglesong inquadra l’intervento statunitense non come un confuso spettacolo collaterale, ma come uno sforzo volto a impedire al bolscevismo di consolidare il potere. Recenti saggi di narrativa storica di alta qualità hanno ulteriormente riportato questo episodio alla ribalta; in particolare, A Nasty Little War (2024) di Anna Reid descrive l’intervento occidentale come un tentativo mal eseguito ma deliberato di rovesciare la Rivoluzione bolscevica del 1917.
La portata geografica stessa è istruttiva, poiché smentisce le successive affermazioni occidentali secondo cui i timori della Russia fossero pura paranoia. Le forze alleate sbarcarono ad Arcangelo e Murmansk per operare nella Russia settentrionale; in Siberia, entrarono attraverso Vladivostok e lungo i corridoi ferroviari; le forze giapponesi si schierarono su vasta scala in Estremo Oriente; e a sud, sbarchi e operazioni intorno a Odessa e Sebastopoli. Anche una panoramica di base delle date e dei teatri dell’intervento – dal novembre 1917 ai primi anni ’20 – dimostra la persistenza della presenza straniera e la vastità del suo raggio d’azione.
Né si trattava di un mero “consiglio” o di una presenza simbolica. Le forze occidentali rifornirono, armarono e, in alcuni casi, supervisionarono efficacemente le formazioni bianche. Le potenze intervenute si ritrovarono invischiate nell’orrore morale e politico della politica bianca, compresi programmi reazionari e atrocità violente. Questa realtà rende l’episodio particolarmente corrosivo per le narrazioni morali occidentali: l’Occidente non si limitò ad opporsi al bolscevismo; spesso lo fece alleandosi con forze la cui brutalità e i cui obiettivi bellici mal si sposavano con le successive rivendicazioni occidentali di legittimità liberale.
Dal punto di vista di Mosca, questo intervento confermò l’avvertimento lanciato da Pogodin decenni prima: l’Europa e gli Stati Uniti erano pronti a usare la forza per stabilire se alla Russia sarebbe stato consentito di esistere come potenza autonoma. L’episodio divenne fondamentale nella memoria sovietica, rafforzando la convinzione che le potenze occidentali avrebbero tentato di strangolare la rivoluzione nella sua culla. Dimostrò che la retorica morale occidentale in materia di pace e ordine poteva coesistere senza soluzione di continuità con campagne coercitive quando era in gioco la sovranità russa.
L’intervento produsse anche una seconda conseguenza decisiva. Entrando nella guerra civile russa, l’Occidente rafforzò inavvertitamente la legittimità bolscevica a livello interno. La presenza di eserciti stranieri e di forze bianche sostenute dall’estero garantì ai bolscevichi la legittimità della tesi che stavano difendendo l’indipendenza russa dall’accerchiamento imperiale. I resoconti storici sottolineano costantemente l’efficacia con cui i bolscevichi sfruttarono la presenza alleata a fini di propaganda e legittimazione. In altre parole, il tentativo di “spezzare” il bolscevismo contribuì a consolidare proprio il regime che cercava di distruggere.
Questa dinamica rivela un chiaro ciclo storico: la russofobia si rivela strategicamente controproducente per l’Europa. Spinge le potenze occidentali verso politiche coercitive che non risolvono la sfida, ma la esacerbano. Genera rimostranze russe e timori per la sicurezza che i leader occidentali successivi liquideranno come paranoia irrazionale. Inoltre, restringe il futuro spazio diplomatico insegnando alla Russia – a prescindere dal suo regime – che le promesse di accordo occidentali potrebbero essere insincere.
All’inizio degli anni ’20, con il ritiro delle forze straniere e il consolidamento dello Stato sovietico, l’Europa aveva già compiuto due scelte fatali che avrebbero avuto ripercussioni per il secolo successivo. In primo luogo, aveva contribuito a promuovere una cultura politica che trasformava controversie gestibili – come la crisi di Crimea – in guerre di vasta portata, rifiutandosi di trattare gli interessi russi come legittimi. In secondo luogo, aveva dimostrato, attraverso l’intervento militare, la volontà di usare la forza non solo per contrastare l’espansione russa, ma anche per plasmare la sua sovranità e gli esiti del regime. Queste scelte non stabilizzarono l’Europa; piuttosto, gettarono i semi per le catastrofi successive: il crollo della sicurezza collettiva tra le due guerre, la militarizzazione permanente della Guerra Fredda e il ritorno all’escalation delle frontiere nell’ordine post-Guerra Fredda.
Sicurezza collettiva e scelta contro la Russia
A metà degli anni ’20, l’Europa si trovò di fronte a una Russia sopravvissuta a ogni tentativo – rivoluzione, guerra civile, carestia e intervento militare straniero diretto – di distruggerla. Lo Stato sovietico che ne emerse era povero, traumatizzato e profondamente sospettoso, ma anche inequivocabilmente sovrano. Proprio in quel momento, l’Europa si trovò di fronte a una scelta che si sarebbe ripetuta più volte: se trattare questa Russia come un legittimo attore della sicurezza, i cui interessi dovevano essere integrati nell’ordine europeo, o come un outsider permanente, le cui preoccupazioni potevano essere ignorate, rinviate o ignorate. L’Europa scelse la seconda opzione, e i costi si rivelarono enormi.
L’eredità degli interventi alleati durante la guerra civile russa gettò una lunga ombra su tutta la diplomazia successiva. Dal punto di vista di Mosca, l’Europa non si era semplicemente opposta all’ideologia bolscevica; aveva tentato di decidere con la forza il futuro politico interno della Russia. Questa esperienza ebbe un profondo impatto. Plasmò le convinzioni sovietiche sulle intenzioni occidentali e creò un profondo scetticismo nei confronti delle rassicurazioni occidentali. Invece di riconoscerne la storia e cercare la riconciliazione, la diplomazia europea si comportò spesso come se la sfiducia sovietica fosse irrazionale, uno schema che sarebbe persistito durante la Guerra Fredda e oltre.
Per tutti gli anni Venti, l’Europa oscillò tra impegno tattico ed esclusione strategica. Trattati come Rapallo (1922) dimostrarono che la Germania, essa stessa paria dopo Versailles, poteva impegnarsi pragmaticamente con la Russia sovietica. Tuttavia, per Gran Bretagna e Francia, l’impegno con Mosca rimase provvisorio e strumentale. L’URSS fu tollerata quando serviva gli interessi britannici e francesi e messa da parte quando non lo faceva. Non fu compiuto alcuno sforzo serio per integrare la Russia in un’architettura di sicurezza europea duratura, su un piano di parità.
Questa ambivalenza si trasformò in qualcosa di ben più pericoloso e autodistruttivo negli anni ’30. Mentre l’ascesa di Hitler rappresentava una minaccia esistenziale per l’Europa, le principali potenze del continente trattarono ripetutamente il bolscevismo come il pericolo maggiore. Non si trattava solo di retorica; si plasmavano scelte politiche concrete: alleanze rinunciate, garanzie ritardate e deterrenza indebolita.
È essenziale sottolineare che questo non fu semplicemente un fallimento anglo-americano, né una storia in cui l’Europa fu passivamente trascinata da correnti ideologiche. I governi europei esercitarono la loro azione, e lo fecero in modo deciso e disastroso. Francia, Gran Bretagna e Polonia fecero ripetutamente scelte strategiche che escludevano l’Unione Sovietica dagli accordi di sicurezza europei, anche quando la partecipazione sovietica avrebbe rafforzato la deterrenza contro la Germania di Hitler. I leader francesi preferirono un sistema di garanzie bilaterali nell’Europa orientale che preservasse l’influenza francese ma evitasse l’integrazione di sicurezza con Mosca. La Polonia, con il tacito appoggio di Londra e Parigi, rifiutò i diritti di transito alle forze sovietiche anche per difendere la Cecoslovacchia, dando priorità al timore della presenza sovietica rispetto all’imminente pericolo di un’aggressione tedesca. Non si trattava di decisioni di poco conto. Riflettevano una preferenza europea per la gestione del revisionismo hitleriano rispetto all’incorporazione del potere sovietico, e per il rischio dell’espansione nazista piuttosto che per legittimare la Russia come partner per la sicurezza. In questo senso, l’Europa non solo non riuscì a costruire una sicurezza collettiva con la Russia; scelse attivamente una logica di sicurezza alternativa che escludeva la Russia crollando alla fine sotto le sue stesse contraddizioni.
Qui, il lavoro d’archivio di Michael Jabara Carley è decisivo. La sua ricerca dimostra che l’Unione Sovietica, in particolare sotto la guida del Commissario agli Esteri Maxim Litvinov, compì sforzi sostenuti, espliciti e ben documentati per costruire un sistema di sicurezza collettiva contro la Germania nazista. Non si trattava di gesti vaghi. Includevano proposte di trattati di mutua assistenza, coordinamento militare e garanzie esplicite per stati come la Cecoslovacchia. Carley dimostra che l’ingresso dell’Unione Sovietica nella Società delle Nazioni nel 1934 fu accompagnato da autentici tentativi russi di rendere operativa la deterrenza collettiva, non semplicemente di ricercare legittimità.
Tuttavia, questi sforzi si scontrarono con una gerarchia ideologica occidentale in cui l’anticomunismo prevaleva sull’antifascismo. A Londra e Parigi, le élite politiche temevano che un’alleanza con Mosca avrebbe legittimato il bolscevismo a livello nazionale e internazionale. Come documenta Carley, i politici britannici e francesi si preoccuparono ripetutamente meno delle minacce di Hitler che delle conseguenze politiche della cooperazione con l’URSS. L’Unione Sovietica non fu trattata come un partner necessario contro una minaccia comune, ma come un ostacolo la cui inclusione avrebbe “contaminato” la politica europea.
Questa gerarchia ebbe profonde conseguenze strategiche. La politica di pacificazione nei confronti della Germania non fu semplicemente una lettura errata di Hitler; fu il prodotto di una visione del mondo che considerava il revisionismo nazista come potenzialmente gestibile, mentre considerava il potere sovietico come intrinsecamente sovversivo. Il rifiuto della Polonia di concedere alle truppe sovietiche il diritto di transito per difendere la Cecoslovacchia – mantenuto con il tacito sostegno occidentale – è emblematico. Gli stati europei preferivano il rischio di un’aggressione tedesca alla certezza del coinvolgimento sovietico, anche quando quest’ultimo era esplicitamente difensivo.
Il culmine di questo fallimento arrivò nel 1939. I negoziati anglo-francesi con l’Unione Sovietica a Mosca non furono sabotati dalla doppiezza sovietica, contrariamente a quanto si dirà in seguito. Fallirono perché Gran Bretagna e Francia non erano disposte ad assumere impegni vincolanti o a riconoscere l’URSS come partner militare alla pari. La ricostruzione di Carley mostra che le delegazioni occidentali arrivarono a Mosca senza autorità negoziale, senza urgenza e senza il sostegno politico necessario per concludere una vera alleanza. Quando i sovietici posero ripetutamente la domanda essenziale di qualsiasi alleanza – Siete pronti ad agire? – la risposta, in pratica, fu no.
Il patto Molotov-Ribbentrop che ne seguì è stato da allora utilizzato come giustificazione retroattiva della sfiducia occidentale. Il lavoro di Carley ribalta questa logica. Il patto non fu la causa del fallimento dell’Europa; ne fu la conseguenza. Emerse dopo anni di rifiuto dell’Occidente a costruire una sicurezza collettiva con la Russia. Fu una decisione brutale, cinica e tragica, ma presa in un contesto in cui Gran Bretagna, Francia e Polonia avevano già rifiutato la pace con la Russia nell’unica forma che avrebbe potuto fermare Hitler.
Il risultato fu catastrofico. L’Europa pagò il prezzo non solo in termini di sangue e distruzione, ma anche con la perdita di capacità di azione. La guerra che l’Europa non riuscì a prevenire distrusse il suo potere, esaurì le sue società e ridusse il continente al principale campo di battaglia della rivalità tra superpotenze. Ancora una volta, rifiutare la pace con la Russia non produsse sicurezza; produsse una guerra ben peggiore in condizioni ben peggiori.
Ci si sarebbe aspettati che la portata di questo disastro avrebbe costretto l’Europa a riconsiderare l’approccio nei confronti della Russia dopo il 1945. Non fu così.
Da Potsdam alla Nato: l’architettura dell’esclusione
Gli anni dell’immediato dopoguerra furono caratterizzati da una rapida transizione dall’alleanza allo scontro. Ancor prima della resa della Germania, Churchill, in modo sconcertante, ordinò ai pianificatori bellici britannici di considerare un conflitto immediato con l’Unione Sovietica. L’”Operazione Impensabile”, redatta nel 1945, prevedeva l’impiego della potenza anglo-americana – e persino di unità tedesche riarmate – per imporre la volontà occidentale alla Russia nel 1945 o subito dopo. Sebbene il piano fosse ritenuto militarmente irrealistico e alla fine fosse accantonato, la sua stessa esistenza rivela quanto fosse radicata l’idea che la potenza russa fosse illegittima e dovesse essere limitata con la forza, se necessario.
Anche la diplomazia occidentale con l’Unione Sovietica fallì. L’Europa avrebbe dovuto riconoscere che l’Unione Sovietica aveva sopportato il peso della sconfitta di Hitler – subendo 27 milioni di perdite – e che le preoccupazioni della Russia per la sicurezza riguardo al riarmo tedesco erano totalmente realistiche. L’Europa avrebbe dovuto fare propria la lezione che una pace duratura implicava di prendere in considerazione esplicitamente le principali preoccupazioni della Russia per la sicurezza, soprattutto la prevenzione verso una Germania rimilitarizzata che avrebbe potuto nuovamente minacciare le pianure orientali dell’Europa.
In termini diplomatici formali, quella lezione fu inizialmente accettata. A Yalta e, più decisamente, a Potsdam nell’estate del 1945, gli Alleati vittoriosi raggiunsero un chiaro consenso sui principi fondamentali che governavano la Germania del dopoguerra: smilitarizzazione, denazificazione, democratizzazione, decartelizzazione e riparazioni. La Germania doveva essere trattata come un’unica unità economica; le sue forze armate dovevano essere smantellate; e il suo futuro orientamento politico doveva essere determinato senza riarmo o impegni di alleanza.
Per l’Unione Sovietica, questi principi non erano astratti; erano esistenziali. Per due volte nel giro di trent’anni, la Germania aveva invaso la Russia, infliggendo devastazioni senza pari nella storia europea. Le perdite sovietiche nella Seconda Guerra Mondiale fornirono a Mosca una prospettiva di sicurezza che non può essere compresa senza riconoscere quel trauma. La neutralità e la smilitarizzazione permanente della Germania non erano merce di scambio; erano le condizioni minime per un ordine postbellico stabile dal punto di vista sovietico.
Alla Conferenza di Potsdam del luglio 1945, queste preoccupazioni furono formalmente riconosciute. Gli Alleati concordarono che alla Germania non sarebbe stato permesso di ricostituire la propria potenza militare. Il testo della conferenza era esplicito: alla Germania doveva essere impedito di “minacciare per sempre i suoi vicini o la pace del mondo “. L’Unione Sovietica accettò la divisione temporanea della Germania in zone di occupazione proprio perché tale divisione era concepita come una necessità amministrativa, non come una soluzione geopolitica permanente.
Eppure, quasi immediatamente, le potenze occidentali iniziarono a reinterpretare – e poi silenziosamente smantellare – questi impegni. Il cambiamento avvenne perché le priorità strategiche di Stati Uniti e Gran Bretagna cambiarono. Come dimostra Melvyn Leffler in A Preponderance of Power (1992), rapidamente i pianificatori americani arrivarono a considerare la ripresa economica tedesca e l’allineamento politico con l’Occidente più importanti del mantenimento di una Germania smilitarizzata accettabile per Mosca. L’Unione Sovietica, un tempo alleata indispensabile, fu riconsiderata come un potenziale avversario la cui influenza in Europa doveva essere contenuta.
Questo riorientamento precedette eventuali crisi militari formali della Guerra Fredda. Molto prima del Blocco di Berlino, la politica occidentale iniziò a consolidare economicamente e politicamente le zone occidentali. La creazione della Bizona nel 1947, seguita dalla Trizona, contraddiceva direttamente il principio di Potsdam secondo cui la Germania sarebbe stata trattata come un’unica unità economica. L’introduzione di una moneta separata nelle zone occidentali nel 1948 non fu un adattamento tecnico; fu un atto politico decisivo che rese la divisione tedesca funzionalmente irreversibile. Dal punto di vista di Mosca, questi passi rappresentavano revisioni unilaterali dell’accordo postbellico.
La risposta sovietica – il blocco di Berlino – è stata spesso descritta come la prima salva di aggressione della Guerra Fredda. Eppure, nel contesto, appare più come uno sforzo coercitivo per forzare il ritorno a un governo a quattro potenze e impedire il consolidamento di uno stato tedesco-occidentale separato, piuttosto che il tentativo di impadronirsi di Berlino Ovest. Al di là dei giudizi di valore di quel blocco, la sua logica era radicata nel timore che l’Occidente stesse smantellando il quadro di Potsdam senza negoziati. Sebbene il ponte aereo risolvesse la crisi immediata, non affrontò la questione di fondo: l’abbandono di una Germania unificata e smilitarizzata.
La svolta decisiva arrivò con lo scoppio della guerra di Corea nel 1950. Il conflitto fu interpretato a Washington non come una guerra regionale con cause specifiche, ma come la prova di una monolitica offensiva comunista globale. Questa interpretazione riduzionista ebbe profonde conseguenze per l’Europa. Fornì la forte giustificazione politica per il riarmo della Germania Ovest, qualcosa che era stato esplicitamente escluso solo pochi anni prima. La logica era ora formulata in termini crudi: senza la partecipazione militare tedesca, l’Europa occidentale non poteva essere difesa.
Si trattò di uno spartiacque. La rimilitarizzazione della Germania Ovest non fu imposta dall’azione sovietica in Europa; fu una scelta strategica fatta dagli Stati Uniti e dai loro alleati in risposta al quadro globalizzato della Guerra Fredda che gli Usa avevano costruito. Gran Bretagna e Francia, nonostante le profonde inquietudini storiche riguardo alla potenza tedesca, acconsentirono alle pressioni americane. Quando la proposta Comunità Europea di Difesa – un mezzo per controllare il riarmo tedesco – crollò, la soluzione adottata fu ancora più decisiva: l’adesione della Germania Ovest alla Nato nel 1955.
Dal punto di vista sovietico, rappresentò il crollo definitivo dell’accordo di Potsdam. La Germania non era più neutrale. Non era più smilitarizzata. Era ora inserita in un’alleanza militare esplicitamente orientata contro l’Urss. Esattamente l’esito che i leader sovietici avevano cercato di impedire fin dal 1945, e che l’accordo di Potsdam mirava a impedire.
È essenziale sottolineare la sequenza, poiché spesso viene fraintesa o invertita. La divisione e la rimilitarizzazione della Germania non furono il risultato di azioni russe. Quando Stalin fece la sua offerta del 1952 di riunificazione tedesca basata sulla neutralità, le potenze occidentali avevano già avviato la Germania verso l’integrazione e il riarmo. La Nota di Stalin non fu un tentativo di far deragliare una Germania neutrale; fu un tentativo serio, documentato e infine respinto di invertire un processo già in corso.
Sotto questa luce, il primo accordo della Guerra Fredda non appare come una risposta inevitabile all’intransigenza sovietica, ma come un altro esempio in cui Europa e Stati Uniti scelsero di subordinare le preoccupazioni di sicurezza russe all’architettura dell’alleanza Nato. La neutralità della Germania non fu rifiutata perché impraticabile; fu rifiutata perché in conflitto con una visione strategica occidentale che dava priorità alla coesione di blocco e alla leadership statunitense rispetto a un ordine di sicurezza europeo inclusivo.
I costi di questa scelta furono immensi e duraturi. La divisione della Germania divenne la faglia centrale della Guerra Fredda. L’Europa fu militarizzata in modo permanente e le armi nucleari furono dispiegate in tutto il continente. La sicurezza europea fu esternalizzata a Washington, con tutta la dipendenza e la perdita di autonomia strategica che ciò comportava. Inoltre, la convinzione sovietica che l’Occidente avrebbe reinterpretato gli accordi quando fosse stato più opportuno si rafforzò ancora una volta.
Questo contesto è indispensabile per comprendere la Nota di Stalin del 1952. Non fu un “fulmine a ciel sereno”, né una manovra cinica e slegata dalla storia precedente. Fu una risposta urgente a un accordo postbellico già infranto: un altro tentativo, come tanti altri prima e dopo, di garantire la pace attraverso la neutralità, solo per vedere quell’offerta respinta dall’Occidente.
1952: Il rifiuto della riunificazione tedesca
Vale la pena esaminare la Nota di Stalin più in dettaglio. L’appello di Stalin a una Germania riunificata e neutrale non era né ambiguo, né incerto, né insincero. Come ha dimostrato in modo conclusivo Rolf Steininger in The German Question: The Stalin Note of 1952 and the Problem of Reunification (1990), Stalin propose la riunificazione tedesca a condizioni di neutralità permanente, libere elezioni, ritiro delle forze di occupazione e un trattato di pace garantito dalle grandi potenze. Non si trattava di un gesto propagandistico; era un’offerta strategica radicata in un autentico timore sovietico del riarmo tedesco e dell’espansione della Nato.
La ricerca d’archivio di Steininger è devastante per la narrativa occidentale. Particolarmente decisivo è il memorandum segreto del 1955 di Sir Ivone Kirkpatrick, in cui riporta l’ammissione dell’ambasciatore tedesco secondo cui il Cancelliere Adenauer sapeva che la Nota di Stalin era autentica. Adenauer la respinse comunque. Temeva non la malafede sovietica, ma la democrazia tedesca. Temeva che un futuro governo tedesco potesse scegliere la neutralità e la riconciliazione con Mosca, minando l’integrazione della Germania Ovest nel blocco occidentale.
In sostanza, la pace e la riunificazione furono respinte dall’Occidente non perché fossero impossibili, ma perché politicamente scomode per il sistema di alleanze occidentale. Poiché la neutralità minacciava l’architettura emergente della Nato, dovette essere liquidata come una “trappola”.
Le élite europee non furono semplicemente costrette ad allinearsi all’Atlantico; lo abbracciarono attivamente. Il rifiuto della neutralità tedesca da parte del cancelliere Adenauer non fu un atto isolato di deferenza verso Washington, ma rifletteva un consenso più ampio tra le élite dell’Europa occidentale che preferivano la tutela americana all’autonomia strategica e a un’Europa unificata. La neutralità minacciava non solo l’architettura della Nato, ma anche l’ordine politico del dopoguerra in cui queste élite traevano sicurezza, legittimità e ricostruzione economica dalla leadership statunitense. Una Germania neutrale avrebbe imposto agli stati europei di negoziare direttamente con Mosca da pari a pari, piuttosto che operare all’interno di un quadro a guida statunitense che li isolasse da tale impegno. In questo senso, il rifiuto della neutralità da parte dell’Europa fu anche un rifiuto di responsabilità: l’atlantismo offriva sicurezza senza gli oneri della coesistenza diplomatica con la Russia, anche a prezzo della divisione permanente e della militarizzazione del continente da parte dell’Europa.
Nel marzo del 1954, l’Unione Sovietica presentò domanda di adesione alla Nato, sostenendo che sarebbe così diventata un’istituzione per la sicurezza collettiva europea. Gli Stati Uniti e i loro alleati respinsero immediatamente la richiesta, sostenendo che avrebbe indebolito l’alleanza e impedito l’adesione della Germania alla Nato. Gli Stati Uniti e i loro alleati, inclusa la Germania Ovest, respinsero ancora una volta l’idea di una Germania neutrale e smilitarizzata e di un sistema di sicurezza europeo basato sulla sicurezza collettiva piuttosto che su blocchi militari.
Il Trattato di Stato austriaco del 1955 smascherò ulteriormente il cinismo di questa logica. L’Austria accettò la neutralità, le truppe sovietiche si ritirarono e il Paese divenne stabile e prospero. Le previste “tessere del domino” geopolitico non caddero. Il modello austriaco dimostra che quanto realizzato lì avrebbe potuto essere realizzato in Germania, ponendo potenzialmente fine alla Guerra Fredda decenni prima. La distinzione tra Austria e Germania non risiedeva nella fattibilità, ma nella preferenza strategica. L’Europa accettò la neutralità in Austria, dove non minacciava l’ordine egemonico guidato dagli Stati Uniti, ma la rifiutò in Germania, dove invece lo fece.
Le conseguenze di queste decisioni furono immense e durature. La Germania rimase divisa per quasi quattro decenni. Il continente fu militarizzato lungo una faglia collocata al suo centro e armi nucleari furono dispiegate su tutto il suolo europeo. La sicurezza europea divenne dipendente dalla potenza americana e dalle sue priorità strategiche, rendendo il continente, ancora una volta, l’arena principale del confronto tra grandi potenze.
Nel 1955, il modello era ormai consolidato. L’Europa avrebbe accettato la pace con la Russia solo se questa si fosse allineata in modo coerente con l’architettura strategica occidentale guidata dagli Stati Uniti. Quando la pace richiedeva un autentico rispetto degli interessi di sicurezza russi – neutralità tedesca, non allineamento, smilitarizzazione o garanzie condivise – veniva sistematicamente respinta. Le conseguenze di questo rifiuto si sarebbero manifestate nei decenni successivi.
Il rifiuto trentennale delle preoccupazioni russe sulla sicurezza
Se mai ci fu un momento in cui l’Europa avrebbe potuto rompere definitivamente con la sua lunga tradizione di rifiuto della pace con la Russia, fu la fine della Guerra Fredda. A differenza del 1815, del 1919 o del 1945, questo non fu un momento imposto solo dalla sconfitta militare; fu un momento plasmato da una scelta. L’Unione Sovietica non crollò sotto una selva di fuoco d’artiglieria; si ritirò e si disarmò unilateralmente. Sotto Mikhail Gorbaciov, l’Unione Sovietica rinunciò alla forza come principio organizzativo dell’ordine europeo. Sia l’Unione Sovietica che, successivamente, la Russia sotto Boris Eltsin accettarono la perdita del controllo militare sull’Europa centrale e orientale e proposero un nuovo quadro di sicurezza basato sull’inclusione piuttosto che su blocchi concorrenti. Ciò che seguì non fu un fallimento dell’immaginazione russa, ma un fallimento dell’Europa e del sistema atlantico guidato dagli Stati Uniti nel prendere sul serio quell’offerta.
Il concetto di “Casa Comune Europea” di Mikhail Gorbaciov non era un mero sfoggio retorico. Era una dottrina strategica fondata sul riconoscimento che le armi nucleari avevano reso suicida la tradizionale politica di equilibrio di potere. Gorbaciov immaginava un’Europa in cui la sicurezza fosse indivisibile, in cui nessuno Stato rafforzasse la propria sicurezza a scapito di un altro e in cui le strutture di alleanza della Guerra Fredda avrebbero gradualmente ceduto il passo a un quadro paneuropeo. Il suo discorso del 1989 al Consiglio d’Europa a Strasburgo rese esplicita questa visione, sottolineando la cooperazione, le garanzie di sicurezza reciproca e l’abbandono della forza come strumento politico. La Carta di Parigi per una Nuova Europa, firmata nel novembre 1990, codificò questi principi, impegnando l’Europa a favore della democrazia, dei diritti umani e di una nuova era di sicurezza cooperativa.
A questo punto, l’Europa si trovò di fronte a una scelta fondamentale. Avrebbe potuto prendere sul serio questi impegni e costruire un’architettura di sicurezza incentrata sull’Osce, in cui la Russia fosse un partecipante paritario, un garante della pace piuttosto che un oggetto di contenimento. In alternativa, avrebbe potuto preservare la gerarchia istituzionale della Guerra Fredda, abbracciando retoricamente gli ideali del dopoguerra. L’Europa scelse la seconda opzione.
La Nato non si è sciolta, non si è trasformata in un forum politico, né si è subordinata a un’istituzione di sicurezza paneuropea. Al contrario, si è espansa. La logica offerta pubblicamente era difensiva: l’allargamento della Nato avrebbe stabilizzato l’Europa orientale, consolidato la democrazia e impedito un vuoto di sicurezza. Tuttavia, questa spiegazione ignorava un fatto cruciale che la Russia aveva ripetutamente spiegato e che i politici occidentali avevano riconosciuto privatamente: l’espansione della Nato coinvolgeva direttamente le principali preoccupazioni di sicurezza della Russia, non in senso astratto, ma geograficamente, storicamente e psicologicamente.
La controversia sulle assicurazioni fornite da Stati Uniti e Germania durante i negoziati per la riunificazione tedesca illustra la questione più profonda. I leader occidentali in seguito insistettero sul fatto che non erano state fatte promesse giuridicamente vincolanti riguardo all’espansione della Nato, poiché nessun accordo era stato codificato per iscritto. Tuttavia, la diplomazia opera non solo attraverso trattati firmati, ma anche attraverso aspettative, intese e buona fede. Documenti declassificati e resoconti dell’epoca confermano che ai leader sovietici fu ripetutamente detto che la Nato non si sarebbe spostata a est oltre la Germania. Queste assicurazioni plasmarono l’acquiescenza sovietica alla riunificazione tedesca, una concessione di immensa importanza strategica. Quando la Nato si espanse comunque, inizialmente su richiesta degli Stati Uniti, la Russia lo visse non come un adattamento tecnico-giuridico, ma come un profondo tradimento dell’accordo che aveva facilitato la riunificazione tedesca.
Nel corso del tempo, i governi europei hanno sempre più interiorizzato l’espansione della Nato come un progetto europeo, non solo americano. La riunificazione tedesca all’interno della Nato è diventata il modello piuttosto che l’eccezione. L’allargamento dell’Ue e l’allargamento della Nato hanno proceduto di pari passo, rafforzandosi a vicenda e soppiantando accordi di sicurezza alternativi come la neutralità o il non allineamento. Persino la Germania, con la sua tradizione di Ostpolitik e i crescenti legami economici con la Russia, ha progressivamente subordinato le sue politiche favorevoli all’accomodamento alla logica dell’alleanza. I leader europei hanno inquadrato l’espansione come un imperativo morale piuttosto che come una scelta strategica, isolandola così dal controllo e rendendo illegittime le obiezioni russe. Così facendo, l’Europa ha rinunciato a gran parte della sua capacità di agire come attore di sicurezza indipendente, legando il suo destino sempre più strettamente a una strategia atlantica che privilegiava l’espansione rispetto alla stabilità.
È qui che il fallimento dell’Europa diventa più evidente. Invece di riconoscere che l’espansione della Nato contraddiceva la logica della sicurezza indivisibile articolata nella Carta di Parigi, i leader europei hanno trattato le obiezioni russe come illegittime, come residui di nostalgia imperiale piuttosto che come espressioni di una reale ansia per la sicurezza. La Russia è stata invitata a consultare, ma non a decidere. L’Atto Fondativo Nato-Russia del 1997 ha istituzionalizzato questa asimmetria: dialogo senza veto russo, partenariato senza parità russa. L’architettura della sicurezza europea si stava costruendo attorno alla Russia, e nonostante la Russia, non con la Russia.
L’avvertimento di George Kennan del 1997, secondo cui l’espansione della Nato sarebbe stata un “errore fatale”, colse il rischio strategico con notevole chiarezza. Kennan non sosteneva che la Russia fosse virtuosa; sosteneva che umiliare ed emarginare una grande potenza in un momento di debolezza avrebbe prodotto risentimento, revanscismo e militarizzazione. Il suo avvertimento fu liquidato come realismo obsoleto, eppure la storia successiva ha confermato la sua logica quasi punto per punto.
Il fondamento ideologico di questo rifiuto si può trovare esplicitamente negli scritti di Zbigniew Brzezinski. Ne La grande scacchiera (1997) e nel suo saggio su Foreign Affairs, Una geostrategia per l’Eurasia (1997), Brzezinski ha articolato una visione del primato americano fondata sul controllo dell’Eurasia. Sosteneva che l’Eurasia fosse il “supercontinente assiale” e che il dominio globale degli Stati Uniti dipendesse dalla capacità di impedire l’emergere di qualsiasi potenza in grado di dominarla. In questo contesto, l’Ucraina non era semplicemente uno Stato sovrano con una propria traiettoria; era un perno geopolitico. “Senza l’Ucraina”, scrisse Brzezinski, “la Russia cessa di essere un impero”.
Non si trattava di un’osservazione accademica; si trattava di una dichiarazione programmatica della grande strategia imperiale statunitense. In una simile visione del mondo, le preoccupazioni della Russia in materia di sicurezza non sono interessi legittimi da soddisfare in nome della pace; sono ostacoli da superare in nome del primato statunitense. L’Europa, profondamente radicata nel sistema atlantico e dipendente dalle garanzie di sicurezza statunitensi, ha interiorizzato questa logica, spesso senza riconoscerne a pieno le implicazioni. Il risultato è stata una politica di sicurezza europea che ha costantemente privilegiato l’espansione dell’alleanza rispetto alla stabilità e il messaggio morale rispetto a una soluzione duratura.
Le conseguenze sono diventate evidenti nel 2008. Al vertice Nato di Bucarest, l’alleanza ha dichiarato che Ucraina e Georgia “diventeranno membri della Nato”. Questa dichiarazione non era accompagnata da una tempistica chiara, ma il suo significato politico era inequivocabile. Superava quella che i funzionari russi di ogni schieramento politico avevano a lungo definito una linea rossa. Che questo fosse stato compreso in anticipo è fuori discussione. William Burns, allora ambasciatore statunitense a Mosca, riferì in un cablogramma intitolato “NYET SIGNIFICA NYET” che l’adesione dell’Ucraina alla Nato era percepita in Russia come una minaccia esistenziale, che univa liberali, nazionalisti e intransigenti. L’avvertimento era esplicito. Fu ignorato.
Dal punto di vista russo, lo schema era ormai inequivocabile. Europa e Stati Uniti invocavano il linguaggio delle regole e della sovranità quando faceva loro comodo, ma liquidavano come illegittime le principali preoccupazioni della Russia in materia di sicurezza. La lezione che la Russia trasse fu la stessa che aveva tratto dopo la guerra di Crimea, dopo gli interventi alleati, dopo il fallimento della sicurezza collettiva e dopo il rifiuto della Nota di Stalin: la pace sarebbe stata offerta solo a condizioni che preservassero il predominio strategico occidentale.
La crisi scoppiata in Ucraina nel 2014 non è stata quindi un’aberrazione, bensì un culmine. La rivolta di Maidan, il crollo del governo di Yanukovich, l’annessione della Crimea da parte della Russia e la guerra nel Donbass si sono svolti all’interno di un’architettura di sicurezza già tesa al punto di rottura. Gli Stati Uniti hanno attivamente incoraggiato il colpo di stato che ha rovesciato Yanukovich, tramando persino dietro le quinte sulla composizione del nuovo governo. Quando la regione del Donbass si è opposta al colpo di stato di Maidan, l’Europa ha risposto con sanzioni e condanne diplomatiche, inquadrando il conflitto come una mera commedia morale. Eppure, anche a questo punto, una soluzione negoziata era possibile. Gli accordi di Minsk, in particolare Minsk II del 2015, hanno fornito un quadro per la de-escalation del conflitto, l’autonomia del Donbass e la reintegrazione di Ucraina e Russia in un ordine economico europeo allargato.
Minsk II ha rappresentato un riconoscimento, seppur riluttante, del fatto che la pace richiedeva compromessi e che la stabilità dell’Ucraina dipendeva dalla risoluzione sia delle divisioni interne che delle preoccupazioni per la sicurezza esterna. Ciò che alla fine ha distrutto Minsk II è stata la resistenza occidentale. Quando in seguito i leader occidentali hanno suggerito che Minsk II fosse servito principalmente a “guadagnare tempo” affinché l’Ucraina si rafforzasse militarmente, il danno strategico è stato grave. Dal punto di vista di Mosca, ciò ha confermato il sospetto che la diplomazia occidentale fosse cinica e strumentale piuttosto che sincera, che gli accordi non fossero pensati per essere attuati, ma solo per gestire l’immagine.
Entro il 2021, l’architettura di sicurezza europea è diventata insostenibile. La Russia ha presentato bozze di proposte che prevedevano negoziati sull’espansione della Nato, sul dispiegamento di missili e sulle esercitazioni militari, proprio le questioni su cui aveva messo in guardia per decenni. Queste proposte sono state respinte senza mezzi termini dagli Stati Uniti e dalla Nato la cui espansione è stata dichiarata non negoziabile. Ancora una volta, Europa e Stati Uniti si sono rifiutate di affrontare le principali preoccupazioni della Russia in materia di sicurezza come legittimi argomenti di negoziazione. Ne è seguita la guerra.
Quando le forze russe sono entrate in Ucraina nel febbraio 2022, l’Europa ha descritto l’invasione come “non provocata”. Sebbene questa assurda descrizione possa servire a una narrazione propagandistica, oscura completamente la storia. L’azione russa non è certo emersa dal nulla. È emersa da un ordine di sicurezza che si era sistematicamente rifiutato di integrare le sue preoccupazioni e da un processo diplomatico che aveva escluso i negoziati proprio sulle questioni che più contavano per la Russia.
Anche allora, la pace non era impossibile. Nel marzo e nell’aprile 2022, Russia e Ucraina hanno avviato negoziati a Istanbul che hanno prodotto una bozza dettagliata. L’Ucraina ha proposto una neutralità permanente con garanzie di sicurezza internazionale; la Russia ha accettato il principio. Il quadro normativo affrontava limitazioni di forza, garanzie e un processo più lungo per le questioni territoriali. Non si trattava di documenti di fantasia. Erano bozze serie che riflettevano la realtà del campo di battaglia e i vincoli strutturali della geografia.
Eppure, i colloqui di Istanbul sono falliti quando Stati Uniti e Regno Unito sono intervenute per intimare all’Ucraina di non firmare. Come ha spiegato in seguito Boris Johnson, era in gioco nientemeno che l’egemonia occidentale. Il fallimento del Processo di Istanbul dimostra concretamente che la pace in Ucraina era possibile subito dopo l’inizio dell’operazione militare speciale russa. L’accordo è stato redatto e quasi completato, per poi essere abbandonato su richiesta di Stati Uniti e Regno Unito.
Nel 2025, la cupa ironia è divenuta chiara. Lo stesso quadro di Istanbul è riemerso come punto di riferimento nei rinnovati sforzi diplomatici. Dopo un immenso spargimento di sangue, la diplomazia è tornata a un compromesso plausibile. Questo è uno schema familiare nelle guerre plasmate da dilemmi di sicurezza: i primi accordi, respinti come prematuri, ricompaiono in seguito come tragiche necessità. Eppure, ancora oggi, l’Europa si oppone a una pace negoziata.
Per l’Europa, i costi di questo lungo rifiuto a prendere sul serio le preoccupazioni della Russia in materia di sicurezza sono ora inevitabili ed enormi. L’Europa ha subito gravi perdite economiche a causa dell’interruzione energetica e delle pressioni della deindustrializzazione. Si è impegnata in un riarmo a lungo termine con profonde conseguenze fiscali, sociali e politiche. La coesione politica all’interno delle società europee è gravemente compromessa dalla pressione dell’inflazione, delle pressioni migratorie, della stanchezza dovuta alla guerra e dalle divergenze di opinioni tra i governi europei. L’autonomia strategica dell’Europa è diminuita, poiché l’Europa è tornata a essere il teatro principale del confronto tra grandi potenze piuttosto che un polo indipendente.
Forse la cosa più pericolosa è che il rischio nucleare è tornato al centro dei calcoli di sicurezza europea. Per la prima volta dalla Guerra Fredda, i cittadini europei vivono di nuovo all’ombra di una potenziale escalation tra potenze nucleari. Questo non è solo il risultato di un fallimento morale. È il risultato del rifiuto strutturale dell’Occidente, che risale ai tempi di Pogodin, di riconoscere che la pace in Europa non può essere costruita negando le preoccupazioni della Russia in materia di sicurezza. La pace può essere costruita solo negoziandole.
La tragedia del rifiuto europeo delle preoccupazioni russe in materia di sicurezza è che si autoalimenta. Quando le preoccupazioni russe in materia di sicurezza vengono liquidate come illegittime, i leader russi hanno meno incentivi a perseguire la diplomazia e maggiori incentivi a cambiare la situazione sul campo. I politici europei interpretano quindi queste azioni come una conferma dei loro sospetti iniziali, piuttosto che come l’esito del tutto prevedibile di un dilemma di sicurezza da loro stessi creato e poi negato. Col tempo, questa dinamica restringe lo spazio diplomatico fino a quando la guerra appare a molti non come una scelta, ma come un’inevitabilità. Eppure l’inevitabilità è creata ad arte. Non nasce da un’ostilità immutabile, ma dal persistente rifiuto europeo di riconoscere che una pace duratura richiede di riconoscere come reali i timori dell’altra parte, anche quando tali timori sono sconvenienti.
La tragedia è che l’Europa ha ripetutamente pagato a caro prezzo questo rifiuto. Ha pagato con la guerra di Crimea e le sue conseguenze, con le catastrofi della prima metà del XX secolo e con decenni di divisione durante la Guerra Fredda. E sta pagando di nuovo ora. La russofobia non ha reso l’Europa più sicura. L’ha resa più povera, più divisa, più militarizzata e più dipendente dal potere esterno.
L’ironia ulteriore è che, sebbene questa russofobia strutturale non abbia indebolito la Russia nel lungo periodo, ha ripetutamente indebolito l’Europa. Rifiutandosi di trattare la Russia come un normale attore di sicurezza, l’Europa ha contribuito a generare proprio l’instabilità che teme, sostenendo al contempo costi crescenti in termini di sangue, risorse, autonomia e coesione. Ogni ciclo si conclude allo stesso modo: un riconoscimento tardivo che la pace richiede negoziati dopo che immensi danni sono già stati fatti. La lezione che l’Europa deve ancora assimilare è che riconoscere le preoccupazioni della Russia in materia di sicurezza non è una concessione al potere, ma un prerequisito per impedirne gli usi distruttivi.
La lezione, scritta col sangue in due secoli, non è che la Russia o qualsiasi altro Paese debba essere considerato affidabile sotto ogni aspetto. È che la Russia e i suoi interessi di sicurezza devono essere presi sul serio. L’Europa ha ripetutamente rifiutato la pace con la Russia, non perché non fosse disponibile, ma perché il riconoscimento delle preoccupazioni della Russia in materia di sicurezza è stato erroneamente considerato illegittimo. Finché l’Europa non abbandonerà questo riflesso, rimarrà intrappolata in un ciclo di confronto autolesionista, rifiutando la pace quando è possibile e pagandone i costi molto tempo dopo.
In Europa, dopo ottant’anni di pace, il suo spettro si riaffaccia con prepotenza. Ma come ripensare il continente senza cedere al bellicismo? Munendo i nostri discorsi di quell’arma indispensabile che è l’amore per gli esseri umani

(di Michele Serra – repubblica.it) – Non c’è cittadino europeo di buon senso che non capisca la necessità di ripensare daccapo la difesa del continente, su basi federali e non più nazionaliste. Esercito, intelligence, armamenti, logistica, cultura (soprattutto cultura: ovvero essere in grado di chiedersi perché si portano le armi, e di continuare a chiederselo ogni giorno). Con l’ovvia cura di stabilire, secondo i principi dell’Unione – che è post-nazionalista e post-imperialista per nascita – lo scopo rigorosamente, strettamente difensivo delle sue forze armate.
Ci si arma (sì, ci si arma) per essere pronti al peggio e possibilmente per evitarlo. Certo non per provocarlo o innescarlo: come capita di pensare udendo e leggendo le parole di guerra che ultimamente sbocciano ovunque con una leggerezza feroce. Si è tornati a parlare della guerra non solo come una ordinaria circostanza della storia, ma come una prova del fuoco alla quale possono sottrarsi solo il pusillanime e l’imboscato; e di conseguenza si è tornati a parlare della pace come di una imbelle patologia del benessere.
Si leggono costernati rimproveri ai giovani europei, che in larga parte, alla domanda se morirebbero per la Patria, rispondono, come Bartleby, “preferirei di no”. Aspettarsi un “preferirei di sì”, dopo ottant’anni di pace, corrisponde ad aspettarsi un “preferisco la fame” dopo ottant’anni di piatti pieni. Se quel poco o quel tanto di decente e di utile che noi europei adulti abbiamo portato in dote alle nuove generazioni, insieme a un relativo benessere e molte tangibili libertà, sono gli ottant’anni di pace, per la prima volta nella storia d’Europa, come può meravigliarci che la guerra sia considerata da figli e nipoti una caduta nell’abisso inconcepibile, e un tradimento delle premesse nelle quali sono nati?
C’è poi la cordiale competenza degli strateghi e degli esperti, che nei talk show disegnano gli scenari di guerra come il geometra la sua villetta. E infine c’è il rassegnato fatalismo di chi, non bellicoso, valuta però che la guerra sia inevitabile perché la natura umana è aggressiva e sopraffattrice. E soprattutto: è immutabile, come se i millenni di civilizzazione non fossero un percorso accidentato ma effettivo; solo un falso movimento, un inganno auto consolatorio.
Diceva Kurt Vonnegut che la guerra accade quando “vecchi porci mandano a morire i ragazzi”. Se la sintesi vi sembra brutale, ecco, sullo stesso identico tema, lo svolgimento di papa Leone XIV nella sua omelia di Natale: “Fragili sono le vite dei giovani costretti alle armi, che proprio al fronte avvertono l’insensatezza di ciò che è loro richiesto e la menzogna di cui sono intrisi i roboanti discorsi di chi li manda a morire”.
Si è liberi di attribuire questo ripudio della guerra al rigore evangelico (papa Leone) o al pacifismo beatnik (Vonnegut), insomma a visioni “ottimistiche” degli esseri umani e del loro percorso. Ma non si è liberi di parlare di guerra omettendo di dirne ogni volta, fino allo sfinimento, la struttura materiale, ben visibile e immutabile (se non peggiorata) dalla protostoria ai nostri giorni: pochi maschi di potere, quasi sempre anziani e quasi sempre per ragioni di prevaricazione economica, mandano a morire moltitudini di maschi giovani, esponendo le città alla distruzione, le donne al silenzio e alla rassegnazione, quando non allo stupro, la natura e gli animali allo scempio.
Di questo “scontro frontale di una virilità guerriera” che travolge nel suo farsi non solamente il presente, ma cancella ogni altra ipotesi differente di convivenza e perfino di conflitto, ha molto scritto Lea Melandri, e alla cultura femminista non sono certo serviti giri di parole o forzature ideologiche per inquadrare l’evidenza: la guerra è una pratica arcaica ed è una pratica maschile.
Doppia circostanza che fa riflettere, inevitabilmente, sulla giustapposizione dei due concetti, arcaico e maschile, e giustifica e sollecita ogni possibile ragionamento su come e quanto muterebbero, le sorti dell’umanità, alla luce di una più forte presenza e influenza della cultura femminile nella società, nei luoghi di pensiero e nelle stanze del potere. Non è solo per un fortuito caso statistico che, a livello politico, i tre discorsi più recenti di leader europei che invitano a prepararsi alla guerra sono di tre maschi di potere, i capi di Stato Maggiore di Regno Unito e Francia e il segretario della Nato, l’olandese Mark Rutte. Non possiamo che fare nostre le desolate domande che si è fatto Gianni Cuperlo: “quando e come si è prodotto uno strappo così profondo anche nel linguaggio e nella possibilità di pronunciare frasi che soltanto una manciata di anni fa non avrebbero avuto cittadinanza alcuna nello spazio condiviso del discorso pubblico?… Quando e perché una parte della classe dirigente europea ha rimosso la consapevolezza di cosa siano guerre e conflitti?”.
Anche Cuperlo, come chi scrive, è oramai un maschio anziano. Leggere le sue parole mi ha confortato perché siamo prima di tutto noi maschi anziani, quando parliamo e scriviamo di guerra, ad avere il dovere di riconoscere in quella parola una diretta, irrefutabile responsabilità di genere; e anche una responsabilità anagrafica. Perché – detto bruscamente – non saremmo noi a rischiare la pelle in trincea, ma i maschi giovani, e questo affido ad altri della morte “eroica”, più semplicemente della morte ordinaria e ripugnante nel fango di una trincea, dovrebbe suggerirci il massimo della cautela, della delicatezza, della compassione per noi stessi e per gli altri.
Sapere di che cosa stiamo parlando, quando parliamo di guerra, è della massima importanza (nel senso che non riesco a vedere, in questo passaggio della nostra storia, argomenti altrettanto importanti). Dunque muniamo i nostri discorsi, per favore, di quell’arma indispensabile che è l’amore per gli esseri umani, per i bambini, le città, le scuole, i teatri, i negozi, i campi, gli alberi e gli animali. Senza temere che qualcuno faccia osservare che è la solita melassa. In quella melassa la vita vive, la vita è la regola, non il sospiro dello scampato.
Le corporazioni gas-petrolifere potrebbero dare la svolta sacrificando solo il 5% dei profitti

(Mario Tozzi – lastampa.it) – È difficile immaginare una marcia indietro più decisa di quella innestata dai governi mondiali, europei in particolare (perché erano quelli che avevano giustamente accelerato di più) nel 2025. Quest’anno non ci sono regali sotto l’albero per la Terra e, di conseguenza, neanche per i sapiens, tanto per rispedire subito al mittente l’obiezione che il pianeta non si accorge nemmeno di quanto combinano gli uomini: è vero, ma se non preservi gli equilibri e gli ecosistemi del mondo, i primi a soffrirne saremo noi. E, inoltre, le attività produttive dei sapiens l’atmosfera la modificano eccome: per la prima volta nella storia dei viventi una sola specie minaccia tutte le altre e intacca le geosfere.
Partiamo dall’agricoltura: la Commissione Europea propone di estendere illimitatamente le autorizzazioni per immettere sul mercato tutti i pesticidi, i biocidi e gli additivi che aumentano la resa, ma ammalano persone e ambiente. Il settore più sovvenzionato di tutti non riesce proprio a riconvertirsi e addossa la colpa al Green Deal, dimenticando che non solo non è mai partito, ma ora viene pure bloccato. E dimenticando che, se i loro affari vanno male, è a causa di mezzo secolo di Brown Deal e di migliaia di errori di prospettiva. In questo campo, però, possiamo sempre imparare dagli Usa, dove colorano di blu i mirtilli con gli idrocarburi, irrorano il riso con l’arsenico, spruzzano le mele con la difenilammina e immergono i polli nel cloro prima di smerciarli. Non c’è fine nella corsa al ribasso.
E poi le foreste: perché vogliamo proteggerle così in fretta? Secondo il Wwf, il regolamento contro la deforestazione in Europa (Eudr) è stato artatamente ritardato, così verranno abbattuti almeno 50 milioni di alberi in più, liberando 17 milioni di tonnellate di gas serra in aggiunta nell’atmosfera. Non male, anche se nel Sudest asiatico, in Borneo e in parte del Sudamerica stanno cercando di fare ancora peggio. Ed è anche vero che in Italia abbiamo riforestato negli ultimi decenni, ma spesso pinete o boschi non di pregio, che non risaneranno mai la perdita delle nostre foreste primarie alpine e delle faggete vetuste dell’Appennino.
Se poi vogliamo considerare qualche nostro compagno di viaggio, le cose non vanno meglio. Uno su tutti, il lupo, simbolo della nostra incapacità di convivere con l’ambiente naturale, cui l’Europa ha ridotto il livello di protezione declassandolo. Ad agosto, in Italia, è stato abbattuto legalmente il primo lupo a oltre 50 anni dalla sua tutela (in Italia il Wwf di Fulco Pratesi), andando incontro a odii atavici di cittadini ignoranti che vedono nel lupo ogni sorta di male, dimenticando che si tratta di una specie cruciale per il mantenimento degli equilibri ecosistemici che, alla fine, tornano utili prima di tutto a noi. Magari si potrebbe pensare che così i nostri allevatori tuteleranno meglio il loro bestiame. Peccato che solo meno dello 0,1% (ripeto: zero virgola uno per cento) degli animali da allevamento europei viene predato dal lupo e che non si riscontrano attacchi di lupi ai sapiens, visto che noi non rientriamo nel target delle sue prede e che, per fortuna sua, il lupo fugge appena ci vede.
Sul clima le cose vanno meglio che negli Usa, che si sottraggono agli impegni internazionali e trivellano come se non ci fosse un domani, ma non è che vadano bene. Rinvii, ritardi, obiettivi sempre meno ambiziosi: cosa non si farebbe pur di compiacere le corporation gaspetrocarboniere, i negazionisti d’accatto e le nuove geometrie sovraniste al potere. Dal punto di vista climatico l’avvento dei populisti trumpiani anche in Europa è una jattura micidiale: ci si cura solamente di accumulare il più possibile prima che la barca affondi, senza pensare che quella barca è la stessa per tutti. La testimonianza plastica della retromarcia innestata è la manomissione del phase-out europeo del 2035 per la vendita dei motori endotermici, che vede ridotto l’obiettivo di abbattimento delle emissioni di CO₂ dal 100% al 90% e l’apertura alla follia del biometano per il trasporto su strada. E nella stessa inversione di marcia va la possibile cancellazione del programma Life, unico strumento autonomo per la biodiversità e il clima.
Se si fa eccezione per lo straordinario incremento delle energie rinnovabili in Cina e per l’intervento del Brasile a favore delle sue foreste, non si vede l’ombra di un Green Deal in nessuna parte del pianeta (e dobbiamo anche ricordare il record di centrali a carbone cinese o quelli dell’allevamento brasiliani): è ufficiale, il mondo non crede più alla rivoluzione verde. La scusa formale è che la sostenibilità ambientale non collimerebbe con quella economica e sociale, che non si capisce benissimo cosa mai possa voler dire. Tutto dipende da chi paga, e siccome nessun ambientalista di buon senso vuole addossare i costi della crisi al pensionato con la Panda euro 1, i responsabili li conosciamo bene: sono proprio le Oil & Gas Corporation che potrebbero mutare in meglio i destini dei sapiens semplicemente riducendo, e non di tanto (si calcola meno del 5%), i propri profitti, magari re-investendoli in rinnovabili.
La riconversione ecologica è una necessità non eludibile e meno ancora negoziabile, perché sull’altro piatto della bilancia ci sono vittime, danni economici (tutt’altro che irrilevanti, nonostante la mancata comprensione della letteratura scientifica da parte di alcuni giornalisti ideologizzati e ignoranti in materia) e un futuro che si prospetta pesante per chi ci ha prestato il pianeta. Aver perso un altro anno per passare dalla constatazione della crisi alle contromisure può far contento solo chi su quella crisi continua a guadagnare o su chi teme che le regole odorino di comunismo e soffochino il libero mercato: tranquilli, intanto soffochiamo solo noi.

(di Michele Serra – repubblica.it) – È possibile che abbiano ragione i seguaci di Bolsonaro nell’accusare di «propaganda politica» la pubblicità delle ciabatte infradito Havaianas, che invita a «non iniziare il 2026 con il piede destro», ma con entrambi i piedi. Anche il meno malizioso dei passanti può pensare che ci sia un riferimento abbastanza esplicito alle imminenti elezioni politiche.
Ciò detto, vista l’invadenza dei prodotti, delle merci, dei marchi nelle nostre vite, perché negare a un paio di ciabatte (o quant’altro) i diritti politici? Solo loro devono rimanere in eterno nel limbo inespressivo dell’unanimismo? Solo loro devono essere costrette a essere “di tutti”, senza mai contrariare nessuno? Elette a feticcio, a totem, in cambio di tanta grazia le merci devono tacere in eterno, mute, neutrali, complici di chiunque, buone per i piedi di chiunque, del migliore benefattore come del peggiore assassino?
In considerazione del loro predominio assoluto sulle nostre vite, le merci hanno il pieno diritto, ma anche il dovere, di avere finalmente una identità pubblica, e delle opinioni. Quando ero giovane e lavoravo con Grillo (il Grillo giovane…) mi ripeteva sempre: puoi dire tutto il peggio di Andreotti, ma se parli male di Coccolino ti denunciano.
Questo accadeva perché Coccolino, come tutte le merci, era sacro. Per dissacrarsi, bisogna che le merci, finalmente, scendano in mezzo a noi, e corrano i nostri stessi rischi. Si espongano. Dicano come la pensano. Se necessario sbaglino, come capita a noi. I rischi commerciali, tra l’altro, sono relativi: Havaianas ha perso in Borsa dopo la minaccia di boicottaggio della destra. Ha subito ripreso quota grazie al favore dei clienti di sinistra.
Quel che il cancelliere tedesco non può né vuole ammettere è che la Germania ha perso il primato in Europa. Ma non per colpa sua

(di Lucio Caracciolo – repubblica.it) – «Mi capita di svegliarmi la mattina e chiedermi se questo non sia solo un brutto sogno». Il cancelliere tedesco Friedrich Merz ha una qualità sempre più rara fra i politici: gli scappa di dire quel che pensa. Talvolta anche quel che pensano suoi colleghi meno imprudenti, come quando spiegò che Israele «sta facendo il lavoro sporco per noi». L’incubo che oggi lo tormenta è la fine della pax americana. Per lui l’Occidente, già regolatore del pianeta, è ridotto a espressione geografica. Quel che Merz non può né vuole ammettere è che la Germania ha perso il primato in Europa. Ma non per colpa sua.
Facile puntare il dito contro questa scialba figura, incapace di governare il suo stesso partito. Primo cancelliere che riesce a non farsi eleggere dal Parlamento al primo scrutinio, non ne ha azzeccata una, tanto che alcuni ne pronosticano la caduta anticipata. Primo cancelliere a essere sconfitto in un Consiglio europeo — già dominio di Angela Merkel — su una questione da lui battezzata decisiva per la «sovranità europea» quale l’uso dei fondi russi immobilizzati all’estero per aiutare l’Ucraina. Talmente debole nella sua Cdu da farsi bruciare il candidato alla presidenza della Fondazione Adenauer, molto più di un think tank di partito, sconfitto da Annegret Kramp-Karrenbauer, la donna che Merkel avrebbe voluto le succedesse alla cancelleria.
Merz è il dito. La luna è la fine degli ottant’anni di esenzione dalla storia della Germania. Perno della famiglia europea inquadrata nell’Alleanza atlantica a guida americana. Durante la guerra fredda, quale semiprotettorato a stelle e strisce all’insegna del motto «americani dentro, russi fuori e tedeschi sotto», nella non spontanea intesa franco-tedesca (“coppia” per i francesi, “amicizia” per i tedeschi).
Poi nei trentacinque anni di pseudo-unificazione tedesca, scambiata dai germanofobi per Grande Germania se non Quarto Reich, spesi da Berlino per affermarsi centrale nelle politiche europee, specie in ambito fiscale e monetario, ma senza bussola strategica. Approccio ben riassunto nel motto merkeliano «quando penso alla Germania penso a finestre ben chiuse».
Il sogno della Bundesrepublik vestita da Grande Svizzera è finito per sempre il 24 febbraio 2022 con l’invasione russa dell’Ucraina. Tempesta che spalanca le finestre socchiuse fra Reno e Oder mentre illumina di luce sinistra un Paese anestetizzato dalla «fine della storia». L’allora cancelliere Olaf Scholz, che gareggia con Merz per il titolo di meno autorevole governante della storia tedesca, è lesto a proclamare la «svolta epocale» (Zeitenwende).
Tre anni dopo Merz, con il solito tatto, giura che farà della Bundeswehr l’esercito più potente d’Europa, mentre la questione della bomba atomica, “europea” o nazionale, anima il dibattito pubblico. Merz rilancia una sorta di “leva volontaria” — quando il mondo è sottosopra batte l’ora degli ossimori — per richiamare i refrattari al dovere di difendere la patria. Rieducazione da quasi zero, stante il grado di delegittimazione dello strumento militare nel Paese che perse due guerre mondiali si è imposto un pacifismo senza (quasi) se né ma.
Per Merz la Germania oggi «non è ancora in guerra ma non è più in pace». Dunque tra due sedie. Postura in sé scomoda. Angosciosa. Con la fine della pace sono cadute certezze e abitudini introiettate da tre generazioni di tedeschi: il benessere economico è minacciato dalla crisi dell’industria, specie l’automobilistica (non se ne esce in fretta e furia producendo panzer), dalla forzosa (vedi Nord Stream 2) rinuncia al gas russo e dalla perdita di quote importanti nel mercato cinese.
La transustanziazione da orgogliosa formica in cicala fiscale, sostenuta dai notevoli margini fiscali accumulati anche a spese dell’Eurozona, è il marchio del pragmatismo di una classe dirigente finora attenta a dipingere di vernice etica la sua politica economica. E segnala la difficoltà di adattare una leadership europea figlia del bel tempo alle tempeste d’acciaio.
Tradotta in italiano, questa è la fine del “vincolo esterno”, ossia della nostra fede nella volontà altrui di educarci alla virtù. La tentazione di galleggiare è forte. Peccato che la nostra barca non sia calafatata per queste onde.

(ANSA) – ROMA, 27 DIC – “Oggi si scrive una pagina buia per tutti i cittadini: il Senato della Repubblica ha approvato la riforma della Corte dei conti, magistratura chiamata dalla Costituzione a garantire che le risorse pubbliche siano destinate ai servizi alla collettività e non siano sprecate, per imperizia o corruzione.
Si tratta di una scelta che segna un passo indietro nella tutela dei bilanci pubblici e inaugura una fase in cui il principio di responsabilità nella gestione del denaro dei cittadini risulta sensibilmente indebolito”. Così l’Associazione Magistrati della Corte dei Conti.
“Da oggi – prosegue l’Associazione magistrati della Corte dei Conti – in presenza di grave colpa, il danno arrecato alle finanze pubbliche sarà risarcibile solo entro il limite massimo del 30% del pregiudizio accertato. La parte restante non verrà recuperata e resterà a carico della collettività”.
“Ulteriori forti preoccupazioni – proseguono i magistrati – suscitano l’introduzione di meccanismi di esonero automatico dalla responsabilità, legati al silenzio della Corte dei conti in sede di controllo di legittimità o di parere. In questo modo, l’assenza di una pronuncia esplicita della Magistratura contabile rischia di trasformarsi in una giustificazione automatica, piegando tali funzioni a logiche di esclusione della responsabilità piuttosto che di miglioramento dei servizi.
La riforma incide negativamente sui principi di legalità, responsabilità e buon andamento dell’amministrazione, sanciti dalla Costituzione, e solleva un tema centrale di equità: le risorse pubbliche appartengono a tutti e la loro tutela richiede forme di responsabilità effettive e credibili”.
“Una maggiore efficienza dell’amministrazione non si ottiene riducendo il ruolo della Magistratura contabile, ma valorizzando il presidio indipendente e imparziale a garanzia del corretto utilizzo del denaro pubblico”, conclude l’Associazione.
È il bilancio sulle parole della presidente del Consiglio fatto da Pagella Politica: meno di un terzo delle sue frasi quest’anno è risultato verosimile

(repubblica.it) – Centonovanta dichiarazioni nel 2025. Che portano a quasi 400 le affermazioni della premier e leader di Fratelli d’Italia, Giorgia Meloni, sottoposte a fact-checking dall’inizio del suo mandato alla guida del governo. È il bilancio sull’attendibilità della presidente del Consiglio fatto da Pagella Politica: meno di un terzo delle sue dichiarazioni verificate quest’anno è risultato pienamente attendibile.
Le dichiarazioni analizzate sono state divise in: attendibili, ossia quelle corrette o con lievi omissioni; imprecise che contengono errori o tralasciano dettagli rilevanti; e, infine, quelle poco o per nulla attendibili che sono in gran parte o del tutto scorrette.

Le dichiarazioni attendibili sono state 59, pari al 31,1 per cento del totale. Quelle imprecise sono state 66, il 34,7 per cento, mentre 65, cioè il 34,2 per cento, sono risultate “poco o per nulla attendibili”. In sintesi, quasi il 70 per cento delle dichiarazioni di Giorgia Meloni verificate da Pagella Politica presenta imprecisioni o problemi più seri di attendibilità.
L’analisi consente di capire come e quanto spesso, nelle dichiarazioni più rilevanti emergano errori, imprecisioni o ricostruzioni fuorvianti dei fatti. E i risultati del 2025 sono sostanzialmente in linea con quelli dell’anno scorso, riporta pagella Politica, e con l’andamento registrato nelle dichiarazioni di Meloni nei primi anni alla guida del governo.

Nel corso del 2025 la premier è risultata più attendibile nei contesti istituzionali, come i discorsi ufficiali e gli interventi in Parlamento, dove le affermazioni sono in genere più misurate ma dove sono, comunque, emersi errori e imprecisioni.
Il livello di accuratezza peggiora durante eventi di partito e nelle interviste. In questi contesti, le sue parole sono più spesso enfatizzate e orientate a valorizzare l’azione del governo, con ricostruzioni dei fatti talvolta parziali o non pienamente supportate dai dati disponibili.
Nel tempo, nelle dichiarazioni di Meloni si sono consolidati alcuni filoni ricorrenti usati per ribadire i presunti successi del governo su diversi fronti, come i risultati sul fronte del mercato del lavoro o della realizzazione del Piano nazionale di ripresa e resilienza (Pnrr). Nel 2025, a questi temi si è affiancato anche il riferimento alla politica estera e alla situazione in Medio Oriente, ambito in cui alcune frasi della premier sono risultate sovrastimate o formulate in modo non del tutto aderente ai fatti, sempre come riporta l’analisi fatta da Pagella Politica.
Il provvedimento espande il controllo preventivo sugli atti e fornisce agli amministratori uno “scudo” di fatto per quel che accade dopo. Secondo la maggioranza così si contrasta la “paura della firma”. Pd: “Pericolosa deresponsabilizzazione dei pubblici amministratori, è vendetta per la bocciatura del Ponte”. M5s: “Gli uomini di potere non risponderanno pienamente dei danni causati”

(ilfattoquotidiano.it) – Via libera del Senato con 93 voti a favore, 51 no e cinque astenuti al disegno di legge Foti, la discussa riforma della Corte dei conti approvata in prima lettura dalla Camera lo scorso aprile. I magistrati contabili la contestano duramente perché espande in maniera abnorme l’ambito del controllo preventivo degli atti e fornisce agli amministratori uno “scudo” di fatto per quel che accade dopo. Non solo: il risarcimento erariale, quello dovuto da funzionari e amministratori che causano un danno economico allo Stato, viene limitato senza eccezioni al 30% del danno accertato o due annualità di stipendio. Insomma, “viene trasformato in una sanzione limitata” e il resto lo pagheranno “i cittadini con le tasse“, ribadisce in un’intervista a La Stampa Donato Centrone, presidente dell’Associazione magistrati della Corte dei Conti, che parla di provvedimento “frettoloso” e paventa anche il rischio di ingolfamento nel caso i Comuni decidano di inviare alla Corte gli atti attuativi del Pnrr chiedendo il visto preventivo.
Respinta con 99 voti contrari, 49 favorevoli e un astenuto la proposta di questione pregiudiziale al ddl presentata dalle opposizioni, secondo cui il provvedimento vuol limitare i controlli sugli sprechi e le scorrettezze degli amministratori pubblici ed è una “rivalsa” contro la Corte per la recente bocciatura del procedimento governativo sul Ponte sullo Stretto. “Si impone al Parlamento di votare in tutta fretta questa riforma perché il 31 dicembre scade lo scudo erariale”, ha ricordato il senatore dem Walter Verini nel suo intervento in Aula. “Il sospetto è che Governo e maggioranza vogliano soltanto esercitare qualche forma di vendetta e di sottomissione verso una magistratura che – compiendo il suo dovere – ha segnalato pesanti irregolarità sul Ponte sullo Stretto di Messina e sul Centro per migranti in Albania, emblemi dei tanti flop di questo Governo”.
Il ddl rende strutturale lo scudo erariale introdotto durante il Covid nel 2020 e finora prorogato fino a tutto il 2025. Poi c’è la riforma vera e propria. La prima parte, che entrerà subito in vigore, modifica le funzioni della Corte introducendo il doppio tetto al risarcimento per responsabilità amministrativa. In sostanza, l’ammontare del risarcimento per l’amministratore condannato per danno erariale calcolato dal giudice contabile dovrà essere risarcito nella misura massima del 30% del pregiudizio accertato e comunque non oltre due annualità di stipendio lordo. Viene poi ampliato il controllo preventivo sugli atti, introducendo un controllo preventivo “a chiamata” su quelli individuati dalle amministrazioni. Insomma: il dirigente avrà tre opzioni. Potrà chiedere un parere alla sezione di controllo della Corte, che avrà 30 giorni di tempo per rispondere pena lo scattare di una sorta di silenzio assenso: il parere si intenderà favorevole e il richiedente sarà esente da qualsiasi responsabilità. In alternativa il dirigente potrà decidere di sottoporre l’atto al controllo preventivo della magistratura contabile. Anche in questo caso, se la risposta non arriva entro trenta giorni, il richiedente viene esentato da ogni responsabilità. Infine, se il dirigente non interloquisce con la Corte e adotta un atto illegittimo, viene indagato e condannato per danno erariale.
La seconda parte della riforma andrà invece attuata con decreti delegati e inciderà sull’organizzazione della Corte e sui poteri del procuratore generale. Sul fronte organizzativo, verranno accorpate le sezioni centrali regionali, i cui magistrati dovranno svolgere sia funzioni di controllo che giurisdizionali e consultive. Infine si introdurrà anche per la magistratura contabile la separazione per funzioni di magistrati requirenti e giudicanti e si aumenteranno i poteri del procuratore generale, anche quelli sui procuratori regionali.
Secondo il governo le nuove norme puntano a contrastare la cosiddetta “paura della firma” da parte degli amministratori pubblici. Per Fratelli d’Italia si tratta di una “una riforma necessaria“, che “introduce il principio che il controllo sia doveroso, ma debba basarsi su fatti e non su mere presunzioni”. La Lega dal canto suo sostiene che “fornisce chiarezza a chi opera nella pubblica amministrazione, rendendo prevedibili gli eventuali effetti dannosi collegati all’esercizio di un potere amministrativo”.
L’opposizione protesta: per il Partito democratico, il provvedimento “nei fatti afferma una sostanziale irresponsabilità della pubblica amministrazione” e “scardina il principio della responsabilità dei pubblici amministratori in relazione agli atti che arrecano un danno erariale”. L’effetto? “Una pericolosa deresponsabilizzazione dei pubblici amministratori, in un Paese in cui la qualità della burocrazia non rappresenta un volano per lo sviluppo”. Per il presidente dei senatori del Pd Francesco Boccia, intervenuto in aula durante il dibattito, la riforma “rende più difficile perseguire gli illeciti erariali. Riduce drasticamente la responsabilità per colpa grave, introduce veri e propri salvacondotti preventivi e limita persino il risarcimento del danno. Il messaggio è chiaro: meno controlli, meno responsabilità. Non è una riforma per tutelare le risorse pubbliche, è una riforma per proteggere chi governa dalle conseguenze delle proprie scelte”. Il problema della cosiddetta paura della firma c’è, dice il dem, “ma qui viene usata come foglia di fico. Questa legge non aiuta i funzionari onesti: deresponsabilizza soprattutto gli organi politici, la cui buona fede viene addirittura presunta per legge. Se un atto è vistato, o se scatta il silenzio-assenso, la responsabilità praticamente scompare. Questa legge fa esattamente il contrario di ciò che chiede l’Europa. L’UE pretende controlli rigorosi, progressivi, responsabilità chiare. Qui invece si introduce il silenzio-assenso sul controllo di legittimità e lo si trasforma in uno scudo contro la colpa grave. È un corto circuito pericoloso, soprattutto su Pnrr e grandi opere: meno controllo oggi significa più danni e più contenziosi domani”.
La limitazione della responsabilità erariale anche per i casi di colpa grave, unita al fatto che la prescrizione inizierà a decorrere, anche nel caso di occultamento doloso del fatto, nel momento della commissione del fatto e non nel momento della scoperta, per i dem “manifesta la palese irragionevolezza di queste norme, che certamente non supereranno il vaglio di costituzionalità“. Secondo il Pd è come se “si incentivasse il colpevole ad occultare il fatto causa di danno erariale, da un lato, mentre la previsione di una riduzione della responsabilità contabile per il singolo al 30% del pregiudizio accertato si sostanzia in una enorme deresponsabilizzazione dei pubblici amministratori che scaricano sulla collettività il restante danno erariale“.
Contrario anche il M5s, secondo il quale il “si introduce una riforma che contraddice pienamente un principio cardine dello Stato di diritto, per cui la legge è uguale per tutti”. Per il partito guidato da Giuseppe Conte, “l’introduzione della possibilità di richiedere un parere preventivo alla Corte dei conti, unito all’introduzione di un meccanismo di silenzio-assenso, nei fatti rappresenta un via libera per tutte le illegalità“. “Il provvedimento – evidenziano quindi i pentastellati – non aggiunge risorse economiche per incrementare l’organico della Corte, che pertanto sarà ingolfata da richieste di pareri preventivi che non riuscirà ad evadere, con ciò alimentando il meccanismo del silenzio-assenso”. Infine viene sottolineato dal M5s che “la disparità di trattamento sotto il profilo della responsabilità introdotta dal provvedimento rappresenta un grave vulnus al principio di uguaglianza. La paura della firma, infatti, è propria di tutti i professionisti, si pensi ai medici o agli avvocati: i cittadini cioè rispondono sempre e comunque delle proprie azioni, mentre, con il disegno di legge, si afferma nuovamente il principio che gli uomini di potere non rispondono pienamente dei danni causati, secondo un fil rouge che lega tutti i provvedimenti di questo Governo, a partire dall’abolizione del reato di abuso di ufficio“.
Italia viva si asterrà. “Ancora una volta governo privilegia la strada dello scontro, del non ascolto delle opposizioni, della chiusura oltranzista a qualsiasi miglioramento del testo”, ha detto in aula Dafne Musolino (Iv). “E alla fine produce un testo che presenta molti aspetti critici su cui credo che il vaglio di costituzionalità non sarà favorevole come voi prospettate”.
Il leader della Lega a sorpresa si è presentato a Palazzo Madama e ha detto “sì” al disegno di legge Foti che riduce i controlli e introduce uno scudo erariale per i politici

(di Giacomo Salvini – ilfattoquotidiano.it) – Un passaggio rapido. Per salutare i suoi senatori, poi i colleghi di governo – tra cui il sottosegretario alla presidenza del Consiglio Alfredo Mantovano – e infine votare. Per far passare la riforma che limita i poteri della Corte dei Conti, proprio l’ente costituzionale che a fine ottobre ha stoppato la delibera del Cipess sul Ponte sullo Stretto di Messina. Il leader della Lega Matteo Salvini sabato mattina, poco dopo l’ora di pranzo, si è presentato nell’aula del Senato per votare “sì” al disegno di legge che porta la firma del collega di governo Tommaso Foti (Fratelli d’Italia) che limita i poteri di controllo e successivi dei giudici contabili e riduce lo scudo erariale al 30% per gli amministratori pubblici, oltre a presumere la loro “buona fede”.
La decisione del governo di approvare il 27 dicembre la riforma è legata al fatto che il 31 scade lo scudo erariale per gli amministratori, ma punta anche a dare un segnale ai giudici in vista della riforma sulla separazione delle carriere. Lo aveva già spiegato la premier Giorgia Meloni il 29 ottobre quando la Corte dei Conti aveva bocciato il progetto del Ponte sullo Stretto: “L’ennesima invasione di campo dei giudici: non ci fermeranno”, aveva detto la presidente del Consiglio. Anche Salvini dopo quella decisione era andato all’attacco: “La decisione della Corte dei Conti è un grave danno per il Paese e appare una scelta politica più che un sereno giudizio tecnico. In attesa delle motivazioni, chiarisco subito che non mi sono fermato quando dovevo difendere i confini e non mi fermerò ora”.
Sabato mattina così si è presentato in aula per votare, nonostante la sua presenza a Palazzo Madama sia piuttosto inusuale anche in caso di votazioni importanti. Insieme a lui c’erano altri colleghi di governo: i ministri Anna Maria Bernini, Paolo Zangrillo, Nello Musumeci e Roberto Calderoli, oltre ai sottosegretari Claudio Durigon, Francesco Paolo Sisto e Patrizio La Pietra. Il testo è passato con 93 sì, 51 no e 5 astenuti. Al termine del voto il sottosegretario alla presidenza del Consiglio Mantovano, uno degli ispiratori del disegno di legge, si è presentato di fronte alle telecamere e ha detto che il voto sulla Corte dei Conti non è una “vendetta per la delibera sul Ponte: il disegno di legge è stato presentato due anni fa, è arrivato al Senato a marzo ed è stato approvato oggi. Mi sembra una forzatura”.