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Archiviata l’indagine per violenza sessuale nei confronti del figlio di La Russa


‘LA RUSSA JR NON PERCEPÌ INCAPACITÀ RAGAZZA AL CONSENSO’

(ANSA) – MILANO, 30 OTT – Non “vi è motivo di dubitare” della “buona fede” e “credibilità” della ragazza che ha denunciato Leonardo La Russa e l’amico Tommaso Gilardoni, ma non ci sono né elementi specifici né prove che i due giovani “si fossero avveduti (o comunque avessero percepito)” che lo stato di alterazione della giovane, “dovuto all’assunzione di alcool e stupefacenti” fosse “tale da incidere sul conseguente vizio del consenso alle prestazioni sessuali compiute”.

Lo scrive il gip di Milano Rossana Mongiardo nel decreto di archiviazione del filone dell’indagine in cui il figlio del presidente del Senato rispondeva con Gilardoni di violenza sessuale.

MILANO: GIUDICE, SI’ ARCHIVIAZIONE PER LA RUSSA JR ACCUSATO DI VIOLENZA SESSUALE

(Adnkronos) – La giudice per l’udienza preliminare di Milano Rossana Mongiardo ha deciso di archiviare l’indagine per violenza sessuale che vede indagati Leonardo Apache La Russa, figlio del presidente del Senato Ignazio, e l’amico deejay Tommaso Gilardoni. Dopo l’udienza di opposizione all’archiviazione avanzata all’avvocato Stefano Benvenuto, il quale tutela la ventiduenne che ha sporto denuncia, arriva la decisione della giudice che accoglie la richiesta della Procura.

Al centro dell’indagine quanto accaduto la notte tra il 18 e il 19 aprile del 2023, quando i tre si ritrovarono a casa di Leonardo Apache dopo aver trascorso insieme la serata in un locale esclusivo del centro di Milano. La mattina la giovane si svegliò nel letto dell’ex amico di liceo senza ricordare nulla. Per il legale della giovane, le condizioni fisiche della ragazza accertate da una consulenza medica e i video recuperati nel cellulare dei due indagati mostrerebbe che le condizioni della sua assistita non erano tali da prestare consenso.

Di opposto avviso invece la Procura e ora, con la decisione di archiviare, anche la giudice Mongiardo sembra far proprie le conclusioni contenute nella richiesta della procuratrice aggiunta Letizia Mannella e della pm Rosaria Stagnaro. Le due rappresentanti dell’accusa scriveva “Non vi è in atti la prova che gli indagati, pur consapevoli dell’assunzione di alcuni drink alcolici da parte della ragazza, abbiano percepito, in modalità esplicita o implicita, la mancanza di una valida volontà della ragazza”.

Leonardo Apache La Russa e l’amico restano indagati per il filone che riguarda il revenge porn, ossia la diffusione di immagini senza il consenso della vittima. Il prossimo 13 novembre si tornerà, per la seconda volta, davanti alla giudice per le indagini preliminari di Milano Alessandra Di Fazio.

Secondo l’accusa, il figlio del presidente del Senato il 19 maggio 2023 avrebbe filmato e inviato al deejay, tramite whatsapp, “un video a contenuto sessualmente esplicito, destinato a rimanere privato” che ritraeva la giovane senza il suo “consenso”, si legge nell’avviso di conclusione indagini. A Gilardoni viene invece contestato l’aver inoltrato – nell’agosto successivo – un video a un amico estraneo ai fatti. Il 26enne, “dopo averlo realizzato”, avrebbe inoltrato il contenuto su whatsapp. Immagini “a contenuto sessualmente esplicito” diffuse, per la procura, “senza il consenso della ragazza”.


Il servilismo di una Rai sotto il tallone dell’armata Branca-Meloni non paga


(dagospia.com) – Per definire lo stato disastroso a cui è giunta la Rai, finita negli ultimi tre anni sotto il tallone dell’Armata Branca-Meloni, occorre rubare ad Hans Blumenberg il titolo di un suo celebre saggio letterario-filosofico sulla civiltà dell’Occidente, “Naufragio con spettatore”.

Una perfetta metafora per il più grande ente di informazione italiano (1.760 giornalisti), poiché è la concessionaria esclusiva del servizio pubblico radiotelevisivo e uno dei più grandi gruppi di comunicazione in Europa con 12.751 dipendenti assunti a tempo indeterminato. 

Così, mentre il Cda Rai si trastulla discutendo degli ascolti di “Tg2 Post” (martedì ha racimolato il 2.5% con 504.000 spettatori, preceduto dal disastroso traino del 3,3% del notiziario maldiretto da Antonio Preziosi – una volta il Tg2 sbandierava uno share del 10%), Rai2 e Rai3 sprofondano in uno stato comatoso: gran parte della loro programmazione non regge più, con ascolti che hanno raggiunto livelli improponibili al marketing pubblicitario. 

Una criticità che non viene dal cielo. La trasformazione del modello organizzativo attuata dall’Ad Giampaolo Rossi, che ha spostato la produzione dei programmi dalle tre reti a dieci direzioni in base al “genere” (intrattenimento, informazione, fiction, ecc.), ha portato non solo al tracollo degli ascolti dei programmi ma soprattutto alla totale perdita di identità di Rai2 e di Rai3.

In compenso lo sciagurato spacchettamento in dieci direzioni di “generi” ha fatto lievitare il potere di Rossi, che ha centralizzato a sé tutte le direzioni, e ha portato a un dovizioso aumento di poltrone e di vice-poltrone, per la gioia dei nuovi arrivati al potere di Palazzo Chigi, tant’è che non c’è più un posto libero nel garage di viale Mazzini,

Ma, purtroppo, il servilismo politico di una Rai targata Meloni non paga. Le trasmissioni lanciate dal nuovo regime, che dopo una manciata di puntate finiscono nel cestino, ormai non si contano più.

Su Rai2 il flop più clamoroso fu il programma di Antonino Monteleone, il cui contratto è costato ai contribuenti 300mila euro, che raggiunse il record negativo in prima serata dello 0.99% con 169mila telespettatori.

Un numero impietoso che ha spedito in seconda serata l’ex Iena che, comunque, ha continuato imperterrito a collezionare flop da 2.3%.

Ha fatto una brutta fine l’esperimento in prima serata di â€œBellaMa’”: l’inguardabile programma di Pierluigi Diaco ha trascinato il canale al 2.6% con 411mila spettatori. Il risultato? Chiusura anticipata e tanti saluti a Diaco rispedito nel pomeriggio dove comunque lo share non lo premia.

L’ultimo fallimento si chiama â€œFreeze” con Nicola Savino e Rocío Muñoz Morales, il format giapponese che ci ha riportato indietro di qualche decennio. Anche in questo caso il risultato non è stato quello sperato dalle lucidissime menti dei dirigenti Rai e il programma ha galleggiato fino a precipitare al 2.9%.

L’elenco è lungo, al limite della crudeltà. Ma vale la pena ricordare â€œBinario2” che, dopo l’addio di Fiorello alla mattina di Rai2, ha trascinato la rete al 2.3%.

Nel pomeriggio â€œLa porta Magica” della sopravvalutata Andrea Delogu al 3.1% e â€œObbligo o Verità” della spompata Alessia Marcuzzi in prima serata al 4.1%.

E ancora: il terribile ritorno di Luca Barbareschi con â€œSe mi lasci non vale”, la versione farlocca targata Rai di “Temptation Island” che all’esordio ha registrato l’1,82% di share con 321.000 spettatori.

Infine, non possiamo dimenticare il flop con chiusura di â€œUnderdog” di Laura Tecce. L’unico programma di Rai2 che ha riscosso l’applauso del pubblico è â€œBelve” della Fagnani.

E che dire di Rai3? Quello che resta, dopo il trasloco di Fazio su 9 e di Augias, Formigli, Floris su La7, con Serena Bortone, dopo il caso Scurati, confinata alla radio, è più deprimente di un piatto di verdure lesse.

In prima serata si scende anche sotto il 3% di share, tanto che il terzo canale è stato ribattezzato Rai3%.

A tenerlo in piedi solo l’osteggiato “Report” (che prima o poi, finirà su La7 anche Ranucci), l’immortale “Blob” e gli altri programmi di approfondimento da “Chi l’ha visto?” dell’inossidabile Sciarelli a “Presadiretta” di Iacona che, come “Report”, è stato traslocato dal lunedì alla domenica a vedersela con gli avvenimenti sportivi, perdendo quasi 2 punti.

Anche messo in prime time del lunedì, “Lo Stato delle cose” di Massimo Giletti galleggia, non riuscendo mai ad arrivare allo share che aveva “Report” di lunedì.

Gli altri programmi, come quelli condotti da Salvo Sottile e Peter Gomez, raccolgono ascolti per niente esaltanti: “Farwest” si ferma al 3,7% mentre “La confessione” si deve accontentare del 4,3%.

Dal 2024 va in onda, con una impietosa media del 2,4% di share nel 2025, “A casa di Maria Latella”. In compenso, l’intervistatrice cara a Giorgia Meloni gode di un munifico contratto biennale di conduzione, comprese le varie ed eventuali ospitate in altri programmi, per complessivi 730mila euro lordi.

Già nell’ottobre del 2024 Rai3 raccoglieva nella prima serata poco più del 5% di share (perdendo più di mezzo punto rispetto al 2023), mentre Rai2 affondava al 3,6%, sotto la soglia psicologica del 4%. E c’è da star certi che il peggio deve ancora venire…


La “buffonata” del Ponte sullo Stretto


(Giancarlo Selmi) – Le questioni che rendono gravissima la surreale vicenda del ponte sullo stretto di Messina sono più d’una. E riguardano vari aspetti: dall’uso disinvolto e sprecone del denaro pubblico, alla demagogia che ha accompagnato la proposta della costruzione di un’opera pubblica, totalmente staccata dai bisogni reali delle popolazioni della Calabria e della Sicilia, ma usata essenzialmente per scopi elettoralistici. Pagati con i quattrini degli italiani.

Ma non solo. La reazione di Meloni e Salvini, alle giuste valutazioni della Corte dei Conti, rappresentano plasticamente la cultura del “faccio tutto io e nessuno mi rompa i coglioni”, di gente che vuole governare eliminando controlli e contrappesi. Come se questi non fossero capisaldi irrinunciabili di un Paese democratico. Il dilettantismo evidente di Salvini, che ha sposato l’opera con sospetta passione. Opera che, fino a pochi anni fa, egli stesso definiva “inutile e pericolosa”.

Oggi dice: “voglio fare il ponte e lo farò a ogni costo” e non si capisce se questo sia una minaccia e neppure il motivo di questa sorta di accanimento terapeutico. Piuttosto ci spieghi i motivi di quanto segue. Accordi non chiari con i costruttori che hanno posto in essere sontuosi conflitti d’interesse. Contratti a perdere, per la collettività, sia dal punto dei vista del controllo dei costi, ma anche delle garanzie offerte ai costruttori e che permetteranno agli stessi di incassare penali miliardarie senza muovere una gru. Tutto a danno della fiscalità italiana, ergo di chi paga le tasse.

Squallidi escamotage messi in atto per impedire che l’opera, peraltro aggirando le vigenti normative, anche europee, venisse messa a gara. Facendo in modo che l’affidamento dei lavori di costruzione della stessa fosse obbligatoriamente a favore di Salini e compagnia. Quadro normativo alterato per permettere il far west dei subappalti a catena e senza fine, con gravi pregiudizi per la legalità, per la sicurezza dei lavoratori, per la qualità della stessa opera.

Studi di fattibilità improvvisati quando neppure esistenti. Impatto ambientale forse neppure considerato. Progetti vecchi e obsoleti rimessi a nuovo e ripresentati. Nessun coinvolgimento delle popolazioni interessate. Scarsa, quando non esistente, trasparenza. E potrei andare avanti così fino a scrivere un libro. Ciò che rimane di tutta questa buffonata è un aspetto che la trasforma da buffonata in tragedia. Quanto ci costerà tutto questo? Quanto arricchirà le tasche di qualcuno e impoverirà le nostre?

Si parla di quattro o cinque miliardi. Salvini prima di tutto dovrebbe chiedere a sé stesso quelle assunzioni di responsabilità che spesso ha chiesto ad altri e dovrebbe dimettersi. Ma Salvini dovrebbe soprattutto rispondere alle due domande sopra e chiarire, una volta per tutte, quanto veramente il suo immenso e repentino interesse sia motivato da un francescano bisogno di “sviluppo del meridione d’Italia”. Oppure da altro. Il sospetto viene, soprattutto quando tale incredibile interesse è stato palesato da uno che, fino a non tanto tempo fa, voleva usare l’Etna e il Vesuvio per lavare i “terroni”.


La mazzata sugli stipendi


Gli stipendi ora sono inferiori dell’8,8% rispetto al 2021: in Italia la crescita è ferma e il potere d’acquisto va giù. Secondo l’Istat, nel terzo trimestre 2025 la crescita delle retribuzioni rallenta, pur restando di poco sopra l’inflazione. I salari reali restano però più bassi dell’8,8% rispetto al gennaio 2021

Stipendi top manager

(di Massimiliano Jattoni Dall’Asén – corriere.it) – In un Paese dove il costo della vita continua a salire e l’inflazione non ha ancora smesso di mordere, il nuovo dato diffuso dall’Istat pesa come un macigno: a settembre 2025, le retribuzioni contrattuali in termini reali in Italia restano inferiori dell’8,8% rispetto ai livelli di gennaio 2021. Un arretramento che fotografa il disagio salariale accumulato negli ultimi anni, nonostante la crescita nominale delle buste paga. È il segnale che il recupero dei salari non è riuscito a compensare pienamente l’aumento dei prezzi e che il potere d’acquisto degli italiani resta schiacciato.

La frenata delle retribuzioni nel 2025

Nel terzo trimestre del 2025 la crescita delle retribuzioni ha rallentato, dopo i segnali più vivaci dei mesi precedenti. Resta comunque appena sopra l’inflazione, ma la spinta si è affievolita. Come rileva l’Istituto, a settembre l’indice delle retribuzioni orarie è rimasto fermo rispetto ad agosto e in aumento del 2,6% su base annua. Nel pubblico impiego gli incrementi sono stati un po’ più generosi (+3,3%) rispetto all’industria (+2,3%) e ai servizi privati (+2,4%), anche per effetto del pagamento delle indennità di vacanza contrattuale. Nel complesso, però, la sensazione è quella di un passo corto: i salari crescono, ma non abbastanza da recuperare davvero il terreno perduto.

Il confronto con l’Europa

L’Italia si conferma così un caso peculiare nel panorama europeo: salari nominalmente in crescita, ma reali in calo; e un divario che continua ad allargarsi rispetto ai principali partner dell’Unione. Secondo gli ultimi dati di Eurostat e Ocse, lo stipendio medio lordo mensile italiano nel 2023 era di circa 2.729 euro, la media europea di 3.155 euro: i lavoratori italiani quindi guadagnavano in media 429 euro in meno al mese rispetto alla media europea, con un divario annuale di oltre 5.000 euro su 12 mensilità. E le cose negli ultimi due anni non sono migliorate. Nel confronto più recente, i salari italiani rimangono fermi, con una crescita più lenta rispetto a Spagna e Francia, dove gli aumenti contrattuali hanno tenuto meglio il passo dei prezzi.

Le cause di un ritardo strutturale

Dietro questo ritardo si nasconde un insieme di cause note ma difficili da correggere. Il primo nodo riguarda la struttura del mercato del lavoro, con un ingresso dei giovani sempre più tardivo e percorsi occupazionali discontinui. La contrattazione collettiva copre ancora la maggior parte dei lavoratori, ma molti contratti sono scaduti da anni e gli adeguamenti arrivano con lentezza. A questo si aggiunge una produttività stagnante, che rende complicato sostenere aumenti significativi delle retribuzioni senza mettere in difficoltà le imprese, soprattutto le più piccole.

C’è poi la questione del lavoro a basso salario, che continua a caratterizzare larga parte del tessuto produttivo italiano. In molti settori, i livelli retributivi restano compressi da anni di moderazione salariale, da contratti precari e da una contrattazione integrativa poco diffusa. E anche quando gli aumenti arrivano, vengono spesso assorbiti da rincari dei prezzi e da un’inflazione che negli ultimi tre anni ha eroso quasi tutto ciò che si è guadagnato.

Un effetto che pesa su famiglie e crescita

Il risultato è che il potere d’acquisto delle famiglie resta debole e la ripresa dei consumi ancora fragile. In un contesto europeo in cui altri Paesi hanno puntato su una crescita dei salari per sostenere la domanda interna, l’Italia si trova a rincorrere. E quel –8,8% rispetto al gennaio 2021 non è solo una cifra statistica: è la misura di un ritardo che tocca la quotidianità di milioni di lavoratori.


Studenti manganellati, giornalisti intimiditi, giudici attaccati: il fascismo è tornato?


La cronaca si è incaricata di smentire la consolatoria teoria che il fascismo è morto con Mussolini, che il Ventennio appartiene al passato dell’Italia e dunque che il pericolo nero non è fra le ipotesi percorribili nel futuro più o meno immediato. È una pericolosa illusione

(di Renzo Parodi – tpi.it) – Ingenui? Distratti? Complici più o meno coscienti? In malafede? Non so davvero come definire i tanti, troppi intellettuali, giornalisti, politici – che si ostinano a dire che il fascismo non c’è più. Purtroppo il fascismo è tornato di prepotenza fra noi, ha rialzato la testa e riafferma orgogliosamente i propri “valori-disvalori”. Intolleranza, violenza, suprematismo, razzismo, con la postura ideologica del rifiuto delle regole della democrazia, tanto più imperfetta quanto più vulnerabile alla spallata nera che vorrebbe abbatterla.

La cronaca si è incaricata di smentire la consolatoria teoria che il fascismo è morto con Mussolini, che il Ventennio appartiene al passato dell’Italia e dunque che il pericolo nero non è fra le ipotesi percorribili nel futuro più o meno immediato. È una pericolosa illusione.

Certamente non vedremo Giorgia Meloni affacciarsi al balcone di palazzo Chigi e dichiarare guerra o annunciare che l’impero è tornato sui colli fatali di Roma. Né assisteremo a parate militari bellicose o a proclami sulla necessità di liberare l’Italia dai lacci imposti dalle demoplutocrazie nemiche del nostro popolo. L’armamentario retorico del fascismo, salvo qualche folkloristica uscita a Predappio (comunque fuori dal perimetro della legge), quello sì è finito in soffitta. Non lo è affatto il pericolo per la democrazia, più grave perché è subdolo e si ammanta di ipocrisia e verità scientemente manipolate per sviare l’opinione pubblica e dirottarla su polemiche irrilevanti.

La cronaca si incarica di segnalarci segnali chiari della deriva nera. A Predappio un migliaio di camicie nere salutano a braccia tese l’anniversario della marcia su Roma senza essere identificati. Con ciò rivendicando il diritto a celebrare il fascismo. In spregio alla legge che lo vieta. Il pg milanese Bossi ha stigmatizzato l’episodio come “un pericolo per l’ordinamento costituzionale e trovano terreno sempre più fertile”. In occasione di manifestazioni pacifiche a sostegno della Palestina la polizia ha invece provveduto ad identificare i presenti. Se c’è da manganellare studenti non ci si tira indietro. Anche questi sono segnali.

A Genova un manipolo di giovanissimi militanti di estrema destra, incappucciati, al grido di “Viva il duce!” fa irruzione nel liceo da Vinci, occupato dagli studenti, accende una rissa, devasta i locali e traccia sui muri una croce uncinata. Chiamata in soccorso, dicono i testimoni, la polizia giunge sul posto con ore di ritardo.

Il giornalista Alessandro Sahebi è stato aggredito in strada in via Merulana a Roma da un gruppetto di neofascisti e percosso di fronte alla moglie e al figlio di sei mesi. Si era rifiutato di sfilarsi la felpa che portava impressa una scritta antifascista.

Lo scorso anni il giornalista de La Stampa Andrea Joly era stato aggredito mentre transitava di fronte alla sede torinese di CasaPound. Il recente agguato al pullman della squadra di basket di Pistoia che ha provocato la morte dell’autista era stato condotto da tre neofascisti, identificati ed arrestati. Sono militanti dell’estrema destra, nelle loro case sono stati rinvenuti ritratti del duce ed altre cianfrusaglie che rimandano al regime.

A Torino un gruppo di studenti di Gioventù Nazionale (la filiazione giovanile di FdI) si è presentato ai cancelli del liceo Einstein volantinando “contro la cultura dei maranza”, qualunque cosa significhi. Ne è nato un parapiglia con gli studenti del collettivo antifascista, la polizia, intervenuta in assetto antiguerriglia, ha fermato e ammanettato un sedicenne del liceo Einstein. Successivamente ha presidiato la sede di Fratelli d’Italia bersagliata da lanci di uova.

In un recente passato un gruppetto di neofascisti ha assalito gli studenti del liceo Michelangelo di Firenze. La preside ha denunciato l’accaduto e il ministro Valditara ha minacciato provvedimenti nei confronti della dirigente scolastica. Analogo scenario lo scorso febbraio al liceo Pigafetta di Vicenza.

È interminabile l’elenco dei raid neri contro studenti e chiunque professi apertamente il suo antifascismo. Prontissimi ad esecrare qualunque episodio coinvolga elementi di sinistra, il governo e gli esponenti di Fdl tacciono. Sottovalutare questi rigurgiti neri è un errore di cui pagheremo il conto.

Anche il fascismo storico si fece largo con incursioni, pestaggi, intimidazioni tollerate o incoraggiate, per ordini superiori, dalle forze dell’ordine. Il regime si affermò grazie alla connivenza delle istituzioni, re Vittorio Emanuele III in testa alla lista. Non illudiamoci che la democrazia odierna, screditata com’è, abbia gli anticorpi per difendersi. Occorre reagire attivamente.

La destra al potere si muove nella cornice di una presunta legalità, però approva leggi liberticide (il decreto sicurezza), disarticola i presidi legalitari degli organi istituzionali di controllo, attacca frontalmente la magistratura, intimidisce e sanziona la libera stampa o quel che ne rimane, la maggior parte dell’informazione si è già piegata alla legge del più forte. Induce la gente a pensare che sia giusto rinunciare ai diritti in cambio di maggiore sicurezza, nonostante che gli episodi di criminalità, politica e comune, smentiscano l’assunto. Più repressione non significa più sicurezza. Anzi, spesso è vero il contrario. La repressione incoraggia il reato.

Luciano Canfora ha scritto un pamphlet e lo ha intitolato “Il Fascismo non è mai morto”. Andrebbe letto nelle scuole. Umberto Eco parlò del “fascismo eterno”. La storia della Repubblica è intessuta del sangue delle stragi neofasciste. Da piazza Fontana a piazza della Loggia, passando per le bombe sui treni: l’Italicus e il rapido 904, fino alla strage alla stazione di Bologna. Tutti eventi eversivi riferiti dalle indagini e dalle sentenze della magistratura a matrici neofasciste. Alle spalle degli esecutori materiali si muovevano ispiratori politici, purtroppo raramente smascherati, proprio come è avvenuto le stragi di mafia.

Tutto quel sangue stragista ha avuto due precedenti più politici, i tentati golpe del generale De Lorenzo (1964) e del fascistissimo ex comandante della famigerata X Mas che Vannacci esalta: il principe Junio Valerio Borghese. Entrambi quei colpi di stato di chiara matrice fascista, entrambi fortunatamente e fortunosamente falliti per l’insipienza degli autori. Sfidare nuovamente oggi la sorte sarebbe un azzardo.


Parola d’ordine: vincere. Ma se Meloni perde il referendum sulla Giustizia è già pronto il piano B


Mollare Salvini, imbarcare Calenda e votare nel 2026. “L’importante è non perdere”. Questa frase pronunciata da un big della destra sta facendo emergere quel nervosismo che FdI era riuscito a tenere nascosto. Dietro l’ottimismo ufficiale, cresce la consapevolezza che il referendum sulla giustizia sarà un giudizio politico sul governo

(Marco Antonellis – lespresso.it) – “L’importante è non perdere”. Questa frase pronunciata da un big della destra nostrana nei corridoi di Palazzo Madama sta facendo emergere in superficie quel nervosismo che Fratelli d’Italia, fino a oggi, era riuscito a tenere ben nascosto. Il governo viaggia con il vento in poppa, i sondaggi danno la premier in gran spolvero e la riforma della giustizia sembra godere di un consenso solido, almeno nei numeri. Ma, dietro l’ottimismo ufficiale, cresce la consapevolezza che il referendum sulla giustizia sarà molto più di una consultazione costituzionale: sarà un giudizio politico sul governo, sulla sua leader e sulla tenuta dell’intera maggioranza.

Lo scenario, in apparenza, è favorevole. L’opposizione si presenta divisa, incapace di trovare un messaggio comune; la magistratura, alle prese con inchieste interne e polemiche sulla politicizzazione delle toghe, vive una crisi di credibilità che favorisce la narrazione meloniana della “riforma del buon senso”. Eppure, nelle ultime settimane, tra i fedelissimi della premier è tornata una parola che non si sentiva da tempo: prudenza. “Abbiamo imparato che in politica non esistono battaglie vinte in partenza”, ragiona un ministro, ricordando la lezione di Matteo Renzi e del suo referendum del 2016.

A Palazzo Chigi, il timore è chiaro: se Meloni dovesse perdere il referendum, la sconfitta non resterebbe confinata alla riforma. Si trasformerebbe in una crepa nella leadership, in un segnale di fine ciclo. Non è un caso che i vertici di Fratelli d’Italia abbiano imposto una disciplina ferrea nella comunicazione: niente trionfalismi, niente slogan divisivi, niente attacchi diretti a chi voterà “no”. L’obiettivo è costruire un fronte di consenso trasversale: un voto per “stabilizzare” il Paese, non per cambiare equilibri di potere.

Ma l’ansia si sente. “Non possiamo permetterci passi falsi, il rischio è trasformare la consultazione in un plebiscito su Giorgia”, confida un deputato di lungo corso. La premier, raccontano, segue i sondaggi settimanali con crescente attenzione. I numeri restano favorevoli, ma la forbice si assottiglia: il “sì” stabile, il “no” in risalita. In controluce, la paura che qualche “colpo di scena” possa far saltare il banco.

Ed è in questo clima che, tra i corridoi di via della Scrofa, si è iniziato a parlare di un possibile “piano B”. Una manovra di contenimento politico nel caso di sconfitta referendaria: ridisegnare la maggioranza, prendere le distanze da Salvini e dal suo elettorato più radicale, e aprire un dialogo con i centristi di Carlo Calenda per poi presentarsi al voto nel 2026 evitando così mesi di logoramento.

Fratelli d’Italia, pubblicamente, respinge qualsiasi ipotesi del genere. Ma il solo fatto che se ne parli rivela la fragilità del momento. Del resto, non è un mistero che i rapporti con Salvini siano ai minimi storici: le tensioni sull’autonomia, i distinguo sulla politica economica, le divergenze sul rapporto con Bruxelles. Per molti dentro Fratelli d’Italia, l’alleanza con la Lega resta un matrimonio di convenienza, destinato prima o poi a sciogliersi. “Il referendum — sospira un senatore meloniano — può essere l’occasione per ripensare tutto”.

E così la macchina del partito si muove con disciplina quasi militare. “Giorgia deve apparire come la garante dell’ordine democratico, non come la capopopolo”, spiegano dal suo staff.

Dietro quella parola d’ordine, “non perdere”, si condensa tutta la posta in gioco. Perché questa volta, più che un referendum sulla giustizia, sarà un referendum sulla premier. E Meloni lo sa bene: in Italia, quando un leader perde un referendum, le conseguenze politiche sono inevitabili.


Impresentabili, a frotte ritornano


Il bollo che li escluderebbe da candidature si rivela poco più di un fastidio, quasi sempre aggirato. Storia di un baluardo inutile, affidato a un codice e non a una legge

(Sergio Rizzo – lespresso.it) – Prevedendo sfracelli, il vicesegretario della Lega Roberto Vannacci l’aveva messo in lista ad Arezzo. Ma serviva un miracolo. Per quanto impegno Bardelli Roberto detto «Breda» avesse profuso in campagna elettorale, ha raccattato solo 298 voti. Il tracollo della Lega in Toscana, dove il partito di Matteo Salvini in versione «Mondo al contrario» ha perso 300 mila voti, ovvero quasi l’85 per cento di quelli incassati alle Regionali del 2020, non l’ha risparmiato. Così non avrebbe fatto meglio Roberto Bardelli a lasciar perdere, come aveva suggerito la commissione parlamentare Antimafia?

Sempre che in questo caso, naturalmente, «suggerimento» sia un termine appropriato. Per l’Antimafia presieduta dalla deputata di Fratelli d’Italia Chiara Colosimo, il leghista Bardelli Roberto, aretino, classe 1972, era un «impresentabile». L’unico ritenuto tale fra tutti i candidati alle elezioni regionali della Toscana del 12 e 13 ottobre 2025. Motivazione? La condanna in primo grado a un anno subita per la vicenda della municipalizzata Coingas. Sentenza che ha pure causato, ai sensi della legge Severino, la sua sospensione dal consiglio comunale di Arezzo decisa dal prefetto. Bardelli però non ci sta ad essere bollato con quel termine infamante. Alla “Nazione” dice che la sua fedina penale è immacolata, e comunque la condanna è già prescritta. Di conseguenza, non vede perché debba rinunciare. È una questione di principio.

La storia degli «impresentabili» nasce al tramonto della cosiddetta Prima Repubblica, durante l’ultimo governo di Giulio Andreotti. All’inizio del 1991, la commissione Antimafia guidata allora dal pidiessino ex Pci Gerardo Chiaromonte approva un codice di autoregolamentazione per le candidature. Meglio sarebbe una legge, ma si aggirerebbe con difficoltà. Perciò si ripiega su un codice. Anche se, come vedremo, del tutto inutile.

Tangentopoli e la piaga della corruzione restano ancora sullo sfondo; allora si pensa che il problema etico più rilevante per la politica sia quella delle infiltrazioni della criminalità organizzata, e dunque il dossier spetta all’Antimafia. Ma dopo più di un ventennio da quel 1991 tutto è cambiato e il codice di autoregolamentazione va aggiornato ed esteso. Da quel momento – corre l’anno 2013 e l’Antimafia è guidata da Rosy Bindi â€“ fioccano le censure per chi ha subito una condanna penale, sia pure in primo grado, o è stato rinviato a giudizio anche per reati contro la pubblica amministrazione. Con il numero che cresce a ogni giro di giostra, dato che un marchio di «impresentabilità», per quanto affibbiato da un organismo sulla carta tanto autorevole, non vieta di proporsi agli elettori.

Così, nella tornata delle elezioni regionali iniziata lo scorso anno, eccone già 21: sette in Sardegna, cinque in Basilicata, tre in Calabria, due nelle Marche e in Abruzzo, uno rispettivamente in Valle D’Aosta e Toscana. Più 23 per le elezioni amministrative del maggio scorso. E altri sei per le elezioni europee del giugno 2024. Totale, 50 candidati dichiarati «impresentabili» soltanto nell’arco di 18 mesi. Che si sono presentati quasi tutti, e molti di loro sono stati eletti dopo aver contestato le decisioni dell’Antimafia, considerate in qualche caso soltanto politiche.

Il fatto è che il giudizio della commissione parlamentare si basa sulle segnalazioni degli inquirenti, ma trattandosi dell’applicazione di un codice non manca una componente discrezionale. Alle Europee del 2024, per chiarire il concetto, queste segnalazioni riguardavano ben 20 candidati: dei quali solamente sei sono stati dichiarati «impresentabili». Fra questi, la coordinatrice di Italia Viva in Calabria Filomena Greco, protagonista di una vicenda ritenuta sconcertante che risale al 2016. Da sindaca di Cariati era finita in un polverone giudiziario dopo aver rescisso il contratto per la raccolta dei rifiuti a una società destinataria di interdittiva antimafia. «Mi aspettavo un applauso istituzionale e non l’inserimento in una lista di impresentabili», dice all’Ansa ricordando di aver anche rinunciato alla prescrizione e sospettando «veleni di palazzo». Lamentela però senza esito. Bocciata alle Europee nel giugno 2024, Filomena Greco si candida alle elezioni regionali calabresi di ottobre 2025. E di nuovo l’Antimafia la dichiara «impresentabile». Lei va avanti e stavolta ce la fa.

Pure il suo omonimo Greco Orlandino, sindaco di Castrolibero, viene eletto in Calabria. Per la seconda volta. La prima, con il centrosinistra di Mario Oliverio. Adesso, invece, con la Lega di Salvini. Anche se, scrive l’Antimafia, «il Gip presso il Tribunale di Catanzaro abbia disposto il rinvio a giudizio per il reato di corruzione per atto contrario ai doveri d’ufficio aggravato dal metodo mafioso, per il reato di scambio elettorale politico-mafioso e per il reato di corruzione elettorale». Lui replica sdegnato che «il Riesame e la Suprema Corte di Cassazione hanno già scritto in sede cautelare a chiare lettere che i fatti non sussistono. Una Commissione più politica che Antimafia rischia di etichettare e condannare le persone prima ancora che un tribunale si pronunci». Concludendo: «Questo non è il garantismo previsto dalla nostra Costituzione».

Rimostranza simile a quella dell’ex senatore di Forza Italia Luigi Grillo, un tempo potentissimo factotum dei Lavori pubblici che a 81 anni vuol rientrare nel giro alle Europee. Ritrovandosi però anch’egli bollato come «impresentabile». Protesta che non ha «conti in sospeso con la giustizia». Ma dopo un patteggiamento di 2 anni e 8 mesi per corruzione gli argomenti si esauriscono. Non l’unico condannato, a dire la verità, fra i candidati alle Europee. Anche il capogruppo a Strasburgo di Fratelli d’Italia Carlo Fidanza, pezzo da novanta del partito della stessa presidente dell’Antimafia Chiara Colosimo, ha patteggiato una condanna per corruzione ma non finisce tra gli «impresentabili». E questo perché a differenza di Grillo la sua condanna, un anno e quattro mesi, è inferiore ai due anni e quindi per la legge Severino può tranquillamente sedere in un Parlamento, europeo o nazionale che sia.

Quanto alle elezioni comunali, l’impresentabilità riguarda anche consiglieri, sindaci e assessori delle amministrazioni sciolte per mafia. E qui ci si imbatte in casi singolari. Per esempio quello di Palagonia, 15 mila abitanti in provincia di Catania, sciolto dal governo di Giorgia Meloni nell’agosto 2023. Gli amministratori hanno fatto ricorso al Tar, che però ha confermato lo scioglimento. Quattro di loro, dichiarati come da regola «impresentabili» dall’Antimafia, si sono ricandidati e in due sono stati rieletti. Salvatore Astuti, sindaco dell’amministrazione sciolta per le presunte infiltrazioni, è passato al primo turno con il 51 per cento dei voti tornando così a occupare il posto di primo cittadino. Anche Francesco Paolo Favata Ã¨ stato rieletto, e ora è vice sindaco.

Ma se le cose vanno così, e tutti o quasi gli «impresentabili» fanno spallucce, vi chiederete: a che cosa serve un codice di autoregolamentazione che da 35 anni non autoregolamenta un bel niente? Non sarebbe più sensato fare una legge, rimettendo anche a posto con l’occasione certe storture della Severino? Per esempio impedendo a chi è stato condannato in via definitiva, anche a un solo giorno di carcere, di sedere in un’assemblea di rappresentanti del popolo. L’articolo 54 della Costituzione non dice forse che «i cittadini cui sono affidate funzioni pubbliche hanno il dovere di adempierle con disciplina e onore…»?


Tanti auguri, Mano de Dios


(Matteo Parini – lafionda.org) – “Che si fottano i Lloyd’s di Londra!”, disse Dieguito prima di gettarsi nel pantano di Acerra. Primavera 1985. Maradona è già all’apice della carriera, tanto che dodici mesi più tardi andrà a prendersi un Mondiale praticamente da solo. Quello della Mano de Dios, dello schiaffo post-Malvinas agli inglesi — perché lo sport è anche politica — e della serpentina più iconica della storia del calcio. Il Napoli di Ferlaino, che qualche anno dopo vincerà il suo primo storico scudetto nonostante il Milan degli olandesi, sta rischiando grosso. Lo spettro della Serie B incombe e il presidente non è tanto dell’idea che i suoi giocatori possano rischiare di farsi male proprio adesso, magari partecipando a una partita di beneficenza.

Il problema lo solleva Pietro Punzone, calciatore anch’esso. Il figlio di un tifoso del Napoli ha bisogno di un intervento chirurgico urgente, costoso e insostenibile per le umili tasche del padre. Ferlaino, appunto, sbraita, ma l’idea della partita per la raccolta dei fondi giunge all’orecchio di Diego. A Buenos Aires, nemmeno troppi anni prima, Maradona era uno dei tanti bambini inchiodati da una società ingiusta alla lotta per la sopravvivenza quotidiana, con la difficoltà di mettere insieme pranzo e cena quale evenienza che gli resterà appiccicata addosso per la vita. I bambini sono bambini, a Napoli come in qualunque angolo del pianeta e in un amen, senza voler sentire ragioni, è al centro di un campetto di periferia che si allaccia gli scarpini mentre Giove Pluvio si diverte dall’alto.

Mano al portafoglio, per pagare da sé la clausola assicurativa, la sua presenza sul rettangolo di gioco fa di quella surreale partita, con uno dei più grandi giocatori di ogni epoca a sputare l’anima su un impraticabile campo intriso d’acqua e fango, un pezzo di storia calcistica, oltre che di genuina solidarietà. Sono diecimila le anime assiepate sulla sgangherata tribuna che potrebbe ospitarne sì e no la metà e sono venti i milioni di vecchie lire raccolti dagli ingressi che salveranno il bambino. Maradona, che per la narrazione occidentale a reti unificate fu sostanzialmente un poco di buono, un drogato, un cattivo esempio perché mai disposto a prestarsi alle dinamiche losche di palazzo e, ancor peggio per i suoi detrattori, perché sempre schierato dalla parte degli ultimi, fu al contrario depositario di un’abbacinante umanità. In una società che criminalizza chi, della barricata, sceglie il lato scomodo dei popoli e non quello agiato dei potenti, Maradona, un uomo che ha commesso i suoi errori come tutti quanti noi, fu fonte di ispirazione e speranza. E non solo per quel meraviglioso pomeriggio ad Acerra.

Superfluo soffermarsi più di tanto sul campione. Viene da sorridere al pensiero che giocatori odierni, di un calcio che ha smesso di essere lo sport di allora, possano essere paragonati. Difensori arcigni, eufemisticamente parlando, dediti più alla cura delle caviglie avversarie che della palla. Arbitri che tollerano l’attitudine brutale nei contrasti. Playground impraticabili per genesi e per la gioia dei fisioterapisti. Eppure, in tutto ciò, Diego fu imprendibile, nell’epoca più complicata possibile per chi sulla maglia avesse impresso il numero dieci nutrendosi di pane ed estro. Nonostante una condotta extracalcistica, diciamo, tribolata.

Molto più affascinante, quindi, è il ricordo dell’uomo Maradona. Voce e volto di ogni popolo in lotta, granello di sabbia nei meccanismi di potere, esempio concreto di riscatto sociale. I suoi amici fraterni, non a caso, furono Fidel Castro, Evo Morales, Hugo Chávez. Gigante tra i giganti. Sinonimi in carne e ossa di antimperialismo militante, quindi anch’essi invisi all’establishment mondiale, e con loro si adoperò senza riserve per la causa dell’amata America Latina. Contro l’embargo criminale a Cuba, denunciando le intromissioni sanguinarie nel continente latino che rimbalza da un golpe all’altro o, ancora, denunciando la pirateria dei Bush e degli Obama insieme alle loro bombe umanitarie foriere di morti innocenti. Quando avrebbe potuto fare scelte di vita più conservative, preoccupandosi soltanto di non inimicarsi nessuno ai piani alti della società profittocentrica dei signorsì. Invece no. Lo stesso spirito per il quale Diego rimase fedele a Napoli ed ai napoletani benché ricevesse senza soluzione di continuità la corte serrata dai club più ricchi, più potenti, più vincenti al mondo. Nulla in confronto al privilegio di poter ricambiare l’amore di una città che vedeva in lui una fonte di rivalsa, un grimaldello per scardinare le ingiustizie. 

Per questo motivo, non ha senso limitarsi a celebrare gli almanacchi, i successi e le statistiche di una carriera comunque eccezionale. Maradona, piuttosto, ha incarnato il gioco del calcio nella sua forma ancestrale, quella più pura, senza essere relegato a mera appendice dorata della propria esistenza. Il calcio, pertanto, come strumento al servizio degli ultimi del pianeta e non macchina da petrodollari; il calcio quale formidabile cassa di risonanza in grado di veicolare un messaggio il più possibile internazionalista, contro ogni forma di prevaricazione sociale. Diego, investito da Madre Natura di una forma purissima di talento, ha sempre usato l’immensa popolarità costruita dando del tu al pallone per arrivare fino agli angoli più nascosti, impervi e dimenticati. Il barrio del mondo, la sua casa.

Proprio lì, nei quartieri degradati che pullulano di umanità e lacrime, dove pensare al domani è da eroi e giustizia è soltanto una parola vuota sul dizionario, Diego Maradona – che oggi avrebbe spento sessantacinque candeline – non è mai morto. Vive sui muri che ancora lo ritraggono, vive per le strade affollate, vive sui campi da calcio più sperduti, vive nell’immaginario collettivo. Soprattutto, vive nei bambini che, al pari di lui, provano a darsi un futuro diverso da quello che gli è stato scritto. Magari inseguendo un pallone.

Tanti auguri Diego, ovunque tu sia.


Il genocidio di Gaza e la complicità globale


Un crimine che non nasce da solo

(Giuseppe Gagliano – lafionda.org) – Il genocidio in corso nella Striscia di Gaza non è un evento improvviso né isolato. È il risultato di un processo lungo, costruito su decenni di occupazione militare, impunità politica e complicità internazionale. Come documenta con precisione il rapporto presentato alle Nazioni Unite dalla relatrice speciale Francesca Albanese, si tratta di un crimine collettivo, in cui Stati terzi hanno avuto un ruolo determinante nel fornire supporto diplomatico, militare, economico e persino “umanitario”, consentendo a Israele di trasformare l’occupazione in una macchina di distruzione sistematica.

Dietro le macerie di Gaza non ci sono solo bombe e soldati. Ci sono governi che forniscono armi, porti che accolgono navi cariche di materiale bellico, banche che finanziano industrie, imprese che forniscono tecnologia dual-use, diplomazie che esercitano veti e silenzi che valgono come complicità. Il genocidio, come sottolinea il rapporto, non è mai opera di un solo attore.

Il quadro giuridico: obblighi chiari, responsabilità ignorate

Il diritto internazionale impone agli Stati non solo di non partecipare a crimini come genocidio, apartheid o aggressione, ma di prevenirli e punirli. La Corte internazionale di giustizia aveva già nel 2004 dichiarato illegale l’occupazione israeliana e ribadito gli obblighi di tutti gli Stati di agire. Questi obblighi non sono facoltativi: gli Stati hanno il dovere giuridico di non riconoscere situazioni illegali, di non prestare aiuto o assistenza e di intervenire per far cessare le violazioni.

Ma le misure previste — embarghi sulle armi, sospensioni di accordi commerciali, pressione diplomatica e cooperazione con i tribunali internazionali — non sono state adottate. Anzi, in molti casi è accaduto l’opposto: si è consolidato un sistema di relazioni che ha reso possibile, sul piano materiale e politico, la campagna di distruzione di Gaza.

La diplomazia come rete di protezione

Il primo pilastro della complicità è quello diplomatico. Dopo il 7 ottobre 2023, il Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite è diventato teatro di una paralisi sistematica. Gli Stati Uniti hanno posto il veto sette volte su risoluzioni per un cessate il fuoco permanente. Altri Paesi occidentali si sono limitati a sostenere tregue temporanee o corridoi umanitari, lasciando proseguire la macchina di guerra.

Il discorso pubblico si è allineato alla narrativa israeliana, dipingendo i palestinesi come “terroristi”, “scudi umani” o “obiettivi collaterali” e cancellando il loro status di popolazione occupata protetta dal diritto internazionale umanitario. Questa manipolazione linguistica è stata essenziale per giustificare l’inerzia diplomatica e normalizzare l’idea che la guerra a Gaza fosse una risposta legittima a un’aggressione, piuttosto che la prosecuzione di un’occupazione coloniale.

Stati arabi e musulmani hanno mantenuto un profilo ambiguo. Alcuni hanno denunciato pubblicamente la violenza, ma allo stesso tempo hanno preservato relazioni economiche e strategiche con Israele, in particolare dopo la normalizzazione sancita dagli Accordi di Abramo. Altri hanno tentato mediazioni parziali senza mai incidere realmente sull’equilibrio militare e politico.

Mentre pochi Stati — come Belize, Bolivia, Colombia e Nicaragua — hanno sospeso relazioni diplomatiche con Israele, la maggior parte ha continuato a mantenere contatti ufficiali, rafforzando la percezione che non ci sarebbero state conseguenze reali per il genocidio.

Le armi: il carburante della macchina di guerra

Il secondo pilastro è quello militare. La campagna israeliana a Gaza è stata sostenuta e resa possibile da un flusso costante e massiccio di armi provenienti in gran parte da Paesi occidentali. Gli Stati Uniti da soli coprono circa due terzi delle importazioni militari israeliane. Solo tra il 2023 e il 2025 hanno approvato 742 spedizioni di armi e munizioni, oltre a fornire accesso diretto ai depositi militari statunitensi presenti in Israele.

Bombe, artiglieria pesante, munizioni di precisione, caccia e componenti per sistemi avanzati di sorveglianza e targeting sono stati consegnati mentre la fame e la carestia colpivano la popolazione civile. La Germania è il secondo esportatore di armi verso Israele, con licenze di esportazione per centinaia di milioni di euro, mentre l’Italia, il Regno Unito, la Francia e altri Paesi hanno contribuito direttamente o indirettamente a questa catena.

Questa rete non riguarda solo armi finite, ma anche componenti e tecnologie. Il programma dell’F-35 coinvolge 19 Paesi, molti dei quali forniscono parti e sistemi integrati impiegati direttamente nei bombardamenti su Gaza. Il flusso di armi non si è interrotto nemmeno quando erano già note le violazioni del diritto internazionale umanitario.

I porti e le basi come arterie logistiche

Dietro ogni consegna militare c’è un’infrastruttura globale che rende possibile la guerra. Porti in Europa e nel Mediterraneo — in Turchia, Francia, Italia, Paesi Bassi, Grecia, Marocco e Belgio — sono stati usati per far transitare componenti e armamenti. Aeroporti in Irlanda, Belgio e Stati Uniti hanno garantito l’arrivo dei rifornimenti. Alcuni scali hanno addirittura deviato spedizioni per aggirare proteste sindacali o controlli politici.

La cooperazione militare non si è limitata al commercio di armi: Israele ha partecipato a esercitazioni multinazionali, ha ricevuto intelligence in tempo reale e ha integrato la propria macchina bellica con sistemi occidentali, in particolare statunitensi e britannici.

Gli aiuti umanitari trasformati in arma

Il terzo pilastro è quello “umanitario”. Gaza era già prima della guerra un territorio assediato e dipendente dagli aiuti: l’80% della popolazione viveva grazie ai programmi di assistenza, soprattutto dell’UNRWA. Con la guerra, il blocco si è trasformato in assedio totale. I camion umanitari sono stati ridotti a meno di un terzo dei livelli precedenti. Ospedali, scuole e centri di distribuzione sono stati bombardati, più di 370 operatori dell’UNRWA sono stati uccisi.

Parallelamente, Israele e Stati Uniti hanno tentato di creare strutture umanitarie alternative, controllate militarmente, come la Gaza Humanitarian Foundation. Gli aiuti sono stati usati per spostare forzatamente civili, mentre le principali potenze occidentali paracadutavano cibo e medicinali in modo spettacolare ma inefficace, spostando l’attenzione dalla responsabilità politica alla gestione tecnica della crisi.

Economia e profitti: l’altra faccia della guerra

Il quarto pilastro è quello economico. Israele è un’economia fortemente integrata nei mercati globali: il commercio estero vale oltre la metà del PIL. L’Unione Europea è il principale partner commerciale, seguita da Stati Uniti, Asia e alcuni Paesi arabi. Le esportazioni di armi e tecnologia dual-use — in particolare circuiti integrati e sistemi di sorveglianza — sono cresciute durante la guerra.

Mentre Gaza veniva rasa al suolo, i flussi commerciali non si sono ridotti: anzi, in alcuni casi sono aumentati. Paesi europei e arabi hanno incrementato gli scambi con Israele, garantendo risorse e stabilità all’economia di guerra. I gasdotti nel Mediterraneo orientale hanno continuato a funzionare e, nell’agosto 2025, l’Egitto ha firmato un accordo energetico da 35 miliardi di dollari con Israele, proprio mentre la fame devastava la popolazione di Gaza.

Le tecnologie militari israeliane testate sui palestinesi sono diventate un prodotto da esportare: sistemi di sorveglianza, droni, software di controllo. La guerra non è solo sostenuta dall’economia: è essa stessa un motore economico.

La crisi della legalità internazionale

Questa catena di complicità diplomatica, militare, economica e logistica non è solo una questione morale: mina le fondamenta stesse dell’ordine internazionale costruito dopo la Seconda guerra mondiale. Il genocidio di Gaza mostra quanto siano fragili gli strumenti di tutela collettiva. Le decisioni della Corte internazionale di giustizia, i richiami delle Nazioni Unite, le norme del diritto umanitario internazionale vengono sistematicamente ignorati da Stati potenti, che le applicano selettivamente secondo convenienza geopolitica.

Il doppio standard è palese: sanzioni immediate contro alcuni Paesi, complicità silenziosa con altri. Questa incoerenza alimenta sfiducia globale e offre terreno fertile a potenze che contestano l’ordine internazionale esistente, rafforzando fratture già profonde.

Un sistema di potere da smontare

Il rapporto Albanese è esplicito: il genocidio di Gaza non può essere affrontato solo chiedendo un cessate il fuoco. Bisogna smantellare la rete di sostegno internazionale che lo rende possibile. Ciò significa sospendere immediatamente tutte le relazioni militari, commerciali e diplomatiche con Israele, imporre un embargo sulle armi, interrompere i rapporti economici legati a tecnologie dual-use, sostenere l’UNRWA e cooperare pienamente con la giustizia internazionale.

La storia offre precedenti: la fine dell’apartheid in Sudafrica fu accelerata da un regime di sanzioni e isolamento diplomatico. Le stesse leve possono — e secondo il diritto internazionale devono — essere usate per porre fine al genocidio.

Una frattura tra governi e popoli

Mentre i governi occidentali continuano a sostenere Israele, le opinioni pubbliche si muovono in direzione opposta. Milioni di persone in Europa, Stati Uniti, America Latina e mondo arabo hanno manifestato chiedendo un cessate il fuoco e sanzioni. Questa distanza tra società e istituzioni rischia di erodere la legittimità politica interna e di accelerare una crisi di credibilità internazionale per quelle democrazie che proclamano principi universali ma li applicano in modo selettivo.

La responsabilità della comunità internazionale

Il genocidio di Gaza è una prova storica. Ogni veto, ogni contratto d’armi, ogni accordo commerciale firmato mentre Gaza veniva distrutta rappresenta un atto di complicità documentabile. In un futuro inevitabile di tribunali e commissioni, la catena delle responsabilità non si fermerà a Tel Aviv: risalirà a Washington, Londra, Berlino, Bruxelles e alle capitali arabe che hanno permesso, con azioni o omissioni, che tutto ciò avvenisse.

Come scrive Albanese, il mondo è oggi sospeso tra due possibilità: lasciar crollare definitivamente il sistema di diritto internazionale oppure ricostruirlo attraverso la giustizia. In questo bivio, la neutralità non esiste.

Conclusione: Gaza come spartiacque

Il genocidio in corso non è solo una tragedia umanitaria. È uno spartiacque storico e giuridico. Se la comunità internazionale continuerà a proteggere Israele, accettando che un regime di apartheid e occupazione possa condurre un genocidio senza conseguenze, allora le norme che hanno retto l’ordine mondiale dal 1945 diventeranno carta straccia.

Se invece Stati, istituzioni e società civili sceglieranno di agire, applicando le norme e interrompendo la catena della complicità, Gaza potrà segnare non solo una catastrofe, ma anche l’inizio di una ricostruzione del diritto internazionale.

Il mondo guarda. E la storia, prima o poi, presenterà il conto.


Come se fosse antani


Come se fosse antani

(di Antonio Pitoni – lanotiziagiornale.it) – Ricordate il Reddito di Cittadinanza? La misura di contrasto alla povertà targata 5 Stelle dipinta dalle destre come la madre di tutte le truffe, prima di prendere di mira il Superbonus che in campagna elettorale promettevano di prorogare?

Si è scoperto che, oltre ad aver salvato in quasi cinque anni di vita 3,3 milioni di italiani dall’indigenza e un altro milione dalla povertà assoluta, stando ai dati della Guardia di Finanza, i furbetti del Reddito segnalati alla magistratura sono stati in tutto 62.215, per un totale di circa 665 milioni di euro percepiti indebitamente. In pratica, il grande scandalo denunciato dalle destre per attaccare prima e giustificare poi la revoca della misura, si è sgonfiato, come spesso capita a questa maggioranza di governo, di fronte alla testardaggine dei numeri. Tra errori e tentate truffe, le irregolarità hanno riguardato appena l’1,8% della platea dei beneficiari e l’1,9% dei 34,5 miliardi stanziati per finanziare l’assegno di cittadinanza.

Cose che capitano quando, da tre anni a questa parte, si pratica la solita tecnica: ribaltare la realtà negandola o travisarla citando solo la parte che conviene. Così per sbandierare la crescita dell’occupazione, si omette che ad aumentare sono soprattutto i contratti precari. Ieri alla Camera, la ministra Calderone ne ha dato l’ennesimo esempio. Ai 5 Stelle che le chiedevano i dati delle frodi sull’Assegno di inclusione (che ha rimpiazzato il Reddito di Cittadinanza), la risposta è stata tra la scena muta e un “come se fosse antani”. Con scappellamento rigorosamente a destra. Il conte Mascetti docet.


Ponte sullo Stretto, Meloni convoca riunione a palazzo Chigi


La Corte dei conti: “Critiche siano rispettose dell’operato dei magistrati”

Ponte sullo Stretto, Meloni convoca riunione a palazzo Chigi

(repubblica.it) – Una riunione di governo sul ponte sullo Stretto si terrà in mattinata a Palazzo Chigi, all’indomani della decisione della sezione centrale di controllo della Corte dei conti che ha negato il visto di legittimità alla delibera del Cipess sull’opera. L’incontro con Matteo Salvini è previsto alle 10.30. La “riunione d’urgenza” è stata convocata nella serata di ieri dalla presidente del Consiglio Giorgia Meloni.

“Ora Salvini è al Mit per confrontarsi con tecnici, manager e uffici dopo la decisione della Corte dei Conti – si sottolinea in una nota -. L’obiettivo è trovare una soluzione per far partire i lavori Il vicepremier e ministro è determinato”.

La sezione di controllo della Corte dei Conti dopo una udienza durata cinque ore e oltre quattro ore di camera di consiglio ha negato la bollinatura della delibera Cipess contestando di fatto tutto l’iter messo in piedi dal governo Meloni per realizzare l’infrastruttura. Le motivazioni ufficiali del diniego saranno rese note nei prossimi giorni ma già nell’udienza di ieri mattina la magistrata delegata Carmela Mirabella ha evidenziato una serie di anomalie alle quali i dirigenti di Palazzo Chigi, ministero delle Infrastrutture e Mef non hanno risposto, secondo la Corte, in maniera convincente.

Proprio questa mattina una nota della Corte dei Conti fa sapere che “tramite la Sezione di controllo di legittimità si è espressa, nella giornata di ieri, su profili strettamente giuridici della delibera Cipess, relativa al Piano economico finanziario afferente alla realizzazione del ‘ponte sullo Stretto’, senza alcun tipo di valutazione sull’opportunità e sul merito dell’opera”. Nella nota si aggiunge: “Il rispetto della legittimità è presupposto imprescindibile per la regolarità della spesa pubblica, la cui tutela è demandata dalla Costituzione alla Corte dei Conti. Le sentenze e le deliberazioni della Corte dei conti non sono certamente sottratte alla critica che, tuttavia, deve svolgersi in un contesto di rispetto per l’operato dei magistrati”.

Intanto Matilde Siracusano, sottosegretario ai Rapporti con il Parlamento e deputata di Forza Italia fa sapere che “sulla realizzazione del ponte sullo Stretto il governo, così come già affermato dal premier Meloni e dal ministro Salvini, andrà avanti. Altro che game over, come spererebbe qualche oscurantista dell’opposizione. Nelle prossime settimane – questa una possibile soluzione in campo – l’esecutivo potrà assumersi la responsabilità politica di superare i rilievi della Corte dei Conti”.

Siracusano aggiunge: “Ci potrà infatti essere una deliberazione specifica del Consiglio dei ministri, che ha il compito di valutare se l’atto in questione risponda a interessi pubblici di rilevanza superiore e quindi debba essere eseguito comunque. Se il Consiglio dei ministri confermerà la necessità dell’atto, la Corte dei Conti dovrà comunque ordinare la registrazione dell’atto, apponendo un visto con riserva. Un atto registrato con riserva acquisisce piena efficacia legale, cioè può essere eseguito normalmente, ma rimane comunque una possibile responsabilità politica per il governo, cosa che francamente non ci spaventa. A causa di questa vicenda perderemo un pò di tempo, ma andando avanti con determinazione eviteremo che questo Paese venga screditato di fronte a chi è pronto ad investire”.

Sulla vicende interviene anche il presidente della Regione Veneto, il leghista Luca Zaia secondo cui il nodo del Ponte sullo Stretto “va affrontato da un punto di vista tecnico-legale, è già capitato e non sarà neanche l’ultima volta che la Corte dei Conti o qualche altra estensione dello Stato interviene nello spazio che gli è riconosciuto. Poi c’è il governo che risponderà. È fondamentale dire che si va avanti”. Interpellato sulla maggioranza che si scaglia contro i giudici e risponde: “Non è la prima volta e non sarà l’ultima” che accade una cosa del genere, “a me personalmente è capitato con opere in Veneto. Si tratterà di capire se il governo deciderà di impugnare o modificare il provvedimento”. Se si tratta di un’invasione di campo come sostiene la premier Giorgia Meloni? “Io non conosco il provvedimento, mi sembra di capire che se si arriva ad una impugnativa di questo genere tra gli interlocutori non ci sia stato dialogo”.


Pnrr, il Sud rischia uno scippo di 18 miliardi: ricordatevelo quando si riparlerà di assistenzialismo


Secondo i criteri UE, al Mezzogiorno spetterebbe il 65% delle risorse PNRR, ma la realtà è ben diversa: ecco i numeri dell’ennesimo scippo

(Luca Antonio Pepe – ilfattoquotidiano.it) – La sintesi di questo post è: lo Stato ha scippato al Sud 18 miliardi. Ma andiamo per gradi.

Avete presente la cosiddetta ‘clausola del 40%’, secondo cui le Amministrazioni centrali coinvolte nell’attuazione del Pnrr devono assicurare che almeno il 40% delle risorse debba essere destinato alle regioni meridionali? Ebbene sì, lo prevede il decreto-legge n. 77/2021, ma prima di verificare se questa clausola venga rispettata chiediamoci se l’importo è corretto. La risposta è ‘no’, è il minimo sindacale.

Vi invito ad approfondire i criteri che l’Ue aveva adottato per calcolare la redistribuzione dell’intera dotazione europea del Pnrr verso tutti gli Stati membri: secondo il documento della Commissione Europea “Com (2020) 408 Final”, le risorse andavano distribuite applicando i seguenti parametri: proporzionalità diretta alla popolazione residente dello Stato membro, proporzionalità inversa rispetto al reddito pro-capite; proporzionalità diretta rispetto al tasso di disoccupazione medio degli ultimi 5 anni. In parole povere, il motivo per cui l’Italia ha portato a casa circa 200 miliardi è da attribuire al fatto che, adottando i suddetti tre criteri, il Sud recava il Pil più esiguo e la minore occupazione tra tutti gli Stati Membri.

E se il nostro Paese avesse adottato per la redistribuzione tra le regioni gli stessi criteri applicati da Bruxelles verso i propri Stati? Il Meridione avrebbe avuto diritto al 65% delle risorse nazionali. Altro che 40%! Dettagliatamente, all’Abruzzo spettavano 4,2 miliardi, al Molise 1,4, alla Campania 43,6, alla Puglia 26,7, alla Basilicata 2,2, alla Calabria 16,8, alla Sicilia 41,1.

Ma, almeno, è rispettata la clausola del 40%? Nel corso di un’audizione svoltasi lo scorso 8 ottobre in Commissione Federalismo, il ministro competente, Tommaso Foti, si era lasciato andare a una dichiarazione criptica: “C’è molta polemica sulla spesa del Pnrr. Se andiamo a vedere la politica di coesione che è esattamente in percentuali di spesa, un decimo di quella del Pnrr”. Che avrà voluto dire? Che a favore del Sud è stato utilizzato un decimo della dotazione del Pnrr?

Sicuramente è un passaggio poco chiaro, soprattutto se consideriamo che appena una settimana prima alla Camera aveva sentenziato: “Non è bello che si vada ad adombrare che la percentuale del 40% delle risorse stanziate per il Sud sia un dato alterato, perché chi sta verificando quel dato è il Nucleo di valutazione della Coesione (…) che al 31 dicembre 2024 certificava che il 40% delle risorse territorializzate era stato riservato al Sud”. Tuttavia questa dichiarazione smentirebbe la sua stessa struttura ministeriale, giacché il sito internet ufficiale non riporta dati aggiornati al 31 dicembre 2024, bensì al 31 dicembre 2023. Infatti, sul portale del dicastero è pubblicata solo la “Quarta relazione clausola 40% Pnrr al Mezzogiorno” mentre ancora si attende la “Quinta relazione” con dati aggiornati al termine del 2024.

Tuttavia, anche ammettendo che il ministro abbia ragione, e cioè che esista un report aggiornato al 31/12/2024, verrebbe da chiedersi come mai non sia stato pubblicato sul sito del ministero, in pieno spregio del Decreto Trasparenza n. 33/2013, che impone l’accessibilità totale alle informazioni delle attività delle pubbliche amministrazioni. Eppure è un’operazione semplice, quisquilie per i componenti del Nucleo di valutazione della Coesione, a cui è riconosciuto un trattamento economico annuo compreso tra un minimo di euro 50.000 e un massimo di euro 140.000.

In ogni caso, la tesi di Foti è comunque smentita da un recente rapporto dell’Ufficio Studi di FederCepi Costruzioni (che rappresenta oltre 10.200 aziende del comparto edile), secondo cui appena il 31,6% dei progetti finanziati dal Pnrr è stato assegnato alle regioni del Sud, con pagamenti effettuati che rasentano il 17%. Dunque, se la tesi fosse confermata, e cioè che il Sud abbia percepito circa il 9% in meno rispetto alla clausola del 40%, a quanto ammonta l’ammanco potenziale per i meridionali?

Se non muta il trend, nel 2026 il Meridione potrebbe subire uno scippo complessivo, l’ennesimo, di quasi 18 miliardi di euro. Questi sono i dati, le statistiche nude e crude. Ricordatevelo quando vi diranno che i meridionali vivono di assistenzialismo e risorse pubbliche.


“Stragi d’Italia”, la presentazione del libro di Lodato e Li Gotti: “Governo nasconde trama nera, vuole l’oblio”


Alla serata anche Conte, Scarpinato, Ranucci e Borsellino

(di Alberto Sofia – ilfattoquotidiano.it) – “C’è una trama nera che il governo Meloni vuole nascondere. Vogliono l’oblio, ma non lo consentiremo”. Queste le parole del giornalista Saverio Lodato e dell’avvocato Luigi Li Gotti, autori di “Stragi d’Italia. Il caso Almasri e tutto quello che Giorgia Meloni e il governo non vogliono ammettere” (ed. Fuoriscena), presentato al Teatro Garbatella di Roma, nel corso di un evento organizzato da Antimafia Duemila. All’iniziativa hanno partecipato anche il presidente M5s Giuseppe Conte, Salvatore Borsellino, fratello del giudice Paolo Borsellino e leader del Movimento “Agende Rosse”; il senatore M5s Roberto Scarpinato, già procuratore generale di Palermo e ora membro della Commissione parlamentare antimafia. In platea, tra il pubblico anche il sostituto procuratore nazionale antimafia Nino Di Matteo e il giornalista e conduttore di Report Sigfrido Ranucci.

Ad attaccare il Guardasigilli Carlo Nordio, alla vigilia dell’ultimo passaggio parlamentare sulla riforma della separazione delle carriere, è stato Giuseppe Conte, anticipando la raccolta firme che sarà portata avanti dai parlamentari M5s in vista del referendum. Facendo riferimento alle parole del ministro della Giustizia sul caso Garlasco, è stato invece Li Gotti a sottolineare: “Nordio ha detto una ‘frase di principio in tema di giustizia’ che va ben oltre il caso in sé. Ovvero, per Nordio â€œci sono processi e indagini che vanno avanti per decenni, perché la verità non si è mai trovata. Però ad un certo punto bisognerebbe avere il coraggio di arrendersi e di dire che il tempo non solo è padre di verità, ma è anche padre di oblio. È difficilissimo, dopo 20-30 anni, ricostruire una verità giudiziaria. Lasciamola agli storici o ad altri”. Parole che hanno spinto lo stesso avvocato Li Gotti a chiedersi: “A chi sta parlando il Ministro della Giustizia? Su quali indagini vuole l’oblio? Ci sono nuove indagini che riguardano fatti lontani. Qualche giorno fa è stato arrestato un prefetto per aver depistato le indagini sull’omicidio Mattarella. Avete sentito qualche parola da qualcuno della maggioranza di destra? E perché non parlano? Parlano di tutto…”. Pure Lodato rivendica: “Falcone, quando iniziò a indagare su quel delitto, iniziò a privilegiare la ‘pista nera’, quella fascista, sostenendo che bisognava capire quali fossero allora i rapporti tra Cosa nostra e l’eversione nera“.

Un collegamento, quello tra mafie e movimenti neri e neofascisti, ricordato anche da Roberto Scarpinato: “Le dichiarazioni di decine di collaboratori ci dicono che le stragi furono eseguite dai mafiosi, ma scelte da specialisti del linguaggio delle bombe per interessi politici superiori”. Mentre Salvatore Borsellino ha attaccato l’esecutivo e il lavoro della commissione Antimafia presieduta da Chiara Colosimo: “Stanno cercando di isolare la strage di Via d’Amelio da tutte le altre e addebitare la causa a un improbabile dossier mafia-appalti, che sarà pure passato tra le mani di mio fratello, ma che mai avrebbe giustificato l’accelerazione di via D’Amelio che c’è stata. Stanno cercando di riscrivere la storia e questo va combattuto“.


La strategia della premier: così parte la campagna contro chi “ferma il Paese”


La distanza con Forza Italia sul “timbro” di Berlusconi alla riforma. Scintille tra il ministro Nordio e il presidente La Russa

Giorgia Meloni 

(di Lorenzo De Cicco – repubblica.it) – «È quasi un assist». Nella cerchia di Giorgia Meloni c’è chi racconta così la decisione della Corte dei conti sul ponte sullo Stretto, caro soprattutto a Matteo Salvini. Perché da giorni la premier lavora con i fedelissimi al leitmotiv attorno a cui imperniare la campagna referendaria per la separazione delle carriere, che sarà votata stamattina al Senato, per la quarta e ultima lettura. Il ritornello, il messaggio da far passare, confidano dall’entourage della premier, sarebbe questo: i giudici bloccano il Paese.

Il ponte non si fa? Colpa dei magistrati. I centri in Albania? Bloccati dalle toghe. Meloni è intenzionata a puntare tutte le fiches sulla mala giustizia. Ha letto, in queste settimane, alcuni sondaggi interni. Il tema è molto sentito, soprattutto nel centrodestra. E dentro FdI si sono fatti l’idea che la chiave giusta per vincere la partita del referendum sia questa: raccontare inefficienze e storture (o presunte tali) della magistratura. «Non la vendetta dei Berlusconi», confida un colonnello di via della Scrofa. Quella è la lettura politica che vuole dare Forza Italia, che difatti ieri chiedeva a tutto il partito, da Nord a Sud, di istituire una «Giornata della giustizia negata» per il 21 novembre, anniversario dell’avviso di garanzia a Berlusconi nel ‘94. FI intende raccontare il «dramma» vissuto dall’ex Cavaliere e cerca «testimonial di casi emblematici», si legge nella lettera firmata da Antonio Tajani. Visioni diverse tra soci di governo, che sottotraccia stanno venendo a galla.

Prova ne è il balletto sulle piazze per celebrare la riforma, l’unica che la coalizione riuscirà a portare a dama entro le Politiche: il premierato procede a rilento, il secondo passaggio parlamentare non è stato calendarizzato nemmeno per novembre, slitterà all’anno prossimo. Gli azzurri hanno già annunciato la loro adunata: oggi a piazza Navona, invitate alcune «vittime di errori giudiziari». FdI ancora non ha sciolto il nodo. Sui cellulari dei senatori è arrivato ieri un Whatsapp di preallerta: tutti convocati per mezzogiorno. Ma dove? «Seguiranno aggiornamenti». C’è chi spinge per trasformare piazza Navona, a cui si aggregherà la Lega, in una manifestazione unitaria; altri invece premono per un rapido flash mob autonomo, a San Luigi dei Francesi, sotto al Senato. Tajani non ci sarà: è in trasferta in Niger. Matteo Salvini si presenterà in aula, al momento del voto, in quanto senatore. E Meloni? I suoi la raccontano «tentata» dal blitz a Palazzo Madama, anche se non è la sua Camera di appartenenza. Sarebbe un modo per «metterci la faccia», soprattutto dopo la sentenza di ieri della magistratura contabile, che il centrodestra intende riformare al pari di quella ordinaria: si è appena concluso l’iter in commissione a Palazzo Madama.

Archiviato il voto di oggi, il centrodestra chiederà per primo la conta, il referendum, presentando le firme di un quinto dei parlamentari. Un modo per giocare d’anticipo su chi avversa la legge. E anche per provare a indirizzare il quesito. Nonostante i sondaggi, qualche preoccupazione c’è sulla riuscita dell’operazione nelle urne. «A differenza di Renzi, Meloni non ha mai detto che se perde il referendum lascia la politica», metteva le mani avanti ieri il capo dell’organizzazione di FdI, Giovanni Donzelli. Nel frattempo il ministro della Giustizia, Carlo Nordio, dopo avere bollato il dibattito parlamentare dell’opposizione come «litania petulante», replicava a Ignazio La Russa, secondo il quale «forse il gioco» della riforma «non valeva la candela». Per il Guardasigilli invece sì, «vale un candelabro…». Contro-replica di La Russa: «Sia il governo sia i magistrati danno tutti troppa importanza a questa modifica». Schermaglie. Ma anche il presidente del Senato insiste sul nodo vero: dal voto, previsto dopo Pasqua, non dipenderanno le sorti dell’esecutivo. «Meloni è assolutamente contraria a legare il proprio consenso a un qualsivoglia referendum».


Bentornato, Joe! Il presidente gaffeur che ora non è più solo


Il 27 ottobre si è diffusa la notizia del discorso dell’ex presidente Joe Biden in occasione della consegna di un premio alla carriera dall’Edward M. Kennedy Institute […]

(di Fabio Mini – ilfattoquotidiano.it) – Il 27 ottobre si è diffusa la notizia del discorso dell’ex presidente Joe Biden in occasione della consegna di un premio alla carriera dall’Edward M. Kennedy Institute di Boston. È stato anche precisato che Biden era reduce da un ciclo di radioterapia per un cancro alla prostata ed è apparso in buona salute. È un sollievo per tutti che merita un “Bentornato e lunga vita Joe”, anche se un’indagine ha sollevato dubbi sulle facoltà mentali dell’ex presidente quando furono firmati con penna automatica gli atti di grazia ai suoi amici e parenti. Purtroppo le immagini e le parole del discorso hanno confermato lo stato confusionale in cui l’ex presidente ancora si trova. Ha parlato del principio democratico di limitare i poteri del presidente. Sembrava serio, anche se affannato, e smemorato proprio riguardo ai limiti infranti durante tutta la sua presidenza. Pur ammettendo la strumentalità delle accuse d’incapacità d’intendere e volere che Trump muove al suo predecessore, ogni apparizione di Biden risveglia la riflessione sulle disastrose decisioni da lui prese portando la guerra in Europa e nel mondo. A chi devono essere attribuite, a lui o alla cerchia che lo manovrava e approfittava della sua capacità di pensare? E che democrazia è quella che avalla i raggiri di un presidente malato? Tra l’immagine di un presidente cinico e bellicista e quella di presidente vittima della circonvenzione d’incapace, è forse più generosa quella di gaffeur, almeno fino a quando le gaffe per le quali Joe era famoso non si traducevano in tragedie. Durante i primi mesi della guerra in Ucraina si poteva ancora scherzarci su e tra amici si poteva provare a immaginare i suoi commenti al discorso che il suo nemico Putin, sempre insultato e oltraggiato, aveva tenuto il 16 marzo 2022.

“Ehi Joe, hai sentito cos’ha detto Putin?”. No. “Ha detto che l’abbiamo costretto all’invasione perché abbiamo addestrato i nazisti, li abbiamo armati, abbiamo pagato i mercenari, abbiamo installato laboratori di armi biologiche e stavamo per dare armi nucleari all’Ucraina e alla Polonia; tutto per distruggere la Russia e l’Europa perché dell’Ucraina non ce ne frega niente!”. Merda, ci ha beccati! E adesso cosa facciamo? â€œO smentiamo dicendo che è tutta propaganda o facciamo sparire il testo del discorso”. Ok, tutt’e due!. “Ha poi detto che gli oligarchi russi qui da noi non possono fare a meno di foie gras e ostriche!” E tutto il caviale e champagne che gli paghiamo dove va a finire? â€œHa detto che in questi otto anni in Donbass gli ucraini hanno ammazzato 14 mila persone, bambini compresi!”. ‘Sto bastardo, dà il merito agli ucraini anche di ciò che facciamo noi. “Dice che è pronto a discutere questioni importanti come neutralità, smilitarizzazione e denazificazione!”. Già, e le badanti?. “Dice che le Banche centrali e i governi occidentali sono stati sordi e miopi di fronte alle esigenze della gente!” Cosa?. “DICE CHE SIAMO MIOPI E SORDI!”. Be’, io non ho visto o sentito niente! â€œDice che il sequestro di beni e conti esteri di aziende e individui russi è un furto!” “Dice che con questi sistemi facciamo perdere fiducia nel dollaro e i ricchi convertiranno i loro pezzi di carta in materiali concreti!”. Bastardo e bugiardo! A proposito, a quanto sta l’oro oggi? â€œDice che i tentativi di cancellare la Russia hanno strappato la nostra maschera di decenza!”. Il chirurgo plastico mi ha assicurato che la mia non si strappa. “Dice che i russi che scappano vengono da noi perché gli diamo la libertà di genere!”. Sì, ma non credo che la diamo anche ai froci. Vero? â€œDice che gli oligarchi che vengono da noi venderebbero la propria madre solo per avere il permesso di sedere sulla panchina fuori casa nostra!”. Ehi! Ecco, chi sono quella cicciona che gira per casa mia e quel barbone sdraiato nel portico?!

Bei tempi, quando si poteva ironizzare per allentare l’ansia. Oggi anche le stupidaggini l’accrescono e Joe non ne ha più l’esclusiva.