
(Istituto Cattaneo – Analisi elezioni regionali 2022-25 – A cura di Salvatore Vassallo – cattaneo.org) – Sulla base della stabilità degli elettorati che avevamo già osservato nelle elezioni regionali precedenti, il risultato di quelle in programma in Veneto, Campania e Puglia appariva scontato. Ed in effetti è andato tutto più o meno come previsto.
Questa ultima tornata ha confermato un sostanziale equilibrio, sul piano elettorale complessivo, tra Centrodestra e Centrosinistra largo, cioè allargato al M5S (che dâora in poi, per semplicità , chiamiamo CS+). Più o meno, lo stesso equilibrio registrato alle europee del 2024.
Le regionali, soprattutto in Campania e Puglia, costituivano tuttavia un test importante per il CS+. Per questo, la nostra analisi, oltre a considerare i risultati per lâelezione dei presidenti di regione, include lâelaborazione di una stima di ciò che potrebbe accadere in elezioni politiche nazionali se il sistema elettorale rimanesse invariato e la performance di CD e CS+ fosse simile a quella registrata nel ciclo delle elezioni regionali svolte dal 2022 ad oggi.
Tenendo conto della stabilità degli elettorati che avevamo già osservato nelle elezioni regionali precedenti, il risultato di quelle in programma in Veneto, Campania e Puglia appariva scontato. Ed in effetti è andato tutto più o meno come previsto.
Questa ultima tornata ha confermato un sostanziale equilibrio, sul piano elettorale complessivo, tra Centrodestra e Centrosinistra largo, cioè allargato al M5S (che dâora in poi, per semplicità , chiamiamo CS+). Più o meno, lo stesso equilibrio registrato alle europee del 2024.
Le regionali, soprattutto in Campania e in Puglia, costituivano tuttavia un test importante della competitività del CS+ nelle prossime elezioni politiche.
Per questo, la nostra analisi, oltre a considerare i risultati per lâelezione dei presidenti di regione, include lâelaborazione di una stima di ciò che potrebbe accadere alle elezioni politiche nazionali se il sistema elettorale rimanesse invariato e le performance del CD e del CS+ fossero simili a quelle registrate nel ciclo delle elezioni regionali svolte dal 2022 ad oggi.
Sul risultato nelle tre regioni al voto il 23-24 novembre, câè in effetti poco da dire. Come si può vedere dalle tabelle 1-3, è stato abbastanza in linea con i risultati delle politiche 2022 e delle europee 2024. à stato perfettamente in linea con quei risultati in Campania; ha registrato un miglioramento di circa 6 punti percentuali per il CD in Veneto e di circa 7 punti percentuali per il CS in Puglia. Con una lieve differenza segnalata dalla stima dei flussi (tabelle 4-6).
Abbiamo condotto analisi dei flussi su molte città ma abbiamo riportato qui solo quelle riferite alle tre città maggiori di ciascuna regione. In generale, risulta attenuata la tendenza dellâelettorato Cinque Stelle ad astenersi più degli altri elettorati in elezioni regionali. La si ritrova solo in Puglia.
à confermata la tendenza degli elettori dellâarea lib-dem (Azione, Iv, +Europa) a dividersi tra CD, CS e astensione. Per il resto, è confermata la sostanziale impermeabilità delle due aree: i passaggi da un polo allâaltro sono limitatissimi, con una parziale eccezione in Puglia.
Si può dire che circa la metà del vantaggio guadagnato dal CS in quella regione (quindi, intorno a 3 punti percentuali) derivi dalla capacità di De Caro di attrarre elettori che alle europee avevano votato per partiti di CD, i quali si aggiungono a quelli che aveva già spostato a vantaggio del PD grazie alla sua candidatura al parlamento europeo.
à forse di maggiore interesse unâanalisi complessiva che provi a ricapitolare lâesito di tutte le elezioni regionali che si sono svolte dal 2022 ad oggi. Per comprendere le ragioni della stima da noi condotta a questo riguardo (tab. 7 e mappe sottostanti), conviene richiamare alcuni dati di base. Nelle elezioni politiche del 2022, i partiti del CS+ hanno ottenuto, nel complesso, una percentuale di voti leggermente superiore a quella dei partiti del CD.
Di conseguenza, hanno ottenuto un numero di seggi leggermente superiore rispetto al CD tra quelli ripartiti con metodo proporzionale. Alla Camera, nella quota proporzionale, il CD ha ottenuto 114 seggi; il CS+ (CS + M5S + Azione-Iv) ne ha ottenuti 130. Ma poiché ciascuna delle tre componenti del cosiddetto Campo Largo ha presentato candidati propri (in competizione gli uni con gli altri) nei collegi uninominali, il CD ha vinto quasi dappertutto: in 121 dei 147 collegi; CS+M5S solo in 23.
Se si considerano le intenzioni di voto attualmente stimate dai sondaggi, è assai plausibile che, in una competizione nazionale in cui il CS+ si presenti unito, CS+ e CD otterrebbero percentuali di voti e un numero di seggi di entità quasi equivalente nella quota proporzionale.
Dunque, se il sistema elettorale non verrà modificato, il risultato sarà determinato, questa volta quasi completamente, dal numero di seggi ottenuti nei collegi uninominali. Nel Nord e nel Centro, con lâeccezione dei grandi centri urbani, il vantaggio del CD rimane solido, anche di fronte a un CS+ unito.
Nellâex Zona Rossa e al sud il CS+ ha invece un notevole margine di recupero. Naturalmente, non si possono sommare i risultati delle tre componenti del CS+ del 2022, perché non possiamo dire in che misura i tre elettorati siano rimasti stabili e disposti a confluire su candidati comuni.
Per questo, le elezioni regionali, soprattutto dove il CS+ ha presentato candidati comuni alla presidenza, forniscono una misura più affidabile. Per stimare quanto sia ampio il margine di recupero del CS+ e quanto le prossime elezioni politiche possa risultare contendibili, abbiamo considerato come indicatori dellâattuale equilibrio i voti ricevuti dai candidati a presidente di regione nelle tornate elettorali che si sono svolte dal 2023 ad oggi, quando cioè era già iniziata la ricomposizione del CS+, dopo lo choc (atteso) delle politiche 2022.
La stima è stata condotta solo sui seggi della Camera perché, a differenza di quanto talvolta sostenuto da commentatori e politici, i sistemi elettorali di Camera e Senato hanno effetti identici, nellâaggregato, in percentuale, anche se il numero dei collegi senatoriali è inferiore. In pratica, abbiamo calcolato la somma dei voti ottenuti dai candidati a presidente di regione in ciascuno dei collegi uninominali della Camera, ipotizzando che i futuri candidati comuni al Parlamento delle principali coalizioni possano contare sulla stessa base di consensi.
Non abbiamo apportato aggiustamenti discrezionali nei casi in cui il M5S o altre componenti del CS+ abbiano presentato candidati propri. La stima, quindi, non può tenere conto di eventuali spostamenti di quegli elettori che, ad esempio, in Toscana hanno votato per Antonella Moro Bundu (Sinistra Rossa, 72.322 voti) o in Sardegna per lâex presidente regionale di CS, Renato Soru (63.000 voti) o in Sicilia per il 5S Nunzio Di Paola (335.000 voti).
Non tiene conto della tendenza, da noi stessi rilevata in una precedente analisi, per la quale, in Calabria, il CD ha ottenuto ripetutamente (come avvenuto anche nel 2025) risultati significativamente migliori alle regionali rispetto alle politiche. Non può infine tenere conto di ciò che sarebbe accaduto in Sicilia se, alle elezioni regionali del 2022, fosse già stato realizzato un accordo tra CS e M5S.
Dâaltro canto, questa stima non è stata elaborata con la pretesa di âprevedereâ cosa accadrà alle prossime elezioni politiche, bensì di identificare e misurare la tendenza delineata dal ciclo delle elezioni regionali. La tendenza è abbastanza chiara. La dimostrata possibilità di far confluire i voti dei partiti del CS+ su candidati comuni (cosa non scontata), soprattutto nel Sud, riapre la competizione anche a livello nazionale.
Dâaltro canto, alle regionali, il governo Meloni ânon è stato battutoâ e il CD continua ad avere buone probabilità di rivincere le elezioni politiche. Ma, mentre alle elezioni del 2022 il CD ottenne 98 seggi in più delle varie componenti del CS, in base ai risultati delle regionali, questo vantaggio si ridurrebbe a circa 34, con la eventualità che si riduca ulteriormente o venga di poco ribaltato se, ad esempio, alcuni dei fattori citati in precedenza (soprattutto in Sardegna, Sicilia e Calabria) dovessero torcersi a suo danno.
In Sardegna, ad esempio, la candidata alla presidenza del CS+ ha prevalso nettamente nel (territorio del) collegio uninominale di Cagliari, ma è stata superata, di poco, dal candidato del CD negli altri collegi. Ci potrebbe trovare con una Italia di nuovo divisa in due, o meglio in 5: con il Nord e il Centro al CD; la Zona rossa e le grandi regioni del Sud al CS; con Sicilia, Calabria e Sardegna come âcampo di battagliaâ.
Con tutta evidenza, sta qui lâinterrogativo che sottende ad una possibile ulteriore riforma del sistema elettorale. Se sia preferibile un esito potenzialmente indeterminato, con la formazione di governi sostenuti da una esile maggioranza, o addirittura la formazione di un governo sostenuto da partiti appartenenti ad entrambe le coalizioni, oppure un sistema elettorale simile a quello che ha consentito ad entrambe le coalizioni di celebrare vittorie e sconfitte nette nel ciclo delle elezioni regionali che si è appena concluso.
Anche le regionali in Campania, Puglia e Veneto confermano che non siamo davanti a un fenomeno fisiologico né a un semplice sintomo temporaneo. Si tratta di un segnale profondo e strutturale che richiede interventi immediati. à per questo che diventa urgente costruire, subito e con decisione, le condizioni per una nuova stagione di partecipazione consapevole. Serve agevolare il voto, più educazione civica, più attenzione alle donne e alle periferie

(Pierpaolo DâUrso* – editorialedomani.it) – Il Rapporto BES 2024 dellâIstat, che fotografa lo stato del benessere equo e sostenibile in Italia nel 2024, delinea, con riferimento al dominio Politica e istituzioni, un quadro segnato da un paradosso evidente: mentre nel lungo periodo si registrano avanzamenti significativi in specifici ambiti, soprattutto nella rappresentanza femminile e nella fiducia verso alcune istituzioni, la partecipazione elettorale continua a deteriorarsi in modo costante e profondo.
La metà degli indicatori del dominio peggiora nellâultimo anno e, fra questi, quello più cruciale per la vitalità democratica del paese si colloca su livelli ormai insostenibili. Alle elezioni europee del 2024 la partecipazione si ferma al 49,8 per cento, scendendo per la prima volta sotto la soglia simbolica del 50 per cento.
à un dato che da solo racconta la trasformazione culturale e civica di una nazione che, nel 2004, registrava il 73,1 per cento di affluenza e superava la media Ue di oltre 27 punti percentuali. Oggi quella distanza si è completamente azzerata e ribaltata: mentre la media europea cresce di 5,3 punti in ventâanni e raggiunge il 50,7 per cento, lâItalia perde 23,3 punti e si colloca un passo indietro rispetto alla media Ue.
La caduta non è episodica ma strutturale, perché investe anche le elezioni nazionali, configurando una traiettoria discendente che attraversa territori, generazioni e condizioni sociali.
Lâanalisi territoriale rivela unâItalia che continua a muoversi in ordine sparso, con un Nord più partecipativo â 55,1 per cento nel Nord-ovest e 53,9 per cento nel Nord-est â, un Centro che regge al 52,5 per cento e un Mezzogiorno che fatica a superare il 43,7 per cento. Le Isole si fermano al 37,7 per cento e rappresentano da oltre un decennio lâarea più distante dallâurna. Il divario territoriale si restringe da 26,7 punti del 2019 a 17,7 nel 2024, ma questa apparente convergenza si spiega soprattutto con la flessione più rapida delle regioni del Nord, come il Nord-est che perde dieci punti in un solo quinquennio. Anche le dinamiche di genere presentano elementi di interesse: gli uomini continuano a votare leggermente più delle donne, 50,6 per cento contro 49 per cento, ma il divario cala sensibilmente rispetto al 2019.
In controtendenza, nelle Isole la partecipazione femminile cresce di 2,1 punti pur restando su un livello drammaticamente basso, pari al 36,5 per cento. Accanto al declino della partecipazione, il BES 2024 registra un miglioramento della fiducia nei confronti delle istituzioni politiche, che pur restando lontane dalla sufficienza mostrano segnali di recupero nel medio-lungo periodo. I partiti politici ottengono un voto medio di 3,5 (su una scala 0-10) contro il 2,4 del 2014, il parlamento sale da 3,5 a 4,7 e il sistema giudiziario da 4,2 a 4,9. Aumenta anche la quota di cittadini che assegna un voto almeno sufficiente: nel caso del parlamento si passa dal 21,3 per cento al 40,8 per cento, mentre per i partiti la quota raddoppia dal 10,2 per cento al 22,4 per cento. Si riducono contestualmente gli sfiduciati totali, soprattutto verso i partiti, nei quali i giudizi pari a zero scendono dal 35,7 per cento al 22,1 per cento. Resta invece molto alta e stabile la fiducia verso le istituzioni della sicurezza, con le Forze dellâordine che mantengono un voto medio di 7,4 e i vigili del fuoco che raggiungono 8,1 e sfiorano il 90 per cento di giudizi positivi.
Le differenze per titolo di studio e fascia dâetà confermano che la fiducia non è distribuita in modo uniforme: i laureati esprimono i livelli più alti di fiducia verso quasi tutte le istituzioni, mentre la fascia 25â44 anni è la più diffidente. I meno istruiti, sorprendentemente, mostrano una fiducia leggermente maggiore nei partiti rispetto ai laureati, soprattutto tra i 25 e i 64 anni.
Il fronte della parità di genere presenta dinamiche ambivalenti. Da un lato, la rappresentanza femminile nei consigli di amministrazione delle società quotate continua a migliorare e arriva al 43,2 per cento nel 2024, superando sia la soglia normativa sia la media europea. à un risultato di rilievo, reso possibile dalle misure introdotte nel decennio passato, ma che non trova corrispondenza nei ruoli esecutivi: soltanto il 2,2 per cento delle società ha una donna come amministratrice delegata e appena il 3,5 per cento ha una presidente. Anche nei ruoli manageriali lâItalia resta indietro rispetto alla media Ue27.
Nel parlamento italiano la quota di donne scende al 33,7 per cento dopo il picco del 35,4 per cento del 2018, mentre nel parlamento europeo si passa dal 46,1 per cento del 2023 al 32,9 per cento del 2024, con una perdita di oltre tredici punti che riporta il paese sotto la media europea e molto lontano dai paesi guida come Svezia e Finlandia.
Nei Consigli regionali la quota femminile raggiunge il 26,4 per cento â dieci punti in più del 2014 ma ancora molto distante dal target del 40 per cento previsto dalla Strategia nazionale â con un forte squilibrio territoriale: 37,8 per cento nel Centro, 31,7 per cento nel Nord-est, 27,7 per cento nel Nord-ovest, 16 per cento nel Sud e 19,2 per cento nelle Isole.
A livello locale le donne rappresentano il 34,9Â per cento dei Consigli comunali e il 41,6 per cento delle giunte, ma solo il 15,3 per cento dei sindaci. In conclusione, con riferimento al dominio Politica e istituzioni, il Rapporto BES 2024 suggerisce implicitamente alcune traiettorie di policy.
La prima riguarda la necessità di contrastare con decisione lâastensionismo, che non può più essere letto come semplice disaffezione contingente, ma come una forma strutturale di allontanamento dalla partecipazione democratica. In particolare, il contrasto allâastensionismo richiede una politica organica e continuativa che affronti non solo gli ostacoli pratici al voto, ma soprattutto la crescente distanza culturale tra cittadini e sistema politico.
Occorre intervenire su più piani: ampliare le modalità e i tempi di voto, includendo forme di voto anticipato o agevolato; investire in educazione civica fin dai primi cicli scolastici, non come materia accessoria ma come asse portante della formazione democratica; modernizzare la comunicazione istituzionale, rendendola trasparente e verificabile; restituire dignità e credibilità alla funzione rappresentativa, affinché il voto torni a essere percepito come un atto efficace e non come un gesto marginale. La ricostruzione della partecipazione non può essere delegata solo alla buona volontà individuale: è una responsabilità collettiva dello stato, della politica e delle comunità locali, che devono agire con continuità per ricomporre il legame fiduciario spezzato.
Altrettanto urgente è il rafforzamento della fiducia nelle istituzioni politiche, attraverso trasparenza, responsabilità e valutabilità delle decisioni pubbliche, senza dimenticare che la credibilità istituzionale si nutre anche di servizi pubblici efficienti e vicini ai cittadini. Nello stesso tempo diventa essenziale consolidare i progressi nella parità di genere, rafforzando gli strumenti che favoriscono lâaccesso delle donne ai ruoli decisionali e intervenendo con misure più incisive laddove la presenza femminile resta marginale, in particolare nelle cariche esecutive, contribuendo così a infrangere in modo definitivo quel glass ceiling che ancora oggi limita talenti e leadership fondamentali per il paese.
Infine, la frattura territoriale che attraversa partecipazione, fiducia e rappresentanza impone una visione nazionale che porti al centro del dibattito politico le aree più fragili del paese, perché nessuna strategia di rafforzamento istituzionale può avere successo se intere porzioni del territorio continuano a sentirsi â e a comportarsi â come esterne alla vita civica.
Il dominio Politica e istituzioni del BES 2024 restituisce lâimmagine di unâItalia che cambia più rapidamente di quanto il dibattito pubblico percepisca. La fiducia cresce, la rappresentanza femminile avanza, alcune istituzioni consolidano il proprio capitale reputazionale, ma tutto questo resta vulnerabile finché metà del paese sceglie di non partecipare. Non è un fenomeno fisiologico né un semplice sintomo temporaneo, come testimoniano anche le regionali in Campania, Veneto e Puglia. àun segnale profondo e strutturale che richiede interventi immediati. à per questo che diventa urgente costruire, subito e con decisione, le condizioni per una nuova stagione di partecipazione consapevole, perché lâastensionismo non è più sostenibile.
*Pierpaolo DâUrso è docente di statistica e data science per le decisioni politiche, preside della facoltà di scienze politiche, sociologia, comunicazione, direttore del Master in data science per la Pa dellâUniversità di Roma La Sapienza
Mollicone: “Pasolini fu fascista. La sinistra ha svenduto la sua Torre di Chia a un attore, amichetto di Zingaretti”. “PPP fu fascista convinto, non per caso né per convenienza”, dice il presidente della commissione Cultura di Fratelli d’Italia. Che poi aggiunge: “Vi racconto della Torre di Chia, che Franceschini da ministro si rifiutò di acquistare per venderla a un amico”Â

(Ginevra Leganza – ilfoglio.it) – Passione PPP. Federico Mollicone lo sa e, a differenza del maestro, ha persino le prove. âIo lo so e ho le proveâ, dice lâhomme de lettres meloniano al Foglio. âIo lo so. Ho ricostruito tuttoâ, ribadisce. Cosa sa, onorevole? âSo che fu solo per amichettismo che la giunta di Nicola Zingaretti privò lâItalia della Torre di Chiaâ. Lâultima dimora di Pasolini. âLâallora segretario del Pd e presidente della Regione privò lâItalia di un bene simbolico della poetica pasolinianaâ. Quali sono le prove? âHo un documento dellâallora ministero, presieduto da Franceschini, che con la Regione doveva acquistare lâimmobile. Ma non se ne fece niente. E sa perché?â. Perché? âPerché Zingaretti volle favorire un amico del fratello Luca! Un attore che aveva recitato con lui in Montalbano! Un amichetto, insomma. Che lâacquistò per uso personaleâ.
Lâattore in questione è Gabriele Gallinari, leggiamo nel documento. Anche di questo parlerete oggi nellâambito dellâaffollatissimo convegno Pasolini conservatore? âSì. La sinistra ora si straccia le vesti perché io dico che lui è nel nostro pantheon, o perché rivendico che fu fascista. Ma quando governava, e aveva i soldi per acquistare la Torre che costava solo 775 mila euro, dovâera? Lâha venduta a un amico. Che forse ci abita e ci fa i reading una volta al mese. Ma quello è un luogo essenziale del pasolinismo. Eâ il luogo dellâultimo Pasolini. Il simbolo della produzione cinematografica, dovâè ambientato il Vangelo secondo Matteo. Della poetica visiva, dove si fece fotografare nudo da Dino Pedriali. E poi della letteratura, perché lì Pasolini compose Petrolio, dopo lâincontro con Pound. Eâ quello il vero luogo del poeta, eppure Franceschini non lo acquistò. E ora, carte alla mano, so perché. Ho ricostruito tuttoâ.
Già prima, comunque, la Torre di Chia, vicino a Soriano nel Cimino, apparteneva a un privato. Così risulta dalla risposta a una sua interrogazione parlamentare. âSì. Ma sarebbe stato giusto trasformarla in casa-museo in suo onore. Purtroppo nel 2021 ha prevalso la logica del salottino cinematografico. Come sempre, del resto. Loro, che ci accusano di appropriazione, ne hanno svenduto le spoglieâ. E oggi? âOggi noi abbiamo rilevato la sua casa da ragazzo a Rebibbia. Ma potrà intuire che non è la stessa cosaâ. No. Ma adesso veniamo al convegno. Vi si accusa di appropriazione, diceva. O se non altro dâaver forzato il pensiero del poeta. Di certo câè che quella per Pasolini, da passione, rischia di diventare una fissazione…e la fissazione â si dice da noi â è persino peggio della malattia… âNo. Per noi Pasolini è un riferimento. E lo rivendichiamo coi fattiâ. Lei, settimane fa, ci ha detto che era fascista più che conservatore. Eppure âconservatoreâ è nel titolo del convegno. Ci aiuti. Perché con tutti questi aggettivi PPP sta diventando un rompicapo. âQuel titolo lâha deciso Francesco Giubilei, non ioâ. Ah. Comunque la sua affermazione, così ardita, ha ispirato la beffa di Luca e Paolo. E poi una canzoncina di Geppi Cucciari. Li ha visti? âCerto. Ma io rivendico quello che ho detto: Pasolini fu fascista. Eâ tutto raccontato nel libro Pasolini giornalista di Giovanni Giovannettiâ.
Ma essere ventenni e fascisti â qualcuno obietterà â era fisiologico in quegli anni. âNo! No e poi no. Pasolini fu fascista. Attivo e convinto. E non solo perché scriveva su Setaccio e Architrave, ma anche perché ne disegnava i menabò, era caporedattore. E poi faceva parte dei Guf. Pensi che avrebbe addirittura fatto il delatore, per conto di un capo, per svelare chi dellâentourage fosse meno entusiasta del fascioâ. Ma onorevole, converrà con noi che la delazione non è una bella cosa. âNo, certo. Su questo ha ragione. Eâ solo per dire che fu fascista convinto. Attivo e consapevole. Proprio come Giorgio Bocca, Eugenio Scalfari, Dario Fo, Aldo Moro. In ogni caso, lâaffaire Torre di Chia prova lâessenza della sinistra. Ci insultano perché ce ne appropriamo, eppure loro, quando avevano i soldi, hanno venduto la dimora medievale agli amichetti. Dopodiché, giusto per chiarire: Pasolini fu fascista, comunista, poi fu espulso dal partito, e infine fu filoradicale. Fu un irregolareâ. E dunque un uomo che forse, per citare il suo Pound, avrebbe diritto che le sue idee fossero esaminate una per volta.

(Dott. Paolo Caruso) – Oggi 25 Novembre si celebra la “Giornata internazionale per l’eliminazione della violenza sulle donne”. La data fu istituita dall’ONU nel 1999 per ricordare le tre sorelle dominicane, Patria, Maria Teresa e Minerva Mirabal soprannaminate “mariposas” (farfalle), che opponendosi alla dittatura del generale Rafael Trujilo il 25 novembre del 1960 vennero torturate e uccise dai sicari e i loro corpi gettati in un dirupo per simulare un incidente. La violenza contro le donne rappresenta una delle violazioni dei diritti umani più diffuse, persistenti e devastanti che, ancora oggi, non viene denunciata a causa dell’impunità , del silenzio, della stigmatizzazione e della vergogna che la caratterizzano. Violenza del partner in situazione di intimità , violenze e molestie sessuali con stupro, avance sessuali indesiderate, stalking, molestie informatiche, sono le più frequenti cause di questa orribile piaga che investe le donne. Un dato ingombrante che provoca sofferenza fisica, sessuale e psicologica. In Italia dall’inizio dell’anno ad oggi sono 85 le donne uccise e almeno 68 sono i tentati femminicidi. Una tragedia dei nostri tempi che va a spalmarsi su tutte le regioni con picchi in Lombardia, Campania e Emilia Romagna, a cui seguono Lazio, Toscana e Sicilia. Atti che tristemente tornano a ripetersi in tutta la loro gravità e che rappresentano la punta dell’ iceberg di un disagio giovanile nel rapporto tra sessi diversi. Questi non possono che scuotere le coscienze e farci chiedere il perché, in cosa si è sbagliato nella formazione educativa dei giovani. E la scuola fino a che punto è stata attenta e vigile nell’ abbattere barriere ancestrali di possesso e di maschilismo arido e brutale? Certo dopo le dichiarazioni della Ministra alla famiglia che boccia di fatto l’ insegnamento dell’educazione sessuale nelle scuole relegandolo a pura formalità o le castronerie scientifiche elaborate dal Ministro Nordio che ricollegano la violenza di genere a malattia genetica, dubito che il mondo scolastico possa davvero essere un faro per i giovani. I femminicidi di questi ultimi giorni che hanno sporcato di sangue il Paese ripropongono il problema in tutta la sua crudezza e rappresentano il frutto perverso di una società malata. Una società chiusa a riccio nella propria solitudine che si proietta all’esterno in tante monadi. Vite spezzate colpite da mani assassine che in preda ai fumi della gelosia e del possesso non si sono fermate davanti a quello che ritenevano loro. Come nelle tragedie greche antiche si rimane attoniti. Gelosia e possessività echeggiano come miti primordiali con la gelosia figlia della possessività . I figli di Giasone uccisi dalla madre Medea. Il male mai domato, e noi convinti, riteniamo di sapere da quale parte esso stia, per inconsciamente sanare ferite, condannando chi del male si è fatto esecutore. Ma la tragedia greca si chiude in catarsi corale. La nostra generazione ne è in grado? O tenta a rimuovere e obliare il dolore. “Abbiamo perduto tutti”, così rieccheggiano le parole straordinarie del signor Cecchettìn padre di Giulia anch’essa vittima di femminicidio. Monito sottile e accorato a chiedersi: “Dove va l’umanità ”? à ancora in tempo per arrestarsi prima del baratro? Di altra visione, “altra” sottolineerei, hanno necessità le nuove generazioni per sopravvivere. Come diceva Benedetto Croce, ” La violenza non è forza ma debolezza, nè mai può essere creatrice di cosa alcuna, ma soltanto distruggerla “.
Tra guerre e crisi globali, lâUnione continua a presentarsi agli esami con i compiti copiati.

(di Gianvito Pipitone – substack.com/@gianvitopipitone) – Câè unâimmagine che torna ossessiva quando si guarda allâEuropa di questi mesi: quella di un adolescente svogliato, che si muove solo quando il genitore dâoltreoceano alza la voce, o lo minaccia. à brutale, certo, ma perfetta. Perché davvero sembra che lâUnione Europea abbia trovato la forza di abbozzare un piano di pace soltanto dopo la sortita di Donald Trump, come se la guerra e la distruzione a due passi da casa – da ormai quattro anni – non bastassero a scuotere il torpore incancrenito che aleggia su Bruxelles.
Il paradosso è lampante: la scorsa settimana, come noto, il presidente americano ha presentato un piano di pace in 28 punti per la guerra russoâucraina, un testo che serviva su un piatto dâargento concessioni pesanti a Mosca. Un documento sbilanciato, certo, ma comunque trattato con il dovuto rispetto da Kyiv, mentre in Europa è stato accolto con estrema freddezza. Eppure, giusto o ingiusto che fosse, almeno un documento è stato messo sul tavolo. La reazione di Bruxelles invece? Stizzita, quasi riluttante: lâUnione si è mossa come costretta, più per salvare la faccia che per reale convinzione.
Il grado massimo di nequizia politica si è raggiunto poi, il giorno dopo, con le dichiarazioni scomposte di Kaja Kallas, alto rappresentante europeo per gli Affari Esteri, oscillanti tra arroganza e sterile sfida allâamministrazione americana, salvo proclamare che senza lâEuropa non ci sarebbe stata la pace. Bene: verrebbe da domandarsi allora che cosa abbia fatto, fino a questo momento, lâEuropa per la pace. Poco, se non nulla.
Non è certo a noi convinti europeisti che si può imputare lâodio seriale verso la tecnocrazia di Bruxelles. Noi che siamo cresciuti allâombra di Maastricht, nutriti di moneta unica e istituzioni comunitarie, avremmo voluto raccontare finalmente di un continente adulto, capace di affrontare le sfide senza esitazioni. E invece lâEuropa, in questi quattro anni cruciali, ha continuato a sembrare uno studente, pigro ed indolente, che non vuole nè crescere, nè studiare. E non solo la sua apatia rischia di sfociare in conflittualità , ma si dimostra altresì incapace di affrancarsi e di agire di propria iniziativa, prigioniero di una dimensione adolescenziale che lo condanna a movimenti goffi e a un rapporto dipendente dal patrigno americano.
Lâunica prova di forza – mastodontica e spropositata – è stata il cosiddetto piano ReArm Europe, presentato nel marzo 2025 con lâobiettivo di mobilitare fino a 800 miliardi di euro per la difesa comune. Un piano che, privo del necessario soft power, ha finito per esacerbare gli animi di tutti gli attori in campo, più che rassicurarli, alimentando divisioni interne e dubbi sulla sostenibilità economica. In un momento in cui si chiedeva maturità , lâEuropa ha quindi preferito la propaganda alla sostanza.
E proprio quando si è trattato di affrontare lâesame di maturità di Gaza, lâUnione ha toppato clamorosamente: mesi di esitazioni sulla crisi umanitaria, per poi svegliarsi troppo tardi. Troppo divisa, incapace di smarcarsi dalla linea americana, ha finito per presentarsi allâappello senza voce né coraggio. E così allâesame di Gaza, fino alla fine lâEuropa ha fatto spallucce, scena muta e voto zero.
Ed ecco che, oggi, allâindomani dei 28 punti di Trump, Bruxelles ha finalmente scelto di muoversi. Non per convinzione, probabilmente, ma per paura di dover fare i conti con quei punti. Ha presentato una controproposta, certo migliorativa – anche perché era impossibile fare peggio – ma più per necessità che per slancio. à sembrato ai più un beau geste di maniera, più estetico che politico: impartire lezioni morali senza avere la forza e lo slancio necessario.
La verità è che lâEuropa ha ben compreso la posta in palio: la non partecipazione ai negoziati avrebbe relegato il continente a un ruolo marginale nello scacchiere geopolitico. E questo, per chi crede ancora nel progetto europeo, sarebbe stato un colpo mortale. Ora non sappiamo cosa succederà , ma la speranza è che, anche grazie alla collaborazione fattiva dellâUnione, si arrivi a una pace giusta, con garanzie di sicurezza per lâUcraina. Oltre che per lâEuropa stessa.
Fa male, però, vedere Bruxelles ridotta ad un simulacro di sé stessa, in uno stato confusionale pietoso. Per chi è nato e cresciuto nella convinzione che lâUnione dovesse rappresentare un faro di civiltà , una summa di ragione e sentimento, la sua burocrazia incapace e infruttuosa è una ferita aperta.
à arrivato il momento di crescere davvero, di smettere i panni adolescenziali e assumersi responsabilità adulte. Perché le sfide dâora in avanti sono tutte difficili: lâAmerica non è più la fedele alleata, la Russia preme, la Cina avanza, e i paesi arabi iniziano la loro parabola ascendente. Che coincide tristemente con la parabola discendente dellâEuropa.
Bisogna invece dimostrarsi maturi. Perché lâEuropa resta acerba, come un ragazzo che – pur avendo lâetà per diventare uomo – continua a presentarsi agli esami con la cartuccera dei compiti copiati dal vicino di banco. Prima o poi dovrà crescere davvero. Perché il futuro non ammette studenti fuori corso: o si cresce, o si scompare.
Nuovo incarico privato per lâex premier

(di Lorenzo Giarelli – ilfattoquotidiano.it) – Per tracciare le attività private del senatore Matteo Renzi occorre ormai un gps. Lâultima novità è di ieri e arriva da Tel Aviv: lâex premier entra nel consiglio di amministrazione di Enlivex, società israeliana di biofarmaceutica in cui però non si occuperà di molecole e foglietti illustrativi, ma di blockchain e dei cosiddetti mercati predittivi. Come? Attraverso un nuovo progetto della società , i cui passaggi sono piuttosto tecnici.
In sintesi, Enlivex (quotata al Nasdaq) sta raccogliendo capitali per 212 milioni di dollari per entrare nel mercato dei token Rain, sistemi online in cui si scommette sullâesito di qualsiasi cosa, in maniera svincolata dalle classiche agenzie di betting. Da Enlivex dipende quindi unâaltra âscatolaâ, Rain Treasury, che appunto si specializzerà in questo settore in cui le transazioni â spesso consentite in criptovalute â sono garantite dal sistema blockchain.
Argomenti da tecnico informatico o forse da economista, ma Renzi â come si può immaginare â avrà soprattutto il compito di assicurare buone relazioni allâazienda e di fare da âgaranteâ dellâoperazione, perché avere un ex presidente del Consiglio nel Cda è un buon modo per attirare investitori e convincerli che il progetto non sia campato in aria. Nella nota della società , Renzi si mostra entusiasta: âUna buona leadership dipende dalla capacità di capire cosa sta per arrivare. Sono felice di unirmi al board di Enlivex, una compagnia di biotecnologie con una visione strategica per il futuro. Vedo un potenziale reale nelle tecnologie della blockchain e nellâemergere dei modelli predittivi che incoraggiano chiarezza, partecipazione e trasparenzaâ.
A differenza dei lauti contratti arabi stipulati negli anni scorsi, stavolta lâincarico sarà gratuito. Dâaltra parte le nuove norme sugli affari privati di deputati e senatori sono stringenti e Renzi ha chiarito che accetterà o contratti con aziende europee (sempre consentiti) o consulenze non retribuite, come in questo caso. Va da sé che, al di là dellâindennità , resta il vantaggio di inserirsi in mercati floridi in cui poter instaurare relazioni ad alto livello. Per dire: in Rain Treasury compare come senior strategy advisor Ofer Malka, imprenditore israeliano e già dirigente del ministero dei Trasporti di Tel Aviv. Il nome di Malka compare ben 104 volte in unâinformativa che la Guardia di Finanza inviò al Parlamento nel 2022, quando il Copasir voleva capire se qualcosa degli incarichi privati di Renzi avesse rilevanza per la sicurezza nazionale. Come scrisse il Fatto allâepoca, Malka era socio di Marco Carrai, vecchio amico di Renzi, nella società di cybersicurezza Cys4, ma lâobiettivo di Malka era entrare in affari direttamente con lâex premier, a cui fece diverse proposte mai arrivate a meta. Pochi mesi fa, il Fatto aveva scoperto che Malka aveva lanciato la società di criptovalute Elio Capital, offrendo a Renzi la presidenza. Il senatore assicurò di aver rifiutato, nonostante sul sito dellâazienda comparisse con nome e foto. Ora Renzi e Malka si ritrovano. Tra biotecnologie, cripto e blockchain.
Caos ferrovie. Finiti i cantieri, i ritardi di ore continuano: oltre ai problemi strutturali impatta la saturazione di linee e stazioni dellâAlta velocità . E con il 2026 andrà peggio

(di Nicola Borzi – ilfattoquotidiano.it) – Mentre, more solito, il ministro delle Infrastrutture e dei Trasporti Matteo Salvini si occupa di tutto lo scibile umano o quasi, compreso il caso della âfamiglia del boscoâ, tranne che del dicastero di sua competenza, gli utenti delle ferrovie italiane sono alle prese con unâaltra stagione di passione. Finita lâestate, chiusi i cantieri del Pnrr lungo le principali direttrici di traffico, molti credevano che lâincubo dei ritardi sarebbe terminato. Errore: sebbene non più al picco, come durante i periodi degli interventi straordinari sulla Roma-Firenze, con lâautunno sono arrivati nuovi disagi. Tra guasti alla rete e investimenti mortali (molti dei quali ahimè volontari), gli ultimi due mesi hanno riportato il calvario sulle linee ad alta e bassa velocità . E i dati delle ricerche indipendenti sono lì a dimostrarlo.
La cronaca delle ultime settimane è una via Crucis.
â Domenica 26 ottobre, stazione di Villastellone, in provincia di Torino: un uomo viene travolto da un treno della linea Cuneo-Torino Porta Nuova che viaggiava verso il capoluogo piemontese, morendo sul colpo. Linea bloccata, 200 passeggeri trasferiti sui pullman.
â Martedì 4 novembre, un uomo finisce sotto il Frecciarossa Venezia-Napoli allâaltezza di Pontelagoscuro (Ferrara), mandando in tilt il traffico ferroviario locale e sulla direttrice Bologna-Padova, con ritardi accumulati che toccano anche i 170 minuti.
â Martedì 13 novembre: una donna viene falciata da un convoglio nella stazione di Praia a Mare (Cosenza). Le linee ferroviarie di tutta Italia finiscono nel caos, ritardi sino a 7 ore sullâAlta velocità Reggio Calabria-Torino, in molte stazioni viaggiatori bloccati fino allâ1 di notte.
â Mercoledì 19 novembre: guasto alle linee in prossimità della stazione di Milano Certosa, il problema inizia intorno alle 14.30 e viene risolto solo dopo le 16.30, i treni Alta velocità , Eurocity e Regionali accumulano ritardi fino a 50 minuti, alcuni Regionali vengono cancellati o subiscono limitazioni di percorso.
â Domenica 23 novembre: un uomo muore sotto un treno alle 11 nella stazione di Firenze Rifredi, ritardi fino a 120 minuti inclusa la linea Alta velocità .
Lâautunno e il periodo prenatalizio, purtroppo, portano con sé un incremento degli incidenti lungo le linee ferroviarie, quasi sempre mortali. Quando le vittime sono ferite la situazione è più semplice, perché i servizi sanitari di emergenza portano via rapidamente la persona, la polizia scientifica e il magistrato di turno intervengono ma i tempi tecnici dei rilievi sono più rapidi, solitamente tra lâora e lâora e mezza. Ma se di mezzo câè un cadavere, come nella maggioranza dei casi, tra rilievi e recupero possono passare dalle 3 alle 6 ore.
Questo però non spiega tutto quanto sta accadendo sulle linee ferroviarie italiane. Secondo una analisi di Altroconsumo, che ha monitorato i dati di puntualità registrati da Rete Ferroviaria Italiana (Rfi), considerando i tempi di percorrenza dellâAlta velocità (sia Frecciarossa che Italo) e degli Intercity registrati tra il 25 luglio e il 5 settembre sui soli collegamenti diretti lungo 54 tratte diurne tra le principali città italiane, i Frecciarossa di Trenitalia ritardano nel 31% dei casi, Italo nel 20%. Ma i tempi di percorrenza dellâAlta velocità sono comunque più lunghi rispetto al passato e il âmitoâ delle tre ore sulla tratta Milano-Roma è ormai solo una leggenda: la media dei tempi attuali è di 3 ore e 20 minuti, ma in caso di cantieri e di lavori il viaggio supera le 4 ore e può arrivare anche a 5. Gli Intercity invece accumulano ritardi nel 41% delle tratte analizzate. Alcune tratte poi sono peggio di altre: in particolare la Bari Centrale-Milano Centrale, la Salerno-Torino Porta Nuova e la Napoli Centrale-Venezia Mestre. Tra le cause ci sono i lavori di potenziamento della rete, i guasti e i problemi alla rete elettrica, ma anche il sovraffollamento dei convogli. Dati rilevati anche dalle analisi di Trainstats, che a novembre hanno segnalato picchi di ritardi per i treni Av.
Ferrovie dello Stato ribatte con dati diversi e sostiene che la situazione starebbe migliorando. Secondo Fs, nella prima metà di novembre i treni Alta velocità hanno registrato una puntualità pari allâ80%: quattro treni su cinque, sia Frecciarossa sia Italo, sono arrivati in orario o entro 10 minuti di ritardo, mentre nello stesso periodo del 2024 la puntualità era stata del 71,8%. Ma basta un investimento e cambia tutto: nelle giornate in cui una persona finisce sotto un treno lâindice di puntualità cala dal 30 al 50%. Discorso simile per un guasto in snodi nevralgici.
Un altro fattore che impatta, però, è quello della saturazione di linee e stazioni ad Alta velocità . Secondo dati di Fs, in 15 anni le linee Av italiane sono passate dai 188 treni al giorno del 2009 ai 400 del 2024. E dal 2026 in Italia con la liberalizzazione arriveranno anche i treni Av francesi di Sncf, in concorrenza con Trenitalia e Italo. Con un investimento di 800 milioni, Sncf vuole coprire le tratte Torino-Milano-Napoli-Reggio Calabria e Torino-Milano-Venezia. Ulteriore traffico significa linee e stazioni sotto maggiore stress, specie nei centri di punta quali Milano Centrale, Firenze Santa Maria Novella e Roma Termini. Significa meno minuti tra una corsa e lâaltra, âtracceâ orarie più ravvicinate. Se per qualsiasi motivo un convoglio rallenta, quelli successivi devono fare lo stesso o fermarsi. Su alcune percorrenze, come Roma-Firenze, esiste il bypass della vecchia linea a bassa velocità sulla quale sono già dirottati Intercity e interregionali. Ma non dappertutto è possibile dispacciare i convogli su altre linee. Lâingolfamento aumenterà ancora e la via Crucis quotidiana si farà ancora più probabile.
Dalla regola di maggioranza, come procedura per prendere decisioni in un clima di pluralismo, si passa al dominio della maggioranza in un clima in cui il pluralismo è trattato come un ostacolo al processo decisionale rapido

(Nadia Urbinati – editorialedomani.it) – Non ci si rende conto di quanto rischiosa sia lâattuale congiuntura politica. Forse perché lâintero Occidente sembra muoversi allâunisono (con qualche eccezione) verso regimi autoritari e società ineguali e gerarchiche. Come i pesci non si accorgono dellâacqua in cui nuotano, così noi non ci accorgiamo delle trasformazioni quotidiane.
Gramsci parlava di trasformazione egemonica. Tanti tasselli sono stati collocati e lasciano intravedere, poco a poco, il puzzle. Alcuni esempi. Il linguaggio, da anni diventato una fucina di assalti violenti contro le persone, spesso vuoto di idee. La scuola, luogo di formazione allâobbedienza. Lâuniversità che, in una bozza di riforma in discussione, verrebbe controllata in ogni ateneo da un funzionario nominato dal governo. La vita civile, che fa apparire ogni contestazione come violenza o insubordinazione, e spinge i cittadini a farsi i fatti loro. Conformismo civile.Ricettecontrole disuguaglianze
à opinione diffusa nei nostri paesi che le regole democratiche siano in grado di addomesticare gli eversori. Un realismo utopistico. In Germania, dove pure non si è creduto molto nel potere trasformativo delle istituzioni, lo Stato democratico è intervenuto a vari livelli: attraverso la politica culturale della memoria e lâesclusione, più decisa della nostra, delle forze politiche antidemocratiche dalla competizione elettorale.
Eppure, i movimenti nazifascisti tornano ad avere seggi nel Bundestag, competendo con nomi camuffati per idee estreme che circolano da anni nellâEuropa democratica, come la sottrazione dalla nazione delle componenti dichiarate estranee per ragioni etniche e religiose. Lâimmigrazione è stata la fucina della destra nellâera democratica. Una destra che è fascista nelle sue radici ideologiche, anche quando si conforma alle regole della democrazia elettorale. Fino a quando?
Vincere con regole democratiche non fa la democrazia. Questa banale norma non sembra transitare nelle menti né negli scritti di tanti opinionisti e cittadini. Non solo si diffondono menzogne, come quella secondo cui Mussolini avrebbe vinto le elezioni. Ma, quel che è peggio, si identifica la democrazia con la vittoria elettorale.
Ci hanno spiegato non i radicali democratici, ma i minimalisti democratici, che la democrazia è un sistema politico e istituzionale legittimato da regole di libera competizione per la determinazione della maggioranza e dellâopposizione. La democrazia non la si riconosce dalla vittoria, ma dallâaccettazione della sconfitta. La stabilità della democrazia sta nel fatto che chi perde non rovescia il tavolo e chi vince non cambia le regole per restare al potere. Non voler andarsene è la molla del potere che le costituzioni democratiche hanno cercato di depotenziare. La nuova destra è questa molla.
Ci sono diversi modi per restare in sella. In passato abbiamo avuto violente marce di fanatici e colpi di Stato. Da qualche decennio, nei paesi occidentali si stanno sperimentando altre strategie. La più gettonata è la riforma della costituzione vigente. La destra vuole costituzionalizzarsi. E lo fa non scrivendo ex novo la costituzione (per cui servirebbe una rivolta eversiva), ma tosando quella democratica, con regole e norme che rendono più difficile lâalternanza. Ridisegnare la giustizia, eleggere direttamente il capo del governo e, magari, riscrivere la legge elettorale con un premio di maggioranza che imiti la Legge Acerbo del 1925.
Il caso ungherese mostra bene il collasso della distinzione tra politica âordinariaâ e politica âcostituzionaleâ. La costituzionalizzazione della destra ha lo scopo di congelare la sua maggioranza. La destra al potere vuole rendere la democrazia, e a volte ci riesce, in un estremo maggioritarismo. Per vincere il più a lungo possibile.
Dalla regola di maggioranza, come procedura per prendere decisioni in un clima di pluralismo, si passa al dominio della maggioranza in un clima in cui il pluralismo è trattato come un ostacolo al processo decisionale rapido: questa è la radicale trasformazione di mentalità , ancor prima che istituzionale, che la nuova destra mette in atto.
Non basta vincere le elezioni per essere democratici. Alla base di ciò sta il fatto, banale ma, a quanto pare, dimenticato, che nella democrazia costituzionale il popolo (e i suoi rappresentanti) non sta sopra la legge, mentre nellâordine ipermaggioritario il leader che conquista il consenso elettorale dichiara di essere la volontà del popolo.
Gli scienziati politici lo definiscono âlegalismo discriminatorioâ, secondo la massima âtutto per i miei amici; il rigore della legge per i nemiciâ. à per perseguire questo progetto che la destra sfodera un attivismo riormatore così intenso. Tutte le sue riforme sono inanellate e interdipendenti, tenute insieme dallo stravolgimento della democrazia in un regime della maggioranza.
La sinistra favoleggiava di un possibile 4 a 1 Resta la delusione per il risultato di FdI in Campania

(Flavia Perina – lastampa.it) – Giorgia Meloni, il giorno del fairplay. Prima ancora che venissero consacrati i risultati definitivi, complimenti a Alberto Stefani ( «una vittoria frutto del lavoro di coalizione») ma anche a Roberto Fico e Antonio Decaro. La pagina âRegionaliâ per lei è già archiviata, e preferisce vedere il bicchiere mezzo pieno: fino alle dimissioni di Roberto Occhiuto in Calabria la sinistra favoleggiava di un possibile 4 a 1. à finita tre a tre, equilibri confermati, il che va abbastanza bene a una leader convinta che sia il suo nome a fare la differenza e quando in gioco ci saranno i destini nazionali le percentuali del voto saranno totalmente riscritte. Persino il consistente sorpasso delle liste leghiste in Veneto è inquadrato con questo spirito: aiuta la stabilità dellâalleato, evita un dirompente processo del Nord a Matteo Salvini, e siccome che non si è ancora trovato il modo di sostituirlo meglio così, si può andare avanti tranquilli.
Arrivare senza scossoni interni o esterni agli appuntamenti del 2026, il referendum sulla giustizia e lâavvio della campagna per le Politiche prossime venture, era lâobbiettivo di Palazzo Chigi. à stato raggiunto, anche se con qualche sofferenza. Brucia soprattutto il pessimo risultato della Campania, lâunica piazza dove Fratelli dâItalia esprimeva il candidato. Lì, dopo aver creduto a una rimonta in extremis, si attendeva almeno un exploit del voto di lista. E invece Edmondo Cirielli è stato doppiato da Roberto Fico mentre la lista di FdI è finita in un deludente testa a testa con Forza Italia. Ma anche qui: Meloni lo aveva detto. Fino allâultimo ha cercato un nome civico per la competizione, consapevole della difficoltà di tenere i numeri in una regione che da trentâanni non premia più la destra. Ha ceduto alle insistenze dei suoi che ritenevano lâalleanza Pd-M5S un gigante dai piedi dâargilla, scommettendo sulla diserzione elettorale di deluchiani e grillini. Hanno perso i teorici della âCampania contendibileâ, non lei.
Poi certo câè il tema del campo largo che ha trovato il suo assetto e il âteorema Taruffiâ (Igor, stratega dei numeri per Elly Schlein) sulla potenziale frana della coalizione di centrodestra alle Politiche, nei collegi uninominali, dove lâalleanza Pd-M5S rende competitiva lâopposizione. Prospettiva: maggioranze diverse alla Camera e al Senato, ritorno allo stallo di dieci anni fa. Ma pure quello alla fine fa brodo. La destra meloniana trova nei calcoli di Taruffi argomenti a sostegno della proposta che ha avanzato da un pezzo: si deve cambiare la legge elettorale per sventare il rischio di paralisi. «Se dovessimo votare oggi â dice Giovanni Donzelli â non ci sarebbe stabilità politica né in caso di vittoria del centrodestra né in caso di vittoria del centrosinistra». La prospettiva che coltiva FdI è nota: proporzionale e indicazione del candidato premier sulla scheda. Due nomi, due scelte politiche alternative. E chiunque sarà âlâaltroâ â Elly Schlein, Giuseppe Conte, una figura terza, un professore, un outsider tirato fuori dal cilindro dei moderati di sinistra â sarà un gotterdammerung che chiamerà ai seggi lâintero popolo meloniano. O noi o loro, e allora altro che affluenza sotto il 50 per cento, altro che ricamini sui campi larghi o stretti: sarà una sfida tra facce, e a destra si è convinti di avere quella perfetta per questo tipo di battaglia.

(di Michele Serra – repubblica.it) – Non si sa se definirlo eccesso di sicurezza o stupidità (due concetti che spesso si toccano). Ma la faccenda del âpiano Trumpâ per lâUcraina che potrebbe sembrare o addirittura essere stato scritto in russo e poi tradotto un poco alla carlona dagli americani; e così goffamente presentato ai suoi (e al mondo) dal ministro degli Esteri Rubio, che lâispirazione putiniana di quel piano ne esce rafforzata: è al tempo stesso una cosa da ridere e da piangere.
Va bene che gli americani, in politica estera, non hanno mai avuto fama di essere avveduti o astuti: sono certi di non averne bisogno, male che vada si manda qualche portaerei e si incarica la Cia di rovesciare il governo che intralcia. Ma qui sarebbero bastati, per non farsi scoprire, un buon traduttore dal russo; qualche sapiente ritocco a moâ di maquillage per far sembrare â almeno sembrare â che quel piano, come tutti i piani di pace, punti a un minimo di equanimità di facciata; e una riunione di unâoretta (bene anche su Zoom o Teams) per mettersi dâaccordo su cosa dire in pubblico: lo chiamiamo âpiano americanoâ o diciamo che è la lista delle priorità dei russi?
Niente di tutto questo, come se non ci fosse più nessuna forma da salvare, nessuno scrupolo da osservare. Fare e dire la prima cosa che salta in mente â fosse anche una fesseria o una volgarità â è la regola di Trump, e in genere è la qualità che il populismo esalta nei suoi boss. Lo ha ribadito la portavoce di Trump dopo che il presidente ha definito «porcellina» una giornalista che lo importunava con le sue domande. Si sa che il presidente è molto schietto, ha detto. Ma non è dimostrato che la schiettezza generi intelligenza.
Fatte salve rarissime eccezioni, questo â lungi dallâessere un âgovernoâ â è unâarmata Brancaleone di comici involontari di scarsissimo livello. Ogni giorno câè tra loro una sorta di […]

(di Andrea Scanzi – ilfattoquotidiano.it) – Fatte salve rarissime eccezioni, questo â lungi dallâessere un âgovernoâ â è unâarmata Brancaleone di comici involontari di scarsissimo livello. Ogni giorno câè tra loro una sorta di gara su chi fa ridere (sempre involontariamente) di più. à una sfida diversamente avvincente allâultima gaffe, senza esclusione di colpi. A lungo il leader indiscusso di tale esaltante contesa è stato Lollobrigida, che era e resta un fuoriclasse nel non saper fare politicamente nulla e al tempo stesso nel âsaperloâ comunicare sempre malissimo. Grandi prestazioni si sono poi avute, in rapida sequenza, da statisti autentici come Nordio e Valditara, il primo non si sa mai a quale giro di spritz (con rispetto parlando) e lâaltro encomiabile nel ruolo di preside retrogrado in una scuola italica qualsiasi del 1925. Risulta poi sontuosa la capacità rabdomantica, quasi alla Dario Fo, che ha il ministro (sic) Urso nellâinventare ogni volta una lingua astrusa e aliena, creando un Grammelot esondante e magmatico che non poteva non ammaliare Crozza. Nella top ten figurano poi anche Roccella e Montaruli, lâuna esemplare nel ruolo della oscurantista ferale e lâaltra in quello della saltimbanca avulsa da ogni logica e/o senso. Scegliere tra simili professionisti del disastro comunicativo (e non solo comunicativo) non è facile. Oltretutto, giusto nelle scorse ore, pure Musumeci ha voluto calare lâasso, confondendo il terremoto dellâIrpinia con quello di Amatrice (e che sarà mai? In fondo è solo il ministro della Protezione civile).
Vi confesso però che, ultimamente, il campione dei campioni mi sembra essere un altro: Antonio âTajaniâ. Con quel carisma da betulla lessa, quel passato da leader dei giovani monarchici (eh?) e quello sguardo profondo di chi ha spesso in canna un peto in ascensore, ma non sa mai se sganciarlo o no, Tajani sta sbaragliando la concorrenza. E per questo va applaudito. Nelle ultime settimane ha disegnato e sciorinato capolavori. Ha detto che in effetti Israele stava esagerando un poâ con Gaza, e quindi gli avrebbe telefonato lui di persona per dirgli âora però basta, eh!â. Se lâè presa con Enzo Iacchetti, reo di dire bugie (non si sa ancora quali). Ha sostenuto testualmente, ospite di Bruno âonore ad Alvarezâ Vespa, che âil diritto internazionale conta, sì, ma fino a un certo puntoâ, roba che se lo dice uno studente di Giurisprudenza lo impalano (invece, se lo dice il ministro degli Esteri, in tanti lo applaudono). Ha detto che votava per confermare lâimmunità parlamentare alla Salis e poi il giorno dopo â alla faccia del âgarantismoâ â ha votato per togliergliela, e tutto questo solo perché Lega e Fratelli dâItalia gli avevano nel frattempo tirato un poâ le orecchie. Si è esibito nel mitologico âTajani jumpingâ durante la campagna elettorale in Campania (che poi come noto è andata per Tajani benissimo), sfidando in un colpo solo ernie, sciatiche e decoro.
Infine (per ora), il colpo da funambolo. La giocata definitiva. La locura pura. Ascoltiamolo: â(Il ponte sullo Stretto servirà ) anche per lâevacuazione, per garantire la sicurezza in caso di un attacco da Sud. Perché esiste anche il fianco Sud della Natoâ. Tutti in piedi! Siamo di fronte alla Gioconda delle boiate: il ponte lo vogliono costruire perché servirà anche come fuga laddove qualcuno ci attaccasse da Sud. Sì, ma chi? Gli alieni? I russi? I comunisti? O forse i mori, i lanzichenecchi, i visigoti? O magari i Gremlins coi Gormiti? E se ci attaccassero, perché poi dovrebbero lasciare intatto il ponte invece di bombardarlo in un amen? Non si sa. Si sa però che Tajani, in uno dei suoi molteplici trip da sobrio, ha immaginato i siciliani correre su e giù per il ponte di Salvini â ultimo rifugio del pianeta Terra â mentre tuttâattorno câè lâArmageddon. Un uomo, una leggenda. Io mi sforzo anche di fare satira, ma questi ormai fanno tutto da soli.
Sono giorni complicati per il filo-ucraino immaginario, quello che ama declamare il proprio incondizionato appoggio a Zelensky restandosene […]

(di Antonio Padellaro – ilfattoquotidiano.it) – Sono giorni complicati per il filo-ucraino immaginario, quello che ama declamare il proprio incondizionato appoggio a Zelensky restandosene prudentemente a 2125 km da Kiev. Le cronache segnalano che domenica in piazza a Roma erano pochi, ma fermamente determinati a sostenere lâUcraina âanche se dovesse mancare lâapporto americanoâ. Parole di Paolo Gentiloni, non un cuore di leone, che hanno tuttavia spiazzato il battaglione Azov dei Parioli guidato da Carlo Calenda e dal suo ferocissimo tridente, simbolo nazionale ucraino, che il leader di Azione si è temerariamente tatuato sotto il polsino. Sì, le certezze di un tempo quando bastava enunciare la formula dellâaggredito e dellâaggressore per mettere in fuga il nemico ibrido putiniano hanno subìto uno scossone dopo la pubblicazione del piano di pace preso in considerazione a Washington.
Dopo averli sputtanati come merce avariata del Cremlino i 28 punti, a cui se ne sono aggiunti altri 28 con le proposte migliorative della Ue, al reparto incursori dellâEsquilino si pone adesso il non piccolo problema di leggerseli tutti e 56 e di ricavarne uno slogan efficace da sventagliare nei talk-show. Ai tempi della Guerra civile spagnola, gli antifascisti non di maniera per dare un senso alle parole e agli ideali, si arruolarono nelle Brigate internazionali: 42 mila coraggiosi provenienti da 52 paesi che si batterono eroicamente contro le preponderanti truppe franchiste. A Guadalajara quegli eroi, tra essi anche politici e intellettuali, scrissero una pagina indimenticabile. Nessuno pretende che i nostri combattenti in piazza ripetano quelle gesta. Ma evitarci la solita solfa dellâarmiamoci e partite sarebbe il minimo.

(di Marco Travaglio – il Fatto Quotidiano) – La lunga partita delle sei Regionali del 2025 si chiude col 2-1 per il centrosinistra in Campania, Puglia e Veneto. Che, col precedente 2-1 per il centrodestra in Calabria, Marche e Toscana, porta il risultato finale sul 3-3 (lâautonomista Val dâAosta fa storia a sé). Ogni schieramento mantiene le posizioni. Con una novità e una sorpresa: il centrosinistra in Campania vince con un candidato 5Stelle, Fico, dopo il lungo regno del pidino […]
I problemi della sinistra italiana secondo un lettore: distinguo, manfrine e punzecchiature che allontanano gli elettori

(di Carmelo Zaccaria – ilfattoquotidiano.it) – Una lezione che si può apprendere dalla politica è che non basta essere ottimisti per vincere, bisogna anche meritarselo. Trovare il modo per restare in connessione con le persone, innescare i loro desideri, accendere nuovi pensieri, essere certi della coerenza con gli impegni presi. Come diceva Stefano Benni: bisogna somigliare a quello che si dice.
Nel tentare la âremuntadaâ la sinistra, nel suo insieme, deve essere non solo convincente ma soprattutto âconvenienteâ. Lâelettore deve avere la percezione che il suo voto è davvero essenziale, decisivo e che la sua scelta lo farà stare meglio. E dovrà sentire nellâintimo il privilegio di trovarsi in buona compagnia, di appartenere ad un unico e promettente destino, alla visione di un futuro più fecondo e coinvolgente. Al di là della qualità dei singoli candidati sarebbe necessaria una scossa o, come la chiama Elias Canetti, una âscaricaâ, che colpisce allo stesso modo i componenti della massa che, allâunisono, si liberano delle loro differenze sentendosi eguali.
La sinistra dopo tre anni di opposizione sarà capace di suscitare una scarica? Meriterà di essere votata? Ad ascoltare i mugugni e i sussurri smozzicati qualcosa si muove, ma ancora non basta. Lâimpressione è che non sono i temi o i programmi che disuniscono e tengono distanti i partiti di sinistra, quanto i continui distinguo, le titubanze linguistiche, le esacerbanti manfrine e punzecchiature che animano il dibattito del campo largo che, strano che non si capisca, non suscitano particolare interesse nel proprio elettorato. E questo nonostante della sinistra ci sia un gran bisogno in un mondo così diseguale, per retribuzioni e patrimonio.
La metà più povera della popolazione mondiale possiede una ricchezza irrisoria, mentre il 10% più ricco ne possiede quasi lâ80%. Che altro serve alla sinistra per compattarsi di fronte al dilagare di ricchezze âsmodateâ, alla prepotente ascesa di un sistema finanziario profondamente ingiusto fondato sul profitto e lâaccumulazione di capitale che lascia poco spazio al welfare, e continua a prosperare a scapito di una riduzione degli spazi democratici? La sinistra si accorge di non rappresentare più gli ultimi ma neanche più i penultimi, quelli smarriti e umiliati dalla storia, quelli privi di caratura sociale, deprezzati e messi forzatamente ai margini a cui la convenienza ad andare a votare è vicina allo zero.
Essere convenienti non significa voler âsoloâ tassare i superprofitti, ma fare proposte concrete di revisione per arginare lo strapotere di un neoliberalismo avido di rendite e nemico giurato di una più equa distribuzione del reddito. Ed è pur vero che il costo dellâenergia è la più alta del mondo, questo lo sa benissimo chi paga le bollette, ma lâelettore vuole essere certo che saranno adottate misure pubbliche stringenti per evitare rialzi ingiustificati, a costo di dover intervenire sulle lobby dellâenergia intente a cavalcare qualsiasi evenienza pur di arraffare corposi e arbitrari dividendi.
Eâ sicuro che la sinistra al governo farà pagare ai balneari un prezzo giusto per delle concessioni acquisite e conservate quasi a titolo gratuito? Riuscirà a tutelare le spiagge libere e la semplice fruizione del mare diventato quasi inaccessibile anche alla vista? E tanto ancora, naturalmente. Per avere un rimbalzo elettorale bisogna farsi percepire come una forza che risolve i problemi e non li perpetui, e neanche li tollera o li nasconde. E non si tratta di avere più centro o più radicalità nella coalizione, come appare inutile concionare su chi debba guidare le truppe allâassalto della destra, se prima non si arruolano armigeri e si sventolano nuovi vessilli su territori abbandonati da tempo.
Più che un campo largo servirebbe recuperare unitariamente più persone per costruire un blocco sociale più largo e compatto. Ma per farlo bisogna fermarsi a capire assumendo una postura politica che richiede sacrificio, passione e intransigenza, oltre che sapienza tattica.
Regionali: l’affluenza in Campania al 44,05%

(ANSA) – Quando mancano sette sezioni su 5.825 totali, l’affluenza alle elezioni regionali in Campania è del 44,05% con un calo di circa 11 punti rispetto alle regionali del 2020, quando alle urne si era recato il 55,52%.
Regionali, affluenza Puglia al 41,8% in calo di 14 punti
(ANSA) – L’affluenza in Puglia per le Regionali è al 41,83%. Il dato definitivo delle 4.032 sezioni nella regione è inferiore di oltre 14 punti percentuali rispetto alle elezioni del 20 e 21 settembre 2020 quando fu il 56,43%.
La provincia con la maggiore partecipazione al voto è quella di Lecce con il 44,50% dei votanti. Seguono Bari con il 42,31%; Brindisi col 41,94%; Bat arriva al 41,22% e Taranto 40,60%. Ultima è la provincia di Foggia con una percentuale che si ferma al 38,61%.