Selezione Quotidiana di Articoli Vari

Guardia Sanframondi, Rinascita Guardiese: a proposito del Premio  “Carlo Tessitore” all’Unicef


Accadde oggi: 30 dicembre 2001

L’associazione RINASCITA GUARDIESE continua la pubblicazione di  documenti  inerenti la storia guardiese per coltivare la memoria e … progettare il futuro partendo dal passato

Il Sindaco Ceniccola conferisce  il Premio  “Carlo Tessitore”, istituito per ricordare un figlio illustre della comunità guardiese,  all’UNICEF al fine di contribuire  al progetto di vaccinazione completa di 40 bambini in Africa.

Sala Mensa – Scuola Elementare

Fono-registrazione del discorso pronunciato in data 30 dicembre 2001

        “Cari concittadini,

grazie di cuore per la vostra presenza e grazie, soprattutto, agli amici  dell’UNITALSI e AMASAI che insieme alla Pro Loco di Guardia Sanframondi guidata dall’amico Filippo Pengue (da tutti conosciuto come maestro Pippetto), si sono fatti carico di organizzare questa straordinaria “Festa della Solidarietà”. Oggi è un giorno “speciale” per la nostra comunità. Oggi siamo qui per vivificare le nostre radici di un popolo laborioso e generoso, e siamo qui , in particolare,   per dare una dimostrazione concreta e tangibile della generosità che ha sempre caratterizzato la comunità guardiese. Oggi siamo qui per celebrare la festa della solidarietà e dimostrare concretamente come “L’uomo aiuta l’uomo”. Oggi siamo qui per conferire il

Premio “Solidarietà oggi – Carlo Tessitore”

(consistente nella somma di 1 milione di lire) che è stato istituito dall’Amministrazione nell’intento di onorare la memoria di un figlio illustre di questa nostra comunità, un premio per onorare la memoria del dott. Carlo Tessitore, illustre medico tropicalista guardiese premiato dalla Regina Elisabetta e che, in Africa, ha dedicato la sua vita per aiutare la popolazione del Congo Belga.   

   Un cultore esimio della scienza, amante della Patria, apostolo sereno delle sofferenze umane, eroico soldato dell’idea; ma, soprattutto, operoso credente in Dio (per dirla con le parole pronunciate da Padre Adolfo Di Blasio nell’elogio funebre in onore del concittadino Carlo prematuramente stroncato dalla malaria in terra straniera). Inoltre, abbiamo pensato di istituire questo premio dedicato al dott. Carlo Tessitore per promuovere una società che viva di solidarietà e di valori spesi concretamente per gli altri.

    Un Premio istituito per celebrare la solidarietà e che, per questo anno 2001, abbiamo deciso di conferirlo all’UNICEF per compartecipare la campagna di vaccinazioni per l’infanzia africana che l’UNICEF sta portando avanti in questi mesi nel continente africano e, per questo motivo, chiamo qui sul palco la professoressa Augusta Maiorani, referente UNICEF per la valle telesina. Prima di lasciare il microfono alla professoressa Maiorani, non posso farne a meno di leggere il pubblico encomio che l’UNICEF ha voluto rivolgere al Sindaco e alla Comunità di Guardia Sanframondi per “… aver recuperato, nel dare, il vincolo cosmico che unisce l’uomo all’uomo”. Infine, permettetemi di leggervi la poesia composta  dal nostro  Don Giuseppe Lando per celebrare questo straordinario avvenimento di vita comunitaria”.

                         PREMIO  CARLO TESSITORE

Un atto molto nobile – è questo del Comune,

ch’ha fondato il “Premio – Carlo Tessitore”.

L’assegno all’infanzia – è un gesto solidale,

pensando a tante vittime – dell’insania brutale!

E’ l’UNICEF il simbolo – della santa missione

verso la tetra Infanzia – del sommerso mondo…

Per cui, oggi, all’UNICEF, – Sezione di Benevento,

il Premio encomiabile – viene conferito

dal Sindaco Ceniccola, – che n’è il promotore.

Con questa cerimonia – di bontà del cuore,

affida alla nobile – Donna Carmen Maffeo,

presidente fervida – nel Capoluogo.

Non v’è più santa opera, – che aiutare i Bimbi,

che della Terra segnano – gioioso avvenire!

E merita un applauso – il gesto solidale,

nell’Oggi tanto torbido, – che ignora Amore,

portato a noi dagli Angeli – nell’arcano Natale

del Dio fatto “Piccolo”, – umano Fanciullo:

“Lasciate che i Pargoli – vengano a me festanti,

perché di essi, semplici, – è dei Cieli il regno”!

Da quest’Arce sannita, – la Valle Telesina

riceva l’Annuncio – della Referente

su questo “Primo Premio” – del Duemilauno,

signora Garofano, – Augusta Maiorani,

ricordando il Genio, – che immolò sua vita

solidale col Popolo – del Congo-Zaire.

La Guardia dei Principi – Signori Sanframondo,

lancia quest’esempio – ben sintonizzato

col canto di quel “Gloria”, – che, in Betlemme Pace

risuonò e Giustizia – per ogni mortale.

E’ questo il giusto Premio, – che sgorga dal Natale

e sia per tutti gli uomini – di Oggi e di Domani.

                                                          GIULAND

Guardia Sanframondi, 30 dicembre 2001

 P.S. Per dovere di cronaca non possiamo non ricordare  che i governanti che hanno sostituito il Sindaco  Ceniccola (dopo averlo mandato a casa a suon di bugie e calunnie) non hanno esitato ad affossare anche questa straordinaria iniziativa solidaristica ed hanno  “costretto” l’UNICEF Italia ad annullare  il pubblico ringraziamento rivolto “ … al Sindaco e alla Comunità di Guardia Sanframondi”. Una decisione mai  adottata prima  (e dopo) dall’UNICEF e che provoca, ancora oggi, un senso di angoscia e vergogna!!!

RINASCITA GUARDIESE


Il baratro dell’Italia, la pandemia e l’augurio


(Tommaso Merlo) – Quella che chiamavano crisi, in realtà è declino. Stiamo precipitando in un baratro e nessuno ha la più pallida idea di come uscirne. Tantomeno la peggiore classe dirigente della storia repubblicana le cui uniche vere competenze sono l’arrampicata sociale, la chiacchera propagandistica e l’ingegneria poltronistica. È l’anno dei record negativi di affluenza alle urne, per la stragrande maggioranza degli italiani non c’è nessuno degno di essere votato. Quanto all’informazione peggio ancora, i loro giornali non se li leggono nemmeno più tra di loro e continuano ad invitarsi a vicenda nelle cagnare televisive mentre la società scrolla altrove. Eppure riflettere e tornare a fare buona politica e vero giornalismo, non passa nell’anticamera del cervello a nessuno. Ed hanno ancora ragione loro. È questo il vero male della nostra epoca. L’egoismo viscerale che si fa casta che si fa sistema col proprio posticino al sole come unico vero motore esistenziale. Visibilità, soldi, potere e sguazzo nell’alta società ad ingrassare il proprio personaggio pubblico mentre sprofondiamo tutti in un baratro senza fondo. L’Italia è in mano agli strozzini della finanza globale e la scarsissima sovranità che le rimane la usa per fare da serva alla Casa Bianca, il bancomat della Nato, l’impiegata dei tecnocrati di Bruxelles e la cameriera delle lobby che a turno entrano nei palazzi per abbuffarsi. Non è solo una gravissima crisi politica, è anche democratica. Eppure non si muove una foglia, non si capisce se siamo alla quiete prima della tempesta oppure alla morte celebrale collettiva dovuta alla nuova droga di massa, quei social media che trascinano interi popoli in una perenne realtà virtuale. Di questo passo arriveremo davvero a Fabrizio Corona premier così perlomeno usciremo da questo mortorio da casa di riposo e potremo dedicarci al gossip a tempo pieno, vecchi e brutti svaccati sul divano di casa e giovani e belli a svendersi per arrivare davanti a qualche telecamera per riempirsi le tasche in modo da investire tutto in cure estetiche e costumi di scena. Non è solo una gravissima crisi democratica, ma anche culturale. Esausti di rigirarsi nelle tombe, i nostri avi ci stanno mandando a far in culo ma nessuno li ascolta. Perché nessuno guarda indietro e nemmeno avanti ma solo dentro a qualche schermo. Invece che leader politici illuminati, miseri influencer che postano fregnacce a raffica. Invece che cittadini protagonisti, followers che si scaricano addosso le proprie frustrazioni esistenziali. Il tutto mentre Lorsignori ristrutturano ville e per i poveri cristi diventano un lusso due camere in affitto e pagare le bollette senza bestemmiare. Il tutto mentre non nasce più nessuno e quei pochi che ancora lo fanno scappano a gambe levate appena possono e vengono rimpiazzati da maranza di ogni genere e specie che tengono in piedi la baracca e di questo passo riemigreranno di spontanea volontà pure loro. Ormai l’entroterra italiano è il regno di lupi, cinghiali e pionieri di un paradigma più sensato mentre in città cresce disillusione e degrado psicosociale. L’Italia sta diventando un mega bed&breakfast per pensionati del nord Europa in cerca di sole e cibo commestibile e di americani in fuga dall’inferno turbocapitalista. Quanto al genio italico, in un mondo devastato dall’ingiustizia sociale, noi produciamo lusso per la manciata sempre più esigua di arricchiti del pianeta che ringraziano a modo loro. Come quello di Amazon che ha fatto una strage epocale di esercenti e tra poco anche il buongiorno altrui si comprerà online. Roma intanto è uscita dalle mappe, si litiga giusto su come spartire gli spiccioli e siamo talmente irrilevanti che abbiamo dovuto superare l’endemico campanilismo e guardare oltralpe per capire come va il mondo. È stato un altro anno di disumano genocidio, con noi paladini dei diritti umani complici dell’ideologia sionista intenta a sterminare innocenti per coronare i sui biblici deliri. Tragici rigurgiti da secolo scorso e se non siamo ancora riusciti a sradicare il nostro fascismo, figurarci quello israeliano. Ma è stato l’ennesimo anno di guerra anche sull’uscio di casa, dopo decenni di conflitti a vanvera in giro per il mondo, la mega lobby della guerra ed i suoi burattini politici giocherellano con la terza guerra mondiale nucleare contro la Russia, siamo ai nemici immaginari pur di vendere bombe. Per i poveri neanche un pacco di cibo, per la lobby delle armi miliardi di debiti e via con la militarizzazione di massa. Sono già partiti a spacciare la guerra come sensata e perfino indispensabile, e una volta normalizzata la follia militare passeranno all’arruolamento. Il mondo è diventato un sanguinario videogioco ma pare che serva ancora carne da macello in trincea. È stato l’anno dell’accelerazione del crollo dell’impero americano e della Cina ormai in fase finale di sorpasso. Si va verso un ordine multipolare più intelligente ma prima di appendere i fucili al chiodo, i Marines potrebbero tentare un tragico colpo di coda e sono già in postazione. Già, il declino italico è parte del declino dell’intero occidente vittima del suo unico e vero nemico di sempre che non è là fuori, ma dentro. Quella pandemia egoistica e narcisistica aggravata dalla sbornia consumista e dall’ormai ridicolo suprematismo di matrice razzista. Una pandemia che ha prodotto leader che incarnano in maniera spettacolare tutti i nostri mali come Donald Trump. Emblema di una gravissima crisi non solo culturale, ma anche interiore. Abbiamo perso di vista noi stessi e cosa sia davvero la vita. Finendo per ricascare nei tragici errori del passato come la guerra e riducendoci a ridicoli follower del nulla. Coi nostri avi che dalle tombe ci mandano a fare in culo, con popoli interi spersi nella realtà virtuale mentre politicanti da barzelletta e lobby bulimiche ci spolpano ogni brandello di futuro. Eppure nel mondo reale non si muove una foglia, non si capisce se siamo alla quiete prima della tempesta oppure alla morte celebrale collettiva e non ci resterà che apprendere mandarino. Stiamo precipitando in un baratro ma nessuno si ferma a riflettere e prova a cambiare, ed è questo l’augurio per il nuovo anno. Che la società civile esca dal letargo e si rimetta a lottare per una vita degna di essere vissuta e per una politica ed una democrazia all’altezza delle sue consapevolezze e delle sfide del nostro tempo.


La Letonia conclude l’installazione di una rete metallica al confine russo


(ANSA) – La Lettonia ha completato la costruzione della recinzione metallica che separa il Paese dalla Federazione russa. Lo ha comunicato oggi il ministro degli Interni lettone, Rihards Kozlovskis, nel corso di una conferenza stampa.

La costruzione della recinzione, che si estende lungo 283 km ed è coadiuvata da sistemi elettronici di sorveglianza, era iniziata nel 2023 nell’ambito del rafforzamento del confine orientale del Paese.

“L’opera si inserisce nel nostro processo di protezione del confine esterno dell’Unione europea: la nostra sicurezza è la sicurezza di tutta l’Ue”, ha detto Kozlovskis. La costruzione di un’analoga barriera metallica lungo il confine tra la Lettonia e la Bielorussia era stata completata nel luglio del 2024.

LITUANIA, ‘VILNIUS, RIGA E VARSAVIA NON FARANNO PASSARE FERTILIZZANTI BIELORUSSIA’

(ANSA) – Il presidente lituano Gitanas Nauseda ha dichiarato nel corso di un’intervista rilasciata all’emittente privata Tv3 che la Lettonia e la Polonia non intenderebbero concedere i loro porti per l’esportazione di fertilizzanti bielorussi a base di potassio qualora gli Stati Uniti ne facessero richiesta.   

Nauseda ha affermato di aver ricevuto la notizia in via ufficiosa durante recenti colloqui con i leader dei due Paesi. “Gli Stati uniti si trovano dall’altra parte dell’Oceano Atlantico e agiscono sulla base di considerazioni geopolitiche diverse dalle nostre. Noi siamo invece qui e sappiamo che per placare degli stati aggressivi è necessario non cedere ai loro diktat: ti considererebbero ancora più debole e vulnerabile”, ha detto il politico lituano.   

A metà dicembre gli Usa avevano promesso a Minsk di revocare le sanzioni sui fertilizzanti a base di potassio in cambio del rilascio di oltre 100 prigionieri politici. Il ministro degli Esteri lituano Kestutis Budrys aveva tuttavia immediatamente dichiarato che la decisione statunitense non avrebbe influito sulle decisioni del suo Paese e che Vilnius non avrebbe inteso contravvenire alle sanzioni europee in vigore nei confronti di Minsk.

ESTONIA, ‘LA RUSSIA DIMOSTRA DI NON VOLERE LA PACE’

(ANSA) – “L’incontro in Florida ha mostrato che sia l’Ucraina che gli Stati Uniti vogliono raggiungere la pace e stanno facendo sforzi per raggiungerla. L’unico che ancora non è interessato alla pace è la Russia, che non ha mostrato la minima volontà di abbandonare gli obiettivi che hanno portato all’aggressione”. Lo ha detto il ministro degli Esteri estone Margus Tsahkna, nel corso di un colloquio telefonico con il suo omologo ucraino Andriy Sybiha.

“Finché la Russia non dimostrerà di essere disposta ad andare verso una pace giusta e duratura, tutti gli sforzi devono continuare a essere rivolti a sostenere l’Ucraina e a esercitare ancora più pressione sull’aggressore”, ha detto ancora Tsahkna rimarcando la necessità di fornire a Kiev tutti gli strumenti militari per resistere alla spinta russa.


Cosa cambia con la manovra


Dalle accise alla Tobin tax, dai pacchi in arrivo dalla Cina ai controlli su Iva e Pos: tutte le misure fiscali della legge di Bilancio e il loro impatto sul gettito. Nel 2026 entrano in vigore anche la facilitazione dei pignoramenti presso terzi e una nuova stretta sulle indebite compensazioni

(di Chiara Brusini – ilfattoquotidiano.it) – Il mini sconto Irpef che era il cuore della manovra prima che il governo inserisse in corsa un generoso pacchetto di sgravi e agevolazioni per le imprese. I balzelli spuntati alle ultime battute, come la tassa da 2 euro sui piccoli pacchi, quelli sempreverdi come l’aumento delle accise sui tabacchi e le sorprese che hanno fatto sobbalzare gli elettori di centrodestra, vedi il raddoppio della Tobin tax. La legge di Bilancio che sta per ottenere il via libera finale della Camera con la fiducia prevede molte novità in campo fiscale. Non poche delle quali comporteranno aggravi di tassazione per alcune categorie di contribuenti. Ma nel testo c’è anche un capitolo meno noto, e politicamente ancora più sensibile per Giorgia Meloni e la sua maggioranza, che comprende misure mirate a potenziare la capacità dell’amministrazione finanziaria di recuperare le somme sottratte allo Stato da chi evade. Ecco tutte le norme che entreranno in vigore l’1 gennaio e quanto valgono in termini di gettito.

I mini tagli Irpef e le tante nuove tasse

Dall’anno prossimo la seconda aliquota Irpef scende dal 35 al 33%, un taglio che vale poco meno di 3 miliardi di minori entrate ogni anno e porterà ai contribuenti vantaggi limitati: da circa 40 euro l’anno per chi ne guadagna 30mila a 440 per chi ne porta casa 50mila o più. In valori assoluti, i risparmi più corposi andranno a chi ha redditi medio-alti. La manovra dispone poi regimi fiscali agevolati per gli aumenti previsti da rinnovi contrattuali siglati nel biennio 2025-2026 a patto che il reddito non arrivi a 33mila euro (costeranno poco più di 640 milioni), riduce all’1% l’imposta sostitutiva sui premi di risultato e la distribuzione di utili ai lavoratori (170 milioni) e introduce una ennesima flat tax del 15% su maggiorazioni e indennità per lavoro notturno e festivo per chi guadagna meno di 40mila euro (620 milioni).

Sul fronte opposto c’è una lunga lista di tasse destinate a salire. I fumatori vedranno aumentare le accise sui tabacchi (da qui sono attesi 213 milioni) mentre l’allineamento delle accise del gasolio a quelle della benzina porterà 552 milioni in più. Chi compra e vende azioni italiane vedrà raddoppiare l’aliquota della Tobin tax (il che dovrebbe permettere al governo di incassare 337 milioni in più all’anno) e chi realizza plusvalenze sulle criptovalute, escluse solo le stablecoin in euro, verserà un’aliquota del 33% contro il 26% attuale (per un extragettito di soli 7 milioni). Il nuovo contributo di 2 euro sui piccoli pacchi in arrivo da paesi extra Ue costerà ai cittadini 122 milioni. La manovra introduce poi un acconto dell’85% sul contributo sui premi delle assicurazioni di auto e barche, che finirà per ricadere sugli assicurati.

Gli aggravi per le imprese

Le imprese hanno incassato al fotofinish alcune norme chieste da tempo da Confindustria, a partire dalle risorse per rendere triennale l’iperammortamento e per garantire gli sgravi a chi investe nella Zes Unica. E hanno ottenuto che pastic tax e sugar tax siano ancora una volta rinviate di un anno. Con l’altra mano però era già stato previsto che garantissero nuove entrate. Innanzitutto viene ridotta la possibilità di rateizzazione pluriennale delle plusvalenze da cessioni di beni, anticipando il momento in cui il guadagno concorre all’imponibile: una scelta che nel 2026 fa salire il gettito di 490 milioni. Altri 240 arriveranno dall’innalzamento al 21% dell’imposta sulla rivalutazione di terreni e partecipazioni. Viene poi rinnovata la possibilità di affrancare le riserve in sospensione d’imposta pagando una sostitutiva del 10%, per un maggiore incasso stimato in 420 milioni. Più noto il pacchetto che riguarda banche e assicurazioni: per loro arriva l’aumento di 2 punti dell’aliquota Irap (962 milioni) accompagnato dalla possibilità per gli istituti di affrancare le riserve accantonate per non pagare il precedente contributo sugli extraprofitti versando un’aliquota del 27,5% (il che dovrebbe portare 1,65 miliardi di gettito) e dalla riduzione della percentuale di deducibilità delle perdite pregresse (1,49 miliardi).

Le misure anti evasione “dettate” dal Pnrr

Anche in questa manovra, come lo scorso anno, il governo ha inserito giocoforza un pacchetto di norme che puntano a limitare alcune tipologie di evasione e fornire all’amministrazione finanziaria più elementi da utilizzare per l’analisi del rischio fiscale, cioè la probabilità che un dato contribuente sia infedele: una mossa obbligata perché l’Italia, nel Piano nazionale di ripresa e resilienza, si è impegnata a ridurre il tax gap nel suo complesso e in particolare a far calare il nero legato a omessa e infedele fatturazione. Nel solo 2026 questo insieme di misure dovrebbe consentire di recuperare circa 850 milioni, destinati ad aumentare a regime.

Ecco allora che nel decreto del 1972 che disciplina l’Iva è stato introdotto un nuovo articolo che consente all’Agenzia delle Entrate, anche in caso di omessa dichiarazione annuale, di procedere a una liquidazione d’ufficio. Cioè calcolare la cifra dovuta “anche avvalendosi di procedure automatizzate”, usando fatture elettroniche emesse e ricevute, corrispettivi telematici e dati delle liquidazioni periodiche. Il contribuente riceve l’esito e ha 60 giorni per reagire o pagare. Se non fa nulla, il debito viene iscritto a ruolo. Da qui dovrebbero arrivare 646 milioni di gettito. Per contrastare le indebite compensazioni di crediti inesistenti, si abbassa poi da 100mila a 50mila euro la soglia dei debiti iscritti a ruolo oltre la quale il contribuente non può più usare crediti fiscali (con esclusione di quelli relativi a contributi Inps e Inail) per compensare altri debiti, per esempio versando meno Iva o Irpef tramite F24. Attesi oltre 200 milioni l’anno.

Molto contestata dai professionisti la norma che subordina il versamento dei compensi a loro dovuti dalle pubbliche amministrazioni alla verifica che non abbiano debiti fiscali o contributivi anche di importo inferiore a 5mila euro (sopra quella soglia il controllo era già previsto). In caso positivo, la stessa pa deve versare una quota corrispondente al debito all’agente della riscossione, mentre il professionista incasserà solo quel che resta. L’ipotesi di blocco totale dei compensi, inserita nel primo maxi emendamento del governo, è stata ammorbidita.

Via libera anche a una delle misure auspicate dalla commissione incaricata di analizzare il magazzino fiscale pregresso e suggerire come gestirlo: la facilitazione dei pignoramenti presso terzi, espressione che avrebbe fatto inorridire il centrodestra quando era all’opposizione. In pratica l’agente della riscossione avrà a disposizione i dati sulle fatture emesse da debitori iscritti a ruolo (e coobbligati) nei sei mesi precedenti, in modo da poter intercettare i crediti verso clienti o committenti e recuperare una parte del dovuto. Una stretta da 140 milioni l’anno, ma dal 2027 perché serviranno provvedimenti attuativi.

Un’altra novità prevista dalla legge di Bilancio diventerà operativa solo dal 2028: si tratta della ritenuta d’acconto (dello 0,5% il primo anno e 1% a regime) sui pagamenti per prestazioni di servizi e cessioni di beni nell’esercizio d’impresa, con l’obiettivo di “potenziare la base informativa disponibile per lo svolgimento delle attività di analisi del rischio”. Escluso solo chi ha aderito al concordato preventivo con le Entrate o all’adempimento collaborativo. Il risultato sarà un maggior gettito di 734 milioni nel 2028 e 1,4 miliardi a regime. Per i contribuenti in regola si tratterà solo di una anticipazione di cassa, non senza conseguenze però per le attività che hanno liquidità limitata.

Obbligatorio collegare Pos e cassa telematica. Che per Meloni era una “follia”

Dal 1° gennaio 2026 entra poi in vigore una norma inserita nella legge di Bilancio dello scorso anno: diventa obbligatorio il collegamento digitale tra Pos e registratore di cassa telematico. Obiettivo, consentire all’Agenzia di individuare in tempo reale eventuali incongruenze. In caso di scostamenti significativi, potranno scattare controlli mirati e automatizzati. Per chi non si adegua sono previste sanzioni da 100 a 1000 euro, nonché sospensione della licenza o dell’autorizzazione all’esercizio dell’attività. La norme dovrebbe fruttare, grazie agli incassi aggiuntivi di Iva e imposte dirette, 50 milioni destinati a salire a 65 a regime. E dire che giusto cinque anni fa Meloni, allora all’opposizione del governo Conte II, si scagliava contro l’obbligo del registratore di cassa evoluto definendolo sui social “nuova follia” e chiosando: “Una spesa a carico di chi lavora, che non combatte la vera evasione e l’ennesimo orpello burocratico di uno Stato spione“.


Ok al decreto Ucraina. Salvini diserta il cdm, torna la fronda leghista


Dl Ucraina, sì del cdm (senza Salvini e Crosetto): la parola “militari” nel titolo. Cresce la fronda leghista. Vannacci: guerra persa

Dl Ucraina, sì del cdm (senza Salvini e Crosetto): la parola “militari” nel titolo

(di Lorenzo De Cicco – repubblica.it) – ROMA – All’ultimo consiglio dei ministri arriva il sì: il governo sforna il decreto Ucraina, continueremo a spedire aiuti a Kiev pure nel 2026. Varo turbolento. Avviene alle tre di pomeriggio a Palazzo Chigi, preceduto da un ultimo colpo di coda, adeguato finale a un paio di mesi di bizze forsennate a destra: nel titolo, al fotofinish, ricompare la parola «militari», cancellata invece dalla bozza concertata dai partiti di maggioranza. Parola minuta, sei lettere, che però pesa come un Leopard. Nella penultima versione, spedita domenica sera ai maggiorenti di FdI, FI e Lega, si parlava della «cessione di mezzi, materiali ed equipaggiamenti alle autorità governative dell’Ucraina». Con l’ultimo ritocco, torna la formulazione originaria, di tutti i decreti passati: «Equipaggiamenti militari». Il Carroccio apprende la notizia in contropiede, di mattina, quando gli uffici di Alfredo Mantovano diffondono l’ordine del giorno del pre-Cdm. Qui riappaiono gli aiuti «militari», appunto. Claudio Borghi, il senatore che ha trattato per conto di Salvini sul provvedimento, aveva appena brindato al cambio di titolo via tweet. Chi è stato a far rispuntare la parola all’ultimo? Dal Carroccio trapela un unico sospetto: Giovanbattista Fazzolari, il braccio destro di Giorgia Meloni. Da FdI negano, ma spiegano che la mossa è condivisa con Palazzo Chigi: «Perché di aiuti militari si tratta». Tradotto: chiamare un carro armato «mezzo» non lo rende una bicicletta.

La Lega, ufficialmente, fa buon viso. Anzi, rivendica. Dice di aver ottenuto che gli aiuti «prioritari» all’Ucraina saranno «logistici, sanitari, ad uso civile e di protezione dagli attacchi aerei, missilistici, con droni e cibernetici». Dunque in realtà anche militari. Ma anche questa «priorità» era sparita domenica mattina, facendo saltare i nervi a Borghi e riaprendo la trattativa. Fino al compromesso.

Al Cdm Matteo Salvini non si presenta. Formalmente per ragioni familiari: è in volo per New York, dove trascorrerà il capodanno con la fidanzata, Francesca Verdini, e magari ci scapperà qualche stretta di mano “Maga”. Manca pure il ministro della Difesa, Guido Crosetto: il decreto viene letto ai ministri presenti da Mantovano. Meloni presiede, ma tace. Come l’altro vicepremier, Antonio Tajani, che poi a Montecitorio minimizza le tensioni: «Gli aiuti? Avanti come sempre. Salvini assente? C’erano altri ministri della Lega». La seduta dura meno di mezz’ora. Il tempo di approvare, di non dire niente e di scambiarsi gli auguri. «Buon anno a tutti». Anche all’Ucraina, implicitamente.

Chiusa la pratica in Cdm, formalmente il Carroccio si dice soddisfatto e alza il pressing su altro: «Ora sarà utile avere interlocuzioni con tutte le parti coinvolte, comprese le istituzioni russe». Messaggio in bottiglia a Meloni: torni a dialogare col Cremlino. Non è l’unico fronte. Perché a sorpresa una fronda leghista promette comunque battaglia sul decreto, modificato o no. Non sembrano solo peones ribelli. A scagliarsi contro il provvedimento appena licenziato dal governo è uno dei vicesegretari di Salvini, Roberto Vannacci: «A parte le acrobazie lessicali, con questo decreto si continua a garantire la prosecuzione di una guerra persa, no a ulteriori armi a Kiev». Così sostiene il generale, che fornisce pure un’indicazione di voto alle sue truppe: «Mi auguro che il Parlamento non approvi quanto stabilito oggi dal Consiglio dei ministri nel momento della conversione in legge». Crosetto sarà in aula il 15 gennaio alla Camera, entro 60 giorni il testo va approvato pure in Senato. Sottovoce, i Fratelli sospettano: ci hanno fatto cambiare il testo e ora tentano comunque di affossarlo? Sarebbe un biscotto, versione lumbard.


Un governo allergico ai controlli


La maggioranza ha pensionato la Corte dei Conti. Dimostrando ancora una volta che questo governo è allergico ai controlli.

Un governo allergico ai controlli

(di Andrea Sparaciari – lanotiziagiornale.it) – La scusa è la stessa che aveva portato all’abolizione del reato di abuso d’ufficio: liberare i nostri amministratori dalla paura della firma. Solo che questa volta il governo di Giorgia Meloni ha voluto alzare il tiro: perché cancellare un reato – deve essersi chiesto – quando puoi eliminare direttamente i controlli? E, già che ci sei, abbassare di oltre due terzi le sempre più improbabili sanzioni?

Ed è così che sabato 27 dicembre, in un Senato semi-deserto, con gli eletti smaniosi di gettarsi nel tourbillon delle feste, l’esecutivo più a destra della storia repubblicana ha pensionato la Corte dei Conti. Pardon, l’ha “riformata”, come piace dire al centrodestra quando smantella pezzi di Costituzione o mette mano a pesi e contrappesi tra poteri dello Stato.

Tra le altre amenità, la “riforma” prevede che d’ora in poi ci sia un limite al risarcimento che potrà essere posto a carico di amministratori, dirigenti e funzionari condannati per danno erariale. Il risarcimento, cioè il ristoro per un atto compiuto contro la collettività, è ora limitato al 30% degli importi accertati o a due annualità di stipendio del reo. Il resto, quel 70%, sarà invece a carico dello Stato, cioè dei cittadini, cioè delle vittime del reato commesso dall’amministratore pubblico. Un paradosso quasi ridicolo, se non fosse tragico. Tanto che gli stessi giudici contabili hanno definito quella votazione del 27 dicembre in un Senato semi-deserto “una pagina buia per i cittadini”. Come dar loro torto?


Corte dei Conti, il governo crea scudi per la propria impunità. È ora di dire basta


La riforma della Corte dei conti è un tassello non piccolo verso il deragliamento della nostra democrazia costituzionale. Occorre mobilitarsi per fermare una maggioranza che detesta la Costituzione e vuole cambiare nei suoi punti nevralgici: le magistrature, il sistema di giustizia nel suo complesso

(Nadia Urbinati – editorialedomani.it) – Il peggiore governo della Repubblica. E non solo perché i salari sono al palo. In questi giorni di feste natalizie sta portando a termine la demolizione di un pezzo cruciale di governo limitato che avvia l’Italia verso un regime post-liberale, dove per liberalismo di deve intendere l’insieme degli istituti di garanzia con funzione di controllo e limitazione del potere politico.

Si parla della riforma della Corte dei conti (le norme relative alla magistratura contabile) un tassello non piccolo verso il deragliamento della nostra democrazia costituzionale. Una deforma, in effetti, che il presidente della Repubblica dovrebbe non firmare.

Riportiamo parte della dichiarazione dell’Associazione magistrati della Corte dei conti: «Oggi si scrive una pagina buia per tutti i cittadini: il Senato della Repubblica ha approvato la riforma della Corte dei conti, magistratura chiamata dalla Costituzione a garantire che le risorse pubbliche siano destinate ai servizi alla collettività e non siano sprecate, per imperizia o corruzione. Si tratta di una scelta che segna un passo indietro nella tutela dei bilanci pubblici e inaugura una fase in cui il principio di responsabilità nella gestione del denaro dei cittadini risulta sensibilmente indebolito».

Un regalo ai politici

Ci si deve chiedere che cosa i centristi, i liberali e i moderati dicano e facciano di fronte a questo scempio del principio di moderazione. Non dicono nulla o dicono pochissimo. Dimostrando di conformarsi allo stato di cose esistente e di tradire proprio quella moderazione di cui parlano con profusione ogni giorno.

La separazione delle carriere mandata a referendum e, ora, un’altra breccia che apre un’autostrada all’arbitrio concedendo ai politici più discrezionalità nell’uso delle risorse che provengono dalle nostre tasse e con meno rischi di essere perseguiti. Questa erosione della politica costituzionale è un regalo ai politici, con rischi di sprechi enormi nella spesa della pubblica amministrazione e che pagheremo noi.

Il magistrato della Corte dei conti Ferruccio Capalbo non poteva essere più esplicito: «Tutti noi cittadini saremo più nudi di fronte alla pubblica amministrazione e ai politici che potranno gestire i soldi nostri con grande nonchalance, senza rischiare nulla o rischiando pochissimo. È gravissimo». Senza rischiare o rischiare pochissimo, mentre noi rischieremmo in maniera sproporzionata.

Spiega così Capalbo la funzione della Corte dei conti: «Ha il compito di verificare che i soldi pubblici che affidiamo nelle mani di amministratori pubblici, politici, attraverso il pagamento di pesantissime tasse, vengano utilizzati in maniera corretta. Se quei soldi vengono sprecati, la procura contabile ottiene che quei politici restituiscano di tasca propria». Fa l’esempio di «rimborsopoli, tangentopoli, opere pubbliche inutili, strade rifatte e subito rotte». Cosa succederà con la nuova legge?

Chi rompe paga?

«Il principio chi rompe paga non ci sarebbe più». Ha senso parlare di una norma che fa l’opposto di quel che dovrebbe fare: ovvero «de-responsabilizza i politici». E il magistrato lo spiega: «Laddove chiedo a una persona dandogli i miei soldi di realizzare un obiettivo, ho il diritto di chiedere conto di come ha utilizzato quei soldi. E chiederne la restituzione nel caso in cui quella persona non dovesse realizzare l’obiettivo. Nella pubblica amministrazione dove confluiscono enormi quantità di risorse pagate dai cittadini, questo principio di responsabilità così non esiste più, è stato annacquato».

Noi abbiamo diritto di chiedere conto, non solo al momento delle elezioni, ma in corso d’opera. Questo governo sta costruendo uno scudo potente per sé, i suoi politici e funzionari pubblici di fiducia. E come avviene il risarcimento? Qualora si riuscisse a chiamare in giudizio un amministratore per sprechi enormi «non lo si potrà condannare se non a somme minime».

La conclusione di Capalbo è amara: «Rispetto a un’enorme mole di denaro pubblico proveniente dalle nostre tasse che ognuno di noi faticosamente paga, i politici potranno gestirlo come credono, non rischiando più o rischiando di pagare una somma minima».

È ora di dire basta! Basta a un governo che crea scudi per la propria impunità! Basta a un governo che detesta la Costituzione e vuole cambiare nei suoi punti nevralgici: le magistrature, il sistema di giustizia nel suo complesso. Con la prospettiva di un referendum che aprirebbe, se dovesse vincere, alla riforma delle riforme, quella che istituirebbe un regime dell’esecutivo. È ora di dire basta! Ci si mobilita per nobili cause morali. Questa è la causa nobile della nostra dignità di persone e di cittadini. Non si dovrebbe acconsentire a questo scempio.


Fenomenologia dell’asinità


Appunti per una postura apparentemente bestiale eppure  sofisticata e – come tale –  meritevole di ogni approfondimento.

(Di Gianvito Pipitone – gianvitopipitone.substack.com) – A volte mi sorprendo ad impersonare un castigatore di costumi, lo ammetto, magari nella versione del filosofo “castigat ridendo mores”. Più spesso, di uno di quelli che nel post-tutto si svegliano già stanchi dell’umanità. E pur sapendo quanto possa risultare antipatico l’uno e l’altro  ruolo, non riesco a trattenermi. Mi consola il fatto che riservo a me stesso la stessa ferocia critica che applico al prossimo. Così almeno mi illudo di apparire, se non proprio empatico, quantomeno un po’ più autorevole. E forse meno stronzo. Almeno spero.

Il periodo delle vacanze è sempre quello in cui, allentati i pesi e i contrappesi della vita quotidiana, si viene fuori allo scoperto con una mente più libera, più nuova. Forse anche più attenta. Si ha più tempo per concentrarci sulle cose di tutti i giorni, che altrimenti scorrono troppo veloci e troppo automatiche per farci davvero caso. Ed ecco che  non appena ci si muove in un ambiente diverso da quello abituale, si trova pure il tempo e la voglia di osservare ciò che ci circonda. Le persone, ad esempio.

Basta tendere un po’ l’orecchio a ciò che dicono per capire qualcosa in più di questi tempi così spaesati. Anzi, mi correggo: non c’è nemmeno bisogno di tenderlo, l’orecchio. Perché, se vi trovate in fila per un presepio, piuttosto che al supermercato, o dal macellaio, aspettando un turno che non arriva mai, oppure al parco, immersi fra squadriglie di genitori spingitori di passeggini seriali (arte di cui mi professo praticante anch’io), sarà praticamente impossibile non cogliere le innumerevoli perle di una genitorialità – per parafrasare Almodóvar – sull’orlo di una crisi di nervi.

Sarà la rilassatezza imposta dalle feste, sarà la maratona sociale cui siamo tutti un po’ costretti: l’impressione è che stiamo diventando tutti un po’ più Asini. E quando dico tutti, non  escludo nemmeno il sottoscritto.

Asinità, sia chiaro, non nel senso collodiano di crassa ignoranza, quella – per capirci – delle orecchie d’asino che spuntavano a Pinocchio e ai bambini che marinavano la scuola. Non in quel senso. Ma nel senso tutto marsalese del termine. L’asino, dalle parti del Far East siculo, che è sempre la casa della mia giovinezza,  è quasi un concetto filosofico, una categoria autonoma dell’Etica che non troviamo forse nemmeno nei filosofi che hanno scandagliato più a fondo l’animo umano. L’asino di ascendenza marsalese – individua uno stato dell’essere sofisticato, a metà fra stupidità, leggerezza, incuria di sé e  della propria dignità, ma soprattutto incuria per gli altri. Mancanza di sensibilità, di misura, di garbo, di empatia, di attenzione verso il prossimo.

E non finisce qui. Perché tutto ciò è accompagnato da un movimento uguale e contrario: una sciatta esposizione di sé e delle proprie scarse risorse, una compiaciuta degradazione del proprio stato e, come se non bastasse, la ricerca dell’approvazione per questa sorta di catalessi mentale. Ecco, se proprio dovessi spiegarlo in due parole, l’asinita’ è quella  mancanza di rispetto a trecento sessanta gradi, per tutti, compreso sé stessi, più … una surreale leggerezza d’animo che tutto giustifica.

È il trionfo dei tempi, direbbe forse Nietzsche che, nella sua mania di dissacrazione di tutto e tutti, qualche buona lezione ce l’ha pure lasciata.

Sarò stato sfortunato io, ieri, ma sembrava davvero che tutte le persone Asine dell’isola avessero deciso di darsi appuntamento al Bioparco di Carini, alle porte di Palermo. Un’impressione condivisa non soltanto da me – visto che potrei essere accusato di cherry picking per costruire ad arte il mio pezzo – ma anche dal gruppetto di amici con cui ho condiviso una lunga e (voleva essere ) rilassante passeggiata in uno degli spazi per bambini più belli e attrezzati della Sicilia.

Senza troppi fronzoli: nel giro di un paio d’ore – tra la “macchina del tempo” che ti catapulta nella preistoria tra dinosauri ruggenti, una fattoria ben tenuta con il cane della prateria e la mucca cinisara, la zona dei laboratori, seppure un po’ trascurata, il rettilario e infine la wild zone –  siamo riusciti, da provetti cacciatori, a raccogliere un bottino niente male di Asinità allo stato puro. Cristallina.

Tanto che, alla fine del percorso eravamo così provati,  oltre che increduli da cotanta asinità concentrata nello stesso luogo e nello stesso momento. Siamo stati sfortunati? Voglio davvero sperare di sì. E stavolta, concedetimi di grazia, qualche licenza, se possibile.

Cominciamo dal primo branco incontrato in libera deambulazione: spesso sono proprio i branchi a generare mostri. In mezzo a loro abbiamo distinto una coppia impegnata in una performance di asinità acuta. Rimproveravano la figlioletta, una bambina dagli occhietti scuri, vispi e intelligenti, per dissuaderla definitivamente dall’allontanarsi dal branco. E lo facevano con questa perla:

“Tesoro, non ti allontanare troppo. Hai visto quei bimbi? I loro genitori ti potrebbero rapire. Hai visto che hanno solo figli maschi? Ti potrebbero portare a casa con loro. Quindi …non ti allontanare e resta qua vicino a noi”

Una battuta che, se proprio doveva essere pronunciata, avrebbe richiesto almeno un velo di ironia per risultare meno tossica. Invece no: l’impressione netta era che si trattasse di una formula consolidata, ripetuta come mantra fai-da-te a ogni occasione utile.

Non credo peraltro ci fosse alcuna intenzionalità – nemmeno velata – di difesa del femminismo, patriarcato da decostruire, educazione all’autodifesa o riflessioni sul maschio dominatore. Tutte ipotesi teoricamente possibili, ma non in questo caso. Qua c’era solo una  primordiale deterrenza, nell’iperbole: se ti allontani, l’uomo nero ti prende e ti porta via.

La prossima stazione del nostro safari umano si trova davanti al bar della piazza centrale del parco: un anfiteatro naturale, perfetto per raccogliere ogni teatralità che possa attraversare la mente dell’uomo asino.

Anche qui il tema è la deterrenza. Ma stavolta l’allontanamento paventato non è quello di una bambina, ma di un bimbo pacioccone e iperattivo. E la minaccia scelta dal padre era di quelle che, dalle nostre parti, hanno fatto scuola: “non ti perdere, che se viene Mammaddrau, ti acchiappa e ti porta via”.

Figura antica, radicata nel periodo dei corsari del Cinquecento, Mammaddrau – al secolo, Mohammed al Dragut – è l’uomo nero con cui intere generazioni del trapanese e del palermitano sono cresciute. Un corsaro arabo o turco, realmente esistito, che nel XVI secolo razziò più volte le coste siciliane. Da noi, inutile girarci intorno, la tradizione è cultura. E non sarà Sandman, né l’Uomo Nero, o tanto meno  Freddy Krueger a turbare i sogni dei nostri bambini: da noi vince ancora Mammaddrau, a mani basse, con buona pace degli educatori montessoriani.

Appena il tempo di riprenderci da Mammaddrau, ed eccoci davanti a una flotta di passeggini circondati da bambini un po’ cresciuti e da una mamma che, per aura e postura, sembrava l’ape regina.

Attorno a lei, diverse mamme operaie, in ordine sparso. Mentre lei si beava della propria capacità di affabulazione. L’abbiamo intercettata mentre, venerata, distribuiva accoppiamenti come un’antica matrona, erede diretta del paraninfo ottocentesco: un mondo immobile, mai passato, in cui gli sposalizi si facevano per convenienza.

La sentiamo così declamare: “Manfredi e Sofia si sposeranno e avranno figli alti e biondi come loro. Roberto invece si sposerà con Giovanna: sono intelligenti, nati nello stesso mese e a entrambi piace andare a cavallo.”

Apriti cielo. L’associazione genera un trambusto di voci: c’è chi approva, chi protesta, chi si offende e chi strepita perché non ci sta. Così la tiranna, per riprendere le redini in mano, interviene in maniera definitiva: “No ragazzi, Giovanna non si può sposare con Manfredi. Perché a uno piace leggere e all’altra ballare. Sono incompatibili”

Qualcuno osa ricordarle che non è vero e che Manfredi fa anche pattinaggio artistico, e che quindi potrebbe pure cimentarsi con la danza. Ma la dispensatrice decide che no: troppo diversi nel carattere, e anche nel colorito. E dunque: “Lei è bruna, lui è biondo. Non possono funzionare insieme.” Amen.

Risultato: Giovanna scoppia a piangere e si allontana. Mentre altri bambini, timorosi ma curiosi, tornano a interrogare la pizia: “E io? Con chi mi sposo?  E se poi non mi piace ? …”

Un gioco di associazioni divisivo, che a cinque o sei anni crea frustrazione, scorno, ferite all’autostima, sogni amputati. Il tutto per intrattenere i genitori, che a distanza, reggevano il moccolo senza rendersi conto che i loro bambini, in quel caos, non erano forse pronti a sostenere un gioco che chiedeva troppo alla loro emotività.

Ma il tour non poteva dirsi completo senza la Wild Zone. Da lì sentiamo un verso cavernoso, profondo, intermittente. Potrebbe essere un animale di grossa taglia. I miei figli pensano subito all’orso; qualcuno scommette sull’elefante. E invece no: nell’area giochi adiacente alla gru coronata, incontriamo la bestia più feroce dello zoo. Il padre orso.

Un energumeno grande e grosso che, a beneficio di telecamera e smartphone, decide di “giocare” con i figli propri e quelli altrui. Poco incline a comprendere dinamiche, tempi e sensibilità dei piccoli, l’organismo unicellulare ritiene che il buon esito del gioco consista nel riprodurre spaventosi versi cavernosi, lunghi e prolungati, oltre che trasformarsi in un orso impazzito: indossa il cappuccio del giubbotto come fosse un copricapo tribale, si investe delle posture dell’orso e comincia a inseguire i bambini alla spicciolata, arrampicandosi sullo scivolo, sulla torretta, voltandosi a destra e sinistra in una performance sempre più imbizzarrita. E imbarazzante.

Il problema è che il papà orso non si ferma mai. Anche quando il gioco è finito e i bambini non corrono più. Tronfio della sua possente voce cavernosa, continua a inseguire chi non vuole scappare e chi ha smesso di fingere paura. Intanto gli altri genitori lo riprendono, ammirati, e forse leggermente per sfotterlo un po’: sarebbe anche impossibile non farlo.

Noi invece passiamo oltre l’area giochi, trattenendo a fatica un cenno di disprezzo.

Perché tutto ciò? Perché snaturarsi cercando un palcoscenico festivo? Perché farlo sulla pelle dei bambini? Che cosa non abbiamo capito, noi genitori?

Mi ci metto pure io: perché  nessuno di noi genitori è esente da errori. Ma com’è possibile che, invece di migliorare, l’essere umano arretri proprio su ciò che è sempre stato un compito primario della civiltà: insegnare ai figli a vivere, a dominare le emozioni, a rifuggire dalle paure, a fortificarsi. Giocando, sì, scherzando, certo, ma senza sollecitare debolezze, senza evocare paure inutili, senza trasformare l’infanzia in un palcoscenico estremo per mettere in scena uno spettacolo per adulti, in cerca di applausi.

Non sarebbe forse meglio, in questa fase delicata,  ascoltare quello che hanno da dire, più che rubare loro la scena, parlare con loro piuttosto che recitare, comprenderli più che intrattenerli in modo inadeguato?

Ripeto, anche chi scrive ha fatto e continua purtroppo a fare errori nell’educazione dei figli. E non esiste una formula univoca per essere buoni genitori. Non c’è un libretto d’ istruzioni per essere un buon papà e una buona mamma. Ma è anche indubbio che il percorso parte dalla critica e dall’autocritica. Chi è incline a rivedersi, forse riesce a limitare i danni. Chi invece si crede Superman o Wonder Woman, e non si pone domande, è destinato al massimo degli errori futuri.

Quella che fin dall’incipit ho chiamato asinità è postura complessa e sfaccettata che andrebbe studiata in sociologia, e che io continuo a studiare e monitorare da un pezzo. Non mancheranno occasioni per tornarci su più avanti con lo studio di qualche altro aspetto.

Un concetto complesso che, come la linea della palma di Sciascia, temo possa espandersi. Mi auguro solo che, in questo caso, resti confinato ad alcune zone della Sicilia, dove probabilmente, la mancata correzione degli errori in passato, ha continuato a produrre modelli di questo tipo.

Eppure, mi piace pensare che ieri, al Bioparco di Carini, all’insaputa di tutti, si siano dati appuntamento tutti gli asini veri. Me compreso (anticipo la battuta). Perché il resto, tutti gli altri, i  veri genitori, erano impegnati altrove a giocare in maniera sana con i propri figli.

PS: Auguri di buon anno! E che il 2026 ci riservi una migliore fortuna di quello appena trascorso.  


La pasticciata approvazione della manovra: quando la realtà smaschera la demagogia


Fallisce la narrazione elettorale che rimuoveva i limiti. Governare, però, è un esercizio di compatibilità

(Sebastiano Messina – lespresso.it) – La pasticciata approvazione della legge di Bilancio insegna che prima o poi arriva il momento, nella parabola di ogni governo, in cui le parole pronunciate in campagna elettorale tornano a chiedere conto di sé. Non lo fanno con il tono enfatico dei comizi né con l’indulgenza della propaganda, ma con la secchezza dei numeri e la durezza dei vincoli. È in quel momento che la distanza tra promessa e governo diventa evidente, e che la politica è costretta a misurarsi non con ciò che ha detto, ma con ciò che può realmente fare.

Il governo guidato da Giorgia Meloni si è trovato rapidamente in questo passaggio di verità. Le promesse di Fratelli d’Italia, della Lega e di Forza Italia erano state presentate come un cambiamento radicale, una discontinuità netta rispetto al passato. Meno tasse, più pensioni, più sovranità economica, meno Europa invadente, più Stato dalla parte dei cittadini. Un racconto potente, costruito sull’idea che bastasse vincere le elezioni per liberarsi dei vincoli.

La realtà ha seguito un’altra traiettoria. L’abolizione progressiva delle accise sulla benzina, annunciata come gesto simbolico di giustizia verso famiglie e lavoratori, è evaporata nel giro di pochi mesi. Quelle stesse accise, una volta al governo, sono diventate improvvisamente indispensabili per tenere in equilibrio i conti pubblici. La promessa di superare la legge Fornero, cavallo di battaglia soprattutto della Lega, si è infranta contro il costo strutturale di qualsiasi riforma pensionistica. La flat tax generalizzata, promessa come semplificazione rivoluzionaria, è rimasta confinata a interventi parziali, ben lontani dalla narrazione originaria. Forza Italia aveva promesso una svolta liberale: pensioni minime a mille euro, drastica riduzione della pressione fiscale, sburocratizzazione rapida. Anche qui, la realtà ha imposto gradualismi, rinvii, prudenza. Il debito pubblico, vero convitato di pietra della politica italiana, ha dettato una linea difensiva, trasformando l’audacia annunciata in gestione ordinaria. Ed è significativo che l’uomo al quale è toccato il compito ingrato di non far saltare i conti sia un leghista – il ministro dell’Economia Giancarlo Giorgetti – proprio come era stato un leghista – Matteo Salvini – a fare sulle pensioni le promesse che sono evaporate più rapidamente.

Non si tratta di un fallimento morale, né di un tradimento ideologico. Si tratta del fallimento di una narrazione elettorale che ha sistematicamente rimosso il tema dei limiti. Si è parlato al Paese come se le risorse fossero infinite, come se l’Europa fosse solo un vincolo politico e non anche un argine finanziario, come se i mercati fossero un’opinione. Ma governare non è un atto di volontà: è un esercizio di compatibilità.

Il debito pubblico non vota, non applaude, non si convince. È l’unico elettore permanente della Repubblica, quello che resta quando le urne si chiudono e le promesse scadono. Ogni annuncio senza copertura diventa una cambiale sul futuro, ogni slogan un’illusione a tempo determinato. La demagogia può essere una scorciatoia per vincere, ma al governo diventa una trappola.

La lezione che questa stagione politica dovrebbe consegnare ai partiti è semplice e severa: promettere l’impossibile non è coraggio, è irresponsabilità. «Prometti poco e realizza quello che hai promesso», consigliava don Sturzo. La politica adulta comincia esattamente dove finiscono le promesse senza conti e iniziano, finalmente, i conti senza propaganda.


Forza Italia fa il pieno di finanziamenti privati


Stando ai documenti ufficiali, nei soli mesi di settembre e ottobre gli azzurri hanno incassato oltre mezzo milione di euro. Non spiccioli, ma assegni a più zeri. Chi sono i finanziatori

(Carmine Gazzanni – editorialedomani.it) – C’è almeno una buona notizia, a fine 2025, per Antonio Tajani: con lui al timone, i finanziamenti a Forza Italia vanno a gonfie vele. Mentre il partito fondato da Silvio Berlusconi continua a occupare una posizione più defilata negli equilibri del centrodestra, sul fronte delle donazioni dei privati la musica è decisamente più allegra. Anzi, tintinna.

Stando ai documenti ufficiali, nei soli mesi di settembre e ottobre gli azzurri hanno incassato oltre mezzo milione di euro. Non spiccioli, ma assegni a più zeri. Il 3 settembre, per esempio, arriva un bonifico da 100mila euro dalla Sviluppo 1 srl, società immobiliare con sede a Roma. Il 15 settembre a farsi avanti è la Ipi spa: l’assegno è sempre da 100 mila euro.

Scorrendo l’elenco dei sostenitori, poi, emergono alcune coincidenze curiose. Diverse aziende provengono dal mondo dell’energia e dell’ambiente, proprio il settore di competenza del ministro Gilberto Pichetto Fratin, guarda caso in quota Forza Italia.

Così il 18 settembre il Consorzio Italiano Biogas e Gassificazione versa 20mila euro. La Renco spa, attiva anche nelle infrastrutture energetiche, fa lo stesso. Poi c’è Eic Energia (35mila euro), specializzata in impianti, e Gemmo spa, colosso della progettazione e gestione di impianti tecnologici complessi, che aggiunge altri 30mila euro.

Ma la generosità verso Forza Italia non conosce confini settoriali. Nella lista dei finanziatori compaiono produzioni cinematografiche come Cinemafiction produzione (12mila euro), aziende meccaniche come Zame, che realizza presse per la tranciatura (10mila), e perfino società di pulizia come Wave srl (10mila). Ci sono studi di commercialisti, e persino una palestra. Segno che il liberalismo azzurro fa bene sia ai conti che ai muscoli.

Sul fronte dei privati, però, qualcuno supera anche le aziende. L’imprenditore napoletano, e presidente di Federconfidi, Rosario Caputo, mette sul piatto 50mila euro in prima persona, che si aggiungono ai 25mila versati dalla sua Ibg, impresa attiva nel settore del beverage.

E sempre 50mila euro risultano versati il 15 ottobre da Paolo Scaroni, che non è solo il presidente del Milan, ma anche dell’Enel. Il manager aveva peraltro già firmato un’elargizione da 35mila euro a gennaio. Una presenza che ricorda come, anche quando politicamente sembra destinato a finire panchina, Tajani continua a giocare una partita tutta sua. E sul tavolo della sfida con Roberto Occhiuto, può mettere anche la capacità di attirare sostegno economico dalle imprese.


Mosca accusa Kiev: “Attaccata con 91 droni una residenza di Putin”. E minaccia ritorsioni


Zelensky nega: “Sono solo bugie”. Il ministro degli esteri russo Lavrov: “Già deciso obiettivo per la rappresaglia e in quale momento la scateneremo. E cambierà la nostra posizione negoziale”

La villa di Putin sul lago Valdai

(repubblica.it) – Mosca – Un attacco con quasi 100 droni contro la residenza di Putin nella regione di Novgorod sarebbe stato lanciato dalle forza ucraine secondo le accuse del Cremlino. Circostanza immediatamente smentita dalla presidenza ucraina. “Sono solo bugie”, ha detto Zelenzky dopo pochissimi minuti, consapevole che un attacco di questo tipo può terremotare il negoziato in corso sul conflitto.

E infatti il ministro degli esteri russo Lavrov ha affermato che la posizione negoziale di Mosca sarà rivista per tenere conto di quella che ha definito “la transizione finale del regime di Kiev verso una politica di terrorismo di Stato”.

Il capo della diplomazia russa ha aggiunto che “obiettivi e tempistiche” di una risposta russa sono già stati determinati, precisando tuttavia che la Russia non intende ritirarsi dal processo negoziale legato al piano di pace.

La casa di Putin contro cui l’Ucraina avrebbe scatenato l’attacco è una lussuosa residenza sul lago Valdai, vicino al villaggio di Dolgiye Borody, in un parco nazionale. Sebbene la residenza ufficiale dello zar sia il Cremlino, ha varie ville in giro per la Russia, a partire da quella di Novo-Ogaryovo, alla periferia di Mosca, che è stata presa di mira da un attacco ucraino nel 2023. Ma quella era un’altra fase della guerra.


Nel nome del decreto per l’Ucraina gli aiuti tornano “militari”


Il senatore del Carroccio Borghi aveva esultato: “Così si fa politica”. Poi deve correggersi: “Possono chiamarlo anche Gino, basta che il testo non cambi”. Italia Viva: “E’ a tutti gli effetti un provvedimento di aiuti militari, non ‘anche militari'”

(ilfattoquotidiano.it) – E’ durata poco l’euforia della Lega. Alla fine il decreto Ucraina presenta l’aggettivo “militari” accanto alla parola “aiuti”. Il provvedimento è stato approvato dal consiglio dei ministri di fine anno. Il titolo del provvedimento, in capo alla presidenza del Consiglio e dei ministeri degli Esteri e della Difesa, reca la dicitura “Disposizioni urgenti per la proroga dell’autorizzazione alla cessione di mezzi, materiali ed equipaggiamenti militari in favore delle autorità governative dell’Ucraina, per il rinnovo dei permessi di soggiorno in possesso di cittadini ucraini, nonché per la sicurezza dei giornalisti freelance”.

Poco prima Claudio Borghi, senatore del Carroccio, aveva esultato per la vittoria sulla cancellazione di quel “militari“: “Un lavoro eccellente. Massimo compromesso ottenibile stanti i rapporti di forza. Bravissimo Matteo Salvini e tutta la squadra”. “Questo è fare politica. Si cercano compromessi ma tutti devono sapere che non si possono superare certe linee rosse – aveva scritto ancora Borghi -. La differenza con Draghi sta tutta qui: lui le nostre linee rosse le faceva monitorare dai suoi scherani dando poi ordine di calpestarle tutte. Se cambia il titolo è perché cambia anche il contenuto… e se prioritariamente invece di armi offensive verranno inviate attrezzature sanitarie e di aiuto alla difesa della popolazione civile mi pare un discreto passo avanti”. Però poi la parola “militari” è tornata, forse non se n’è mai andata, e il decreto ha ottenuto il via libera della riunione di governo. “Voi capite la pazienza che ci vuole e che ci è voluta? – si sfoga Borghi sui social – Diciamo che a qualcuno a quanto pare difetta lo stile che, anche nelle trattative, (e nella vita) non è una qualità trascurabile. Per quanto mi riguarda comunque possono anche chiamarlo Gino, basta che non cambi il testo”.

In attesa di capire se il testo è rimasto invariato o è cambiato pure quello nel Pd è Filippo Sensi che parla di “balletto osceno” nel titolo di un “decreto penoso“. “A dispetto dei tentativi della Lega e del suo senatore Borghi di far credere il contrario, quello di cui si parla in questi giorni è a tutti gli effetti un decreto di aiuti militari, e non ‘anche militari” aggiunge Raffaella Paita, capogruppo di Italia Viva al Senato.


Secondo un sondaggio di Politico, Trump è largamente impopolare in Europa. Anche a destra


(ANSA) – BRUXELLES, 29 DIC – Donald Trump è “largamente impopolare in Europa”, anche tra gli elettori dei partiti populisti di destra che la sua amministrazione considera alleati. E’ quanto emerge da un sondaggio di Politico, realizzato da Public First a dicembre su oltre 10mila intervistati, all’indomani della nuova strategia di sicurezza nazionale Usa volta a coltivare la “crescente influenza dei partiti patriottici europei”.

In Francia, tra gli elettori del Rassemblement National di Marine Le Pen, il 38% ha espresso un giudizio negativo su Trump contro il 30% positivo. In Germania, i sostenitori dell’Afd risultano divisi, con il 34% favorevole e il 33% contrario.

Gli elettori populisti di destra condividono una forte richiesta che i leader mettano al primo posto il proprio Paese: questo “istinto nazionalista”, osserva la testata di Axel Springer, entra in collisione con l’approccio America First di Trump.

I sostenitori di Le Pen, dell’Afd e dello Reform Uk di Nigel Farage sono più inclini a sostenere che, quando gli interessi nazionali si scontrano con quelli degli alleati, debba “prevalere il Paese” e che “l’industria nazionale vada protetta anche a scapito della competitività globale”. Nonostante ciò, tendono a digerire più facilmente i dazi.

Il 65% degli elettori Afd li considera dannosi, ma soltanto il 37% sostiene ritorsioni. Sulla stessa linea i sostenitori di Farage: il 45% giudica le tariffe negative e il 35% è favorevole a misure di risposta. Il 60% degli elettori lepenisti, invece, ritiene i dazi un danno e il 48% è pro-ritorsioni.


Logica sacrificale e cattiva coscienza


(Geminello Preterossi – lafionda.org) – La logica sacrificale perseguita Aldo Moro: dal “deve accettare di morire” alla liquidazione dell’art. 32 II comma, causa Covid, sancito dalla Consulta. È un paradosso amaro: monumentalizzazione retorica e rimozione etico-politica vanno di pari passo. Un atteggiamento che serba quasi un accanimento sospetto, un bisogno inconscio di negare, rivelativo di un modo complessivo di vedere il rapporto con il potere: quello che si è via via affermato dopo la cesura del ’78 e il cambio di regime mascherato del ’92/’93, e che non ha nulla a che fare con l’energia della Costituente e le sue culture politiche, tantomeno con il lascito, le convinzioni profonde e la sensibilità di Moro. Anche in virtù di tale abreazione, si spiega l’adesione totale all’ideologia del vincolo esterno presuntamente salvifico e il conseguente riorientamento dei cosiddetti “poteri neutri”, già in parte dopo Moro e definitivamente dopo Maastricht. Poiché oggi prevalgono gli arcana imperii finanziari, e l’unica fede è la salus fisica (non civile), si moralizzano gli interessi dei giganti farmaceutici. Tanto si trova sempre un leguleio, un praticone dell’Amministrazione, pronto a legittimare l’illegittimabile.

Il nodo è teorico, e per coglierne certe implicazioni è utile richiamare il saggio che Habermas (esponente prototipico del pensiero liberal-progressista) ha dedicato a Il coronavirus e la protezione della vita (uscito nei Blätter für deutsche und internationale Politik nel 2021 e pubblicato in italiano dal Mulino nel 2022). Il coronavirus ha avuto un effetto disvelante: tra le tante verità sgradevoli che ha messo davanti ai nostri occhi, ha reso evidente che nel cuore dell’ordine giuridico-politico moderno è installata la possibilità dell’eccezione, ciò che i benpensanti avevano sempre negato (Habermas, la cui vita intellettuale è stata sempre inquietata da Schmitt, addirittura aveva definito il “politico” una nozione clerico-fascista). L’origine è eccezionale perché afferma politicamente il primato di un determinato bene collettivo (che sia la salute o altro non importa). Non si creda di evitare tali colonne d’Ercole con la facile distinzione tra emergenza (delimitata e vincolata a un oggetto specifico) e stato di eccezione (indeterminato e costituente): la distinzione è nitida in teoria, ma problematica nella prassi. Soprattutto, se l’emergenza si fa quotidiana e ripetuta, se si governa con e sull’emergenza permanente, viene il dubbio che stia maturando una nuova forma di eccezione: non costituente, ma semmai “destituente”, oltre che paradossalmente normalizzata, fluida.  

Il fatto che Habermas punti comprensibilmente non sulla rivendicazione soggettiva, individuale, del diritto alla salute come diritto assoluto (che sarebbe distruttiva del bilanciamento tra diritti, oltre che del vincolo solidaristico), ma sulla fondazione e il mantenimento dell’ordine in quale tale, per ricavarne una giustificazione alla sospensione di determinate garanzie costituzionali, rende evidente come emergenza ed eccezione nella genealogia politica moderna siano connesse, e  comunque come l’eccezione operi sullo sfondo dell’emergenza, quale orizzonte che svela l’esigenza di definire un bene collettivo stabile e in cui avviene la lotta esistenziale intorno a esso.  È l’esigenza di ribadire la logica insista nella fondazione, qualora l’ordine sia minacciato, a giustificare il ricorso a una solidarietà “rafforzata”, che si sporge sulla linea pericolosa della deroga alle garanzie costituzionali. Di fatto Habermas per difendere l’emergenzialismo sanitario a questa logica accede (anche se con evidente disagio teorico). Ma non si può avere la giustificazione dell’eccezione sanitaria (accettata a priori), che sospende diritti fondamentali, e allo stesso tempo salvaguardare il primato dello Stato dei diritti, magari rispetto a quei casi in cui il ricorso alla decisione eccezionale non è gradita ideologicamente. Non solo: quel primato della salus, che presuppone la salus rei publicae, è in sé inevitabilmente decisionista ed eccezionalista. Salvo sostenere che esista una sola salus “costituzionale” valida aprioristicamente, quella sanitaria, che come un unicum consentirebbe di espungere il decisionismo e attestarsi su un’emergenza pura, come oggettività impolitica. Mentre la salus rei publicae in generale, in quanto fatto politico originario, con tutti i contenuti che può assumere, andrebbe rigettata perché ambigua e pericolosa. Un’ipotesi che non regge. In realtà, dal punto di vista teorico si torna sempre alla domanda regina: quis iudicabit? Cioè chi decide l’eccezione, chi determina la soglia oltre la quale scatta, chi la riempie di contenuto concreto? Possiamo davvero ritenere che la salus sanitaria sia in sé incontrovertibile per sua natura? Adottare tale punto di vista significherebbe affidare alla scienza medica, di fatto alle istituzioni che la amministrano (necessariamente in rapporti, più o meno opachi, con la politica che nomina e il mercato che paga), la decisione sull’emergenza (come se ciò garantisse di per sé un ambito assolutamente indiscutibile, del tutto sottratto a usi di parte e strumentali). Ma questa impostazione tecnocratica è incompatibile con una teoria democratica (tanto più “discorsiva”, come quella habermasiana). Che per legittimare lo stato di emergenza sanitario, il quale alimenta retoricamente l’autopercezione di superiorità morale di un certo “progressismo liberal” (poggiata su piedi d’argilla, ma nondimeno rivendicata con arroganza), si possa ammettere una deroga alla teoria, è una forma di ironia concettuale molto rivelativa delle opacità e delle contraddizioni interne del normativismo giuridico-morale, che si pretende immunizzato dal “politico”, ma poi lo usa e anzi se ne fa invadere eticizzandolo a buon mercato.

L’idea che la presa in carico della vulnerabilità umana (ridotta a cura dei “corpi”) possa legittimare il sacrificio della libertà e degli stessi diritti, imponendo una presunta solidarietà “forzata”, è dunque stata fatta propria anche da Habermas, la cui argomentazione può essere assunta come emblematica delle contraddizioni e dei riflessi condizionati dell’autorappresentazione liberal-progressista. È chiaro che se si vive in una comunità c’è un vincolo solidaristico da riconoscere e rispettare. Ma può essere puramente imposto, oltretutto con la discriminazione di chiunque avanzi anche solo dubbi e domande? Può essere il green pass, simbolo del ricatto sui diritti, anche di quelli relativi al lavoro e alla sussistenza, un viatico per la solidarietà? Non si dovrebbe prima ricostruire le “condizioni” di un’effettiva solidarietà, e indagare senza sconti la genealogia della sua destrutturazione? Ma sarebbe troppo imbarazzante, perciò meglio, con un salto, liberarsi di tale riflessione autocritica sulle proprie responsabilità e sulle ragioni del “populismo”, ritagliandosi così ancora una volta il ruolo di custodi della morale pubblica. Non è una scorciatoia, la presunta solidarietà sanitaria imposta con la forza? Non c’è un’ipocrisia, che nasconde da un lato paure e istanze autoprotettive egoistiche, dall’altro il senso di colpa per i cedimenti pregressi ai tagli e alle privatizzazioni del Welfare, per la separazione dagli interessi e dalle priorità dei ceti popolari, dietro lo schermo della solidarietà verso gli altri, invocata retoricamente ma usata per dividere la società ed espellere (simbolicamente, ma per la fase emergenziale anche fattualmente, usando una “legalità” illegittima) chi non si allinea? Che si sia trattato di una prova generale e un avvertimento? Non opera qui il tipico schema del “doppio standard”, che calibra diritti e regole asimmetricamente, smentendone l’universalità mentre se ne rivendica il monopolio? La morale “umanitaria” si applica agli “altri”, a chi non è disposto ad allinearsi “a prescindere”, ma non all’Occidente “liberale”. Il germe della coazione a discriminare si annida qui, in questo schema che allinea i buoni sempre da una parte, i “nemici assoluti” (dell’umanità, della solidarietà, del bene) immancabilmente dall’altra, dove si manifesta qualche resistenza. Una modalità ormai da tempo pervasiva nella proiezione internazionale del “West”, di cui l’Unione Europea è integralmente permeata, e che ha ampiamente infettato la politica domestica, riproducendo la figura del nemico “interno”, moralmente indegno, dipinto come quinta colonna, o vittima della propaganda dei nemici della società neoliberale. Interno ed esterno così si tengono. Tale “allineamento” tra pulsioni discriminatorie interne e deumanizzazione esterna fa pendant alla totalizzazione pulviscolare dell’ostilità che il globalismo ha prodotto, diffondendola ovunque. Non a caso la guerra, potenzialmente anche totale, è ormai sdoganata.


Manfredi fa capire che non disdegnerebbe essere lui il candidato premier


Parla Manfredi: “Il Pd non è pronto contro Meloni. Le primarie non servono. Schlein? Il programma prima del premier”. Lo scossone del sindaco di Napoli: “Il Pd fa fatica, serve una visione chiara. Le primarie dilaniano. Il leader per battere Meloni si può indicare con un tavolo di coalizione. Nel mio governo vedrei Crosetto. Io e Salis ci saremo. Meloni fa bene a inistere con Trump e ha ragione: la libertà costa”

(Carmelo Caruso – ilfoglio.it) – La sinistra può vincere le prossime elezioni: basta andare a Napoli, da Gaetano Manfredi, il sindaco che non si rassegna, l’ingegnere dello scossone. Manfredi, anche lei confida nel pareggio, anche lei crede che il meglio che possa capitare al Pd è la non vittoria? “Io credo che la partita sia aperta, credo che Meloni si possa battere, ma credo anche che serva avere una proposta credibile”. Il Pd è credibile, è pronto? “Il Pd non è ancora pronto, fa fatica. Non vedo una proposta riconoscibile che rappresenti un reale cambiamento. Serve una visione,  un programma che va costruito, con pazienza, serve qualcosa che vada oltre la parola coalizione. Serve  un fronte plurale”. Serve il modello Napoli, il suo, da Italia Viva al M5s? “Il modello Napoli è riformismo radicale e lo abbiamo messo in campo già quattro anni fa”. Come si sceglie il leader che deve battere Meloni? “Se la legge elettorale non cambierà, sarà il segretario del partito che prende più voti”. E se invece cambia? “A quel punto bisogna convocare un tavolo di coalizione e si sceglierà il profilo migliore”. Cosa ne pensa delle primarie, a sinistra? “Dipende dalla loro finalità. Le  primarie sono utili solo se legittimano una figura su cui c’è larga convergenza, altrimenti finirebbero per introdurre nuove fratture nel nostro elettorato e dilaniare. Non ce lo possiamo permettere, non dobbiamo permetterlo”. Sindaco, primarie sì o primarie no? “Nel caso di  Prodi, le primarie hanno garantito una mobilitazione e hanno unificato, ma se le primarie dividono ed esasperano i conflitti, ebbene, non servono. Non abbiamo bisogno di queste primarie”. Di cosa ha bisogno il Pd? “Il Pd deve essere il perno ma la proposta deve essere chiara, limpida. Popolari e radicali. Sento parlare troppo poco, a sinistra, di economia. Ripetiamo che dobbiamo rivolgerci ai giovani, ma siamo sicuri che li stiamo agganciando?”. 

Lei vede Schlein premier? “E’ giovane ma anche Meloni era giovane.  Si può dimostrare di essere adatti al ruolo, ma parlare adesso di ruoli, senza ancora un programma, a cosa serve?”. Il ruolo di Manfredi, tra un anno, quale sarà? “Sono sindaco di Napoli, rispondo ai miei elettori. Questo non significa che noi sindaci non daremo il contributo, tutt’altro. Ci siamo”. Gli chiediamo se sia vero che Prodi, Gentiloni e Dario Franceschini stiano lavorano su Manfredi candidato premier e se sia vero, si racconta anche questo, che in un palazzo di Roma dei giuristi stiano scrivendo il programma di Manfredi premier. Manfredi risponde che “non è vero” che “sono le voci di Roma”, come le voci di dentro di Eduardo, poi quasi a volere prendere le misure, come a voler testimoniare che conosce l’Italia interna, sottolinea: “Io sono un provinciale. Il mio Natale lo trascorro a casa, a Nola, con i miei genitori, mio suocero. La provincia è valore. Da tempo ho maturato l’idea che questo paese abbia bisogno di una grande riforma. Non è il premierato, non è la riforma della giustizia. Occorre una grande riforma degli enti locali”. Sta suggerendo un nuovo Titolo V? Manfredì senza infingimenti dice di sì e spiega: “Serve una grande riforma degli enti locali e intendo comuni, regioni e province, una riforma che migliori la qualità dei servizi pubblici. Ecco, se mi chiede quale riforma farei, io le rispondo: questa. Una riforma che possa sanare i tanti buchi e gli squilibri italiani per una vera giustizia sociale”. Domando cosa sia il “Modello Napoli”, quella fortunata formula che sta permettendo alla sinistra di governare con concordia la città del sottosopra, del mistero (napoletano), la città del debito come destino. Manfredi rammenta che all’inizio del suo mandato il debito era di cinque miliardi di euro e che adesso è sceso a tre miliardi: “Abbiamo migliorato la riscossione, ridotto gli sprechi, ci siamo meritati i finanziamenti della Ue, abbiamo messo insieme rigore e crescita. Si può fare. Abbiamo abbattuto le Vele di Scampia ma consegnando alloggi nuovi e degni, abbiamo tenuto insieme le due anime della città, il suo tessuto sociale”. Cerchiamo il paradosso. Sindaco, anche lei ha fatto, come Giorgetti, del rigore e della stabilità la sua regola? E Manfredi: “Bisogna essere onesti nel giudizio. Il governo Meloni ha dato stabilità ai conti. Ma manca la spinta alla crescita e la mancata crescita produce stagnazione. Parliamo spesso di calo delle nascite, di calo demografico, ma poco dell’esodo dei nostri figli. E’ quella l’emergenza”. Chi sono i ministri del governo Meloni che vorrebbe nel governo Manfredi? “Guido Crosetto è un ministro che ha interpretato con senso istituzionale il suo ruolo. Così come non posso che parlare bene di Raffaele Fitto e del ministro Tommaso Foti. Entrambi hanno fatto un buon lavoro sulle politiche di coesione”. Sindaco, cosa risponderebbe a Meloni che dice in Aula “noi di destra ci presentiamo con una risoluzione di politica estera e voi di sinistra con cinque risoluzioni?”. Manfredi replica che “la politica estera ha sempre diviso, sia destra sia sinistra. E’ un fattore divisivo. Ma non c’è dubbio che un leader di sinistra debba fare sintesi, tenere la barra dritta”. Chiedo di Prodi e Gentiloni, ritenuti i suoi grandi elettori, e del perché vengono allontanati, scacciati nel Pd come molesti. Prodi è suo amico? Manfredi quasi orgoglioso conferma: “Mi onoro della sua amicizia e aggiungo che l’Italia ha bisogno dei suoi consigli”. Lo è anche Gentiloni? “Conosco Paolo da tanti anni. Ha una credibilità europea e il futuro dell’Italia si giocherà sempre di più in Europa”. E allora perché vengono visti come vecchi nonni brontoloni? Riprendiamo dall’archivio la famosa “tenda” di Prodi, spostata un po’ più in là, dal Pd. Per Manfredi “tutti devono entrare nella grande tenda, anzi, più ampia sarà e più forte si presenta il centrosinistra. Abbiamo bisogno di queste personalità e non di un partito monolitico”. Manfredi non ha mia preso la tessera del Pd. Motiva la decisione con queste parole: “Non mi è mai piaciuto entrare nelle dinamiche partitiche. Ho avuto forse una tessera ai tempi dell’università, oggi ho quella dell’aeroporto”. Il “provinciale” è stato rettore, presidente della Crui, ministro dell’Università del governo Conte II. Parliamo così delle proteste a Napoli, alla Federico II, degli squilibrati che inneggiano al 7 ottobre, e dei troppi ammiccamenti a sinistra. Manfredi non ha paura delle proteste ma fa una distinzione: “Una cosa è la discussione e la dialettica, diverso quando negli atenei entra l’intolleranza che va combattuta con determinazione. La storia insegna che l’intolleranza conduce all’estremismo così come si è visto durante gli Anni di piombo. E’ giusto difendere l’esistenza del popolo palestinese ma si deve avere il coraggio, a sinistra, di dire che chi fiancheggia gli estremisti è nemico del popolo palestinese”. Sindaco, come convincerebbe i tanti parlamentari del M5s che sono scettici sul sostegno a Kyiv? “Semplicemente ricordando che sosteniamo non solo l’Ucraina ma il principio che non si può aggredire una nazione sovrana. Tutti vogliamo arrivare alla pace, dobbiamo, ma difendere l’Ucraina è una prerogativa per la pace”. Lei si fida di Trump o anche lei rimprovera a Meloni la equivicinanza? Manfredi pensa che “l’America di oggi è diversa dall’America di trent’anni fa, anche per colpe dei democratici” e continua, con realismo: “Trump è l’espressione dell’America di questo tempo, ci piaccia o meno, e l’America è il naturale alleato dell’Europa. E’ il luogo ideale della libertà in cui abbiamo sempre creduto. E’ naturale che Meloni insista con il dialogo. Servirebbe un’Europa che sia all’altezza. Le dico di più: io la penso come Meloni quando dichiara che la libertà ha un costo. E’ vero, la libertà ha un costo, ed è il costo della Difesa”. A Manfredi spaventa immaginare Meloni al Quirinale? “I toni apocalittici non aiutano la sinistra. Abbiamo un grande presidente che è Mattarella. Chi prenderà il posto di Mattarella dovrà essere alla sua altezza. Sarà questa la sfida più grande. Il resto è solo pregiudizio, come il pregiudizio sul sud. Conta solo il lavoro: è il lavoro che ci racconta. Oggi sappiamo tutti che il sud è il fattore di crescita e che l’Italia corre se anche il Mezzogiorno corre. Io ci credo”. Cosa voterà al referendum sulla separazione delle carriere? “Voterò no, perché la giustizia va riformata ma non è questa riforma che cambia la giustizia”. Manfredi, lei crede a Conte, sul serio non pensa che voglia sabotare Schlein? “Ho lavorato con Conte, durante il Covid. Conte non vuole sabotare anche perché abbiamo imparato che divisi si perde e c’è voglia di vincere, non si corre per perdere. Si può battere Meloni”. Non corriamo troppo? “Si può vincere solo se la sinistra farà correre la speranza. Sa, la speranza è contagiosa. Mi darà del provinciale?”.