Selezione Quotidiana di Articoli Vari

Un piano di pace per Kiev cucito su misura da Trump, forse disegnato dallo Stilista di Mosca


(Dott. Paolo Caruso) – Ventotto i punti nel piano Trump al tavolo dei colloqui a Ginevra che vedranno riuniti Usa, Ucraina, UE. Li detta Trump, che si dice stanco di questa guerra, e questo non può che farci sperare. Gli scandali in Ucraina, le distruzioni e la perdita di ulteriori territori che ormai sembrano inarrestabili, la morte di civili che si fa ogni giorno sempre più insopportabile all’ animo umano, pare abbiano determinato una accelerazione dei tempi per arrivare ad un accordo equilibrato. Del resto a Trump serve in primis staccare Putin dall’ abbraccio con il leader cinese e contenderlo ai Brics. Nell’ intesa si parla poi di accordi economici, sbilanciati in corso di pace a favore della Russia, cooperazione su settori strategici ( energia, risorse naturali, intelligenza artificiale, estrazione di metalli di terre rare nell’ Artico ). Pare che il piano di Trump sia stato scritto con suggerimenti russi. A questo punto il prezzo lo pagherebbe l’ Ucraina e l’ Europa. L’Ucraina potrebbe non accettare la totale resa, ma farebbe arrabbiare il Bisonte americano, che quella pace la vuole per intestarsela, perché programma di propaganda elettorale e un modo per adombrare i tanti scheletri presenti nel suo armadio. Sarà – a suo dire – la “nona”, al pari della Sinfonia di Beethoven, che però non riuscì a scrivere la decima. Trump andrà oltre. Diceva l’ imperatore Tiberio: “Mi odino, purché mi temano”, e i muscoli “alla Mastro lindo” Trump li mostra tutti ma solo ai deboli, perché con i potenti si fanno affari. I continui cambiamenti di umore lunatico, lascia il mondo in cronica sospensione e anche a Ginevra l’ ondivago Tycoon non si smentisce con le parole ” La mia offerta non è definitiva”. Cosa resterà dell’Ucraina? L’ ultimatum la lascia di fronte una scelta difficoltosa e amara, rinunciare alla “dignità” con le centinaia di migliaia di morti caduti per non lasciarsi sopraffare o non contare più “sull’ alleato americano” (sic!). A Trump non importa se l’Unione Europea resterà con il cerino in mano. Non ha fatto mai mistero di non considerarla, ritenendola inutile e cercando al suo interno “cavalli di Troia” per poterla disintegrare. Importa a Trump intestarsi un’altra – a suo dire – personale vittoria. Gli interessano affari economici suoi personali, a dispetto dei valori e di ideali di libertà e d’auto-determinazione dei popoli. Nel disorientamento generale, confusa è anche la NATO, accusata giustamente da Papa Francesco di essere andata ad abbaiare ai confini della Russia e quindi corresponsabile della guerra. Saltato il tavolo delle trattative a Istanbul, mesi dopo l’ invasione, per opera soprattutto del Premier britannico, Boris Johnson, convinto insieme alla UE di poter mettere all’ angolo Putin, la voglia di una tregua con l’ inasprirsi della guerra è venuta meno. Ora che le lusinghe di vittoria si sono dissolte e le minacce del nucleare potrebbero concretizzarsi senza l’ appoggio delle armi americane, sarebbe il caso di lasciar perdere, sedersi seriamente ad un tavolo di trattative considerando le immani distruzioni del Paese, mettendo a tacere le voglie belliciste della pavida Europa, e attuando il famoso detto ” meglio perdere che straperdere”.
Da quando il 20 gennaio scorso Trump si è insediato alla Casa Bianca tutto il mondo pende da Lui e Lui si presenta, anche se umorale, arbitro dei destini dei popoli. E Putin attende….. mentre il Tycoon trionfante e impettito crede di sfidare il mondo.


Giorgia Meloni meglio di Orban: è il cavallo di Troia di Trump in Europa


MELONI, DA TRUMP HO TROVATO DISPONIBILITÀ

(ANSA) – “Ho trovato disponibilità da parte del presidente degli Stati Uniti Trump. Abbiamo avuto una telefonata abbastanza lunga anche con il presidente della Finlandia Stubb.

Il lavoro dei nostri sherpa a Ginevra segue questo intendimento”. Lo ha detto la presidente del Consiglio Giorgia Meloni in conferenza stampa a Johannesburg alla fine del G20.

MELONI, NO A CONTROPROPOSTA, LAVORIAMO SU QUELLA DI TRUMP

(ANSA) –  “Il tema non è lavorare su una totale controproposta, ci sono molti punti condivisibili, ha senso lavorare sulla proposta che c’è”. Lo ha detto la presidente del Consiglio Giorgia Meloni in conferenza stampa a Johannesburg alla fine del G20, rispondendo a una domanda sull’ipotesi di controproposta europea al piano di pace di Donald Trump.

MELONI, NEL PIANO PUNTI DA DISCUTERE E ALTRI MOLTO POSITIVI

(ANSA) – “Ci sono nel piano americano alcuni punti che devono essere oggetto di discussione, come quelli sui territori, sul finanziamento della ricostruzione o sull’esercito ucraino.

Ci sono punti molto positivi, come le garanzie di sicurezza con il coinvolgimento degli Stati Uniti, una proposta che riprende una proposta italiana”. Lo ha detto la presidente del Consiglio Giorgia Meloni in conferenza stampa a Johannesburg alla fine del G20

MELONI, TUTTI IMPEGNATI PER UNA PROPOSTA PER UCRAINA SOVRANA

(ANSA) –  “Penso si possa fare un lavoro positivo, siamo tutti impegnati per arrivare a una proposta che serve per avere pace, un’Ucraina indipendente e sovrana e per la sicurezza dell’Europa”. Lo ha detto la presidente del Consiglio Giorgia Meloni in conferenza stampa a Johannesburg alla fine del G20.

MELONI, MOSCA DIA SEGNALE E NON BOMBARDI INFRASTRUTTURE

(ANSA) – “Penso che sarebbe una buona cosa, e ne abbiamo parlato nella telefonata con il presidente Trump, capire se si riesce a ottenere almeno cessate il fuoco temporaneo sulle infrastrutture strategiche e civili che russi continuano a bombardare.

Anche i russi devono dare un segnale concreto di voler arrivare alla pace”. Lo ha detto la presidente del Consiglio Giorgia Meloni in conferenza stampa a Johannesburg alla fine del G20.

MELONI, PROVA DI MATURITÀ PER L’EUROPA, DIA CONTRIBUTO AL PIANO

(ANSA) – “Molte delle questioni inserite nel piano riguardano e necessitano dell’Europa per essere realizzate, sul tema delle garanzie di sicurezza, della ricostruzione, dell’accesso dell’Ucraina all’Ue.

Possiamo discutere di tutto ma non penso sia utile in questa fase andare in questi dettagli ma guardare all’obiettivo perché la fase è delicata.

È una prova di maturità per l’Europa, per mostrare che può fare la differenza con proposte che possano far fare passi avanti: siamo tutti d’accordo a fare questo lavoro, capire dove si può dare un contributo per arrivare al punto”. Lo ha detto la presidente del Consiglio Giorgia Meloni in conferenza stampa a Johannesburg alla fine del G20.

MELONI,GAROFANI? HO CHIARITO TUTTA QUESTIONE CON MATTARELLA

(ANSA) –  “Ho parlato direttamente con il presidente della Repubblica, ho chiarito tutta la questione.

Approfitto per ribadire l’ottimo rapporto che da sempre ho con il presidente Mattarella. Non penso sia il caso di tornare su questa vicenda”. Lo ha detto la presidente del Consiglio Giorgia Meloni in conferenza stampa a Johannesburg alla fine del G20.

MELONI, NON STIAMO ADERENDO AL PURL MA NON C’È DEADLINE

(ANSA) –  “Sul Purl non abbiamo una deadline, lavoriamo per priorità. Adesso stiamo lavorando per un nuovo pacchetto di aiuti. Ad ora non stiamo aderendo, poi vedremo ma non ci siamo dati una deadline”. Lo ha detto la presidente del Consiglio Giorgia Meloni in conferenza stampa a Johannesburg alla fine del G20, rispondendo a una domanda sul meccanismo di acquisto di armamenti americani da girare a Kiev. .


La cultura in mano alla destra? Caos e amichettismo


Da Sangiuliano a Giuli: i tre anni di impicci e pasticci al ministero della Cultura. L’ultimo caso, l’addio del capo ufficio stampa dell’attuale responsabile del dicastero. Da anni uno scandalo via l’altro

(di Filippo Ceccarelli – repubblica.it) – E meno male che dovevano cambiare la narrazione, smuovere la cappa culturale, rivendicare l’identità nazionale, promuovere la contro-egemonia, costruire un nuovo immaginario. Per quanto in Italia abbondino i chiacchieroni, ci si poteva perfino preoccupare di quei progetti, dietro ai quali non di rado si scorgeva un che di implicitamente minatorio, un tono e un piglio che dietro l’alta missione patriottica tradiva nuove brame e antichi risentimenti.

Ed eccoci qui invece a dar conto dell’ennesimo impiccetto consumatosi a via del Collegio romano, le dimissioni del portavoce del ministro pizzicato col sorcio in bocca a coltivare interessi elettorali in atti d’ufficio, niente che abbia a che fare con la Cultura, ma ormai è questo che passa l’ex convento dei gesuiti: gelosie, capricci, ripicche, allontanamenti, riavvicinamenti, bizzarrie, soffiate ai giornalisti, lettere anonime, conflitti d’interesse, telefonate registrate e chat delatorie a rischio di sequestro investigativo.

Dal Dante liceale (“Fatti non foste”, eccetera) invocato a ogni piè sospinto da Gennaro Sangiuliano aka Genny Delon, al pensiero solare e supercazzolante con scappellamento a destra di Alessandro Giuli, il ministro Basettoni, pare sconveniente scendere al nutrito repertorio di vicende scabrose registrate dalle cronache in questi tre anni.

Sennonché procedere resta pur sempre un dovere civico e dunque, sommariamente e con riserva di qualche dimenticanza: multiplo caso Sgarbi, immenso caso Sangiuliano, fulmineo caso Gilioli, conseguente caso Spano con addentellati, varie ed eventuali. Quindi lite inutilmente dissimulata GiuliBorgonzoni con inesorabili diramazioni a Cinecittà e relativa sovraesposizione di ulteriori ed esuberanti addetti stampa, per giungere ai sinuosi movimenti del silente, ma fattivo sottosegretario Mazzi cui si deve la geniale orchestrazione del caso Fenice-Colabianchi-Venezi.

E qui, almeno fino a ieri, il triste e stucchevole elenco poteva dirsi concluso, lasciando semmai alla vana malizia di osservatori nullafacenti il compito di trastullarsi su altri fantastici micro-episodi della vita culturale della Nazione. Tipo l’inusitata tarantella sviluppatasi tra la Rai e il San Carlo di Napoli per liberare l’una e incautamente riempire l’altro con il dottor Fuortes; o la nomina a manager degli shop museali del gestore di un autonoleggio di Frosinone; oppure l’indispensabile ritorno dei gladiatori al Colosseo; o anche la meditazione ministeriale il 25 aprile dinanzi al cippo che ricorda la battaglia di Canne, cui è seguito il bacio compensatorio alla tomba di Matteotti; senza ovviamente trascurare, dulcis in fundo, l’ancora misterioso destino delle chiavi d’oro della Città di Pompei.

Ora, un po’ tutto questo dipenderà dai tempi esagerati dell’odierna vita pubblica; un altro po’ sarà colpa della puzzetta sotto il naso dei radical chic che, per paura di perdere i loro privilegi mainstream, disprezzano i grandi sforzi dei patrioti nel valorizzare l’orgoglio italiano.

E tuttavia, anche respingendo la tentazione di addebitare tale caos a radici autoritarie, impreparazione di base, gaglioffaggine istituzionale e incapacità di distinguere tra governo e comando, ecco, detto chiaro chiaro il sospetto è che sia Sangiuliano che Giuli, nonostante ogni pomposa apparenza, amino molto più loro stessi che la Cultura. E comunque quel ministero che sembra un ibrido tra Temptation Island e Il gabinetto del dottor Caligari.

Ormai separata dalle sue antiche e silenziose accompagnatrici (l’istruzione, la ricerca, l’ispirazione, la memoria), sempre più la Cultura, dea oltraggiata, si è ridotta a merce, pretesto, spot, brand, marketing, packagingbroadcasting, illusione e Grandi Eventi da consumare e dimenticare. Giuli, che conosce la mitologia, forse sa anche quali guai comporta offendere quel tipo di divinità.


Report: “Sport, salute e amichettismo”


Amici, Sport e Salute: l’appalto all’ex socio della madre di Meloni. Nel servizio “Fratelli di sport” anche un affidamento diretto all’imprenditore con cui la mamma e la migliore amica della premier avevano fatto una plusvalenza d’oro, come svelato da Domani  

Le sorelle Meloni con la loro amica, Milka Di Nunzio, nel locale che fu anche di mamma Meloni e l’ex socio Quinzi

(Enrica Riera – editorialedomani.it) – Interessi personali, favori di partito, affidamenti senza gara. Propaganda, potere e affari. Cosa c’è dentro il “braccio” del governo nel mondo dello sport? Come viene amministrata Sport e Salute, la società partecipata dal Tesoro, creata nel 2018 dal ministro Giancarlo Giorgetti, che gestisce circa mezzo miliardo di contributi l’anno?

Ne parlerà Report nella puntata che andrà in onda domenica sera su Rai3. Nel servizio “Fratelli di sport”, firmato da Carlo Tecce e Lorenzo Vendemiale, viene acceso un faro sulla spa, diventata(come raccontato anche da questo giornale) lo strumento che il governo Meloni sta usando per controllare lo sport e alimentare il suo consenso. In che modo? Anzitutto «scegliendo persone – dice il deputato del Pd intervistato dalla trasmissione, Mauro Berruto – che sono estremamente vicine al cerchio molto ristretto della premier».

Ne sarebbe prova pure quanto avvenuto nel centro sportivo di Caivano, inaugurato in pompa magna dal governo con l’obiettivo dichiarato di voler rigenerare le periferie. Nel centro ha trovato lavoro anche un vecchio amico di Giorgia Meloni, Daniele Quinzi, già candida. Più in particolare, lo scorso anno Sport e Salute ha installato per il periodo natalizio una pista di pattinaggio nella struttura intitolata a Pino Daniele per la cifra di 90mila euro. Così la direzione Sport Community della spa l’ha affidata senza gara all’azienda FattoreQ, che è appunto la società di Quinzi. E cioè dell’imprenditore e attivista di Fratelli d’Italia.

Il legame tra Quinzi e la presidente del Consiglio, come già raccontato da Domani, è profondo: in passato, l’imprenditore è stato in affari con la mamma della premier, Anna Paratore, nella gestione del locale B-place: un lounge bar nel quartiere Eur. Lo gestiva la Raffaello Eventi di Davide Solari e Lorenzo Renzi, due noti imprenditori nel settore della ristorazione, con simpatie di destra, tra gli azionisti anche Quinzi, appunto.

Tra il 2012 e il 2016, in società entrano con una quota del 20 per cento Paratore e Milka Di Nunzio, amica fidata della premier e sua mandataria elettorale alle Comunali di Roma quando la premier si candidò sindaca di Roma.

Ed è proprio nell’anno del voto che la mandataria e la madre di Meloni vendono le loro quote sempre agli imprenditori da cui le avevano acquisite pochi anni prima: un’operazione, svelata da questo giornale, che ha portato nelle casse delle due donne legatissime a Meloni una plusvalenza di quasi 90mila euro, nonostante i bilanci della società non fossero così floridi da spiegare una tale prezzo di vendita delle azioni. Oggi Di Nunzio è al governo come consigliera del ministro Abodi. Quinzi invece ha ottenuto alcuni affidamenti diretti da Sport e Salute.

L’amministratore delegato di Sport e Salute, Diego Nepi, alla domanda di Report sull’affidamento a Quinzi, ha risposto che non ci vede «niente di particolare se sono tutte società o persone che sono in grado non solo di poter lavorare, ma lavorare bene, lavorare tanto». Sulla questione di opportunità, però, visti gli affari del passato con la madre di Meloni, nessuno commento.

Amici miei

Proprio Nepi, storico dirigente della società gradito a Giorgetti, ad agosto 2023, con il rinnovo dei vertici di Sport e Salute, viene promosso come ad. Ma soprattutto diventa presidente il costruttore Marco Mezzaroma: cognato di Claudio Lotito e tra gli amici intimi della presidente del Consiglio al punto da partecipare alle sue vacanze estive in Puglia. Nella società c’è anche un altro componente del cerchio magico meloniano: Giuseppe De Mita, figlio dell’ex segretario Dc e presidente del Consiglio Ciriaco, amico dello stesso Mezzaroma.

La modalità con cui è entrato in Sport e Salute De Mita è indicativa dei criteri usati per la selezione: prima con una piccola consulenza da 39mila euro attraverso la sua società Lasim; poi, da gennaio, assunto come dirigente a oltre 200mila euro di stipendio, al termine di una selezione pubblica aperta in piena estate e molto chiacchierata.

De Mita jr, grande amico e soprattutto testimone di nozze del presidente Mezzaroma, nel suo primo matrimonio con l’ex ministra Mara Carfagna. I due in passato sono stati anche soci, nell’investimento in una delle più belle piazze del mondo, quella del Pantheon, dove la loro società Bidiemme gestiva alcuni bed&breakfast.

Ma non è finita. Nella società pubblica dello sport hanno avuto una consulenza pure Manuela Di Centa, olimpionica di sci di fondo ed ex deputata di Forza Italia, Elena Proietti, segretaria del ministro Giuli. E poi: Bruno Campanile, vicepresidente Asi, cioè l’ente presieduto dal sottosegretario Barbaro, e la figlia Elena; Luigi Mastrangelo, pallavolista già responsabile Sport della Lega di Salvini; Riccardo Andriani, avvocato del Secolo d’Italia; Beppe Incocciati, consigliere di Tajani a Palazzo Chigi.

Così Sport e Salute è diventata Sport e poltrone.


Perché la democrazia non è più scontata


Perché la democrazia non è più scontata

(ANNA FOA – lastampa.it) – Stiamo ogni giorno di più interrogandoci sulla democrazia, su cosa la definisca, su come si sia trasformata a partire dalla seconda metà del Novecento, quando si è affermata sulle rovine della guerra e delle dittature, sul suo declino o forse sulla sua morte imminente, da troppi profetizzata. Era per tutti, almeno per chi come noi viveva in un continente come l’Europa, al sicuro nelle nostre tiepide case, un dato scontato, acquisito, e pensavamo che non sarebbe mai tramontata. Dico un continente, ma dovrei dire la nostra parte, quella occidentale, del continente, perché nella parte orientale invece imperversavano mancanza di libertà, processi, gulag, invasioni, come nell’Ungheria del 1956 o nella Praga del 1968. E anche in Occidente, come non ricordare la Spagna di Franco, il Portogallo di Salazar, la Grecia dei colonnelli? No, era davvero piccola la parte dell’Europa in cui potevamo farci forti della nostra storia passata, richiamare Locke e Kant, la Rivoluzione francese e la lotta contro il nazifascismo, fin dimenticare i nostri crimini coloniali.

Ma la democrazia non resta tranquilla nel suo nido privilegiato, ha bisogno di essere difesa, riedificata ad ogni cambiamento, rinnovata. I nazionalismi, i populismi, ne sono il peggior nemico. Ed ecco oggi il gran parlare che se ne fa, il bisogno di capire cosa effettivamente sia, quale ne sia stata l’origine. Quali i suoi rapporti con le guerre, negli anni in cui un paese dittatoriale come la Russia attacca un paese vicino per distruggerne la libertà. Quali i suoi rapporti con quella Europa senza confini che stiamo cercando faticosamente di rendere più forte e viva, un’Europa che richiede per esservi accettato alcuni criteri indispensabili, come la democrazia politica, la libertà, e perfino il rifiuto della pena di morte.

E poi l’ignoranza: provate a chiedere cosa caratterizzi la democrazia, e tanti avranno un’unica risposta, il voto. Certo, la scelta popolare garantita dalle elezioni ne è una precondizione, ma molte altre ne sono le condizioni, e fra esse la libertà di parola, di coscienza, di religione, l’uguaglianza davanti alla legge, il rifiuto delle discriminazioni, la limitazione delle disuguaglianze sociali. E non tutti i paesi di questa nostra Europa hanno oggi saputo mantenersi dentro questi limiti. E fin gli Stati Uniti, l’altra patria della democrazia e dello stesso pensiero democratico, assiste ora ad una crisi senza precedenti della sua struttura politica. E tanto sono minacciate le democrazie che si sente il bisogno di inventare altri nomi per definire il loro stato ibrido, come “democratura”.

Fra tutte queste riflessioni e queste domande, che tanto ci confortano in questa crisi ma che anche tanto ci inquietano sul nostro futuro, vorrei ricordare l’iniziativa di Gariwo, che ha creato una Carta della Democrazia e che su questo tema si interrogherà nei prossimi giorni a Milano, in presenza di studiosi dell’Occidente e dell’Est, e la proporrà ai rappresentanti della rete dei trecento giardini dei Giusti nel mondo che saranno presenti con le Nazioni Unite. Al centro del dibattito non possono non essere gli esiti della guerra della Russia contro l’Ucraina e le minacce che pesano su questa nostra piccola parte d’Europa, ma anche l’emergere della forza contro il diritto, l’attacco sempre più violento al diritto internazionale da parte degli Stati Uniti e di Israele, i nazionalismi dilaganti, i crimini contro l’umanità, i nuovi razzismi. Â«Dopo la fine della Seconda guerra mondiale e la caduta del Muro di Berlino sta accadendo nel mondo qualche cosa di inaspettato per chi ha creduto che i valori della democrazia, del dialogo, della pace e della nonviolenza fossero qualche cosa di garantito su cui si poteva costruire il futuro. Invece, le nuove immagini delle autocrazie del XXI secolo, che perseguitano e mettono a tacere ogni voce differente, così come il clima di odio e di contrapposizione che si percepisce sulla scena pubblica, ci fanno capire come si sta perdendo il gusto e il richiamo ai fondamenti della democrazia».

Nella nostra agenda però, non potrà esserci solo l’elaborazione di una linea meramente difensiva. Difendere la democrazia di fronte a tutte queste minacce, oggi, non può non comportare un difficile lavoro di ricostruzione, che non può venire solo dall’alto, da un rinnovamento delle istituzioni, ma deve venire anche dal basso, dai giovani che chiedono di capire e di sapere. La mancanza di una prospettiva realmente politica, non solo ancorata ai partiti, ai voti, al potere; i timori di fronte alle assunzioni di responsabilità, propri degli individui come dei governi, l’acquiescenza di fronte alle prepotenze degli Stati e dei potenti, l’ignoranza e l’incultura prese a modello, tutto questo fa parte delle minacce alla democrazia, delle prospettive più angosciose sul futuro nostro e dei nostri figli. Ma forse, se le riconosciamo, siamo ancora in tempo a creare un mondo a misura degli esseri umani.


Il derubato ha torto


(di Michele Serra – repubblica.it) – È come se il derubato fosse invitato a dimenticare la refurtiva; e il ladro autorizzato a tenersela, e amnistiato di tutti i suoi crimini. In cambio, il derubato avrà salva la vita e dunque deve pure ringraziare la sedicente “comunità transatlantica” per la sua gentile intercessione.

Questa è la pace che Trump offre a Putin e impone agli ucraini, che nessuno potrà biasimare se dovessero accettare: avere i cingoli dei carri armati alle porte di casa e vivere sotto le bombe (in buona parte su obiettivi civili) per quattro anni non è una condizione che possa essere protratta all’infinito. La pace di Trump per l’Ucraina assomiglia dunque a quella per Gaza, il più debole si arrenda, il più forte canti vittoria, poi ci penserà la ricostruzione a far brillare gli occhi della speculazione che, bontà sua, è transnazionale, non conosce frontiere, non si attarda in inutili patriottismi: dove c’è da fare quattrini si va. E si pretende, per giunta, la gratitudine dei bombardati.

Le macerie sono un business formidabile, specie se chi le ha prodotte (vedi Gaza) chiede una partnership nella ricostruzione: ne ha diritto, no? Distruggendo, ha gettato le basi dei nuovi cantieri. Dunque non ci stupiremo se un giorno anche gli oligarchi russi, come Netanyahu, dovessero ricavare un vantaggio economico dalla sedicente pace: già la sospensione delle sanzioni è un bel gol a porta vuota.

Non credo ci siano stati tempi favorevoli ai deboli. Ma questo è il tempo in cui l’esultanza dei forti non ha neppure bisogno del velo dell’ipocrisia. Putin tornerà a sedersi al tavolo dei vincitori. Altre domande?


Le ragioni scadute della nostra sicurezza


Donald Trump

(di Lucio Caracciolo – repubblica.it) – Il cosiddetto piano di pace americano per l’Ucraina ne sanziona la fine quale Stato indipendente, offre alla Russia l’opportunità di spacciare per vittoria la forzosa subordinazione strategica alla Cina e agli Stati Uniti di mascherare con il tradimento del loro ex protetto un fallimento annunciato. Questa svolta coglie l’Italia altrove. Fra referendum sulle carriere dei magistrati che la politica dipinge da ordalia e sapide polemiche sulle chiacchiere a un tavolo di romanisti intorno ai notoriamente dissonanti rapporti fra Quirinale e Palazzo Chigi, sembra che la guerra alle nostre porte passi in cavalleria. Si conferma un tratto della nostra psiche collettiva: le questioni esistenziali — sì, in guerra si muore — scadono a esotiche, le meno decisive si strillano vitali. Non sappiamo quale effetto avrà l’ultimatum di Trump a Zelensky. Difficilmente più di una fragile tregua negoziale. O forse l’occasione per il presidente americano di rovesciare il tavolo e lasciare che sia il campo di battaglia a decidere. Ovvero a sancire il non troppo graduale crollo del fronte ucraino. E il conseguente rovesciamento del regime, minato dalla corruzione endemica che gli amici americani d’improvviso riscoprono come arma di pressione contro Zelensky.

Se la guerra continua nessuno può illudersi di governarla. E tutti devono temere che possa coinvolgerli sempre meno indirettamente. Noi italiani compresi. Rischiamo di finire in un meccanismo del quale non avremo alcun controllo perché deciso altrove da chi si gioca tutto e non ha quindi alcun interesse a tener conto di noi. Siamo o almeno possiamo sembrare un’isola felice, ma non disponiamo affatto di una polizza vitalizia contro la guerra. Da popolo di pensionati contiamo su immaginarie rendite illimitate che di norma servono più gli assicuratori che gli assicurati. Nella fattispecie, poi, il garante americano ha smesso di garantire chiunque dovendo anzitutto garantire sé stesso. (Tra parentesi: era così anche prima, ma per tacito accordo che conveniva a tutti, nemici compresi, si faceva finta di nulla.) Un computo puramente ragionieristico ci conferma scadute le ragioni della nostra sicurezza.

Scaduta l’Alleanza Atlantica, forma strategica dell’impero europeo dell’America, sotto il cui ombrello abbiamo goduto dei migliori ottant’anni della nostra vita unitaria, che scontiamo irripetibili. Scaduta l’architettura europea, Sagrada Familia inscritta nell’Occidente strategico a guida americana, che funziona semmai al contrario: serve a palesare quindi inasprire le differenze fra i soci. Con i “volenterosi” apparentemente disposti a battersi fino all’ultimo ucraino e convinti che Putin voglia e possa battere il record di penetrazione russa in Europa detenuto da Alessandro I (Parigi, 31 marzo 1814), contro i “filo-russi” (o meglio anti-ucraini, tra cui anche i polacchi già anti-russi e anti-tedeschi) e alcuni “volenterosi” in maschera che non vedono l’ora di riaprire i rubinetti del gas moscovita. Scaduta la certezza di vivere nell’intorno relativamente tranquillo ereditato dalla guerra fredda, che abbiamo contribuito a destabilizzare con perizia degna di miglior causa, dai Balcani adriatici fino alle Libie, cedute in comodato d’uso a turchi e russi. Con l’aggiunta questa sì esistenziale delle guerre di Israele contro sé stesso, che minacciano di culminare in scontro con la Turchia — altro che Iran. Risultato: il Mar Rosso, che per noi significa accesso via Oceano Indiano all’Asia che conta, e per tale fu identificato ad Italia appena unita dal ministro degli Esteri Pasquale Stanislao Mancini (1881-85), è semichiuso a tempo indeterminato causa sfida huti.

L’ultima cosa di cui un paese in tali condizioni ha bisogno è l’allarmismo. Ma la penultima, che poi sarebbe la prima, è la coscienza della rivoluzione geopolitica in cui siamo immersi come oggetto non identificato. Per scelta propria. Quasi potessimo passare inosservati. L’Italia ha un valore non indifferente al mercato delle potenze. Potrebbe servirsene per partecipare agli scambi irregolari in corso. Oppure rassegnarsi al destino di merce al mercato altrui. Dove il prezzo non lo fissiamo noi. Se ne può parlare?


Nordio-maschio si dimostra anche fine antropologo


“Ah, anche antropologo!”, diremmo, parafrasando la signorina Silvani con Fantozzi che s’improvvisa poeta. Ha detto Nordio (e tenete conto che era mattina) che la violenza degli uomini […]

(di Daniela Ranieri – ilfattoquotidiano.it) – “Ah, anche antropologo!”, diremmo, parafrasando la signorina Silvani con Fantozzi che s’improvvisa poeta. Ha detto Nordio (e tenete conto che era mattina) che la violenza degli uomini sulle donne è da attribuire alla “selezione darwiniana”, cioè alla legge del più forte, sedimentatasi nei millenni nella mentalità del maschio. Sissignore: alla faccia della separazione delle carriere, il si fa per dire ministro Nordio deve aver fatto studi suoi di paleogenetica, oltre a quelli giuridici di cui oggi si vedono i frutti, e scoperto che questa “sedimentazione è difficile da rimuovere perché… si è formata in millenni di sopraffazione, di superiorità”. E quindi? “Quindi anche se oggi l’uomo accetta, e deve accettare, questa assoluta parità formale e sostanziale nei confronti della donna, nel suo subconscio, nel suo codice genetico trova sempre una certa resistenza”. Da qui i femminicidi. Non è ributtante e deliberata vigliaccheria omicida: è il Dna che si oppone alla parità. L’omo è omo. E qui entra in gioco Nordio col suo team di paleontologi e genetisti di via Arenula: dopo aver consigliato alle donne inseguite da uno stalker omicida di rifugiarsi in chiesa o in farmacia, dove il killer verrebbe messo in fuga da un prete che brandisce il crocifisso o da un rappresentante dell’Aulin che gli legge il bugiardino – Nordio ha un piano per “starare” questa convinzione atavica dal cervello degli uomini: “Un po’ come fanno gli psicologi, gli ipnotisti, gli psicanalisti, quando trovano una specie di tara mentale che deriva da un trauma adolescenziale, noi dobbiamo cercare di rimuovere dalla mentalità dei maschietti (sic, ndr) questa sedimentazione millenaria di superiorità che continua a tradursi in atti di violenza”. Ah, vedi. Non è chiaro in cosa consisterà la procedura, se verrà affidata ad appositi specialisti o se ne occuperà direttamente Nordio, che accopperà i reprobi con un paio di spritz per poi estirpare la tara ex lege attraverso iniezioni di genoma non violento. Sarebbe più facile inserire l’educazione alle relazioni affettive nei programmi di scuola, ma la Roccella è contraria. Certo è che se è il codice genetico a decidere, questi “maschietti” sono giustificati: non è colpa loro, è il Neanderthal che ribolle in loro (a volte è solo l’alcol).


Il piano su Gaza: una farsa. Quello su Kiev è razionale


Il piano di pace a Gaza è una farsa tragicomica che diviene emblematica della politica internazionale odierna, pilotata da un Occidente in declino economico e tracollo morale che […]

(di Elena Basile – ilfattoquotidiano.it) – Il piano di pace a Gaza è una farsa tragicomica che diviene emblematica della politica internazionale odierna, pilotata da un Occidente in declino economico e tracollo morale che ha trasformato la democrazia in demagogia, il diritto in forza, la libertà di stampa e di espressione in censura sistematica del pensiero diverso. Così ritorniamo alla Società delle Nazioni e ai mandati coloniali. Gaza, avulsa dallo Stato palestinese, pur ben definito dalle risoluzioni dell’Onu, viene governata da un Consiglio di pace il cui presidente, Trump, deciderà le fasi di un improbabile autogoverno palestinese, demandato alle calende greche. Anp e arabi moderati sembrano sostenere il progetto che appare soprattutto una iniziativa plutocratica per il bene delle multinazionali.

Difficile comprendere come una forza internazionale composta di eserciti dei Paesi arabi moderati potrà mai installarsi su un territorio ancora sotto il controllo di Hamas. L’organizzazione ha comprensibilmente rifiutato di disarmare, data la sfiducia nei patti con Israele e la scarsa lungimiranza del piano di pace. Mentre l’aspirante al Nobel si diletta con mediazioni che sembrano scritte per un copione hollywoodiano, Netanyahu agisce, continuando a eseguire il progetto del grande Israele, seminando distruzione e morte in Palestina, rendendo il genocidio visibile e concreto per tutti coloro che hanno l’onestà di guardarlo in faccia. Le complicità occidentali non sono terminate, nonostante le denunce documentate di organi internazionali e associazioni umanitarie. L’Onu nel piano non esiste eppure il Consiglio di sicurezza lo ha approvato grazie all’astensione di Russia e Cina. Molti, a ragione, affermano che di fronte all’alternativa – mano libera a Israele per continuare la sua azione violenta e costruire l’inferno biblico di Gaza – ben venga anche il piano trumpiano. Per motivi politici Mosca e Pechino hanno avuto il loro tornaconto e hanno preferito non divenire i sabotatori dell’apparente cessate il fuoco. La diplomazia trumpiana e occidentale è divenuta un negoziato mafioso, con aut-aut governati dalla forza.

Una vera pace a Gaza dovrebbe implicare ben altro. Il rispetto da parte di Israele delle risoluzioni Onu, una forza internazionale composta da palestinesi, da arabi sunniti e sciiti, una conferenza di pace con tutti gli attori in campo inclusi Iran, Russia e Cina. Chiedetelo a uno studente di politica internazionale del primo anno universitario e vi saprà rispondere. Peccato che alti diplomatici e analisti, coccolati dai guru delle televisioni del mainstream, non vi siano invece ancora arrivati.

Allo stesso modo si pensa di negoziare con Maduro puntandogli la pistola sulla tempia. Eppure non si vedono i politici europei, troppo occupati a stigmatizzare il killer, il macellaio, l’orco Putin, minimamente sorpresi da quanto accade a Gaza o in America Latina. Sanno bene di essere i depositari del giudizio morale: tocca a loro stabilire chi sono i cattivi della Terra, cioè coloro che si oppongono ai loro interessi.

Invece il piano di pace sull’Ucraina elaborato da Witkoff quando, dopo il disastro di Pokrovsk, è stato chiaro al Pentagono (ma non alle lobby delle armi europee) che l’Ucraina ha definitivamente perso la guerra, contiene alcuni elementi interessanti. La neutralità di Kiev che può invece accedere all’Ue (se i suoi membri lo vorranno, cosa improbabile). La fine dell’espansionismo Nato. Elezioni da un mese dal cessate il fuoco che cacceranno un governo fantoccio sotto ricatto Nato e neonazisti, nazionalisti ucraini. Fine delle sanzioni contro la Russia. Crimea e Donbass russi. Linea del fronte congelata nei territori restanti. Patto di non aggressione tra Russia, Nato, Ucraina. Esercito ucraino dimezzato. Garanzie Usa a Kiev in caso di aggressione russa, che sarebbero invalidate da un’aggressione ucraina contro la Russia. Utilizzo di 100 miliardi russi per la ricostruzione ucraina. Cooperazione Usa-Russia in Ucraina per progetti di interesse comune. Ho sempre affermato che si poteva pervenire a una vera pace soltanto se fossero state sconfessate le politiche neo conservatrici americane (ereditate oggi da Kaja Kallas e da Ursula von der Leyen, soprattutto dai popolari, liberali e finti socialisti europei, asserviti allo Stato profondo, alle lobby finanziarie e delle armi), mirate a infliggere una sconfitta storica alla Russia attraverso il buco nero dell’Ucraina (come già suggerito da Brzezinski nel libro La Grande Scacchiera nel 1997), tentando un regime change e uno smantellamento della Federazione Russa. Preghiamo – per la pace in Europa, per il destino di questa Europa corrotta, per i ragazzi ucraini al fronte, per i nostri figli e nipoti – che il piano di pace (se le notizie di stampa trapelate corrispondono al vero), vada in porto.


La (cattiva) stampa allergica ai fatti


Forse è stato un po’ prematuro definire “giornalismo spazzatura” (“Repubblica”) lo scoop de “La Verità” sulla voce dal sen fuggita di Francesco Saverio Garofani. Poiché, oltre […]

(di Antonio Padellaro – ilfattoquotidiano.it) – Forse è stato un po’ prematuro definire “giornalismo spazzatura” (“Repubblica”) lo scoop de “La Verità” sulla voce dal sen fuggita di Francesco Saverio Garofani. Poiché, oltre al fatto in sé piuttosto sfizioso (le confidenze in una tavolata dell’autorevole consigliere, dicono, molto ascoltato da Sergio Mattarella), soltanto un pregiudizio, per così dire ideologico, potrebbe impedire di constatare il gran casino che i titoli e gli articoli degli “zelanti gazzettieri” (sempre “Repubblica”) hanno provocato. A cominciare dallo scontro istituzionale, en plein air, tra l’inquilino del Quirinale e la premier Giorgia Meloni. Non proprio una cosetta, anche perché di certi dissapori (per esempio sull’Ucraina, con il Colle sempre più schierato per l’armiamoci e partite e con i dubbi “trumpiani”, invece, di Palazzo Chigi) ora si ha una significativa evidenza.

Sarà pure un “complotto alla vaccinara” (ancora “Repubblica”) ordito dalla perfida destra di governo. Ma trattasi pur sempre di vaccinare piuttosto saporite visto che per giorni hanno nutrito le paginate, ancorché col ditino alzato, dei quotidiani e le copertine dei talk. Il che ci porta a una domanda per così dire laterale che riguarda l’attivarsi dei corazzieri con pennacchio e stilografica (oggi con il tablet) ogniqualvolta si osi sfiorare la sacralità quirinalesca, e ciò sin dai tempi di Giorgio Napolitano.

Nell’arte di sopire e troncare, troncare e sopire, la cosiddetta grande informazione nostrana è stata educata, si può dire, con una certa continuità. Dal ventennio fascista al ventennio democristiano, al ventennio berlusconiano, la censura imposta e l’autocensura accettata dai supremi decisori hanno rappresentato per le testate (fortunatamente non tutte) un provvidenziale alibi onde evitare grane o per mettersi a favore di vento.

Oggi, però, con una politica che suscita più risate che paura, si stenta a comprendere per quale ragione carta stampata e talk preferiscano imboscare “certe” notizie piuttosto che darle. Il tentato occultamento delle, perlomeno, incaute dichiarazioni di Garofani, andrebbe studiato nelle scuole di giornalismo. Come modello, appunto, di non giornalismo. Un pasticcio da cui i protagonisti escono tutti maluccio. Certamente, gli ambienti quirinaleschi, costretti a prendere sul serio ciò che all’inizio credevano di aver ridicolizzato. Ovviamente, il garrulo consigliere Garofani. E, soprattutto, una certa informazione che si considera, non si sa bene a che titolo, garante delle supreme istituzioni e per la quale la pace dell’ordine spesso è più importante della verità dei fatti. Che a volte si comporta come quel frate superiore manzoniano per il quale l’essenziale è che siano salvi tutti i decori, tutti i prestigi e tutte le mezze verità.


Ornella


(di Marco Travaglio – il Fatto Quotidiano) – “Marcolinooo!”, “Travagliucciooo!”. Chiamava puntualmente nell’ora più impossibile, 19.30 o 20.30, quando le persone normali stanno per cenare o hanno appena cenato, mentre qui al Fatto si titola la prima pagina. Ornella voleva sempre commentare le notizie dei tg e sapere in anteprima cos’avrei scritto il giorno dopo. “Ma hai visto Trump?”, “E Putin?”, “Ma l’hai sentita la Meloni?”, “Mi spieghi […]


Euro-propaganda, il fiume di soldi da Bruxelles ai grandi media


Il megafono di Bruxelles

(Enrica Perucchietti – lindipendente.online) – Non si tratta più di un sospetto: il sistema mediatico europeo è forgiato, selezionato, premiato o punito in base alla sua adesione ai dogmi dell’europeismo. A dimostrarlo, in modo inequivocabile, è il rapporto Brussels’s Media Machine, realizzato dal giornalista e saggista Thomas Fazi per il think-tank ungherese Mathias Corvinus Collegium (MCC Brussels). Uno studio rigoroso e documentato che scoperchia l’enorme apparato con cui Commissione e Parlamento Europeo finanziano il circuito dell’informazione con fondi europei, trasformandolo in una vera e propria macchina del consenso, e che viene pubblicato pochi mesi dopo il precedente rapporto The Eu’s propaganda machine, incentrato sul ruolo delle ONG e dei centri studio come megafoni dell’imperialismo culturale della Commissione. 

Un miliardo di euro in dieci anni: il prezzo dell’allineamento

Secondo il rapporto, l’UE ha riversato negli ultimi dieci anni almeno un miliardo di euro a favore di media, agenzie di stampa, programmi giornalistici e piattaforme digitali. Una cifra che corrisponde a circa 80 milioni di euro l’anno in finanziamenti diretti, senza contare quelli indiretti, come contratti pubblicitari o di comunicazione assegnati ad agenzie di marketing, che poi ridistribuiscono i fondi ai principali organi di stampa che accettano di diffondere la narrazione europeista. Lungi dal limitarsi a sostenere il pluralismo e l’indipendenza, l’obiettivo di questo sistema appare orientato anche a plasmare l’opinione pubblica, promuovere narrazioni in favore delle politiche europee e marginalizzare le voci critiche. 

I principali strumenti della propaganda

La rete di finanziamento si articola in una serie di programmi chiave: 

  • IMREG (Information Measures for the EU Cohesion Policy): oltre 40 milioni di euro erogati dal 2017 per promuovere i “benefici” delle politiche di coesione UE. Coinvolte agenzie e media in Italia, Spagna, Lituania, Bulgaria, Portogallo. Il rapporto evidenzia esempi in cui questi finanziamenti non sono chiaramente segnalati, il che equivale a forme di “marketing occulto” o “propaganda occulta”.
  • Journalism Partnerships (2021-2025): quasi 50 milioni di euro stanziati tramite Creative Europe per progetti giornalistici transnazionali che promuovono l’integrazione europea.
  • European Digital Media Observatory (EDMO): almeno 27 milioni di euro per costituire reti di fact-checking (verifica delle informazioni) impegnate nella cosiddetta “lotta alla disinformazione”.
  • Multimedia Actions: più di 20 milioni di euro annui, tra cui 1,7 milioni per la European Newsroom, che riunisce 24 agenzie stampa a Bruxelles con l’obiettivo dichiarato di allineare la narrazione europea.
  • Direzione Comunicazione del Parlamento Europeo: quasi 30 milioni di euro spesi dal 2020 per campagne mediatiche promozionali, in particolare in vista delle elezioni europee del 2024.

Le agenzie stampa come guardiani della narrazione

Uno degli snodi centrali è il ruolo delle agenzie di stampa, la mano nascosta che plasma la narrazione mediatica globale. Essendo fonti primarie per centinaia di media, controllarne la linea equivale a controllare il messaggio, spesso replicato alla lettera dagli altri organi di stampa. È per questo che la Commissione collabora strutturalmente con ANSA (Italia), EFE (Spagna), Lusa (Portogallo), AFP (Francia) e molte altre. La sola ANSA, ad esempio, ha partecipato ad almeno due dozzine di campagne mediatiche finanziate dall’UE. 

La Commissione ha anche speso quasi 2 milioni di euro attraverso il suo programma Azioni Multimediali (a cui sono stati stanziati oltre 20 milioni di euro solo nel 2024) per la realizzazione dell’European Newsroom (ENR): avviato nel 2022, il progetto ha previsto la creazione di un centro di produzione di notizie a Bruxelles, dove i corrispondenti delle “agenzie” producono congiuntamente riassunti di notizie due volte a settimana, alimentando reciprocamente le rispettive agenzie di stampa e i canali di diffusione, offrendo così una prospettiva paneuropea sugli affari dell’UE al pubblico di tutto il continente. 

Journalism Partnerships: come Bruxelles orienta il giornalismo “collaborativo”

Uno dei canali più significativi attraverso cui la Commissione Europea finanzia – e, quindi, indirizza – l’informazione in Europa è il programma Journalism Partnerships, attivo dal 2021 e incardinato nel quadro del programma Creative Europe. Si tratta di una linea di finanziamento che ha messo a disposizione circa 50 milioni di euro nel periodo 2021-2027 per progetti “collaborativi” tra testate, reti editoriali e organizzazioni giornalistiche europee. L’obiettivo di chiarato è «rafforzare il pluralismo e la resilienza del settore giornalistico». Tuttavia il programma premia con insistenza le proposte orientate all’integrazione europea, alla promozione dell’agenda verde e digitale dell’UE, alla «coerenza informativa» su temi chiave come migrazioni, politiche economiche, guerra in Ucraina e contrasto all’euroscetticismo. Diverse testate italiane partecipano attivamente ai progetti Journalism Partnerships, in consorzi transnazionali che coinvolgono media, università e ONG. È il caso, ad esempio, del gruppo GEDI (editore di Repubblica, La Stampa, HuffPost), di RAI e di piattaforme come Pagella Politica.

Il punto critico, sottolineato dal dossier di Fazi, è che questi partenariati spesso contribuiscono a standardizzare la narrazione europea, allineando linguaggio, messaggi e priorità editoriali. Il giornalismo diventa così una rete di ripetizione strutturata, dove il dissenso non viene censurato apertamente, ma disincentivato silenziosamente.

Fact-checking finanziato e verità condizionata

L’Osservatorio Europeo dei Media Digitali (EDMO), presentato come bastione contro le fake news e finanziato con almeno 27 milioni di euro, viene in realtà definito un sistema di filtraggio ideologico. Partecipano al progetto agenzie già coinvolte in attività promozionali per l’UE, tra cui AFPANPDPA Lusa. In Italia, partner di EDMO è il gruppo GEDI e l’emittente pubblica RAI.

Quando chi riceve fondi per fare “giornalismo” è anche incaricato di sorvegliare i confini del discorso accettabile e di decidere cosa è vero e cosa è falso, il rischio non è solo quello della censura: è la soppressione sistematica del dissenso, bollato come “disinformazione”.  

Il caso Euronews: la CNN d’Europa

Uno dei casi più emblematici della fusione tra media e potere europeo è quello di Euronews, l’emittente televisiva paneuropea con sede a Bruxelles che venne fondata nel 1993 da una collaborazione tra le emittenti pubbliche del continente, oggi di proprietà del fondo d’investimenti portoghese Alpac Capital. Storicamente presentata come «la voce neutrale dell’Europa» ma che, nel tempo, si è trasformata in una appendice comunicativa della Commissione Europea. Quest’ultima ha versato tra il 2015 e il 2020 circa 122 milioni di euro nelle casse del network con sede a Lione. Questi fondi hanno rappresentato fino al 60% del fatturato totale dell’emittente in certi anni, rendendo Bruxelles di fatto il suo principale finanziatore. Il paradosso è che, pur formalmente indipendente, Euronews ha stipulato un contratto di servizio pubblico con la Commissione, che le ha affidato il compito di diffondere contenuti sulle politiche e le priorità europee e di fornire copertura in tutte le lingue ufficiali dell’UE. Una funzione nobile solo in apparenza: nella realtà si traduce in una linea editoriale strutturalmente allineata all’agenda comunitaria, in cambio di fondi che ne garantiscono la sopravvivenza economica. Questo modello rappresenta una forma diretta di “propaganda istituzionale”, che si regge su vincoli economici e accordi contrattuali, agendo di fatto come organo promozionale. 

L’investigazione a senso unico

E le inchieste? L’UE finanzia anche il giornalismo investigativo, purché sia diretto all’esterno. Gran parte dei progetti finanziati – come IJ4EU (3 milioni), ICIJ, MediaResilience – puntano a investigare su Russia, Kazakistan, Africa, paradisi fiscali. Nessuna indagine seria su corruzione od opacità istituzionale all’interno dell’UE, nonostante i numerosi scandali documentati al suo interno. Quello d’inchiesta appare quindi come una forma di giornalismo da incentivare ma a patto che non si occupi di quanto avviene dentro le mura del Vecchio Continente. 

La propaganda del Parlamento Europeo

Il Parlamento Europeo, attraverso la sua Direzione generale della Comunicazione, ha stanziato quasi 30 milioni di euro dal 2020 per campagne mediatiche, inclusi contenuti esplicitamente autopromozionali in vista delle elezioni. L’obiettivo è «aumentare in modo più efficace la portata verso un pubblico mirato con messaggi relativi all’attività del Parlamento Europeo», aggiungendo «legittimità alle campagne del Parlamento». 

Una strategia che ricorda l’USAID

Il modello seguito da Bruxelles ricalca quello americano dello USAID, l’agenzia per lo sviluppo finita sotto la scure del governo Trump, che per decenni ha finanziato media all’estero per promuovere gli interessi geopolitici statunitensi. Non a caso, molti progetti UE all’estero (Ucraina, Balcani, Caucaso) sono orientati proprio a “rafforzare la democrazia” attraverso il finanziamento a media e organizzazioni di stampo liberale ed europeista. Solo nel 2025 sono stati destinati 10 milioni di euro ai media ucraini. Dopo il taglio ai fondi da parte di Trump a Radio Free Europe/Radio Liberty, Bruxelles è subentrata nel ruolo di sponsor. 

La stampa come cinghia di trasmissione

La macchina della propaganda europea, che si dipana tra ONG, media e accademia, «supera le aspettative del più cinico dei critici», ha spiegato a L’Indipendente Thomas Fazi, che è rimasto stupito dalla mole di finanziamenti diretti ai media. Ed è anche per questo che il rapporto sta avendo un impatto silenzioso, ma non per questo meno incisivo, sui palazzi di Bruxelles. 

Il quadro delineato è chiaro: dal rapporto emerge una Commissione Europea interessata non tanto a sostenere la stampa libera, quanto a comprarne i favori, in quella che viene definita una «relazione semi-strutturale tra istituzioni europee e media mainstream». Non si tratta di intromissioni redazionali, ma di creare un rapporto di dipendenza economica, che induce automaticamente allineamento e servilismo. Un sistema si autoalimenta: i media che già mostrano simpatia per Bruxelles ricevono fondi; chi li riceve evita critiche per non perderli. Un circolo vizioso che soffoca ogni autonomia. E tutto questo, va ricordato, viene pagato con i soldi dei contribuenti. Quegli stessi cittadini che ricevono una verità confezionata su misura, in cui le testate parlano con una voce sola, ripetendo le stesse parole d’ordine, gli stessi titoli, le stesse versioni fotocopia. L’effetto è devastante: si uccide il pluralismo, si offusca il dissenso, si trasforma il giornalismo in megafono della tecnocrazia.

Come i media italiani sono diventati
il megafono dell’euro-propaganda

C’è un’illusione persistente nel dibattito pubblico italiano: che la stampa mainstream sia libera per definizione, che i media rappresentino “il cane da guardia” del potere e che la neutralità sia tutelata da una presunta autorevolezza editoriale. Uno sguardo ai dati rivela un’altra realtà. Secondo il dossier Brussels’s Media Machine di Thomas Fazi (MCC Brussels, giugno 2025), il sistema di finanziamento UE alla stampa è tutt’altro che secondario: si tratta di una macchina che distribuisce circa 80 milioni di euro all’anno per promuovere narrazioni pro-UE, spesso senza trasparenza per il lettore. L’Italia, da questo punto di vista, è un caso esemplare. Il rapporto evidenzia un vero e proprio sistema parallelo di finanziamento condizionato, in cui Bruxelles premia gli allineati e isola i divergenti. Si badi bene: non si tratta di piccoli editori locali bisognosi di sopravvivere in un mercato difficile, ma di colossi editoriali strutturati che ricevono fondi consistenti in cambio di una narrazione smaccatamente filoeuropeista. Il tutto senza dichiarare in modo trasparente al lettore il ruolo dell’UE nella produzione dei contenuti. Una violazione della fiducia, che richiama alla mente le modalità della propaganda e del “marketing occulto”.

ANSA: il braccio armato di un’informazione conforme

ANSA, l’agenzia di stampa leader in Italia, è il principale vettore della narrazione europeista, per il semplice motivo che i suoi contenuti vengono rilanciati da centinaia di altre testate, locali e nazionali. Secondo i dati ufficiali analizzati da Fazi, ANSA ha ricevuto quasi 6 milioni di euro dalla Commissione Europea negli ultimi dieci anni. Nel dettaglio, l’agenzia di stampa ha beneficiato di oltre 800.000 euro dalla Commissione Europea per almeno tre progetti strutturati – Italy: Cohesion Goes Local (265.000 euro), Time4Results (270.000 euro) e The Cohesion Policy Today and Tomorrow – Italy (270.000 euro). Questi progetti, finanziati nell’ambito del programma IMREG (Information Measures for the EU Cohesion Policy), hanno prodotto migliaia di contenuti multimediali su scala nazionale e locale, molti dei quali rilanciati da oltre 20 testate locali, tra cui Gazzetta del SudLa Sicilia e La Gazzetta del Mezzogiorno. ANSA è stata coinvolta anche nel progetto FANDANGO, istituito «per individuare le notizie false e fornire una comunicazione più efficiente e verificata per tutti i cittadini europei», finanziato quasi interamente dalla Commissione Europea (attraverso il programma Horizon 2020) per un importo di quasi 3 milioni di euro.

La funzione è chiara: portare il verbo europeista nelle periferie e legare l’immagine dell’UE a benefici concreti e tangibili. L’inganno più grande? Nella maggior parte dei casi non è specificato che i contenuti siano stati finanziati dall’UE, né che le linee editoriali rispondano a obiettivi dettati da Bruxelles.

RAI: il servizio pubblico al servizio dell’Unione

Anche la RAI è coinvolta in modo sistematico nel circuito dei finanziamenti europei, in particolare attraverso progetti legati all’alfabetizzazione mediatica, alla promozione dei “valori europei” e alla lotta alla disinformazione. La RAI partecipa, infatti, all’hub italiano dell’European Digital Media Observatory (EDMO), assieme a GEDI, Pagella Politica, Università di Roma Tor Vergata e TIM. L’iniziativa, che rientra nel programma Digital Europe, è stata finanziata con oltre 27 milioni di euro a livello europeo, di cui una parte consistente è destinata proprio alla realizzazione di contenuti multimediali, attività formative e campagne di verifica dei fatti.

La Repubblica Domani 

La testata La Repubblica, parte del gruppo GEDI, quotidiano di riferimento della borghesia progressista, storicamente vicino all’ideologia europeista, ha ricevuto 260.000 euro per il progetto Europa, Italia, un’iniziativa editoriale volta a promuovere «una migliore comprensione dell’azione europea nei territori». Nella pratica, si tratta di articoli celebrativi dei fondi europei, dei progetti PNRR, delle sinergie tra Bruxelles e le regioni. Anche in questo caso, la trasparenza è minima: solo un piccolo logo UE sul banner del progetto, nessuna chiara indicazione che il contenuto sia frutto di una sponsorizzazione istituzionale.

È il turno di Domani, testata fondata da Carlo De Benedetti, oltre ad aver fruito di 100 mila euro dalla Commissione Europea, figura tra i media coinvolti nel progetto European Focus, finanziato con 470.000 euro per la produzione di una newsletter paneuropea volta a «rafforzare il dibattito europeo».

Il Sole 24 Ore

Che dire poi de Il Sole 24 Ore, quotidiano della Confindustria e punto di riferimento per il mondo economico e finanziario italiano? Anche qui, è difficile stabilire quanto la narrazione pro-UE sia figlia di una linea culturale autonoma e quanto, invece, sia il frutto dei finanziamenti strutturati ricevuti. Oltre ad aver beneficiato di 1,5 milioni di euro di fondi diretti europei, il progetto La politica di coesione in numeri, premiato con 290.000 euro da Bruxelles, ha portato alla pubblicazione di una lunga serie di articoli, analisi e grafici che esaltano il ruolo dell’Unione Europea nello sviluppo economico delle regioni italiane. Eppure, in nessuno di questi articoli si legge chiaramente che l’intera operazione è sponsorizzata dalla Commissione. Non c’è una nota redazionale, un disclaimer, una separazione tra contenuto editoriale e comunicazione istituzionale. Il risultato? Una propaganda mascherata da informazione tecnico-finanziaria, dove l’UE appare come unica soluzione razionale ai problemi del Paese.

Da citare, inoltre, Linkiesta, partner del progetto Wounds of Europe (programma Stars4Media), in cui si racconta l’integrazione europea attraverso podcast e longform journalism. Questo progetto fa parte delle Journalism Partnerships, un’iniziativa da 50 milioni di euro lanciata nel 2021 per promuovere «valori europei» nei contenuti editoriali.

Un sistema che esclude il dissenso

Il rapporto di Fazi evidenzia un punto cruciale, ovvero che i fondi UE non vengono distribuiti a caso: le testate che promuovono attivamente la visione europeista ricevono finanziamenti, mentre le voci critiche vengono sistematicamente ignorate o escluse. C’è una selezione a monte, per cui accedono più facilmente ai finanziamenti le testate che già mostrano una predisposizione favorevole all’Unione Europea. 

In un Paese dove la libertà di stampa è già fragile, legata a interessi editoriali, pubblicitari e politici, l’intervento dell’UE attraverso fondi selettivi ha prodotto una compressione ulteriore del pluralismo che riguarda anche il nostro Paese. I media italiani interessati da questo sistema – che pontificano sul pericolo della disinformazione on line e impartiscono lezioni di democrazia – non sono più arbitri, ma giocatori schierati, impegnati a difendere il progetto europeo per ragioni finanziarie. L’informazione italiana è diventata un’estensione del potere europeo, funzionale alla costruzione di un consenso artificiale, che inquina il dibattito pubblico.

Da quarto potere a guardie della verità ufficiale: la metamorfosi dei media

L’idea moderna di libertà di stampa affonda le sue radici nell’Illuminismo. Per i filosofi del XVIII secolo la circolazione dei giornali era il primo antidoto contro l’arbitrio del potere: uno strumento capace di alimentare il confronto, permettere la formazione dell’opinione pubblica e vigilare sull’operato dei governanti. La stampa assunse così un ruolo politico e culturale, diventando veicolo di idee e di dibattito. In questo solco si inserisce la celebre definizione della stampa come “Quarto potere”. L’espressione, ispirata ai tre poteri teorizzati da Montesquieu (legislativo, esecutivo e giudiziario), sottolinea la funzione dei media come pilastro democratico aggiuntivo, capace di esercitare un controllo costante sul potere politico. La libertà di stampa, dunque, non è un privilegio, ma una necessità per ogni società democratica. 

La libertà di stampa come diritto naturale

Lo sviluppo della tradizione dei media occidentali corre di pari passo con l’evoluzione della democrazia in Europa e negli Stati Uniti. Già i pensatori liberali del XVII e XIX secolo, in contrapposizione alla tradizione monarchica e al diritto divino dei re, rivendicavano la libertà di espressione come “diritto naturale” dell’individuo. In questa prospettiva, la libertà di stampa divenne parte integrante dei diritti fondamentali sanciti dall’ideologia liberale. 

In foto: Jürgen Habermas, filosofo, sociologo, politologo ed epistemologo tedesco

Successivamente, altre correnti hanno sostenuto la stessa tesi su basi diverse: la libertà di espressione venne sempre più intesa come componente essenziale del contratto sociale. Jürgen Habermas, nel 1962, avrebbe concettualizzato questo spazio come “sfera pubblica borghese”: un luogo ideale e aperto in cui i cittadini possono esprimersi, discutere e contribuire al dibattito pubblico senza essere subordinati a logiche di potere o interessi di parte. La Rivoluzione americana e la Rivoluzione francese consolidarono questa visione, sancendo il legame tra giornalismo e democrazia. La Dichiarazione dei diritti dell’uomo e del cittadino del 1789 riconobbe, infatti, la libertà di stampa come diritto fondamentale.  

Il reporter come “watchdog”

Lo scandalo Watergate, o semplicemente il Watergate, fu uno scandalo politico scoppiato negli Stati Uniti nel 1972, innescato dalla scoperta di alcune intercettazioni illegali effettuate nel quartier generale del Comitato nazionale democratico, da parte di uomini legati al Partito Repubblicano e in particolare al “Comitato per la rielezione” del presidente Richard Nixon. In foto: il Watergate Complex

Da quel momento, il giornalismo non fu più considerato soltanto cronaca dei fatti, ma spazio di critica e di partecipazione pubblica: un percorso che, nell’Ottocento, portò al giornalismo politico e nel Novecento alla consacrazione del modello investigativo e di inchiesta. Nel XX secolo, infatti, il giornalismo statunitense ha codificato il ruolo del reporter come watchdog, il “cane da guardia” incaricato di vigilare sulle istituzioni e denunciarne gli abusi. Si tratta di un giornalismo investigativo che mira a far emergere responsabilità sistemiche e a stimolare conseguenze politiche e giudiziarie. Tra i casi storici più noti possiamo ricordare il Watergate, i Pentagon Papers e l’Iran-Contra affair. Sebbene il watchdog journalism resti un presidio indispensabile per la democrazia, capace di rivelare ciò che il potere preferirebbe occultare, oggi questo paradigma vive una profonda crisi che si estende ben oltre gli Stati Uniti.

Il potere degli incentivi: da Bill Gates al caso USAID

Nelle democrazie occidentali si deve constatare la trasformazione della stampa da contropotere a cassa di risonanza delle istituzioni e della tecnocrazia. Il meccanismo non si fonda tanto sulla censura diretta, quanto sull’uso sistematico del soft power: una rete di incentivi, finanziamenti, pressioni politiche ed economiche, programmi e piattaforme che orientano l’agenda mediatica e marginalizzano le voci critiche. Un ruolo centrale lo hanno i filantrocapitalisti del calibro di George Soros e Bill Gates, che attraverso le loro fondazioni indirizzano l’agenda mediatica. Secondo un’inchiesta di MintPress News, la Bill & Melinda Gates Foundation ha distribuito oltre 319 milioni di dollari a testate come CNN, BBC, The Guardian, Le Monde e Al-Jazeera, oltre che a centri di giornalismo investigativo e associazioni di categoria. La Gates Foundation ha donato in lungo e in largo a fonti accademiche, con almeno 13,6 milioni di dollari destinati alla prestigiosa rivista medica The Lancet. Persino la formazione dei reporter avviene spesso tramite borse di studio finanziate dagli stessi filantrocapitalisti, creando un sistema chiuso in cui media e giornalisti dipendono dagli stessi soggetti. 

Il caso dell’USAID, che ha usato programmi di “rafforzamento dei media” come strumenti di influenza politica, mostra quanto queste dinamiche non siano eccezioni. Il risultato è una stampa che rischia di perdere la sua funzione critica, sostituita da un’informazione certificata dall’alto e sempre più allineata ai centri di potere. 

Fact checking: dalla verifica alla certificazione 

In questo scenario ricopre un ruolo fondamentale il fact checking: nato come pratica di verifica dei dati e delle fonti, si è trasformato velocemente in un sistema di  certificazione della verità, che assegna bollini di attendibilità o etichette di falsità con criteri spesso opinabili e soggettivi, con effetti diretti sulla visibilità dei contenuti online. La logica che lo sostiene è paternalistica e l’obiettivo di creare una “informazione certificata” pone le basi per la legittimazione morale della censura. 

Strutture come l’EDMO in Europa o la International Fact-Checking Network a livello globale ricevono finanziamenti da istituzioni pubbliche, fondazioni private e piattaforme digitali, con advisory board in cui siedono esponenti legati a grandi media, Big Tech e fondazioni come la Gates Foundation o la Open Society. Il caso più emblematico è NewsGuard, agenzia americana nata nel 2018 e finanziata anche dal Pentagono, che valuta i media con indici di “credibilità”. Tra i suoi advisor figurano l’ex direttore della CIA Michael Hayden e l’ex segretario generale della NATO Anders Fogh Rasmussen, mentre tra gli investitori c’è il colosso pubblicitario Publicis. Un meccanismo pensato per contrastare le fake news rischia così di diventare un filtro politico e commerciale dell’informazione, penalizzando i media indipendenti e proteggendo le narrazioni mainstream.

Fact checking e pandemia: l’inquisizione digitale

L’avvocato e imprenditore statunitense Hunter Biden, figlio secondogenito dell’ex presidente americano Joe Biden

Durante la pandemia da Covid-19, questa dinamica ha mostrato tutta la sua portata, come testimoniato dai Twitter Files e dai Facebook Files. Il fact checking non si è limitato a correggere errori, ma ha assunto la funzione di filtro preventivo: contenuti divergenti dalla narrativa ufficiale, spesso veri, compresi articoli giornalistici (come lo scoop del New York Post sul laptop di Hunter Biden) sono stati declassati, etichettati come “disinformazione” o rimossi dai social. In molti casi, la stessa categoria di “fake news” è stata usata in modo elastico per bollare opinioni scientifiche minoritarie, ipotesi alternative o critiche politiche. Ne è scaturita una forma di “Inquisizione digitale”: una rete di debunkers e algoritmi che, lungi dal garantire il pluralismo, ha consolidato un monologo informativo, volto a criminalizzare le voci divergenti, alimentando un clima di colpevolizzazione e di conformismo forzato.

Spirale del silenzio e autocensura

Il potere del fact checking non sta solo nelle etichette, ma nell’effetto sociale che produce. Etichettare un contenuto come “falso” o “pericoloso” genera isolamento per chi lo diffonde e induce altri a tacere per timore di subire la stessa delegittimazione. È la cosiddetta “spirale del silenzio”, teoria elaborata da Elisabeth Noelle-Neumann: la percezione che un’opinione sia minoritaria porta gli individui a non esprimerla, rafforzando così l’apparente consenso attorno alla narrativa dominante. Questo meccanismo riduce lo spazio del dibattito pubblico. Invece di discutere e confrontare argomenti, la questione si chiude a monte: un’etichetta di fact checking sancisce cosa è vero e cosa è falso, trasformando la complessità in un verdetto binario.

Da cane da guardia a cane da compagnia

Il giornalismo ha così smarrito la propria vocazione originaria. Non più guardiano che vigila sul potere, ma cane da compagnia che lo rassicura e lo protegge. Le redazioni, impoverite economicamente e pressate dagli sponsor, rinunciano all’inchiesta indipendente per riprodurre comunicati ufficiali o contenuti già filtrati da network istituzionali. Il fact checking, nato come strumento interno al giornalismo, è diventato invece un apparato esterno che certifica quali media e quali notizie siano legittime. 

La parabola che va dall’Illuminismo all’odierno giornalismo certificato segna un arretramento democratico. In nome della lotta alla disinformazione, si sta producendo un’informazione sempre più omogenea, che riduce il pluralismo e trasforma i media in cinghie di trasmissione delle élite. Il soft power si rivela qui più efficace della censura tradizionale: non vieta, ma orienta; non reprime, ma incentiva. In questo modo, la grande promessa della stampa come garanzia di libertà rischia di dissolversi in un paesaggio informativo disciplinato da algoritmi, fact checkers e finanziamenti istituzionali.


Agli italiani non frega nulla degli ucraini


(ANSA) – Per far finire la guerra, secondo il 66% degli italiani bisogna “cercare una soluzione diplomatica, anche a costo di qualche rinuncia territoriale dell’Ucraina”, mentre per il 21% Kiev deve continuare a difendersi a oltranza. È quanto emerge da un sondaggio realizzato da Izi, azienda di analisi e valutazioni economiche e politiche, presentato nel corso della trasmissione l’Aria che Tira condotta da David Parenzo su La 7.

“Alla domanda su cosa pensano gli italiani del conflitto in corso tra Russia e Ucraina – viene spiegato in una nota – il 44% degli intervistati risponde che ‘la Russia è il Paese invasore senza alcuna giustificazione’, mentre per il 24,4% le responsabilità sono da attribuire a entrambi i Paesi in guerra”.

Per il 47% degli intervistati l’Italia dovrebbe aiutare l’Ucraina “solo diplomaticamente per arrivare a un cessate il fuoco” mentre per il 15,6% l’intervento deve essere “sia con un aiuto economico che con la fornitura di armi”. L’indagine è stata compiuta su 806 interviste effettuate il 19 novembre con metodologia mista CAMI/CAWI.


Nordio, su violenza maschile ho detto ciò che pensano tutti


(ANSA) – “Come al solito molto rumore per nulla. Ho detto quello che pensano tutti e che dico da sempre, cioè che la violenza maschile nei confronti della donna va affrontata essenzialmente in termini culturali”.

Così il ministro della Giustizia, Carlo Nordio, a Stresa, tornando sulle polemiche per le sue parole di ieri sulla violenza contro le donne.  

“E’ una miseria argomentativa quella di volermi attribuire a tutti i costi cose che non ho mai detto, anche se mi riconosco la dote, tra le pochissime che ho, di essere chiaro, qualche volta anche troppo”, ha aggiunto. 

La violenza maschile, ha aggiunto Nordio, va affrontata “naturalmente con le leggi, la repressione e il codice rosso” ma si tratta “essenzialmente di codice culturale.

L’uomo da millenni è abituato a dominare e vorrei aggiungere che fino a cinquant’anni fa nel nostro codice abbiamo avuto niente meno del delitto d’onore, cioè un crimine che consisteva nell’impunità del marito che uccideva la moglie nel momento in cui ne scopriva l’illegittima relazione carnale”. 

   “Quindi un maschilismo che affonda le sue radici in modo così profondo da poter essere combattuto solo in termini culturali”, ha concluso.


I bambini nel bosco sono capaci di salvarsi da soli


Cè una famiglia che è andata a vivere, bambini compresi, in un bosco. Accade a Palmoli, in provincia di Chieti. Come in quel delizioso libro che è Il più grande uomo scimmia del […]

(di Massimo Fini – ilfattoquotidiano.it) – Cè una famiglia che è andata a vivere, bambini compresi, in un bosco. Accade a Palmoli, in provincia di Chieti. Come in quel delizioso libro che è Il più grande uomo scimmia del Pleistocene di Roy Lewis, una sorta di “anti Fini”, lo zio Vania si rifiuta di scendere dall’albero su cui si è rifugiato e rimprovera aspramente Edward perché si è permesso di scoprire il fuoco (il mito di Prometeo, insomma) così questa famiglia si rifiuta di essere contaminata dal mondo occidentale e, soprattutto, dalle sue regole. È una sorta di “passare al bosco” di jungeriana memoria. Non è un caso, credo, che la donna di questa strana famiglia sia un’australiana, Catherine Birminghan, che presumibilmente ha avuto contatti con gli aborigeni di quel paese che vivono secondo costumi lontanissimi da quelli occidentali. Il fenomeno si apparenta, in qualche modo, a quello degli hikikomori che si rifiutano di uscire di casa e di avere qualsiasi contatto con l’esterno. Ma in questo caso non si tratta di un singolo ma di una famiglia, minori compresi, la cui educazione è affidata ai genitori o a un’insegnante privata molisana che fa home schooling.

In una lettera scritta dal legale della famiglia, insieme ai genitori, si sottolinea che “non commettiamo alcun reato nei confronti dei nostri figli crescendoli in un ambiente naturale con acqua pulita, un posto caldo e sicuro dove dormire, mangiare e giocare… la loro crescita sociale è insieme a persone che condividono i nostri valori, mentre vivono costantemente la società attraverso gite e uscite settimanali a negozi, parchi, amici e vicini”. Nonostante ciò, la Procura dei minorenni di L’Aquila ha avviato un’inchiesta che tende a togliere la patria potestà ai genitori e ha collocato i minorenni in una casa famiglia, dove andrà anche la madre. La questione è sottilissima: entro quali limiti lo Stato può introdursi nella vita privata di un individuo, in questo caso di una famiglia? Si avverte qui, sia pur in un caso estremo, quello che ho chiamato “il vizio oscuro dell’Occidente”, cioè la tendenza totalitaria a omologare tutto alla nostra cultura. Il ‘vizio’ nasce con lo scientismo settecentesco e con la ‘rieducazione’ dei “bambini selvaggi” che erano fuggiti dalla famiglia o, per un qualche caso, avevano vissuto dalla nascita in una foresta o in un altro luogo sperduto. Precursore e vittima di questo atteggiamento fu Victor, il “fanciullo selvaggio dell’Aveyron”. Questo bimbo di dodici anni, cresciuto nella solitudine dei boschi dell’Aveyron, fu, come ci avverte la relazione scientifica dell’epoca, “avvistato già nel 1797 e, più volte catturato e fuggito, ripreso definitivamente nel gennaio del 1800”. Subì vari esami da cui risultò “un essere subumano: incapace di parlare e comprendere il linguaggio degli uomini, abituato a nutrirsi di ghiande e radici, ignaro di ogni usanza civile”. Finì, da ultimo, nelle mani d’un medico umanista, fervente ammiratore di Locke e Condillac, Jean Itard, che si propose di trasformarlo in un ragazzo normale. Dopo anni di terapie, Victor non era più un selvaggio autosufficiente, ma non era nemmeno un uomo, era un ritardato e tale rimase per tutta la vita, una povera cosa intristita e umiliata, incapace ormai di badare a se stesso, oggetto di dotti studi sulle conseguenze della “deprivazione socio-culturale”, morì a quarant’anni in una dependance dell’Istituto dei sordomuti.

Ma c’è un episodio più recente (1984) quello di una bimba, presumibilmente di dieci anni, trovata nella Sierra Leone dai bravi padri Saveriani. Da quel momento tutta la medicina occidentale, ma anche sovietica (“Baby Hospital”, così era stata atrocemente chiamata, almeno al “fanciullo selvaggio” dell’Aveyron era stata dato un nome umano, Victor) si è messa in moto per ‘salvarla’. Il professor Caffo, neuropsichiatra infantile, ha scritto in una sua relazione: “La bambina non può occuparsi di se stessa, ha un comportamento anomalo”. Insomma Baby Hospital doveva essere rieducata a forza. Scrivevo, rispondendo a Caffo, in un articolo pubblicato dal Giorno del 1° marzo 1984: “La bambina non può occuparsi di se stessa ora, prima ci riusciva benissimo. Per quanto possa sembrare paradossale, era molto più essere umano nella foresta, con le scimmie, di quanto non lo sia oggi nella cosiddetta società civile dove è solo un oggetto, un ‘non-essere’ che va normalizzato a forza”. La necessità della bambina d’esser salvata è nata il giorno che l’hanno trovata, prima si salvava benissimo da sola. Secondo questa razionalità/irrazionalità di derivazione illuminista è meglio essere un handicappato a New York o a Mosca o a Milano che un bambino libero, anche se privo della parola, nella foresta. Non si poteva fare peggiore ingiuria a questa bimba che “curandola”, diventerà nella società cosiddetta civile, una minorata e un’infelice, quand’anche, e forse soprattutto, si facesse qualche progresso nella sua “risocializzazione”. È meglio essere bimba fra le scimmie, che scimmia fra gli uomini.